cinquanta lettere dal marketing
A Martina e a Mauro, e a Valentina, soprattutto.
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“Una banca come la nostra che crede nel ruolo fondamentale svolto dal marketing come guida alle strategie aziendali e supporto allo sviluppo del business, ha particolarmente beneficiato degli incontri de La Società del Marketing che ci hanno consentito di condividere e riflettere sui continui cambiamenti ed evoluzioni del marketing e su tematiche sociali e commerciali sempre più care alle imprese." Banca UBAE, nasce nel 1972 come “Unione delle Banche Arabe ed Europee” ed è un’impresa bancaria a capitale italo-arabo specializzata nel Trade Banking. Opera in oltre 40 paesi dell’Africa settentrionale e Sub Sahariana, del Medio Oriente, del Subcontinente Indiano e nei principali Paesi CIS. In 40 anni di esperienza, è divenuta un ponte dinamico tra l’Europa e questi territori occupando una posizione di riferimento e di affidabilità nel mercato del commercio estero. La nostra missione è di divenire il partner privilegiato per le imprese, accompagnandole nei mercati in cui operiamo.
Il Gruppo Teleperformance, leader mondiale nell’offerta di servizi di Contact Center, è lieto di sostenere la Società del Marketing nella pubblicazione della seconda edizione volume “Le 50 Lettere del Marketing”, che evidenzia nuovamente la passione, la professionalità e la qualità del lavoro di ricerca, analisi e diffusione dell’informazione che da anni caratterizza l’attività dell’Istituto e della Società del Marketing. Per questo vogliamo supportare il lavoro di Pierluigi Del Viscovo, che costantemente ci offre nuovi spunti e idee su cui riflettere, confrontarsi, su un mondo ampio e variegato come quello della comunicazione e del marketing. Teleperformance è una società all’avanguardia e leader nei servizi di Customer Care, nel settore della gestione delle relazioni con i Clienti e della vendita a distanza: questa competenza è frutto di un’esperienza lunga oltre trent’anni e di una capillare presenza in tutto il mondo. Da quest’anno vogliamo accettare una nuova sfida: quella di invertire la rotta delle aziende europee, puntando all’innovazione nelle strategie di Customer Service ed inserendo la gestione della relazione con le basi clienti attraverso i canali del Social Media tra i servizi offerti. Un monitoraggio attivo ed in tempo reale dei Social Media è ciò che Teleperformance intende concretizzare attraverso il nuovo servizio e-PERFORMANCE, grazie al quale supportare le aziende a prestare attenzione ai bisogni dei propri consumatori, fidelizzandoli e costruendo relazioni più durature e qualificate. Teleperformance: Transforming Passion into Excellence
5
6
Nóverca che sin dalla nascita ha attinto linfa dalle sue radici tecnologiche e di ricerca, sostiene con grande interesse la Società del Marketing in occasione di questa pubblicazione ritenendo i cambiamenti mediatici attuali e la sempre più avanzata informatizzazione dei consumatori, elementi centrali nel dinamismo della comunicazione capaci di indicare nuovi itinerari percorribili mai immaginati fino ad ora. Nòverca Italia è il primo operatore mobile virtuale in Italia ad aver lanciato una sim NFC per i micropagamenti da cellulare, ad aver avviato una strategia di marketing per mettere in grado qualsiasi società di portare il suo brand in mobilità, e ad aver ottenuto la prima licenza FULL MVNO sul territorio italiano.
Gentile Lettore, LeasePlan Italia, azienda controllata da LeasePlan Corporation, gruppo internazionale nato nel 1963, presente in 30 paesi e leader a livello mondiale nel noleggio a lungo termine e fleet management, è lieta di presentare le “Cinquanta Lettere dal Marketing”. Stimolare l’attenzione su tematiche innovative, senza dimenticare di approfondire le strategie di approccio al mercato, coniugare la speculazione intellettuale a soluzioni applicate con successo in contesti reali sono solo alcuni degli spunti che potrà trovare in questo prezioso volume. Come azienda consapevole dell'importanza che oggi rivestono l’attenzione ai costi bilanciata con la soddisfazione e la sicurezza dei conducenti, insieme al rispetto e alla sostenibilità ambientale, siamo da sempre orientati a fornire a tutti i nostri interlocutori un approccio olistico alla complessa gestione della flotta aziendale, in un’ottica di innovazione e attenzione alla qualità, che sono la migliore espressione del marketing in cui crediamo. Siamo certi che questo volume le fornirà interessanti temi di riflessione, per leggere con occhi nuovi la realtà che ci circonda e guardare al futuro con rinnovato entusiasmo. Buona lettura!
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Indice
Prefazione di Pier Luigi del Viscovo
10
Introduzione di Pier Luigi del Viscovo
10
Introduzione di Antonio Romano
11
Amici
13
Impresa
Global Brands. How five names in this year's rank staged their turnarounds
21
Companies and the customers who hate them
25
Experiential marketing
29
La lunga corsa della Toyota
33
Il futuro del marketing: dal monologo al dialogo
37
Profiting from Proliferation
41
The right way to manage unprofitable customers
45
Using branding to attract talent
49
Islamic finance. Savings and soul. Faith-based finance
53
Best Global Brands
57
Price customization
61
Managing brands
65
How to build top-performing auto dealerships
69
Should you invest in the long tail?
73
Choosing strategies for change
77
The bankruptcy of General Motors
83
The game has changed
89
The electric-fuel-trade acid test
93
Top 100 best global brands 2009
97
Toyota. Losing its shine
101
Taking the challenge. Pepsi gets a makeover
107
Best Global Brands 2010 Report
111
Fiat plays double or quits with Chrysler
115
Best Global Brands 2011 Report
119
Technological change. The last Kodak moment?
123
Freeing up the sales force for selling
127
Primo, lincenziamo tutti i manager
131
Società
"Prologo"
Liquidi e mutanti. Industrie dei contenuti & consumatori digitali
137
The Existential Necessity of Midlife Change
141
A ravenous dragon. China’s quest for resources.
145
42° Rapporto sulla situazione sociale del Paese
149
La crisi. Può la politica salvare il mondo?
153
Generare classe dirigente - 3° Rapporto
157
After the storm. A Special report of the world economy
161
43° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
165
Gendercide
169
NOI
175
Economic conditions snapshot
179
The American Economy - Profits, but no Jobs
183
44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese
187
The rich and the rest
191
The fallout
195
70 or bust!
199
Rethinking Capitalism Creating Shared Value
203
The perils of extreme democracy
207
Women in Business
211
The jobless young
215
45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese
219
Nuclear energy. The dream that failed
223
Lavoro e formazione: l'importanza dell'esperienza all'estero
227
Consigli per gli acquisti e per le vendite
232
Lo sviluppo nasce dall’impresa
234
Metà degli spot al doppio del prezzo
236
Non sparate sullo spot
238
Microeconomia per attuare grandi riforme
240
Mazzette solo se c’è convenienza
242
Non più fumo, ma tanta qualità
244
10
Prefazione
C’è vita nel marketing
Introduzione Impresa e Società
autore
Pier Luigi del Viscovo
autore
Ci sono segnali che il marketing stia muovendosi per avanzare da quella posizione di retroguardia in cui è oggettivamente relegato da molto tempo. Da quando è stato utilizzato come funzione di supporto alle vendite. In concreto, tutto ciò che fa vendere (contatti e promozioni) viene giustificato come spesa. Mentre ciò che non può essere direttamente riconducibile a dei contratti commerciali viene messo in discussione e in sospensione, salvo una minima porzione: quelle iniziative (ritenute inutili) autorizzate per darsi un certo compiacimento, ma gestite quasi sempre in modo episodico e tattico, tanto da ricavarne ancor meno. Ma qualcosa sta cambiando. La trasformazione dei mercati – che appare improvvisa solo agli occhi di chi aveva beatamente dormito – suona la campana. Dove siamo? È la prima domanda – antropologica, direi – quando ci si desta accorgendosi che il treno ha proseguito la sua corsa. Dove siamo? Lo chiedono al marketing, che ovviamente risponde: da quaggiù non è che si veda un granché, noi siamo solo il megafono. Allora ho sentito più d’uno affermare che il marketing deve fare altre cose: intelligence e previsioni, tanto per cominciare, e strategia di prodotto, perché no? Ma dai? Magari anche le politiche di prezzo? Non ci credo. E disegnare nuovi modelli distributivi: ma sì, esageriamo! Ci vorrebbe un PM (si legge product manager, non Antonio Di Pietro).
Pier Luigi del Viscovo
A uno sguardo d’insieme mi è parsa la classificazione più rispondente a questa seconda raccolta di Marketing Letter. Certo, mi sono chiesto come mai tante Lettere (dal Marketing – !?) siano state ispirate a temi sociali. Che sia stata una deriva mia personale, di maggiore sensibilità verso gli equilibri della vita? Sensibilità originata anche da quell’apprensione che è cosa tangibile e condivisa tra tanti, ora che nel nostro Paese “il re è nudo”, avendo creduto all’uno e agli altri e avendo provato la miserabile insipienza e l’inefficiente inefficacia dell’uno e degli altri, fino a scoprire che “loro” altri non sono che “noi” allo specchio, come in ogni buona democrazia innestata su nazioni giovani. Noi siamo il re. Noi siamo nudi. Mah! Sarà stato pure questo. Però elaborato in maniera diversa. In questi cinque anni la relazione tra Impresa e Società ha vissuto un’evoluzione significativa. È stata finalmente superata quell’interpretazione della Responsabilità Sociale (meglio nota col nome americano di CSR – corporate social responsibility) che suggeriva di piantare alberelli, finanziare la squadra di calcetto o acquistare due auto elettriche, per guadagnarsi il pieno diritto di esistere e operare. Intendiamoci, non è che siano cessate tutte quelle fesserie. Ci vorrà del tempo, se pensiamo che ancora ci sono focolai di “total quality”: come dimenticare le atrocità intellettuali note come “certificazioni di qualità”? Un puro rigurgito di dirigismo anti-liberale e anti-mercato made in Brussels, che ora il web ha bellamente ridicolizzato. Penso all’industria alberghiera, la quintessenza del service business: la certificazione la danno i giudizi dei clienti disponibili in rete, non un branco di burocrati con la fissa delle procedure. Oggi si pensa che l’Impresa abbia un’unica responsabilità sociale: fare impresa, nel rispetto delle leggi e in armonia con l’ambiente sociale che la circonda. La CSR è diventata CSV (creating shared value): creare un valore che sia condiviso dalla società. Nel villaggio globale la competizione non è tra Impresa e Società ma tra più Società (territori) che si contendono l’Impresa. La principale aspettativa della Società verso l’Impresa è di non svegliarsi un mattino e non trovarla più. Affinché ciò non accada, la Società deve vigilare sulle condizioni di contesto, che non siano mai tali da indurre scelte divergenti. Ma al tempo stesso l’Impresa deve sforzarsi di individuare e condividere un progetto comune, d’impresa e sociale, per la creazione del massimo valore condiviso. L’Impresa deve guadagnarsi la sintonia con l’ambiente sociale. Nessuno sta in Paradiso a dispetto dei Santi. Se il valore è tale solo
Introduzione Tempo, visione, immaginazione autore
per l’Impresa, la Società presenta il conto. Ma se il valore è solo sociale, l’Impresa un bel giorno scomparirà. In questo senso, le due grandi aree di focalizzazione delle Lettere sono state l’Impresa e la Società. Proprio perché la grande sfida del business è di entrare in sintonia col contesto, per offrire al contesto non tanto i suoi prodotti, ma se stessa in un progetto comune. È una sfida non facile, perché l’Impresa non possiede, nei suoi geni, la capacità di riconoscere l’alterità che non sia in un ruolo di cliente o fornitore. Non per malvagità, ma piuttosto per estrema concentrazione: l’Impresa vive esclusivamente intorno alla produzione ed erogazione del suo prodotto, che come tale prevede appunto l’acquisto, non la condivisione. Questo volume contiene in appendice alcuni articoli pubblicati tra il ’94 e il ’95.
Antonio Romano
Un calendario contiene in sé – un po’ per definizione e ancora di più per rappresentazione – il disegno del tempo e, in questo disegno, il senso stesso della temporalità. Per noi, il disegno del tempo, quello del calendario che annualmente pubblichiamo dal 1991, ha sempre avuto il senso della sfida e dello sguardo rivolto al futuro. Immaginazione, rigore formale, ironia trovano nel design una chiave di lettura privilegiata per superare l’ovvio e dare vita a nuove visioni. Non è un caso che la prima edizione del calendario segnò un importante cambio di rotta nella storia ormai più che trentennale di Inarea. E non è un caso che, nel rinnovare ogni anno questo appuntamento, sui cui contano ormai migliaia di amici, appassionati e collezionisti, l’esperienza si confronti con il nuovo, con quello che ancora non c’è ma che si manifesta, in nuce, nelle idee, nei pensieri prima ancora che nella percezione chiara e distinta della realtà sensibile. Cinque anni dopo la pubblicazione delle prime cinquanta Marketing Letters, e in modo più che mai attuale, continuo a ritrovare questa analogia tra le immagini che scandiscono i mesi del calendario di Inarea e le lettere dal Marketing. È l’esperienza che incontra la visione, la certezza che si mette in discussione, l’immaginazione che risponde alle sfide poste dal futuro. Sono immagini che accompagnano pensieri e parole: nel disegno del tempo e, soprattutto, nelle pagine di un libro. Di nuovo, buona lettura!
11
amici
13
La Società del Marketing | amici
14
Alessandro Casulli - LeasePlan
non si distinguono dai testi pubblicitari della peggior specie.
Ci sono ormai pochi "luoghi" dove è possibile fermarsi a riflettere pacatamente ma, al tempo stesso, appassionatamente. La community de "La società del Marketing" è uno di questi: una moderna Agorà!
Enrico Giancoli - ICCREA BancaImpresa
Alessandro Palumbo - Istituto Sperimentale di Marketing
Fabio Bongianni - Escargo
Il successo di un’iniziativa di marketing, come La Società del Marketing, dipende in larga parte dalla capacità di saper ascoltare. Ma questa è una dote inutile se non si ascoltano idee e concetti intelligenti, creativi e innovativi. Grazie a tutti i partecipanti de La Società del Marketing che da febbraio 2003 si fanno ascoltare e rendono noi uomini e professionisti migliori.
Doversi confrontare, ogni mese, con gli spunti di riflessione che le tue lettere dal marketing ci propongo, è un forte stimolo a non fossilizzarsi nell’ambito del proprio microcosmo lavorativo. Grazie Pierluigi, la passione che infondi in tutti noi migliora il nostro approccio alla vita professionale e non solo!
Passando veloce tra i vicoli e sfiorando la soglia del Monte dei Pegni, attraversando la mai spenta Campo de Fiori, ti appare l’ombra della soglia di Palazzo Massimo. Questo luogo ha per me rappresentato, nel tempo, dapprima un doposcuola di crescita con annesso laboratorio per esperimenti, poi un prezioso rifornimento di idee dopo le tensioni delle giornate d’azienda, le urla del mercato, le troppe ovvietà udite nelle interminabili riunioni ed anche dopo l’esasperazione della recente caduta di tante delle nostre certezze e infine, ma direi che questa Community rappresenta soprattutto un luogo che resiste unito, seppure a stento e con fatica, alla tentazione di fuggire grazie anche alla forza dei rapporti, delle esperienze, del travaso di cultura tra le persone che come persone, prima che come manager, vogliono restare malgrado tutto.
Arun Sharma - University of Miami
Fabrizio Sandrelli - Trenitalia
I have known Pier Luigi for over a decade and have really enjoyed his insights into marketing practices. I remember discussing the great customer service activities of a firm after they had lost my baggage. He told me that “courtesy can never replace efficiency for a great firm.” He may not be aware but I have used this phrase very often in my teaching activities. He established La Società del Marketing in Rome where I had the honor to present a few times. This is a great institution where discussions were always great and insightful. The publications from La Società del Marketing have always given me great ideas for my research and teaching and I look for the second compilation of these articles. I would like to congratulate Pier Luigi and La Società del Marketing for their contribution to marketing thought and practice through their monthly publications and look forward to many more years of great insights.
In un mondo che cambia velocemente, non sempre e non alla stessa velocità la gerarchia aziendale si è evoluta in un meccanismo adatto a prendere le giuste decisioni in tempi rapidi e le procedure non sono sempre diventate scivoli che uniscono velocemente la produzione al mercato. Nel frattempo però la società, e quindi i clienti, è andata avanti anni luce: il rapporto tra genitori e figli non è più gerarchico, ma i genitori accompagnano e guidano i figli nel fare le loro esperienze e imparare da esse. Le aziende non sono più nella posizione di imporre i loro prodotti al mercato, educando la clientela ad apprezzarli, i consumatori sono autosufficienti e scelgono loro i prodotti e definiscono i prezzi, come su ebay, nei gruppi di acquisto, nella ditribuzione delle risorse economiche, spendendo molto per beni di cui riconoscono Il valore, ma pretendendo di spendere il minimo per quelli ritenuti puramente necessari. Il valore del brand non è più dato solo dagli asset, ma soprattutto dal valore del suo management. Il brand è oggi visto come una community in cui condividere una esperienza, piuttosto che come una immagine di sè. Il singolo consumatore non può più essere clusterizzato in un unico target predefinito, ma frammenta la propria personalità all'interno della rete. In tale contesto, partecipare agli appuntamenti della Società del Marketing o rileggersi alcune delle "50 lettere dal marketing" offre sempre una sferzata di idee pervasive che costringono a ripensare a tutto, a fermarci e guardarci intorno, a prendere spunti, vedere le cose da punti di vista differenti
Andrea Benso - Lidauto
Beppe Scienza - Università di Torino A volte uno ha l'impressione che il mondo vada al contrario; e che questo però sia una fortuna. È ciò che mi dico sempre, pensando a Pier Luigi del Viscovo e alla Società del Marketing. Stupisce infatti che una realtà di tale settore sia attenta all'onestà nelle vendite; e non solo alla loro massimizzazione a ogni costo. Stupisce ancor di più a fronte di così tanti giornalisti, in particolare nell'ambito del risparmio e della previdenza, i cui articoli
Voglio sottolineare i continui stimoli e l’arricchimento costante che la partecipazione agli incontri ha sempre prodotto in ognuno di noi.
Società: ovvero ”compagnia di soci”. Marketing: ovvero “fare mercato”. Se uniamo le due etimologie –letteralmente– verrebbe fuori “compagnia di soci che fanno mercato”. Mi viene in mente il vicino mercato di Campo dei Fiori. Tante bancarelle, ma una sola piazza. Tante idee, tanti spunti, tanta ironia. Incontri, contatti, colori, il cielo di Roma. Il ‘fare mercato’ è –fin dalla preistoria– specialità incontrastata degli umani. Intorno al mercato si sono sviluppate culture, piazze (quante “piazze del mercato” nei nostri borghi italici!) linguaggi, città. Roma. Il “Marketing”, il fare mercato, è proprio –antropologicamente– il luogo dello scambio delle idee. Se tra “soci”, diventa anche una storia e una cultura comune.
network, a ritrovare una dimensione personale, di interazione. Detto altrimenti, il marketing è la funzione più viva delle imprese, in continua trasformazione, perché deve mantenere il contatto con il cliente ed essere capace di sviluppare empatia con lui e con i tanti pubblici di riferimento con cui oggi è necessario costruire e mantenere un rapporto. Richiede una sensibilità al nuovo, una attitudine a leggere il cambiamento: apertura e capacità di mettersi in discussione e aggiornarsi. E per farlo è necessario che chi si occupa di marketing nelle imprese non resti chiuso nel suo ufficio. Anche in quelle eccellenti, che hanno successo e sembrano non dover imparare nulla da nessuno. Chi fa marketing ha bisogno di momenti di confronto, di luoghi in cui entrare dopo avere appeso, fuori dalla porta, il proprio “cappello aziendale”. È quello che propone la Società del Marketing, senza superlativi inutili e invece con l’umiltà che è sempre necessaria se si vuole essere disponibili a imparare, dialogando con gli altri e ascoltando le loro esperienze.
Frank V. Cespedes – Harvard Business School
Marco Luigi Brotto Rizzo - Europcar
The research and practitioner perspectives collected by the La Societa del Marketing are a treasure trove of smart advice, timely updates about core Marketing issues, and provocative ideas. They should be read by anyone interested in the field of Marketing or the quest for profitable growth.
Quasi sempre il percorso qualifica il risultato; la società del Marketing è la palestra indispensabile per tenere allenati i cervelli nel tempo, oggi troppo spesso esposti alle pressioni della quotidianità, alla ricerca dei margini perduti. Tornare a pensare e programmare con un pensiero al prodotto e al marketing potrebbe rappresentare oggi un’alternativa concreta e sostenibile nel tempo.
e tornare a definire le nostre strategie ed affrontare le nostre scelte con un prezioso bagaglio di riflessione in più. Francesco Sortino - La società del Marketing
Fausto Maggiolini - Mercedes-Benz La Società del Marketing costituisce una piacevole opportunità di confronto, di condivisione, uno stimolo a riflettere, un arricchimento delle proprie conoscenze ed una spinta verso il pensiero critico e creativo.
Paolo Caputo - Outsourcing Network
“La disobbedienza, per chiunque conosca la storia, è la virtù originale dell'uomo. Con la disobbedienza il progresso è stato realizzato; con la disobbedienza e con la rivolta” (O. Wilde) MARKETING!
Sono già passati 4 anni, ed il conto torna! Una volta al mese. Puntuale, irrinunciabile. Ecco la marketing letter, sapientemente selezionata da Pier Luigi ed i suoi collaboratori. Ed ecco, altrettanto puntuale ed atteso, il secondo volume di raccolta. Da conservare e rileggere, non solo per gli ottimi spunti di ragionamento, ma anche per rivivere i momenti di condivisione con i colleghi, frequentatori abituali e non, che nel tempo diventano anche amici. Ciao!
Luca Pellegrini -Tradelab
Paolo Cuccia - Gambero Rosso
Marketing: costruire e gestire le relazioni con il mercato a cui si vuole offrire qualche cosa: un bene, un servizio, un idea, persino sé stessi. Da sempre un processo sociale, che aveva inizialmente una connotazione “fisica”, basata sul contatto diretta fra chi offre e chi domanda (to market, andare al mercato, “mercatare”, ma anche mercanteggiare, trattare con il cliente), è diventato poi sempre più astratto con l’avvento del mass market (perché si era perso un rapporto individuale, a favore di stilizzazioni su stili di vita e di consumo), e ritorna oggi, con la rete e i social
In un’era segnata dalla molteplicità delle informazioni e delle occasioni nonché dalla parcellizzazione degli interessi e delle esperienze diventa fondamentale riuscire a capire a fondo le esigenze del consumatore e soprattutto raggiungerlo dove e quando è pronto a ricevere il nostro messaggio. La Società del Marketing offre non solo una chiave di lettura per affrontare la complessità delle società in cui viviamo ma anche delle leve per raggiungere la testa e forse il cuore del consumatore. Il Gambero Rosso agisce per garantire un punto di incontro
Giuseppe Noia - Atac
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La Società del Marketing | amici
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qualificato ed affidabile tra produttore di eccellenza e consumatore giustamente esigente sia in termini di qualità che di prezzo. La multimedialità e la internazionalizzazione ci aiutano a capire le aspettative dell’oggi ma spesso ad anticipare quelle del domani. A questa grande community di senior manager mi sento di augurare ancora tanti successi ma soprattutto la capacità di continuare a stimolare una cultura di impresa che ponga al centro l’uomo per tornare a creare valore condiviso. Pippo Callipo - Callipo Conserve Alimentari L’esperienza nella “società del marketing”: un incontro breve ma intenso di esperienze. Quando il Direttore dell’Istituto Sperimentale di Marketing, Pier Luigi del Viscovo, mi chiese di tenere una lezione ai manager del marketing che frequentano i workshop della “società del marketing”, non nascondo che la prima reazione fu di scetticismo sulle mie effettive capacità di “tenere una lezione” a professionisti che certamente dell’argomento ne sapevano e ne sanno più di me. Dopo il primo dialogo con il Prof. Del Viscovo, ho compreso che le “lezioni” che si tenevano nella società del marketing non erano affatto le lezioni delle aule universitarie o dei master, ma si trattava di condividere la propria esperienza con quella di altri imprenditori e manager, di raccontare la storia e la vita di una azienda come la racconto ai miei figli affinché possano trarne tutti gli elementi che consentiranno loro di proseguire l’impresa iniziata dalla prima generazione Callipo nel 1913. Credo che oggi il miglior modo di affrontare i cambiamenti continui e spesso repentini della nostra epoca sia proprio quello di raccontarsi e di condividere valori, principi e modi di agire tra persone che lavorano con lo stesso spirito: far crescere questo Paese nel miglior modo possibile. In fondo, l’arte del marketing è proprio questa: ricercare attraverso la conoscenza del mondo, del contesto nel quale un’azienda vive, le migliori soluzioni per far conoscere il proprio prodotto o servizio all’esterno, prendere dall’esterno tutto ciò che può migliorare quanto produciamo e come lo produciamo. Pertanto, quale migliore approccio al marketing del futuro se non la creazione di spazi dove imprenditori, manager e comunità possano incontrarsi e scambiarsi idee? L’esperienza vissuta il 21 settembre 2011 presso l’Istituto Sperimentale di Marketing è stata per me certamente una lezione, ma non ero io il docente bensì eravamo tutti i presenti in quell’ aula. Un’esperienza davvero significativa per la quale ringrazio il Prof. Del Viscovo e tutte le persone che l’hanno resa possibile. Roger Hallowell - Harvard Business School Distinguished Members Lovely, Ancient, Offices Dynamic Exchange
Salvatore Saladino - Dataforce Ho sempre pensato che “conformismo”, “mai lasciare la strada vecchia per la nuova”, “squadra che vince non si cambia” e tutto quello che viene in mente in questo senso siano l’antitesi della crescita, dello sviluppo, delle conquiste. Siete il tipo di persona che quando va al ristorante ordina sempre le stesse cose e quando trova qualcosa che non conosce nel menù chiede al cameriere: “Mi scusi, ma cos’è questo piatto?”. Oppure fate come me, che quando leggo un menù ordino sempre quello che non conosco senza nemmeno chiedere cosa sia? Non è che mi vada sempre bene, ma vi assicuro che ne vale sempre la pena! In senso ampio, la qualità della vita non è quel senso di pacatezza e rilassatezza che ti avvolge e protegge, che ti fa star bene... Quello è quando ci mettiamo a dormire! La qualità della vita sta nella continua ricerca di ciò che non si conosce per realizzare le nostre più alte aspirazioni, una tensione che ci fa essere ogni giorno migliori, mentalmente aperti, profondamente creativi. La Società del Marketing è appunto una di quelle iniziative che regalano, a chi ha l’opportunità di prenderne parte, un patrimonio fatto di idee, spunti, riflessioni che vanno oltre il miglior modo di fare marketing, che non restano confinate a un’applicabilità nel nostro business. Questo patrimonio è parte, entra a far parte della “nostra” qualità, ci fa capire che la strada non è quella delimitata da lunghe bianche strisce continue, ma è semplicemente tutto quello che ci circonda e di cui nemmeno ci accorgevamo. Quindi grazie Pierluigi! Tommaso Canapa - Toyota Grazie per gli stimoli, che con apparente "leggerezza" arrivano in realtà in profondità! Tullio Spadone - Assochange Ringrazio di cuore Pierluigi perché ho da lui ascoltato, in modo brioso, riflessioni su temi profondi, rendendoli accessibili e piacevoli. Umberto Seletto - Exxon Mobil Anni fa, ormai, all’esordio di una nostra iniziativa di discreto successo, usammo indicare al pay out della medesima: “conversazione sul business, “ Cum- vertere “ cioè “ stare con “ accogliere con interesse e passione alcune esperienze “. Potrei prestarlo benissimo a Pier Luigi del Viscovo che con passione ed intelligenza ci propone occasioni di riflessione ed incontro, nella cornice suggestiva ed irripetibile del suo studio in Palazzo Massimo. Mai come ora, in un momento di cambiamenti epocali, spesso non senza trauma si declina la grande maledizione del proverbio cinese “ che tu possa vivere in tempi interessanti “.
La società del Marketing con i suoi incontri, ci consente di cogliere questo “ interessante “ e ci spinge all’ azione. Una iniziativa per la quale possiamo solo esprimere il nostro apprezzamento sincero.
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impresa
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Settembre 2007, n째 51 Global Brands How five names in this year's rank staged their turnarounds
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La Società del Marketing | settembre 2007
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Global Brands How five names in this year's rank staged their turnarounds David Kiley with Interbrand Business Week, August 6th 2007 L'evoluzione del sistema turistico in Italia e nel bacino del Mediterraneo - del 17/09/07 Marco Venturi Confesercenti
Business Week pubblica i risultati della ricerca condotta da Interbrand usando un modello sviluppato nel 1987 insieme alla London Business School, basato su 3 elementi: ..
financial forecasting proiezione del fatturato atteso a 5 anni, dedotti tutti i costi (diretti e indiretti, tasse incluse) e la remunerazione degli asset tangibili (proprietà, impianti, magazzino, capitale); quello che resta è un margine/valore attribuibile agli asset intangibili.
..
role of branding è una percentuale dei margini derivanti dall’insieme degli asset intangibili, essendo il brand solo uno di essi; per alcuni prodotti estremamente importante (profumi) mentre per altri decisamente meno (Microsoft, acquistato in buona parte perché preinstallato).
..
brand strength è la valutazione del potenziale della marca (rischio associato all’aspettativa che il brand produca le performance attese); si considerano il mercato, la leadership, la stabilità e la capacità di operare attraverso le barriere geografiche e culturali (global reach); il tasso di sconto così ricavato si applica al margine del brand per attualizzarne il valore potenziale.
the world's 10 most valuable brands rank 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
brand
value 2007 bln $
vs ’06
65.3 58.7 57.1 51.6 33.7 32.1 31.0 29.4 29.2 23.6
-3% +3% +2% +5% +12% +15% -4% +7% +5% +8%
coca-cola microsoft ibm ge nokia toyota intel mc donald's disney mercedes
data: interbrand corp.; j.p. morgan chase&co.; citigroup, morgan stanley 4 turnarounds + audi
L’articolo di Business Week si focalizza sulla performance di alcuni brand, che sono stati capaci di recuperare dopo un momento di difficoltà e conseguente perdita di valore. Secondo il CEO di Interbrand Jez Framton, infatti, “è giusto studiare i benchmark brands, ma le soluzioni che sembrano più a portata di mano sono quelle dei brand che sono caduti e hanno saputo rialzarsi”. Rivitalizzare un brand – anche storico – non è facile, una volta che i consumatori ne hanno una percezione negativa. Tuttavia l’analisi della classifica del 2007 mostra che alcuni brand ci sono riusciti.
35 30 25 20 15 10
Nokia
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Il marketing ha capito che il focus sui telefonini economici – pensati per i paesi in via di sviluppo – stava creando problemi in Europa e negli USA, dove i consumatori apprezzano i videofonini che navigano sul web. La nuova offerta di telefonini di fascia alta – destinati sia al mercato consumer che al mercato business – sta funzionando bene sia nei mercati maturi che nei mercati emergenti.
0
2002
nintendo hp
2003 citi
fonte: business week
2004
2005
nokia
audi
2006
2007
Nintendo
Audi
..
Il coraggio di puntare a un nuovo segmento di clienti. Le idee vincenti di marketing – nel lancio della nuova console Wii – sono state di: posizionarlo non come un gioco ma come un sistema di home entertainment, facendo leva nelle P.R. sulle mamme e su altri membri della famiglia, e senza neanche mettere il brand Nintendo in evidenza;
..
puntare sul nuovo telecomando senza fili, in modo che chiunque in famiglia possa facilmente utilizzare la console (anche i nonni possono giocarci insieme ai nipoti).
Non un turnaround ma la determinazione di tracciare un piano e seguirlo. Audi ha scalato molte posizioni nelle ricerche sui consumatori, piazzando alcuni modelli addirittura avanti a BMW e Mercedes, grazie a un piano con “chiare indicazioni di tecnologia e design”, fissato 20 anni fa e seguito scrupolosamente. Fino agli ultimi modelli R8, Q7 e A5, che hanno trasformato Audi da brand massmarket in brand premium. “L’impegno a lungo termine di un’organizzazione nel seguire un piano solido e coerente può proteggere l’azienda da un sacco di errori che danneggiano il valore del brand”, sostiene Frampton.
Come risultato, Nintendo ha scosso il mercato dei giochi, vendendo oltre 10 milioni di pezzi e migliorando il brand value del 18%, grazie a ricavi di oltre 2,8 miliardi di dollari e profitti in crescita del 42%. Hewlett-Packard Sfidare lo status quo. Recuperare la posizione di primo venditore mondiale di PC fa impressione, specialmente se appena due anni fa i critici suggerivano di uscire del tutto dal business dei PC. Il merito è del CEO Mark Hurd, che ha smesso di costruire e vendere computer come se fossero una commodity. Il marketing ha posizionato i PC di HP come una proiezione della personalità dei clienti – con lo slogan “il computer è di nuovo personal” – puntando su design attraenti e plus di prodotto, come la possibilità di controllare la posta e l’agenda senza perdere troppo tempo a caricare programmi. I consumatori hanno risposto, giudicando più cool i PC di HP rispetto ai Dell. Questa strategia, adottata anche nei mercati emergenti, ha aumentato il valore del brand del 18% in due anni, dopo che era calato del 10% dal 2004 al 2005. Citi Restare grandi ma operare localmente. Mentre ai piani alti della banca ci si interroga se essere una banca d’investimenti o una banca consumer, sotto la pressione di Wall Street che spinge verso uno scorporo, la divisione retail e consumer continua a crescere, incrementando il valore del brand. Citi è sempre stato un brand familiare, ma negli anni aveva perso molti clienti retail, segnando il passo come sportelli, rispetto a concorrenti come Bank of America e altre banche regionali, e alzando i prezzi. Con l’apertura di migliaia di sportelli in giro per il mondo, Citi ha recuperato l’immagine di “banca di quartiere”, rafforzata dalle risorse e capacità di quel gigante che è. È Citi che va verso i suoi clienti, e non il contrario. Anche la campagna “Let’s get it done” riflette il focus sui servizi bancari concreti che la clientela si aspetta.
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the big winners rank 20 64 33 44 88
brand google zara apple nintendo starbucks
value bilions $ 2007 2006 17.8 5.2 11.0 7.8 3.6
change
12.4 4.2 9.1 6.6 3.1
+44% +22% +21% +18% +17%
value bilions $ 2007 2006
change
the big losers rank 41 37 82 74 77
brand ford morgan st. kodak pizza hut motorola
9.0 5.5 3.9 4.3 4.2
11.1 6.4 4.4 4.7 4.6
-19% -15% -12% -9% -9%
data: interbrand corp.; j.p. morgan chase&co.; citigroup, morgan stanley Tra le performance migliori, da segnalare Google, che secondo Manfredi Ricca, direttore di Interbrand Italia, è “un brand diventato quasi sinonimo di Internet, con una grande capacità di attrazione sia per gli utilizzatori, che trovano risposte e servizi, sia per gli inserzionisti, che si vedono arrivare i clienti grazie ai banner e alle priorità nelle ricerche”. E poi Apple (+21%), che vede “premiata una strategia di lungo periodo con una coerenza come pochi nella pubblicità, nel design, nel lay out dei negozi e nei prodotti anche in segmenti nuovi come l’iPhone”. Preoccupante Ford che in 5 anni ha perso oltre metà del valore (era 20.4 Bln$ nel 2002). Tra i brand italiani, nei primi 100 ci sono solo Gucci (46esimo posto) e Prada (94esimo) che ha beneficiato anche del film Il diavolo veste Prada.
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Ottobre 2007, n째 52 Companies and the customers who hate them
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La Società del Marketing | ottobre 2007
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Companies and the Customers who hate them Gail J. McGovern & Youngme Moon Harward Business Review Micromarketing e Geomarketing: esperienze recenti - del 30/10/07 Marco Santambrogio Value Lab
La soddisfazione del cliente genera lealtà, e la lealtà genera profitti. Perché allora tante aziende fanno imbestialire i clienti, facendogli fare scelte sbagliate che non gli danno ciò di cui hanno bisogno o gli fanno pagare penali e extracosti? Perché così fanno un sacco di soldi. Molte aziende hanno scoperto che i clienti confusi e male informati fanno acquisti sbagliati e adottano comportamenti sbagliati, che possono essere molto profittevoli per l’azienda. E alcune di esse sfruttano cinicamente questo stato di confusione. Le aziende sfruttano l’ignoranza, la confusione e la scarsa capacità decisionale dei clienti in due modi, tra loro collegati: allargare la gamma di offerte e scoraggiare comportamenti indesiderati. ..
1) Allargare la gamma. La strategia di creare valore offrendo al cliente una gamma ampia di offerte è certamente legittima. Le aziende si sforzano di creare un portafoglio diversificato di prodotti e di prezzi per offrire a ciascun segmento di clientela la proposta più adatta alle sue esigenze specifiche. Ma il cliente, per ottenere davvero il massimo beneficio, deve scegliere tra le tante opzioni quella che effettivamente risponde meglio ai suoi bisogni. Se sbaglia – perché presta poca attenzione o perché non riesce a prevedere bene le sue esigenze future o anche perché le varie opzioni sono poco chiare e non comparabiliallora sarà l’azienda a realizzare un margine superiore.
..
2) Penali e costi extra. L’uso di penali e l’addebito di costi al cliente sono pratiche legittime, originate dalla volontà di scoraggiare comportamenti dei clienti indesiderati e recuperare i costi derivanti da tali comportamenti. Ma molte imprese hanno visto che penali e addebiti extra possono essere molto profittevoli e che i clienti commettono di continuo azioni sanzionabili. Di conseguenza, queste aziende hanno preso a inserire nei budget i ricavi attesi da queste pratiche indesiderate e sanzionate. A questo punto, non possono neanche pensare di dissuadere i clienti dal commettere azioni sanzionabili, perché finirebbero per abbassare i loro ricavi rispetto a quanto previsto. In genere, lasciano che i clienti “sbaglino” senza intervenire preventivamente, quando addirittura non inducono anche volontariamente il cliente in errore (casi limite, certamente).
In entrambi i casi, le imprese sono esposte in qualsiasi momento alla ritorsione del cliente, come dimostrano gli esempi dei gestori di telefonia mobile e delle banche. Telefonia mobile. Il cliente generalmente deve scegliere tra diversi “pacchetti” di offerta, che combinano utilizzo del servizio e tariffe
in molteplici soluzioni, spesso difficili da confrontare tra loro. In apparenza, sembra la strategia che più di ogni altra mette il cliente al centro dell’offerta, dandogli la possibilità di sceglier tra molte opzioni. In realtà, più sono le opzioni tra cui scegliere e maggiore è la confusione del cliente, unita a una bassa capacità di valutare, in proiezione, il reale utilizzo che farà dei servizi di telefonia mobile: numero di chiamate, giorno e orario delle chiamate, tipologia di numeri chiamati, durata complessiva delle chiamate. Molte imprese progettano le offerte proprio per sfruttare la difficoltà dei clienti nel prevedere le modalità di utilizzo. Sono pratiche molto profittevoli, tanto che il 50% dei redditi dei gestori viene da penalizzazioni per uso eccessivo o insufficiente, ma generano molta frustrazione e insoddisfazione nei clienti. La mobilità dei clienti ne è la prova tangibile: per un grande gestore il ricambio di clientela arriva fino al 25% all’anno. Questo livello di turnover obbliga tutte le imprese, anche quelle con una posizione consolidata sul mercato, a investire grandi risorse nell’acquisizione di nuovi clienti. Nel 2005, i gestori di telefonia mobile hanno speso oltre 6 miliardi di dollari in pubblicità, sostenendo un costo di acquisizione intorno ai 350 dollari per ogni nuovo cliente. Ma questa realtà ha consentito a un nuovo competitor – Virgin Mobile USA, entrato nel 2002, quando il settore appariva già saturo, con un tasso di penetrazione nella clientela già alto e un brand (Virgin) poco conosciuto – di incentrare la strategia di attacco proprio sul maggiore punto di debolezza degli altri, offrendo un piano tariffario basato sull’utilizzo, senza oneri nascosti, né restrizioni orarie o vincoli contrattuali, con tariffe chiare e ragionevoli. Oggi Virgin Mobile USA ha quasi 5 milioni di abbonati e un tasso di ricambio inferiore ai concorrenti, anche se i suoi clienti sono liberi di andarsene quando vogliono, senza penalità. La customer satisfaction è eccellente, sul 90esimo percentile. Dan Schulman, CEO di Virgin Mobile USA, ha espresso così la loro strategia: “I nostri clienti target non si fidavano dei piani tariffari in atto nel settore. Sono consumatori avveduti, e odiano sentirsi presi in giro. Noi abbiamo studiato un’offerta che ci differenzia dai concorrenti”. Banca retail. Alla sottoscrizione di un nuovo conto corrente, i clienti si vedono offrire un’ampia gamma di opzioni, basate sulle diverse necessità: numero, frequenza e tipologia di operazioni, saldo minimo da lasciare sul conto, eventuale bisogno di piccoli fidi, e così via. Se il cliente usa il conto corrente esattamente come preventivato all’inizio, ottiene il miglior trattamento economico. Ma se capita che non rispetti le limitazioni e i vincoli stabiliti per quel particolare conto corrente, andrà incontro a penali o a rendimenti inferiori.
Anche in questo caso, i clienti che scelgono il prodotto sbagliato sono tendenzialmente più profittevoli di quelli che scelgono un prodotto in linea con le loro reali esigenze. Perché le banche non dovrebbero approfittare di questa linea di reddito? Perché l’insoddisfazione dei clienti sta arrivando al calor bianco. E quando arriva un operatore corretto sono pronti a cambiare. È il caso di ING Direct, la banca online. In sei anni, ha sempre avuto un atteggiamento chiaro e trasparente verso i clienti. E oggi è la quarta banca retail negli USA, con oltre 60 miliardi di dollari di asset. Acquisisce 100mila clienti al mese ed è quasi a quota 5 milioni. I dirigenti dei settori analizzati, interpellati, hanno espresso disagio per tali tecniche, ammettendone l’esistenza, ma dichiarando che non sono frutto di una strategia intenzionale. I più avveduti hanno riconosciuto che non si tratta di sfruttare delle opportunità di reddito, come può sembrare, ma di una seria vulnerabilità dell’impresa nel suo patrimonio più importante: la base di clientela. Pertanto, per la sostenibilità di lungo periodo, è opportuno identificare e abbandonare queste pratiche. Prima che un concorrente attento basi il suo attacco su una strategia customer-friendly, che metta al centro la trasparenza e la soddisfazione del cliente. La tabella mostra una serie di domande chiare e dirette che l’azienda dovrebbe porsi per verificare che effettivamente non siano in corso – pur non volute – politiche che sacrificano la soddisfazione dei clienti sull’altare di profitti extra e non correlati al valore erogato al consumatore. segnali di pericolo 1
i nostri clienti più profittevoli sono quelli che hanno la ragione più valida per essere insoddisfatti di noi?
2
abbiamo regole che vogliamo far violare ai clienti perché in questo modo generano dei profitti?
3
rendiamo difficile per i clienti la comprensione o il rispetto delle nostre regole, e li aiutiamo di fatto a violarle? ci affidiamo ai contratti per impedire ai clienti di defezionare?
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Dicembre 2007, n째 54 Experiential marketing
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La Società del Marketing | dicembre 2007
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Experiential marketing Bernd H. Schmitt World Marketing & Innovation Forum Building and maintaining a high-performance sales organization - del 13/12/07 Frank Cespedes Harvard Business School
Bernd Schmitt – il guru del marketing dell’esperienza – ha tenuto una brillante lezione al World Marketing & Innovation Forum di Milano, di cui riportiamo i punti essenziali. L’approccio dell’experiential marketing si fonda su alcuni punti chiave: 1. l’attenzione è sull’esperienza che il cliente vive nell’acquisto e nell’uso del prodotto, invece che sul prodotto e sui suoi presunti benefici oggettivi;
3. i test per stabilire la validità del prodotto devono essere condotti ricostruendo le fasi reali di acquisto/fruizione del prodotto;
2. l’analisi dei comportamenti dei clienti deve includere le scelte razionali e quelle emozionali, spesso più determinanti nelle motivazioni d’acquisto;
4. la metodologia di indagine deve essere fluida, integrando analisi quantitative e qualitative alla ricerca dell’esperienza soggettiva del cliente.
“Le esperienze si possono cogliere nel loro divenire soltanto osservando il cliente nel suo habitat naturale – ha spiegato Schmitt. “Ecco perché i nostri ricercatori passano parte del loro tempo al fianco dei consumatori, osservandoli sul campo, chiedendo le loro impressioni sul prodotto/servizio nel momento stesso in cui lo consumano. È così che riescono a cogliere la realtà dal loro punto di vista, anziché doversi affidare a risposte artificiali prodotte dalle tradizionali ricerche di mercato. Le aziende hanno bisogno dei consigli dei clienti, perché le aiutano a realizzare le piattaforme esperienziali (uno strumento che sostituisce il tradizionale concetto di posizionamento) e a implementarle usando al meglio i loro suggerimenti.” Secondo Bernd Schmitt la segmentazione e il posizionamento sono strumenti sempre meno idonei a comprendere la fenomenologia dell’acquisto. “Dobbiamo andare oltre la superficie dei dati, soprattutto statistici. Bisogna scoprire cosa fa dell’atto d’acquisto un generatore di sensazioni, un impulso che guida le nostre scelte. L’obiettivo è cogliere l’essenza dell’esperienza, poiché noi non acquistiamo solo un prodotto ma, soprattutto, un’esperienza.”
Ed è proprio l’esperienza il terreno della competizione, nei molti casi in cui le caratteristiche oggettive del prodotto/servizio sono considerate dei prerequisiti abbastanza simili tra i vari concorrenti. Gli strumenti tradizionali del marketing sono inadeguati per Schmitt. “Le strategie di marketing concepite con le 4 P sono incentrate sul prodotto e stabiliscono la necessità di confezionarlo, dargli un prezzo, promuoverlo e distribuirlo. Ma nel modello delle 4 P dov’è la C (il cliente)?” Questi modelli sono guidati più dall’ingegneria e dalla logistica che dal cliente. Approfondiscono gli attributi e i benefici del prodotto, ma non le sue qualità intangibili (sensoriali, di immagine) e l’esperienza che tali qualità attivano nei clienti. Mercati e concorrenti sono misurati in base ai criteri oggettivi dei prodotti, senza tener conto del contesto in cui vengono usati. Considerano i clienti dei decisori razionali, mentre molte decisioni d’acquisto sono dettate da impulsi emotivi. Anche le analisi sulla customer satisfaction non convincono, nella misura in cui si concentrano sulla valutazione del risultato del prodotto/servizio (il cosa) ma trascurano il processo (il come) e non approfondiscono in che consista effettivamente la soddisfazione per il cliente. Pure sullo strumento del CRM Schmitt è critico. “Il suo limite è che misura solo transazioni e operazioni monetarie (quando il cliente ha comprato cosa e dove, quando è entrato in azione il personale, ecc), offrendoci dei dati quantitativi senza nulla aggiungere sulla qualità delle relazioni messe in campo e sul tipo di esperienze attivate dal consumatore. Altro punto debole: si sofferma sui bisogni razionali e trascura un dato prezioso come i feedback del cliente.” Secondo lui è più utile parlare di Customer Experience Management (CEM), un sistema che parte dall’analisi del “mondo esperienziale” del cliente per poi costruire la “piattaforma esperienziale”, su cui costruire la “brand experience”, organizzare i punti di contatto con il cliente e impegnarsi in un‘innovazione continua. “Possiamo considerare i diversi tipi di esperienze che siamo in grado di realizzare come 5 moduli strategici esperienziali (SEM): 1 sense. Percepire attraverso i cinque sensi.
the cem framework
2
analysing the experiential world of the customer
feel think
building the experiential platform
3
designing the brand experience
4
structuring the customer interface
5
engaging in continuous innovation
È un concetto di management, che punta a realizzare per il consumatore esperienze olistiche, che mettano insieme tutti i cinque moduli, come fa ad esempio la Singapore Airlines, tra le compagnie aeree a più elevata redditività, che si sforza di essere visivamente interessante e elegante (sense), gentile e ospitale (feel), innovativa e creativa (think), orientata al servizio e all’azione (act), internazionale (relate). I cinque moduli SEM si attivano con strumenti definiti fornitori di esperienze (experience provider – ExPro): la comunicazione, l’identità, i prodotti, il cobranding, l’ambiente, i siti web, le persone. Con i SEM e gli ExPro Schmitt riesce a costruire la sua griglia esperienziale, da usare per la pianificazione di questo approccio di marketing. Il manager la può compilare rispondendo a questa domanda: “Per definire l’immagine esperienziale dell’organizzazione e della marca, quale ExPro dovrò usare per stimolare quali SEM?” Per capire quale sia l’esperienza di “vedere uno spettacolo alla Carnegie Hall”, i ricercatori hanno condotto un focus group, poi sono andati a teatro con le persone del gruppo, e alla fine di nuovo nel focus group hanno condiviso le loro sensazioni su tutto, non solo sullo spettacolo in sé (dal sito web alla ricerca dei biglietti), definendo l’esperienza in concreto e fornendo utili indicazioni operative.
sem
relate act
persone
siti web
ambiente
co-branding
prodotti
identità
expro
arricchire vs semplificare
sense allargare l'orizzonte vs focalizzare
1
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griglia esperienziale comunicazione
2 feel. Sentire attraverso i sentimenti che fanno parte della sfera emozionale. 3 think. Pensare razionalmente (le esperienze cognitive). 4 act. Agire: le esperienze corporee, i comportamenti, le interazioni. 5 relate. Rapportarsi: il modulo che contiene aspetti degli altri quattro.
intensificare vs diffondere connettere vs separare
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Gennaio 2008, n째 55 La lunga corsa della Toyota
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La Società del Marketing | gennaio 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
La lunga corsa della Toyota Intervista a Katsuaki Watanabe di Thomas A. Stewart E Anand P. Raman Harward Business Review, July-August 2007 Intangibili e valore per il cliente: da EVA® (econimic value added) al Diffindex® Fabio Fedel Ambrosetti Stern Stewart Italia
Lo stile Toyota consiste nel misurare tutto, anche il rumore delle portiere. La Toyota, che è ormai la più grande casa automobilistica al mondo, ha scoperto che il suo celeberrimo stile gestionale orientato al lungo periodo è diventato più importante che mai, ma anche che è sottoposto a pressioni senza precedenti. La capitalizzazione della Toyota, al 10 maggio ’07, era quasi il doppio di GM, Ford e DaimlerChrysler messe insieme. Per descrivere l’ascesa della Toyota, i giapponesi usano la parola jojo, che significa “lentamente, gradualmente e costantemente”. I suoi dirigenti si mostrano orgogliosi e spiegano quanto sia difficile per gli altri emulare la Toyota, in quanto il suo successo non dipende tanto dagli strumenti di gestione (diversi da quelli classici insegnati nelle business school) quanto dalla sua mentalità. Ma a uno sguardo più attento, la Toyota appare anche preoccupata di riuscire a tenere il passo con la rapida espansione. La pressione deriva da tre fattori: ..
negli ultimi 6 anni ha aumentato la capacità produttiva di 3 milioni di veicoli (+50%);
..
i programmi sono ancora più ambiziosi: sviluppare Lexus in Europa, attaccando il centro di profitto delle case tedesche; espandere il pick-up Tundra negli USA, colpendo la roccaforte delle case americane; sviluppare una gamma di veicoli per i mercati emergenti, Cina e India;
..
il progresso tecnologico, nei prodotti e nei processi, avanza a una velocità senza precedenti.
La sfida nelle parole del presidente Katsuaki Watanabe: trovare un equilibrio tra la visione di lungo periodo e i ritmi della gestione corrente, essendo una società giapponese e globale al tempo stesso.
La Toyota deve continuare a crescere pur costruendo fondamenta più solide per il futuro. (…) Tre sono gli elementi essenziali per costruire fondamenta solide: migliorare la qualità del prodotto, continuare a ridurre i costi e, per ottenere questi due obiettivi, sviluppare le risorse umane. Essere il numero uno significa diventare i migliori per qualità del prodotto. (...) Non abbiamo mai cercato di diventare i numeri uno in termini di volume o di fatturato; se continuiamo a migliorare la qualità, cresceremo automaticamente in dimensione. I problemi nascosti sono quelli che, a lungo andare, si trasformano in gravi minacce. (…) Nella misura in cui conosciamo i nostri bisogni e le nostre difficoltà, possiamo sempre prendere i necessari provvedimenti. Se ci sono problemi che esulano dalla nostra capacità di risolverli, dobbiamo fermarci e, se necessario, rimandare i progetti di crescita a un momento successivo. Quando guido tengo le mani sul volante ma penso anche continuamente a quando accelerare e quando frenare. Potrei non avere un bisogno immediato di azionare il freno, ma se un giorno alla Toyota si rendesse necessario pigiare il freno anziché l’acceleratore, non esiterei assolutamente a farlo. La nostra filosofia consiste nel produrre veicoli dove si trovano i clienti, quindi cercheremo di espandere la nostra capacità di produzione all’estero. (…) la domanda locale va incontro a fluttuazioni. Per aumentare l’efficienza abbiamo sviluppato un sistema di produzione globalmente collegato. Così abbiamo collegato alcuni impianti in Giappone ai nostri impianti all’estero. I nostri impianti giapponesi fungono da cuscinetto. La Toyota non potrà mai essere marca di scarsa qualità; noi vendiamo prodotti di qualità a un giusto prezzo, che nei mercati emergenti potrebbe essere un prezzo elevato. Ma poi i clienti vedono il valore dei nostri prodotti e dicono “la prossima volta devo comprare qualcosa di meglio, come una Toyota”. Ho detto ai nostri ingegneri: non concentriamoci sulla produzione di automobili a basso costo; sviluppiamo invece tecnologie e processi che possono abbattere i costi. Nella mia vision per il futuro, i temi più importanti sono l’ambiente, l’energia, la sicurezza e la capacità di provocare emozioni o determinare il confort di guida. L’approccio Toyota poggia su due pilastri: il miglioramento continuo e il rispetto delle persone. Nei riquadri le origini del metodo Toyota nei 5 principi enunciati nel 1935 dal fondatore Sakichi Toyoda.
Non si finisce mai di imparare l’approccio Toyota. Io stesso non credo di sapere tutto quello che c’è da sapere, eppure lavoro alla Toyota da 43 anni. La Toyota sviluppa persone di tipo T: il tratto discendente della T sta a indicare il fatto che i dipendenti devono intensificare o approfondire quello che fanno, mentre il tratto orizzontale indica che devono imparare sul lavoro. Creare personale di tipo T richiede molto tempo. Per formare un manager di tipo T ci vogliono circa 20 anni. Ma negli altri paesi è difficile assumere qualcuno per periodi lunghi. Adesso abbiamo un sistema di coordinatori, che vengono inviati dal Giappone per instillare la nostra filosofia e i nostri concetti nelle società estere. I coordinatori sono essenziali per insegnare ai nostri dipendenti l’approccio Toyota. Tutta la Toyota è pervasa da un senso di urgenza e dobbiamo essere in grado di formare personale a sufficienza per sostenere il ritmo nella nostra espansione globale. Nel mondo di oggi il cambiamento può essere prodotto tramite kaizen (il miglioramento continuo), ma può anche essere realizzato tramite il kakushin. Sfida
miglioramento continuo
Formuliamo una vision di lungo periodo, affrontando le sfide con coraggio e creatività per realizzare i nostri sogni .. .. ..
Creiamo valore attraverso la fabbricazione e la vendita di prodotti e servizi Adottiamo sempre una prospettiva a lungo termine Il processo decisionale deve essere sempre ben ponderato
Quando il ritmo del cambiamento è troppo lento, non abbiamo altra scelta che ricorrere a cambiamenti drastici o a riforme radicali, il kaikaku. Si possono adottare approcci rivoluzionari e al tempo stesso apportare miglioramenti incrementali. Anzi, quando si cerca di produrre un miglioramento incrementale spesso si producono idee rivoluzionarie. I due approcci sono naturalmente differenti: il kaizen è caratterizzato dal cambiamento continuo, il kakushin da discontinuità. Io cerco solo di indurre le persone a fare il salto dal miglioramento incrementale al miglioramento radicale ogni volta che è possibile. Perché pensate che la Toyota abbia avuto tanto successo fino ad ora? Continuiamo a fare le cose come le abbiamo sempre fatte; siamo coerenti. Non c’è genialità alla Toyota; facciamo soltanto quel che crediamo sia giusto, cercando di migliorare ogni giorno qualcosa, passo dopo passo. Ma quando piccoli miglioramenti si accumulano per settant’anni, diventano una rivoluzione.
Rispetto
rispetto per le persone
Rispettiamo gli altri, ci sforziamo di comprenderci a vicenda, ci assumiamo la responsabilità delle nostre azioni, e facciamo del nostro meglio per costruire il rispetto reciproco .. .. ..
Deve esserci rispetto per tutte le parti coinvolte Crediamo nella fiducia e nella responsabilità reciproca Ci sforziamo di essere sinceri nelle nostre comunicazioni
Kaizen - miglioramento continuo
Lavoro di squadra
Miglioriamo continuamente le nostre operazioni, cercando sempre l’innovazione e lasciando che le nostre operazioni si evolvano
Stimoliamo la crescita personale e professionale, condividiamo le opportunità di sviluppo e massimizziamo i risultati individuali e di squadra.
..
.. ..
.. ..
Sviluppiamo la mentalità kaizen e impariamo a pensare in maniera innovativa Costruiamo sistemi e strutture snelle Promuoviamo l’apprendimento in tutta l’organizzazione
Verificare personalmente Risaliamo alla fonte per trovare i fatti necessari per prendere decisioni corrette, costruire consenso e realizzare i nostri obiettivi quanto più rapidamente possibile .. .. ..
Andiamo sempre alla fonte Costruiamo consenso Ci impegniamo a ottenere risultati
Siamo impegnati nella formazione e nello sviluppo Abbiamo rispetto per tutti gli individui e cerchiamo di realizzare il potere della squadra
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Febbraio 2008, n째 56 Il futuro del marketing: dal monologo al dialogo
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La Società del Marketing | febbraio 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Il Futuro del Marketing: dal monologo al dialogo Ricerca di Economist Intelligence Unit & Google The Economist Intelligence Unit, September 2006 Il Ruolo del marketing nelle imprese, oggi (R) Del 21/02/08 Pier Luigi del Viscovo Istituto Sperimentale di Marketing
Branding
Questa ricerca, condotta nel 2006, ha intervistato 228 senior global marketing manager e CEO di diversi settori industriali, distribuiti tra Nord America, Europa e Asia. Poiché il suo scopo è creare un cliente, il business ha due - e solo due - funzioni: il marketing e l’innovazione. Marketing e innovazione producono risultati. Tutto il resto non rappresenta altro che un costo. Peter Drucker Prima il marketing era un monologo: il messaggio era studiato per essere associato ad ogni fase del ciclo d’acquisto (dalla conoscenza del prodotto fino alla transazione). Il marketing on-line ha cambiato lo scenario: più che l’impresa a trasmettere il messaggio (push) è il cliente a richiederlo (pull), e di conseguenza la rilevanza del messaggio è più importante della frequenza e il mezzo utilizzato per inviare il messaggio conta tanto quanto il contenuto stesso. quale parte del budget marketing è destinata alla promo/pubblicità on-line? zero
meno del 15 %
oltre il 15 %
50
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Internet - offrendo ai clienti la possibilità di conoscere e valutare molte offerte concorrenti - ha messo a nudo le reali caratteristiche del prodotto, di fatto riducendo la sfera d’influenza del brand. Ma il cliente, quando ricerca o dà il permesso di ricevere un messaggio o un’offerta, oppure s’impegna in un'altra interazione, rivela di fatto il suo modo di pensare e le sue preferenze in merito all’importanza degli attributi del marchio. Il canale on-line consente di creare una brand experience interattiva che induce il consumatore ad agire. In pratica, il brand on-line si trasforma da passiva rappresentazione di una promessa a espressione attiva dell’organizzazione: da “promessa” a “azione”. Così, gli strumenti interattivi che permettono ai clienti di esaminare e fare ricerche su prodotti e servizi diventano degli asset del brand. Alla fine, la gestione del brand on-line è potenzialmente il centro del marketing. Nel settore auto, dove il ciclo d’acquisto (dalla percezione del bisogno di acquistare un’auto fino alla transazione) è piuttosto lungo, il marketing on-line diventa essenziale per stabilire e mantenere quel rapporto tra brand e cliente, concretizzando la brand experience al di fuori del salone: scoprire gli attributi di un prodotto, confrontare più prodotti e versioni, valutare prezzi e dotazioni, calcolare un leasing o un noleggio. Inoltre, c’è un altro fattore non trascurabile: il marketing on-line consente al cliente di compiere tutte queste azioni in ordine sparso, mentre off-line (in salone, nel caso dell’auto) si tende a seguire (e far seguire al cliente) una “procedura sequenziale” nel processo decisionale. andamento della spesa di marketing per singolo canale nei prossimi due anni aumenta
7
due anni fa
stabile
non uso
diminuisce
8
88 8
74
18
ora
22
internet 54
30
9
7
sponsor + eventi 2
68
30
prossimi due anni
39 34
valori %
30
16
15
37
17
12
direct mail riviste 24
32
2
42
guerrilla mktg
Lo spostamento del focus dal prodotto al cliente permette un’interazione costante tra azienda e cliente, grazie alla quale è possibile individuare sempre in quale fase del ciclo d’acquisto si trovi e suggerire l’azione desiderata inviando il messaggio più appropriato.
20
tv
24
12
18
38
17
35
44 15
29
giornali 9
39
outdoor 12
23
16
49
radio
valori %
validità delle promo/pubblicità on line per conseguire gli obiettivi di marketing molto/abbastanza
medio
poco/per nulla 55
19
Gli specialisti di marketing non sono soddisfatti della loro attuale capacità di misurare i risultati delle campagne di marketing, sia on-line che off-line. Ma questa capacità aumenterà, dato che i CEO pretendono sempre più la prova diretta del ROI del marketing. Le tecnologie digitali e la tracciabilità delle relazioni consentono una migliore misurazione degli effetti degli investimenti di marketing, attribuendo a ogni acquisto le relative comunicazioni.
non so 16
11
creazione immagine di marca 28
26
30
18
29
23
28
20
29
23
23
25
acquisizione cliente lead generation
quale aspetto di una campagna promo/pubblicitaria assorbe il massimo e il minimo del suo tempo?
fidelizzazione 20
18
39
Valutazione e responsabilizzazione
28
34
transazione col cliente
medio
massimo impiego di tempo
valori %
66
definire strategie e obiettivi
Integrazione I brand non possono essere gestiti separatamente, off-line e on-line, e la ricerca indica che le imprese sono alle prese con l’integrazione in un’unica strategia di marketing. Finora, anche le agenzie di pubblicità erano specializzate, alcune sulla creatività e altre sui media. Internet sta assottigliando questa differenza, richiedendo piuttosto un’integrazione tra creatività e media, visto che i contenuti creativi del messaggio possono e devono tendere anche a far passare il cliente da un media all’altro. Un cliente può essere stimolato da un annuncio TV a visitare un sito web dove trovare maggiori informazione e stabilire un contatto bidirezionale col brand. L’on-line non “uccide” i canali media tradizionali, ma ne cambia il modo d’impiego. criteri di valutazione abituali per misurare l'impatto delle attività di marketing on-line 53%
incremento vendite notorietà del brand
47%
indicatori della campagna
intenzione d'acquisto altro
21
32 67
2 12
realizzare una campagna valutare il rendimento di una campagna
2
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Organizzazione futura di marketing È finito il tempo in cui la produzione studiava un nuovo articolo e poi affidava al marketing il compito di capire come venderlo. Essendo costretti a misurare i risultati del loro lavoro e di ciò che spendono, gli specialisti del marketing vogliono essere coinvolti molto prima nel processo di sviluppo del prodotto e nelle decisioni che riguardano partnership e alleanze strategiche. Ovviamente, anche la loro retribuzione deve essere adeguata, trovando un equilibrio tra valutazione dei risultati e incentivi. L’ottimista dice: “Il bicchiere è mezzo pieno”. Il pessimista dice: “Il bicchiere è mezzo vuoto”. Il consulente di marketing dice: “Il bicchiere ha bisogno di essere ridimensionato e di un logo diverso”. Definizione di marketing “anonima” In conclusione, l’integrazione off-line e on-line consente ai clienti di stabilire col brand un rapporto di esperienza (emozione e azione) e gli specialisti del marketing dovranno posizionare i brand attraverso campagne integrate, misurare l’impatto delle loro azioni e essere responsabili dei risultati.
36% 33%
roi
minimo impiego di tempo
27% 46%
possibili più risposte tutti i grafici sono adattamenti dalla ricerca dell’ economist intelligence unit
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Maggio 2008, n째 59 Profiting from Proliferation
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La Società del Marketing | maggio 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Profiting from Proliferation David Court, Tom French and Trond Riiber Knudsen The McKinsey Quarterly, June 2006 Second Life - del 8/5/08 Mario Gerosa Politecnico di Milano
Un’esplosione di nuovi segmenti di clientela, nuovi canali di vendita e di assistenza, nuovi media e nuovi brand, sta sfidando i manager di marketing a ripensarsi, in modo da poter al tempo stesso cogliere meglio le opportunità e aumentare la coerenza e il coordinamento delle attività esecutive. Lo scenario si presenta uguale nel B2C e nel B2B, e in quasi tutti i settori, nella forma di alcuni fenomeni specifici. La polarizzazione e la frammentazione dei segmenti di clientela. In molti settori, le vendite crescono di più nelle parti alte e basse del mercato, che non nel mezzo. In aggiunta, in molti settori B2C il marketing deve confrontarsi con un aumento del numero dei segmenti di clientela significativamente differenti - determinato da fattori etnici e da stili di vita che influenzano diversamente i consumi. crescita di prodotti sotti e servizi nelle fasce vs la media del mercato. cagr '99 - '04
high end 8,7 %
nel 2010 sarà appena il 35% di quella che era nel 1990. Forti aspettative vengono riposte nei media alternativi, quali internet, il viral marketing e il product placement, nessuno dei quali ha però raggiunto una massa critica tale da sostituire gli altri: di conseguenza, la pubblicità funziona solo se il marketing è in grado di gestire un complesso mix di mezzi. La risposta del marketing a questa proliferazione è stata l’introduzione di nuovi brand, strategie e manager per i nuovi segmenti di clientela, per i nuovi canali e per nuovi mezzi di comunicazione. Questo non solo ha aumentato i costi, ma ha anche generato: ..
minore conoscenza dei consumatori e dei loro bisogni, visto che ogni team si concentra solo sull’implementazione delle attività che gli competono;
..
minore soddisfazione dei clienti, a causa dello scarso coordinamento tra canali e segmenti diversi;
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minore agilità dell’impresa nel suo complesso nel rispondere ai cambiamenti del mercato e della concorrenza.
Gestire la proliferazione – e trarne anche vantaggio – richiede un ripensamento della strategia e dell’organizzazione di marketing. Più i mercati diventano frammentati, e più le imprese devono essere abili nell’individuare i segmenti e i canali più interessanti e allocare le risorse in modo adeguato. Il compito del marketing è dunque di rivedere le strategie, per evitare una frantumazione che distrugge le economie di scala, e anche di aumentare il coordinamento nella gestione pratica del pricing, delle promozioni e dei segmenti.
middle - 5,7 %
no frills value 4,2% Più punti di vendita e di assistenza. Per intercettare la domanda crescente di comodità e flessibilità, quasi tutti i marketing manager stanno aprendo nuovi canali e punti di contatto, stringendo anche, in qualche caso, accordi di partnership con i distributori. Ma l’aumento dei punti di vendita e di assistenza rende il contesto più competitivo e crea nei clienti aspettative di maggior flessibilità e ampiezza di scelta. Differenti mezzi di comunicazione. L’efficacia della pubblicità televisiva è in calo, a causa della frammentazione del pubblico e dei canali e anche per la crescita delle registrazioni domestiche: si stima che l’efficacia
Proliferazione e marketing strategy. In un contesto simile, la capacità del marketing di generare una crescita profittevole dipende dall’abilità di individuare e di investire sulle opportunità che stanno nei punti di incrocio degli innumerevoli segmenti di clienti, canali distributivi e categorie di prodotti. Solo una maggiore integrazione delle strategie di marca, crescita, vendite e assistenza permette alle imprese di fronteggiare con successo la sfida della proliferazione. Brand strategy Tra i due estremi (un brand per ogni opportunità di sviluppo e – all’opposto – un solo megabrand che copre tutti i segmenti ma si diluisce) è meglio un approccio di brand portfolio: eliminare i brand deboli ed estendere quelli più forti fin dove possibile, attraverso i segmenti.
Growth strategy Ogni strategia di crescita si fonda sulla capacità di intercettare le preferenze e i comportamenti dei clienti. Il marketing dunque ha bisogno di un sistema informativo che si alimenti da tutte le fonti – interne ed esterne – e che riesca ad integrarle in un quadro complessivo, non frammentato. E poi, i processi decisionali sulle vendite, sui nuovi prodotti e sugli investimenti di marketing devono essere rivisti, in modo da lasciare spazio agli insight prodotti dal sistema informativo integrato. Sales and service strategy Molte imprese, pur aumentando i canali di vendita, continuano ad allocare le risorse in modo uniforme, in base alla dimensione del canale e del cliente. Questo è un errore che espone l’azienda agli attacchi delle aziende low cost, da una parte, e degli specialisti nella parte alta del mercato. Invece, farebbero bene a orientare le risorse in base alla profittabilità del cliente finale e al modo in cui preferisce interagire: ad esempio, se desidera un supporto personale o telefonico per alcuni servizi di base. Proliferazione e marketing execution. Queste nuove strategie richiedono l’implementazione ben coordinata di programmi di marketing coerenti e a costi competitivi. In molte imprese però non accade questo, perché ogni manager alla guida di un segmento di clientela o di un canale commerciale si fa il suo sito web, lavora con la sua agenzia di comunicazione e sviluppa perfino le sue varianti di posizionamento di marca, usando poi i suoi sistemi di misurazione dei risultati. Le conseguenze sono costi in aumento, complessità di gestione e clienti confusi. E i capi del marketing scoprono che non riescono neanche ad avere dei dati omogenei sulla customer satisfaction, sulle performance economiche o sulla salute del brand. Ciò che serve è un vero e proprio sistema operativo commerciale, che elimini le inutili complessità interne, assicuri che le best practice si diffondano rapidamente, e agevoli le reazioni immediate ai cambiamenti del mercato. Coerenza nel pricing L’approccio tradizionale, che assegna la responsabilità del prezzo ai manager di funzione e di area, è inadeguato alla complessità odierna. Serve un nuovo approccio, con standard di performance e un sistema di determinazione dei prezzi comune per tutti i canali, i brand e i segmenti. Coerenza nella gestione dei segmenti di clienti È necessario integrare appieno – nel tradizionale processo di business planning – la pianificazione per segmento e la gestione della performance. I responsabili dei segmenti devono avere influenza sull’allocazione delle risorse in relazione agli obiettivi del segmento, e devono essere responsabili di identificare e offrire
valore aggiunto ai segmenti di clientela più attrattivi. Coerenza nella gestione degli investimenti di marketing Migliorare il ROI definendo bene gli obiettivi dell’investimento e valutando con trasparenza i risultati dei programmi di marketing in ogni business unit. Gestire la trasformazione commerciale. Il livello di cambiamento richiesto per trarre vantaggio dalla proliferazione impone ciò che noi chiamiamo trasformazione commerciale. La sfida per i capi del marketing va ben oltre il normale change management. Si tratta di: ..
1 guidare la trasformazione con molta più forza del normale;
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2 enfatizzare nuove capacità, stimolare la mentalità del cambiamento e stabilire nuovi metodi di lavoro (in genere, l’inserimento di un nuovo sistema operativo commerciale facilita tale cambiamento e lo istituzionalizza);
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3 controllare più spesso e con maggior dettaglio il trade-off tra centralizzazione e decentralizzazione (se i capi lasciano troppa briglia sciolta, c’è il rischio concreto che la trasformazione fallisca).
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Giugno 2008, n째 60 The right way to manage unprofitable customers
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La Società del Marketing | giugno 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The right way to manage unprofitable customers Vikas Mittal, Matthew Sarkees e Feisal Murshed Harvard Business Review, aprile 2008 50 lettere dal Marketing (Book Presentation) del 13/6/08 D. De Masi, G. De Rita, M. Ghenzer, Antonio Romano, Andrea Romano, P.L. del Viscovo /
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3 Capacità. Quando un’azienda realizza di non essere in grado di soddisfare in modo adeguato le richieste di un cliente, a causa del fatto che non è strutturata per farlo. Allora, è opportuno valutare se sia il caso di continuare nell’impegno di servirlo.
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4 Strategia. Quando l’azienda cambia la sua strategia, cessando di offrire alcuni prodotti e servizi, o uscendo da alcuni segmenti di mercato. Oppure, quando l’azienda ripensa alcune strategie commerciali: come nel caso in cui abbia tenuto un atteggiamento troppo aggressivo, mirato ad acquisire rapidamente quote di mercato, che intende modificare una volta raggiunta una certa posizione.
Per molte aziende parlare di customer divestment, cioè dell’abbandono volontario di un cliente, è quasi una bestemmia, per l’attaccamento viscerale al fatturato come indicatore fondamentale. Ma anche perché da molti anni la customer retention occupa il centro della scena, a causa del costo di acquisizione di nuovi clienti (costo che deve essere “spalmato” su acquisti successivi) e a causa della volatilità/infedeltà dei clienti (che sono costantemente tentati con nuove allettanti offerte concorrenti, rese più facili dalle nuove tecnologie di comunicazione).
In tutti questi casi, è legittimo che l’azienda valuti di scaricare dei clienti, ma è bene che non lo faccia affrettatamente, guardando solo al raggiungimento di questi obiettivi sopra indicati. È consigliabile un’analisi più allargata, perché abbandonare dei clienti può anche comportare dei rischi.
Tuttavia, anche grazie alle tecniche di CRM, le imprese ricevono informazioni sempre più dettagliate su ogni cliente e/o segmenti di clienti. E da queste informazioni, spesso si delinea una segmentazione tra i clienti che l’azienda vuole e deve mantenere e quelli che invece farebbe bene a non servire più. “Un cliente che vi chiama ogni giorno è meno profittevole di uno che paga puntualmente e non vi chiama mai”.
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Per un’impresa con elevati costi fissi, rinunciare al fatturato e al margine di un cliente significa gravare il P&L degli altri clienti della quota di costi fissi relativa.
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Un cliente scaricato prende come fornitore un’azienda concorrente, con tutto ciò che questo può comportare (nel bene e nel male).
Ma quali sono i motivi per cui un’azienda potrebbe non voler servire più un cliente?
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I dipendenti, specialmente quelli a diretto contatto con il cliente scaricato, possono interpretare negativamente la cosa, sia perché possono sentirsi legati a certi clienti (magari perché li hanno conquistati e coltivati negli anni), sia perché potrebbero intendere che l’azienda non esiterebbe ad assumere lo stesso atteggiamento anche verso di loro.
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In alcuni casi, possono sorgere problemi di tipo legale o anche etico-sociale, con pesanti ricadute di immagine per l’azienda, come nel caso dei servizi di pubblica utilità (elettricità, acqua, gas, fognature, trasporti locali).
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Ultimo, ma non meno importante, un’azienda che rinuncia ad alcuni clienti rischia anche di perdere un’importante fonte di informazioni, sperimentazione e innovazione.
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1 Profittabilità. Quando un’azienda si rende conto che un cliente di fatto assorbe maggiori risorse dei margini che generano i suoi acquisti, deve prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di non servirlo più (a meno di riequilibrare il P&L – vedi tabella). È ciò che accade nel settore bancario e assicurativo, quando un cliente diventa troppo rischioso, ma anche nel settore retail, quando un cliente ricorre eccessivamente a cambi merce o produce troppe lamentele. 2 Produttività. Ci sono casi in cui servire un cliente deprime il morale e la produttività dei dipendenti, magari perché il suo comportamento è irrispettoso o offensivo. In genere, in questi casi il cliente esercita un’influenza negativa anche sugli altri clienti. È un caso tipico nel settore del turismo, del tempo libero e dei pubblici esercizi.
Per queste ragioni, si propone di utilizzare un approccio strutturato che porta all’abbandono dei clienti, ma solo dopo aver verificato che le motivazioni siano valide, e comunque attraverso una via condivisa e quanto più indolore per tutti. Prima di farla finita con i clienti problematici, i manager dovrebbero farsi alcune domande fondamentali riguardo i contesti
nei quali questi clienti si trovano ad operare. Capire questi contesti può aiutare a determinare in che modo – e in quali casi – chiudere con un cliente. Nella tabella è riportato un modello che aiuta i manager a definire in modo obiettivo se i problemi che hanno con certi clienti siano davvero irrisolvibili, guardando al di là della sola profittabilità di breve periodo, e considerando l’impatto strategico del customer divestment.
Nella fase finale, quando si è arrivati alla determinazione che non c’è altra scelta che chiudere la relazione, è opportuno comunicarlo al cliente con largo anticipo, esponendogli le ragioni di business che suggeriscono tale decisione. Specialmente nel B2C, la forma di comunicazione è fondamentale per evitare che i clienti si sentano arrabbiati, frustrati e offesi. È bene informare i clienti per telefono o di persona, non per lettera. Perché i clienti non sono pacchetti che si comprano e si vendono. Meritano qualcosa di più di una decisione affrettata. Esistono molte soluzioni intermedie che questo modello invita a valutare. Alla fine, il customer divestment è un’opzione, ma deve essere usata in modo oculato, consapevole e prudente. La clientela, pur se non sempre profittevole come si vorrebbe, è una ricchezza che l’impresa non si può permettere di sperperare.
fase
domande
azioni
rivalutare - comprendere perchè viene presa in considerazione la possibilità di chiudere la relazione con il cliente (o segmento di clienti).
sappiamo realmente perché questo cliente sembra essere così poco profittevole? gli acquisti effettuati dal cliente sono diminuiti, ad esempio, a causa di una sua mancata volontà o incapacità di spesa?
ottenete informazioni dettagliate riguardo gli atteggiamenti e i comportamenti dei clienti. raccogliete indicazioni di tipo qualitativo sugli obiettivi, i bisogni e i desideri dei clienti.
formare - condividere il punto di vista dell’azienda con i clienti.
quali sono i gap di conoscenza significativi dei clienti? qual è il modo migliore per formare questi clienti? cosa può fare il cliente per facilitare il processo formativo?
gestite le aspettative dei clienti in modo da renderli più disponibili ad adattarsi. incoraggiate i clienti a prendere parte al processo decisionale e a dare feedback sui prodotti o sui servizi.
rinegoziare - rinegoziare la value proposition in modo che cliente e azienda possano ottenere benefici reciproci.
stiamo realmente negoziando o stiamo mandando un messaggio unilaterale? abbiamo compreso nella nostra definizione dei prezzi tutti i benefici che forniamo ai nostri clienti in seconda e terza battuta? i clienti sono consapevoli di tutta la nostra value proposition?
implementate strategie di pricing e di servizio differenziate. aprite le linee di comunicazione tra l’azienda e i clienti (specialmente nel b2b) presentate prodotti e servizi modulari che i clienti possano combinare e abbinare a piacimento.
trasferire - trasferire il cliente a un nuovo fornitore o spostarlo su un nuovo canale o verso una nuova modalità di pagamento
quali offerte potrebbero soddisfare meglio i bisogni del cliente? il cliente è disposto a cambiare? quali partner accetterebbero questo cliente?
identificate partner o consociate che possano rappresentare valide alternative per il cliente identificate nel settore fornitori alternativi, anche rivali.
chiudere - interrompere la relazione con il cliente
dopo aver compiuto tutti i passi precedenti, come fare perché il cliente acconsenta a sciogliere la relazione?
definite con il cliente delle precondizioni per l’interruzione. definite in modo condiviso le tappe e i parametri che regoleranno lo scioglimento del rapporto. incoraggiate confronti reciproci che prevedano momenti di feedback da parte del cliente e verso il cliente.
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Luglio 2008, n째 61 Using branding to attract talent
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La Società del Marketing | luglio 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Using branding to attract talent Fabian Hieronimus, Katharina Schaefer and Jurgen Schroder The McKinsey Quarterly, 2005/3 I giovani futuri manager: come sono e come li vorrei (R) del 10/7/08 Pier Luigi del Viscovo Istituto Sperimentale di Marketing
La competizione per i talenti si sta facendo sempre più calda in molti settori e probabilmente si intensificherà ancora, dato che i trend demografici rendono più difficile per le imprese rimpiazzare le persone valide che vanno in pensione. In risposta a questo, molte aziende stanno affinando i modi con cui si presentano al mercato delle risorse, applicando alla selezione le tecniche del branding. L’analisi però mostra che sono poche le imprese che curano il proprio branding come “datori di lavoro” con la stessa precisione e rigore che usano per curare il branding di prodotti e servizi. Quindi, l’esperienza insegna che molte di queste iniziative possono fallire. Un’impresa, che voglia davvero sfruttare il suo brand per attrarre talenti, deve pensare alle persone da assumere come a dei clienti, usare sofisticate analisi di marketing per identificare i suoi principali rivali, stabilire quali attributi dell’impresa interessano di più ai profili specifici che intende assumere, e infine capire come raggiungerli al meglio. Ci sono molte indagini che classificano le imprese favorite in ogni settore, come anche ricerche basate sulle caratteristiche universitarie dei talenti, quali business, ingegneria o scienze. Ma queste ricerche non danno alle imprese le informazioni di cui hanno davvero bisogno: informazioni su quali sono i concorrenti più agguerriti nella caccia ai talenti e su come diventare più efficaci nelle varie fasi del processo di selezione. Si tratta di aumentare la notorietà del nome presso i talenti, in modo che possano familiarizzare con quello che l’impresa fa, convincendosi a considerarla come posto di lavoro, sottoporre il curriculum e alla fine accettare l’offerta. Due ricerche McKinsey esaminano la percentuale di studenti favorevoli verso specifici datori di lavoro e il livello di competizione tra le imprese, con dei risultati piuttosto inattesi. (Figura 1) In un caso, è emerso che alcune imprese operanti nell’automotive, nell’hitech e nei viaggi puntavano agli stessi profili da assumere, mentre diverse istituzioni finanziarie non erano in diretta competizione. Identificare i concorrenti è un punto di partenza importante per un’impresa che voglia decidere quali attributi enfatizzare in quale fase della selezione. L’approccio tradizionale si focalizza sui benefit funzionali del lavoro, quali la sicurezza del lavoro, lo spazio per la creatività, le opportunità di crescita individuale e il guadagno.
visualizing the competition close proximity/overlap of bubbles indicates higher degree of competition; distances indicate lesser. size of bubble indicates relative number of students who plan to apply. media company financial institution 1
automotive company 2 automotive company 1
...while some financial istitutions were not in direct competition with one another for talent
what needs work? analysis of strategic priorities for employer branding importance in converting potential recruit into applicant
high
innovative company
financial institution 3 auditing company 1
weak
auditing company 2
source: 2004 mckinsey survery of 2,500 high-potential german recruits Ma associare a un’impresa valori intangibili – “è divertente lavorare in questa azienda”, “approccio culturale e intelligente”, “c’è un forte spirito di squadra” – è importante esattamente come lo è per i brand di consumo verso i potenziali clienti. Le imprese farebbero bene a confrontarsi con i loro concorrenti su entrambe le dimensioni, quella funzionale e quella intangibile. Il semplice confronto di dati sui candidati è utile, ma per avere un quadro più completo di cosa è realmente importante per loro servono strumenti statistici più sofisticati. In questo modo si vedono i punti di forza e di debolezza dell’impresa verso i suoi concorrenti in ogni fase del processo di selezione. Quanto più gli insight sono profondi, tanto più l’impresa potrà concentrare i suoi sforzi di costruzione del brand sulle fasi critiche del processo. Una delle imprese analizzate si è accorta che il suo brand era particolarmente debole nel convincere i candidati che era “per persone come me” – una delle priorità dei candidati target, nella prime fasi del processo di selezione. (Figura 2) Quando l’azienda ha compreso questa debolezza, è corsa ai ripari usando il materiale di presentazione alle selezioni e anche eventi interattivi con i candidati. Identificare i messaggi che più aiutano a distinguere un’impresa dalle altre agli occhi dei candidati può migliorare di molto il rapporto tra i costi e l’efficacia della selezione.
high salary
low
strong
strength or weakness of employer's brand (as determined by comparison of employer's brand drivers against benchmark)
the right tools for the job quality/intensity of communication
tlc company
automotive company 3
familiarity with tasks
career opportunities expected succes of application
high-tech company 1
financial institution 4
fun place to work
training opportunities attractive location
(as determined by statistical analysis)
high-tech, automotive and travel companies were targeting the same students... financial institution 2
travel company
high-tech company 2
for people like me
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personal (experience oriented) personal (information oriented) impersonal (information oriented)
internships, joint project with universities mentorship programs events, workshops, campaign visit, seated dinners direct marketing (eg, mailing) campus presentations career fairs direct-response marketing online games, sponsorship of awards for excellent students print media campaigns, radio advertising individual
mass
reach of communication
Dal momento che c’è un trade-off tra il numero di persone che queste attività raggiungono e la qualità dell’interazione (Figura 3), è importante focalizzare gli approcci più costosi e di maggiore impatto sui candidati e sulle fasi del processo che presumibilmente produrranno il ritorno maggiore. Le imprese migliori aumentano l’efficienza della selezione anche personalizzando ogni fase del processo e misurando attentamente l’impatto di ciascuna fase sull’intero processo. In ultimo, un avvertimento: gli sforzi di branding dell’azienda verso i candidati saranno controproducenti se il messaggio dato ai candidati diverge dalla più generale strategia di marketing dell’azienda. Per funzionare, il branding come datore di lavoro non può applicare liberamente delle tecniche di brand-building, ma deve coincidere perfettamente con la strategia complessiva dell’impresa.
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Settembre 2008, n째 62 Islamic finance. Savings and soul. Faith-based finance
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La Società del Marketing | settembre 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Islamic finance. Savings and soul. Faith-based finance. Briefing The Economist, September 6th, 2008 Strategie di Marketing per la competizione delle destinazioni turistiche - del 24/09/08 Matteo Caroli Luiss Guido Carli
I musulmani hanno un sacco di soldi da investire, ma sono costantemente alle prese con la conciliazione della fede con la finanza. La storia della finanza islamica inizia negli anni ’70 con il lancio in Arabia Saudita e negli Emirati delle banche islamiche, ma le radici risalgono al Corano e al Profeta Maometto. La sharia, o legge islamica, insiste molto su giustizia e partnership. In campo finanziario, questo si traduce nella messa al bando di speculazione (gharar) e interesse (riba). Le imprese che operano in settori immorali, come il gioco d’azzardo o la pornografia, sono escluse, così come quelle aziende troppo indebitate (tipicamente, quando il debito supera il 33% del valore di mercato delle azioni). In concreto, il giudizio su cosa è e cosa non è consentito dalla sharia è dato da un comitato di scholars (giuristi della Legge Coranica), una sorta di agenzia di rating spirituale che opera insieme ad avvocati e banchieri con una finalità precisa: creare strumenti e strutturare transazioni che rispondano alle esigenze del mercato senza però offendere i dettami della fede. Si tratta di una figura centrale nella finanza islamica: un piccolo gruppo di 15-20 persone continuamente convocati dai consigli di amministrazione delle banche islamiche. Sono pochi e preziosi, anche perché sono esperti della legge islamica ma anche della finanza internazionale e parlano fluentemente arabo e inglese. Questi scholars forniscono sulla fattibilità dell’operazione e sull’accettabilità dello strumento finanziario un parere autorevole, che tuttavia non costituisce un precedente vincolante per altri né tanto meno una regola universale. Questo è un punto importante: nell’Islam non c’è un’autorità religiosa apicale riconosciuta. Non è raro che in diversi paesi ci siano diverse interpretazioni della sharia riguardo agli stessi strumenti e prodotti finanziari. Per vedere la finanza islamica in azione, basta vedere cosa stanno costruendo nel Golfo, lungo le coste, dove le banche islamiche stanno aprendo. La domanda di finanza islamica è alimentata dalla liquidità del petrolio. Secondo l’Islamic Financial Services Board, un organo del settore, la finanza islamica gestisce asset per 700 miliardi di dollari, ma Standard & Poor’s stima che il comparto possa arrivare a controllare circa 4.000 miliardi di dollari. Le banche occidentali stanno formando i loro team di finanza islamica, visto che le aspettative sono di una continua crescita, al ritmo del 10-15% all’anno. Ma lo sviluppo è in parte rallentato dalla necessità di barcamenarsi
continuamente tra le due finalità: servire Dio e fare quanti più soldi è possibile. Grazie alla tenacia, alcuni ostacoli vengono superati, come nel caso dei mutui. Per essere in linea con la sharia, la banca acquista la proprietà dell’immobile e lo affitta al cliente a un prezzo che include sia il prezzo dell’immobile che la locazione. Alla fine del periodo, quando il capitale relativo al prezzo dell’immobile è stato tutto pagato, la proprietà viene trasferita al cliente. Questo non solo aumenta i costi di trasferimento, ma espone anche il bene a possibili controversie legali, mentre resta nella proprietà della banca. Anche per i fondi d’investimento ci sono complicazioni: bisogna fare attenzione che le azioni siano di imprese in linea con le indicazioni della sharia. A prima vista, anche questo potrebbe rappresentare un ulteriore costo, visto che i broker devono fare attenti controlli. Ma nella realtà, i broker già controllano a fondo le potenziali partecipazioni dei fondi, per limitare i rischi, e guardare anche al tipo di attività – che non sia in conflitto con la sharia non è un grande sforzo aggiuntivo. Sembra che i costi aggiuntivi delle transazioni siano nell’ordine di 50 dollari per milione, facili da recuperare con efficienze o aumentando leggermente i margini, visto che la concorrenza è meno aggressiva che nella finanza tradizionale. Lo sviluppo è stato possibile grazie alla ridefinizione di ciò che rientra nei limiti accettabili della sharia. È il compito degli scholars: ricercare tra le pieghe della sharia le soluzioni per rendere i nuovi prodotti finanziari compatibili con i dettami della fede islamica. Il fatto stesso di avere oggi i sukuk (bond islamici) è un grande passo in avanti, reso possibile dal fatto di aver trovato il modo di remunerare il finanziatore senza tirare in ballo l’interesse (riba). Però, bisogna dire che il sukuk si limita a finanziare direttamente un’attività specifica, senza entrare poi a sua volta in un mercato obbligazionario di secondo e terzo livello. Una forma comune di emissione di sukuk è quella che garantisce il prezzo al quale l’emittente ricomprerà l’asset, puntellando la transazione e consentendo di remunerare il capitale investito. Eppure, questa operazione è stata criticata da chi sostiene che l’asset dovrebbe essere ricomprato a prezzo di mercato, visto che la sharia impone la condivisione del rischio. Questa critica sta limitando l’espansione delle emissioni di sukuk, che invece è stata in forte crescita finora.
Poi c’è ancora una difficoltà: la liquidità. Nelle banche islamiche non c’è equilibrio nelle durate dei debiti rispetto alle attività. La banche si sforzano di raccogliere a lungo termine, ma nella realtà dipendono dai depositi a breve, mentre molti impieghi hanno una durata maggiore della raccolta. Anche le banche occidentali che hanno una divisione islamica si trovano nella stessa situazione, perché il loro status impone per essere in linea con la sharia di gestire gli asset e la raccolta separatamente dal resto della banca. Infine, un’ultima fonte di pericolo: i rischi. La forte limitazione nella scelta di attività e strumenti di investimento si traduce in pratica in una minore possibilità di diversificare il rischio, rispetto alle banche convenzionali. Tuttavia, nonostante tutte le difficoltà, niente lascia supporre che la crescita della finanza islamica possa arrestarsi, anche se una contraddizione di fondo emerge. Da un lato, i banchieri sono preoccupati che il restringimento degli standard imposti dalla sharia possa soffocare lo sviluppo. Dall’altro, gli analisti temono che la finanza islamica stia diventando così accanita nel raccogliere business che i suoi prodotti, pur candidi e ingenui, siano disegnati per evitare gli angusti standard imposti dalla sharia. Questo è il dilemma. Se la finanza islamica introduce troppi nuovi prodotti, qualcuno dirà che la sharia è stata manipolata per fini economici (dopo tutto, gli scholars sono pagati dalle banche per i loro servizi). Se invece fallisce nel tentativo di innovare si dirà che sono rimasti nel medioevo e dunque non possono giocare un ruolo significativo sui mercati finanziari internazionali. Il fatto è che la finanza islamica serve due padroni: la fede e il denaro. Il suo successo dipende dalla capacità di soddisfarli entrambi, anche a costo di una minore efficienza e di una crescita più moderata. emissioni di sukuk in mld $ 153
50 40 30 20 10 0
101
lanci di fondi sharia-compliant
22 '02
55
'03
52
'04
76
'05
'06
'07
fonte: ernst&young islamic funds & investment report; pricewaterhousecooper; islamic finance information service
Gli stessi hedge funds in teoria sarebbero impossibili: come si può vendere qualcosa che non si possiede? Gli asset sono un’altra restrizione. Il divieto di speculazione impone che le transazioni siano basate su asset tangibili, quali commodities, immobili o terreni. sharia-compliant assets, 2007, $ bn iran
154,6
arabia saudita
69,4
malesia
65,1
kuwait
37,7
emirati arabi
35,4
brunei
31,5
bahrein
26,3
pakistan
15,9
libano
14,3
uk
10,4
fonte: the banker
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Ottobre 2008, n째 63 Best Global Brands
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La Società del Marketing | ottobre 2008
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Best Global Brands Burt Helm Business Week, 18 settembre 2008 Misurare il valore del brand - del 23/10/08 Manfredi Ricca Interbrand
Ogni volta che c’è una minaccia di recessione, i top manager guardano ai bilanci e mettono in discussione una spesa in particolare: il brand building. Tagliare i costi di marketing sembra saggio, visto che non danneggia la qualità del prodotto né il livello delle vendite nell’immediato. Molte grandi aziende lo stanno facendo, incluso Coca-Cola e i costruttori di auto di Detroit. Ma ci sono manager e aziende che non si lasciano distrarre dal loro sforzo di costruire l’immagine di marca nel lungo periodo. Alcuni, per mettere ancor più in difficoltà un concorrente già indebolito dalla crisi. Altri per rafforzare e difendere la marca dagli sconti dei concorrenti. Altri ancora per dare sostegno a un nuovo prodotto che ritengono comunque vincente. ’08 ’07 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21
1 3 2 4 5 6 7 8 9 20 10 12 13 16 15 17 18 14 11 19 21
brand coca-cola ibm microsoft ge nokia toyota intel mc donald's disney google mercedes hp bmw gillette amex louis vuitton cisco marlboro citi honda samsung
bln $
∆%
67 59 59 53 36 34 31 31 29 26 26 24 23 23 22 22 21 21 20 19 18
2 3 1 3 7 6 1 6 0 43 9 6 8 8 5 6 12 0 -14 6 5
L’analisi della “testa” della classifica 2008 mostra due fatti importanti: .. ..
I top 21 mostrano una stabilità impressionante: non solo sono gli stessi di un anno fa, ma 11 sono esattamente nella stessa posizione del 2007. Tutti hanno aumentato il loro valore, eccetto Citi (che però ha scontato il fatto di operare in un settore
piuttosto sotto pressione), bilanciato in qualche modo da Google (pure aiutato dal settore, particolarmente in espansione). Tra i 100 Best Global Brands ce ne sono molti che stanno mantenendo o addirittura incrementando le spese di marketing, in percentuale del fatturato. “C’è sempre pressione per tagliare”, dice Jez Frampton, a capo di Interbrand, che suggerisce di spendere di più durante una recessione, proprio perché “i clienti sono più consapevoli che stanno spendendo soldi guadagnati duramente, e si aspettano un ritorno ancora maggiore dal brand.” Certo, ci vuole coraggio. Anche ragionando in percentuale sulle vendite, se si stima che queste calino, è logico abbassare anche il marketing, e inoltre concentrare le risorse sulle promozioni, che riscontrano un immediato impatto sulle vendite. Oggi poi è ancora più difficile. Nonostante i pubblicitari spieghino che conviene acquistare spazi a basso prezzo e guadagnare posizioni presso i consumatori, che prima o poi – appena l’economia si riprenderà – torneranno a spendere come prima, la realtà non è così semplice. A parte il fatto che il ritorno di una maggiore spesa dipende anche dalla qualità del prodotto e della sua stessa comunicazione, molti fanno notare che il consumatore che uscirà dal periodo di crisi potrebbe non essere lo stesso: in tempi duri, la gente riconsidera le vecchie abitudini e ordina i valori secondo altre priorità, mettendo in discussione le scelte e la fedeltà alla marca. Tuttavia, in tempi difficili per l’economia, il business non si arresta. Le imprese fanno fatica, ma il commercio continua, nonostante tutto. I brand leader lo sanno ed escono da questi periodi più forti e più pronti a competere, senza crogiolarsi nella comodità del “business as usual”. Secondo Mark Baynes, capo del marketing di Kellog’s, “i brand sono molto di più che cereali in scatola. Noi siamo convinti che sia fondamentale, quando lo scenario economico diventa più duro, mostrare continuamente alla gente il valore del brand”. Anche se può sembrare una contraddizione, quando lo scenario economico è incerto, i brand in realtà contano di più - non di meno. Un brand leader trasmette ai consumatori ciò che è importante nel mondo di oggi, influenzandone il comportamento d’acquisto. I brand creano valore generando la domanda dei clienti e assicurando all’attività guadagni futuri. Per questo, la costruzione del brand non è un esercizio separato dalla gestione quotidiana del business. Ne è parte integrante.
7.9 20.2 8.7 4.4 11.4
-12 -14 -16 -20 -21
2. I miei addetti sono preparati a fronteggiare la richiesta dei clienti di maggior servizio e migliore qualità? Le persone devono essere consapevoli della brand experience che i clienti si aspettano. È essenziale che le finalità del brand siano significative, chiare e tangibili allo stesso modo all’interno e all’esterno dell’organizzazione.
..
3. Non è che serve più innovazione? Mantenere lo status quo è raramente una strategia vincente
..
4. Cosa devo cambiare della mia strategia competitiva, ora che lottiamo più duramente per una quota di spesa dei clienti più piccola? Quando girano meno soldi, la competizione non è più tra scarpe Nike e Adidas, ma tra scarpe e iPod.
..
5. Mi è ben chiaro in che modo il mio brand contribuisce a generare valore nel mio business?
the big loosers 49 19 42 77 34
41 11 37 61 22
La ricerca condotta da Interbrand usando un modello sviluppato nel 1987 insieme alla London Business School si basa su 3 elementi:
proiezione del fatturato atteso a 5 anni, dedotti tutti i costi (diretti e indiretti, tasse incluse) e la remunerazione degli asset tangibili (proprietà, impianti, magazzino, capitale); quello che resta è un margine/valore attribuibile agli asset intangibili. role of branding è una percentuale dei margini derivanti dall’insieme degli asset intangibili, essendo il brand solo uno di essi; per alcuni prodotti estremamente importante (profumi) mentre per altri decisamente meno (Microsoft, acquistato in buona parte perché preinstallato): misura come/quanto il brand influenza il processo d’acquisto.
200 180 160 140 120 100 80 60 40 20 0 2000
financial forecasting
interbrand top 100 portfolio msci world index s&p 500 index
brand strength è la valutazione del potenziale della marca di assicurare una stabile domanda d’acquisto (rischio associato all’aspettativa che il brand produca le performance attese); si considerano il mercato, la leadership, la stabilità e la capacità di operare attraverso le barriere geografiche e culturali (global reach); il tasso di sconto così ricavato si applica al margine del brand per attualizzarne il valore potenziale. Proprio per comprendere meglio la capacità di leadership del proprio brand in questi periodi di incertezza, il BGB Report suggerisce alcune domande da porsi, per una sorta di autoanalisi: ..
1. Il mio brand è davvero in sintonia con il mercato? Quando il clima economico cambia, i consumatori cambiano
2008
ford citi morgan stanley gap merril lynch
..
2007
43 24 19 15 13
2006
25.6 13.7 6.4 6.0 8.8
2005
google apple amazon.com zara nintendo
59
le abitudini e la percezione del valore. Anche il business model deve mutare per adattarsi alla nuova realtà.
2004
∆%
2003
20 33 62 64 44
value 08 $ bn
2002
10 24 58 62 40
brand
2001
the big winners rank 08 rank 07
annual average return standard deviation sharpe ratio
bgb portfolio
msci world s&p 500
4,73% 14,76% 0.07
0,05% 18,02% 0.00
L’analisi pluriennale dei BGB ci insegna, ancora una volta, che il brand resta un asset molto meno volatile degli altri, tangibili o intangibili. Ma i brand – come altri asset – non prosperano se gestiti in modo ondivago, con frequenti stop-and-go nel sostegno di marketing. Coltivare il valore di un brand è un processo costante, fatto di fasi e cicli definiti.
-0,92% 15,36% -0.05
60
Novembre 2008, n째 64 Price customization
61
La Società del Marketing | novembre 2008
titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Price customization Hermann Simon e Danilo Zatta Harvard Business Review Italia, maggio 2008 Experiential marketing: origini USA e casi di successo in Italia - del 13/11/08 Mauro Ferraresi IULM
La customizzazione del prezzo mira a generare margini superiori (rispetto alla strategia di prezzo unitario uguale per tutti), individuando per ciascun cliente il prezzo massimo che sarebbe disposto a pagare, in base al valore soggettivo che attribuisce al prodotto. Infatti, è facilmente dimostrabile che l’applicazione di un prezzo unico a tutti i clienti comporta una perdita di margini per l’impresa. numero di acquirenti
62
100
profitto sfuggito profitto con prezzo unico
80
60€ prezzo
100€
Il bundle pricing è il prezzo che viene offerto per l’acquisto di più prodotti legati insieme, in un unico pacchetto. Un caso tipico è quello degli optional delle auto, che vengono offerti dalle Case in gruppi di due/tre, a un prezzo complessivo che è inferiore alla somma dei prezzi dei singoli optional presi separatamente. La finalità è ovviamente quella di far trascinare un optional dagli altri due, di maggiore appeal/valore per il cliente. Un altro esempio – che non serve neanche spiegare – è il McMenù di McDonald’s.
denaro lasciato sul tavolo
40€ costo
Il pricing non-lineare (o multi-dimensionale) è costruito su due parametri invece di uno. Un esempio tipico è l’autonoleggio, in cui c’è un prezzo fisso per l’affitto dell’auto (incluso gli accessori) e poi un prezzo variabile in base ai chilometri percorsi (pricing non-lineare), oppure c’è un prezzo di affitto comprensivo dei chilometri, indipendentemente dall’effettiva percorrenza (pricing lineare). Considerando il prezzo come il corrispettivo per muoversi in auto, nel primo caso il prezzo al km scende per chi ne percorre di più, mentre nel secondo caso resta invariato per tutti.
prezzo
Le aziende sono in gran parte consapevoli di questa realtà, ma incontrano non poche difficoltà ad applicare prezzi su misura per ogni cliente o gruppi di clienti. Innanzitutto, non è per niente facile conoscere quale sia il valore che il singolo cliente attribuisce al prodotto/servizio. Anche perché lo stesso prodotto/servizio per lo stesso cliente assume un valore diverso in circostanze diverse: una semplice bottiglietta d’acqua da 50ç in situazioni di necessità la pagheremmo anche 5€.
Una variante del bundle pricing è il pricing di gruppo, dove non sono i prodotti a essere raggruppati ma i clienti acquirenti. Anche in questo caso, il primo acquirente è quello che attribuisce in genere il maggior valore al prodotto/servizio, mentre gli altri si aggregano spinti anche dalla maggiore accessibilità del prezzo. La strategia multiprodotto è adottata in genere dai brand premium che – attaccati dai concorrenti in fasce di prezzo più basse – rispondono offrendo una linea di prodotti con un altro brand, che compete su un livello di pricing più basso. Gli esempi sono molti, in tutti i settori. Nel trasporto aereo, Lufthansa ha una compagnia low cost col brand Germanwings. Il gruppo Accor ha ben 6 brand di alberghi (Sofitel, Mercuri, Ibis, ecc). 3M commercializza Highland, oltre al noto Post-it.
In secondo luogo, bisogna tenere separati i diversi clienti, per evitare che tutti accedano al prezzo formulato per il cliente che pagherebbe di meno. Allo scopo, si adottano le tecniche di fencing, mirate a separare i segmenti di clienti. Le strategie di customizzazione del prezzo sono:
L’aspetto più importante di una strategia multiprodotto risiede nella capacità di concepire e prezzare il secondo brand quanto più vicino al limite della cannibalizzazione con il marchio di punta e di aumentare le quote di mercato per il secondo brand a scapito dei concorrenti a basso prezzo.
.. .. .. .. ..
Il secondo brand deve avere un prezzo inferiore tra il 20 e il 40% rispetto al premium brand, con una qualità inferiore, ma senza scendere sotto la soglia di tollerabilità né, ovviamente, sotto quella dei concorrenti low price.
1 pricing non-lineare 2 bundle pricing 3 strategie multi-prodotto 4 revenue management 5 aste
Per quanto riguarda il tipo di brand, le opzioni sono di usare un brand completamente diverso (come appunto Lufthansa e Germanwings), oppure un product name diverso con lo stesso brand (ad esempio, Intel Pentium e Intel Celeron), o infine l’alternativa “by” (Marriott e Courtyard by Marriott). In termini di distribuzione, il secondo brand può essere venduto negli stessi canali del premium brand, ma se c’è il concreto rischio di confusione e sovrapposizione è consigliabile usare canali separati, anche se questa politica comporta spesso un’organizzazione commerciale diversa. value delivery e value extraction attraverso la cessione di un prodotto/servizio al cliente, l’azienda crea valore per il cliente. è la value delivery, o creazione di valore, e dovrebbe sempre essere bilanciata da un equivalente valore che l’impresa ricava dal cliente, in termini di fatturato o di margine. è la value extraction. molte imprese sono eccellenti nella value delivery, ma meno brave nell’estrarre appunto il giusto ritorno dal cliente. molto spesso è proprio nella gestione del pricing che si trova la soluzione per ricevere sempre dal cliente il giusto corrispettivo per il valore che l’impresa eroga. Il revenue (o yield) management esprime il fatturato per ogni unità di capacità disponibile in un determinato arco temporale. Consiste nell’applicazione di tecniche di pricing dinamico, ossia allocare la giusta capacità al giusto cliente nel posto giusto al momento giusto, ottenendo il massimo ricavo possibile. Il tipico esempio è quello delle compagnie aeree low cost, il cui prezzo si basa essenzialmente sul fattore tempo: maggiore è la distanza temporale tra la prenotazione e il volo, minore è la tariffa. La prenotazione a lungo termine infatti impone al cliente una pianificazione del viaggio, che contiene il rischio di avvenimenti successivi che impediscono di usufruire del volo. L’obiettivo è di massimizzare il ricavo medio per passeggero, ma ottenendo anche un utilizzo soddisfacente della capacità di trasporto dell’aereo (load factor). In genere, viene pianificata una curva di vendita con un prezzo che sale all’approssimarsi della data del volo. Ma se le vendite poi nella realtà si rivelano superiori alla curva, il revenue management spinge ad aumentare il prezzo prima del previsto, in modo da massimizzare la quota di passeggeri che paga il prezzo massimo. Le aste sono uno strumento efficace per ottenere un reale customer driven price, in cui ciascun cliente paga esattamente il 100% di quanto è disposto a spendere, ossia il valore che attribuisce
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soggettivamente al prodotto. Poiché l’asta richiede che tutti i clienti siano messi nella condizione di partecipare contestualmente, internet è certamente alla base dell’enorme sviluppo di questo strumento negli ultimi anni, sia nel B2B che nel B2C e nel C2C (eBay). Una variante è l’asta olandese, in cui il prezzo di partenza è volutamente alto e viene progressivamente abbassato dall’offerente, fino a quando uno dei potenziali compratori manifesta la sua volontà di comprare. Anche in questo caso, il venditore ottiene una vendita al prezzo massimo possibile. In conclusione, va sottolineato che una customizzazione del prezzo porta dei miglioramenti di profitto non trascurabili, che vanno dal 10 al 40%. Ma per un’implementazione efficace sono necessarie alcune informazioni base: .. .. ..
il valore attribuito dal cliente al prodotto; l’elasticità al prezzo dei clienti; la struttura di costo del prodotto, anche in presenza di variazioni di volume; l’impatto della logistica sui costi e sull’organizzazione; l’impatto sull’organizzazione del nuovo schema di pricing.
.. ..
l’elasticità della domanda al prezzo è data dal rapporto tra la variazione % dei volumi venduti e la variazione % del prezzo. nel caso del grafico, a una riduzione del prezzo del -20% corrisponde un incremento dei volumi del +30%: l’elasticità della domanda è pari a -1,5. conoscendo questo dato, l’impresa può manovrare il pricing prevedendo i volumi (-20% x -1,5 = +30%).
140 130 120 110 100 90
prezzo - 20% acquisti +30% elasticità= -1,5
80 70 100 €
80 €
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Gennaio 2009, n째 66 Managing brands
65
La Società del Marketing | gennaio 2009
66
titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Managing brands Nancy Koehn Harvard Business School Press, ottobre 2008 The service as differentiator for both service and manufacturer companies - del 30/1/09 Roger Hallowell Harvard Business School
La differenza tra brand e business. Nelle aziende con forti brand, il brand e il business sono legati insieme, al punto che è difficile trovare una linea di demarcazione tra i due. In queste organizzazioni – pensiamo a Google o Apple – c’è la diffusa consapevolezza che il business semplicemente non esisterebbe senza il brand. Il brand definisce l’idea di ciò che l’azienda è, nella sua essenza, e dove si dirige sul mercato. Tutti questi legami portano con sé importanti benefici, tra cui: il coinvolgimento dei dipendenti, una profittevole differenziazione sul mercato, accordo collettivo (a volte inespresso) sui criteri con cui vengono prese le decisioni, significativi vantaggi competitivi (più business e brand sono legati, più è difficile per i concorrenti emularli), alto livello di interesse e fedeltà nei clienti, e la percezione – all’interno come all’esterno – di una organizzazione consistente e coerente. Ma una tale connessione comporta anche dei rischi: se il brand o il business entrano in una fase di sofferenza – specialmente se imprevista – molti aspetti dell’azienda possono indebolirsi. Ad esempio, se il mercato esterno cambia rapidamente, come è successo a Starbucks negli ultimi 18 mesi, allora il brand può essere percepito come più debole o più problematico, rispetto a come lo sarebbe in un’azienda in cui il brand fosse solo uno dei tanti attributi. In verità, il brand resta l’aspetto centrale e vitale dell’organizzazione e dunque il suo strumento migliore per fronteggiare momenti di turbolenza. Ma nei momenti di tensione e confusione questa verità viene dimenticata, ed è compito dei leader dell’impresa di tenere alti gli standard del brand. Il brand e la service profit chain. Ogni impresa ha un brand e ogni impresa ha una service profit chain, a prescindere che il management ne sia consapevole o meno. I due aspetti sono collegati e lo saranno sempre di più. Perché? Perché i consumatori valutano sempre di più i brand in base all’esperienza che hanno avuto con loro. E questa esperienza è più ampia e più ricca dell’acquisto del prodotto o servizio, e altrettanto importante. La customer experience include la sensazione del consumatore quando parla con il servizio clienti, oppure come reagisce quando
apprende che l’impresa sfrutta i lavoratori nei paesi in via di sviluppo, o ancora cosa succede quando si rivolge a un dipendente per chiedere consiglio, senza acquistare il prodotto. In ognuno di questi esempi, la customer experience e la relativa valutazione del brand dipendono dal coinvolgimento, dalla soddisfazione e dalla competenza dei dipendenti dell’azienda. Tutti fattori influenzati, a loro volta, dalla service profit chaine, da come il management intende la relazione tra l’employee satisfaction e la performance dell’impresa sul mercato. Questa crescente sofisticazione dei consumatori, che si basano molto sulla loro esperienza, è un fatto positivo per quelle imprese che tengono in conto la service profit chain (e ne traggono i benefici). Non così per le altre, specialmente quelle guidate da manager che considerano i dipendenti come un centro di costo o che parlano tanto di qualità del servizio mentre offrono delle scarse esperienze alle persone dentro e fuori l’organizzazione. Il brand value è una misura importante. Il brand value è usato soprattutto in contabilità, per indicare il valore del brand come asset. Se ne parla molto quando un’azienda è venduta, ma questo non è né l’unico né il più importante uso del brand value. Avere chiaro il brand value è essenziale proprio nelle decisioni quotidiane che riguardano l’allocazione delle risorse tra i diversi progetti. È curioso osservare che molti manager conoscono in dettaglio il valore di impianti, magazzino, attrezzature IT, investimenti in sviluppo del personale e altri asset, e usano questi valori per orientare le scelte dell’impresa. Ma solo pochi conoscono il valore del brand. Di conseguenza, si sottovaluta il rischio di depauperare il valore del brand, prendendo decisioni che possono apparire economicamente vantaggiose: ad esempio, tagliare i costi del customer service. Il brand e le priorità del CEO in tempi di incertezza. Può sembrare strano, ma in realtà il brand conta di più – non di meno – nei periodi di incertezza economica. Il fatto è che nei periodi di flessione dell’economia, come quello attuale, c’è molta confusione e conseguente paura tra le persone. I consumatori sono preoccupati per i prezzi, per il lavoro e per i flussi di disponibilità economica, così come i manager delle imprese sono preoccupati circa le vendite e i profitti, in assoluto e in confronto all’anno precedente. Così ognuno è alla ricerca di segnali di rassicurazione o almeno di riferimenti certi, su cui orientare le proprie scelte d’acquisto. I brand sono esattamente questo: un punto di riferimento. Per i consumatori, il brand forte significa identità e valore, aspetti che diventano ancora più importanti quando ogni spesa viene riconsiderata, a causa delle difficoltà economiche, siano esse reali o percepite.
Per le imprese, il brand forte rappresenta un faro nella tempesta, che dice ai dipendenti qual' è la missione dell’azienda, da dove viene e quale ruolo vuole avere sul mercato. Sfortunatamente, molti CEO sottovalutano l’importanza del brand in questi periodi. Nella corsa a tagliare i costi, vengono spesso ridotti anche gli investimenti sul brand, ritenuti troppo cari. È comprensibile. Ma è anche miope. Come tutte le relazioni importanti, anche i brand offrono tanti benefici, specialmente in tempi di turbolenza. Solo che non lo fanno a comando o occasionalmente. È il risultato di impegno e investimenti costanti. Dunque, è strategico occuparsi con attenzione dei brand, in questi periodi. Anche perché molti concorrenti taglieranno il loro sostegno ai brand, e così mantenerlo può rivelarsi una mossa fortemente competitiva. Il brand e la fiducia interna. Dalle ricerche emerge che il brand gioca un ruolo importante nel tenere alta la fiducia all’interno dell’impresa. Questo è ancora più vero nelle aziende che hanno brand molto forti. Che a loro volta derivano parte della loro efficacia proprio dalla capacità degli addetti di frontline di comunicarne gli attributi e la value proposition. Sono brand difficili da imitare. E sono aziende che ritengono che i primi clienti da conquistare siano proprio i dipendenti, che devono diventare dei veri discepoli del brand. Prendiamo ad esempio la Ritz-Carlton. Il corso di orientamento dei nuovi dipendenti prevede un vero e proprio “battesimo del brand”, dove vengono coinvolti nella filosofia del servizio dell’azienda: i Ritz-Carlton Gold Standard. Lo scopo è di fare interpretare a ogni dipendente il motto: “Ladies and gentlemen serving ladies and gentlemen”. È un investimento nelle risorse umane e nel servizio, ma in sostanza è un investimento nel brand, visto che sono i dipendenti a gestirlo con i loro comportamenti quotidiani. Il brand come business asset. Di brand si cominciò a parlare a cavallo tra la fine dell’800 e i primi del ‘900, al tempo della grande industrializzazione negli Stati Uniti e in alcuni altri paesi. Aziende come Coca-Cola, Ford e Gillette iniziarono a produrre e distribuire prodotti di largo consumo a milioni di famiglie. Per distinguersi dai concorrenti, investirono in packaging, pubblicità, reti di vendita e – in alcuni casi – nel training ai dipendenti. Ancora non usavano la parola “brand”, ma molti leader sapevano di avere nelle mani qualcosa che i consumatori riconoscevano e attribuivano ai loro prodotti, e si impegnarono per aumentare e rafforzare quel qualcosa.
Negli anni ’30 e ’40 la consapevolezza circa l’essenza del brand aumentò moltissimo, grazie a uomini come Neil McElroy della Procter&Gamble. Egli creò un team all’interno dell’azienda dedicato alla gestione dei brand, sotto cui commercializzare le diverse linee di prodotti. Questa dimensione del brand come business asset resterà tale per quasi tutto il secolo: elementi importanti per l’attività dell’impresa, anche se gli investimenti sul brand saranno accordati sempre con maggiore difficoltà che non per gli altri fattori dell’attività. Recentemente, questa concezione del brand è diventata più complessa. Molte imprese hanno compreso che l’asset rappresentato dal brand trascende il marketing ed è collegato ad altri fattori chiave del business, quali la capacità di attrarre e trattenere i talenti migliori, la percezione degli analisti finanziari, le relazioni con i fornitori e la copertura dei media. L’incubo dei marketing manager. Le imprese oggi sono dei palazzi di vetro. I consumatori non si interessano più solo a cosa l’impresa offre, ma anche a come lo produce e lo offre. L’uso di un certo personale in un paese del sud-est asiatico diventa l’argomento scandalistico per chat e blog su internet. I media poi sono costantemente alla ricerca di notizie scandalistiche. Allora torna buono il vecchio adagio: la miglior difesa è l’attacco. Quando l’attività dell’impresa è così esposta ai riflettori, le cose da fare sono: ..
Gestisci l’attività in modo etico e intelligente
..
Sii al corrente di come l’attività è gestita, dalla cima al fondo della supply chain
..
Comunica l’informazione sulla tua attività prima che lo facciano gli altri, raccontando la storia a modo loro, nei tempi loro e in genere omettendo informazioni importanti
La capacità di comunicare è un fattore critico per gestire un brand.
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Marzo 2009, n째 68 How to build top-performing auto dealerships
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La Società del Marketing | marzo 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
How to build top-performing auto dealerships Carlos Caicedo, Mark Mitchke and Jon Vander Ark The McKinsey Quarterly, May 2007 Ripensare il marketing automobilistico dopo la crisi - del 20/3/09 Leonardo Buzzavo Università Ca' Foscari
Se i costruttori di automobili e i concessionari imparassero a collaborare di più ne beneficerebbero entrambi.
forti, dimensioni minime e zone disagiate) ma semplicemente al livello medio del mercato. Piuttosto, l’indicazione preziosa emersa dalla ricerca è che il risultato delle migliori concessionarie (le “top-performing”) deriva in egual misura da altri fattori, che non sono né statici né estranei alle politiche operative di gestione della concessionaria. ..
1.Talent management. Tutti i concessionari mostrano una scarsa capacità di selezionare e/o trattenere le migliori risorse. Però, mentre i “top-performing” hanno un turnover del 54%, per quelli che si posizionano nel quartile inferiore (il 25% con i risultati meno brillanti) il turnover arriva al 71%. Scendendo nelle pratiche operative, si scopre che tra i migliori concessionari è più diffusa l’abitudine a usare programmi strutturati di gestione dei talenti, come ad esempio processi di selezione fatti di più interviste, programmi di training e piani di incentivazione a lungo termine. Al contrario, la media dei concessionari (e segnatamente quelli meno performanti) presta scarsa attenzione alla selezione e spesso i titolari non sono neanche coinvolti nelle decisioni di assunzione.
..
2.Customer loyalty. Alcuni dealer prestano poca attenzione a cose che possono aumentare la fedeltà dei loro clienti. Si tratta ad esempio di far visitare agli acquirenti di auto tutta la struttura, oppure di inviare loro dei messaggi per ricordare l’esito del precedente tagliando, incoraggiandoli così a fissare l’appuntamento per il successivo. Grafico 2.
È la conclusione di una ricerca condotta da McKinsey insieme al NADA (National Automobile Dealers Association). Oltre a 15 colloqui in profondità, sono state realizzate 700 interviste a un campione rappresentativo di concessionari USA. Le risposte dei dealer sui processi operativi delle loro concessionarie sono state poi associate alle rispettive performance finanziarie, per trovare le possibili correlazioni. Dall’analisi emerge che un gruppo di concessionarie “top performing” mostra un indice di profittabilità pre-tax pari al 6.6%, mentre la media di tutte le concessionarie non va oltre un indice del 2.0%. Lo studio ha dimostrato che c’è una forte relazione tra le politiche operative delle concessionarie e i risultati economico-finanziari che produce. Alcuni fattori che influenzano la profittabilità della concessionaria sono: .. .. ..
Come si sa, incrementare le visite dei clienti in assistenza aumenta la profittabilità della concessionaria e riduce i costi necessari ad acquisire nuovi clienti, sia per il dealer che per il costruttore.
Il brand che vendono La dimensione della concessionaria La zona in cui operano
Si tratta di elementi chiave, che possiamo definire “statici” (immutabili nel breve/medio periodo), ma che restano in gran parte al di fuori del controllo diretto del dealer. Tuttavia, confrontando le caratteristiche dei concessionari “top-performing” con la media di tutti i concessionari, scopriamo che l’impatto di questi fattori (brand, dimensioni e zona) giustifica poco più di 2 punti percentuali del gap di EBIT (6.6% vs 2.0%), come si vede dal grafico 1. Certo, non è una sorpresa che una fortunata combinazione di brand venduti, dimensioni della concessionaria e caratteristiche demografiche della zona di mercato in cui opera contribuisca a raddoppiare il risultato economico rispetto alla media delle concessionarie. Da precisare che per la media delle concessionarie questi fattori non figurano al loro livello più basso (brand meno
..
3.Planning. I dealer più profittevoli mostrano di spendere più tempo insieme ai field managers della casa per progettare le strategie future, per rivedere l’andamento del business e per fare coaching e pianificazione a lungo termine. Grafico 3. Mentre i dealer meno profittevoli spendono la gran parte del tempo con i field managers a trattare quante macchine ritirare e vendere.
I concessionari possono fare molto per migliorare le loro attività operative, ma lo studio mostra che i costruttori possono fare altrettanto, forse anche di più, soprattutto quando si tratta di capire quali specifiche situazioni si trovano a fronteggiare i dealer. Circa due terzi del campione ha dichiarato che i field managers delle case non sono abbastanza preparati da aiutarli a migliorare nelle loro attività.
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In genere, quando invece i field manager conoscono le minacce che i dealer si trovano ad affrontare e sono in grado di dare consigli preziosi, tutta la credibilità del costruttore ne guadagna. Per molti costruttori, il primo passo da fare sarebbe un training migliore dei loro field manager. I risultati ripagherebbero lo sforzo: stando ai risultati dell’indagine, il 58% dei dealer “top-performing” ha raggiunto o superato il target di vendite, mentre solo il 36% dei meno brillanti c’è riuscito.
better practices, bigger profits
grafico 1
correlation of selected factors with auto dealerships performance, net profit before tax as % of sales average performers net profit before tax (with average contribution of static factors)
grafico 2
% of respondents who chose "always" or "very frequently" by performance quartileB
2.0
top quartile
bottom quartile
promoting initial service visit
0.3
do you offer tours of service facilities?
0.9 internal dealership practices · talent management · customer loyalty · performance planning
1.0
60
2.3 6.6
top performers' net profit befor tax (with most favorable contribution of static factors plus contribution of selected practices) most favorable contribution of static factors
service with smile
do you hold clinics (eg, im car maintenance)?
78
33 16
encouraging repeat service visits do you follow up with customer after service appointments?
region, demographics
59
brand(eg.domestic or foreign ) size, structure of dealership
do you remind customer of previous inspection results?
81 42
63
spending time wisely
grafico 3
% of time spent by automakers' field representatives, by performance quartileB taking orders, managing new-car allocations top quartile
2nd quartile
40
3rd quartile bottom quartile
44
31
coaching, performance reviews, long-term business planning
25
28 23 22
35
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Aprile 2009, n째 69 Should you invest in the long tail?
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La Società del Marketing |aprile 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Should you invest in the long tail? Anita Elberse Harvard Business Review, aprile 2009 Relationship marketing and the role of perspective taking - del 17/4/09 Albert Caruana University of Malta
La strategia dei best seller è il frutto delle ragioni della logistica e della distribuzione: dato che lo spazio nei negozi e nei canali distributivi tradizionali è limitato, e rivenditori e distributori vogliono massimizzare la redditività degli spazi, i produttori concentrano le risorse di marketing (e l’offerta – in primis) su un numero ristretto di potenziali best seller, prodotti/modelli/ versioni che incontrano le preferenze del maggior numero di clienti. Distribuendo su un grafico le vendite per singolo prodotto, da quello che vende di più a quello che vende di meno, si forma un’area con una coda: lo spessore e la lunghezza della coda indicano quanto i prodotti meno “gettonati” riescano a vendere.
Il grafico mostra a sinistra i pochi prodotti dominanti (che ricevono la maggior parte degli investimenti di marketing) e a destra la lunga coda dei prodotti di nicchia. Nel 1995 gli economisti Robert Frank e Philip Cook (The winner-take-all society) giustificavano questa strategia col fatto che, data l’ampiezza e la velocità delle comunicazioni, probabilmente i gusti e le abitudini d’acquisto dei consumatori tendono a convergere, poiché le persone sono intrinsecamente sociali e danno valore al fatto di apprezzare gli stessi prodotti che molti altri apprezzano. In base a queste osservazioni, l’indicazione per le imprese è che i prodotti di successo (superstar) sopravanzano sempre più il gruppo degli altri prodotti. Tuttavia, negli ultimi anni è emersa la teoria della “coda lunga” che afferma il contrario (Chris Anderson, The long tail: why the future of business is selling less of more).
Tale teoria si basa su due concetti essenziali: ..
Gli assortimenti disponibili per il grande pubblico sono in espansione, perché il commercio elettronico ha rimosso il vincolo dello spazio espositivo (costo scaffale) e del costo del magazzino (centralizzato). I prodotti non redditizi per il commercio fisico sono invece molto interessanti per quello elettronico.
..
La disponibilità di prodotti di nicchia attira le preferenze dei consumatori, spostando la concentrazione delle vendite verso questi prodotti, a scapito di quelli ritenuti di maggior successo.
La conclusione è che i prodotti di nicchia eroderanno buona parte della quota di mercato detenuta ora da pochi prodotti di successo, in quanto i consumatori si distribuiranno creando una frammentazione nei mercati. Grazie al fatto che il commercio elettronico rende facilmente disponibili tutti i prodotti di nicchia (che nei canali tradizionali non trovano spazio perchè poco redditizi), molti consumatori abbandoneranno i best seller in favore di prodotti (modelli/versioni) più a misura dei propri gusti individuali. Il grafico mostra la tipica distribuzione delle vendite nei canali tradizionali (curva scura) e la curva (chiara, più piatta) delle vendite on-line, dove i prodotti nella parte destra del diagramma aumentano le vendite, erodendole ai prodotti di successo concentrati nella parte sinistra. Per un’impresa, orientarsi in base all’una o all’altra teoria è importante. I produttori devono decidere sugli investimenti di marketing e sullo sviluppo di nuovi prodotti, mentre i rivenditori devono decidere quanto ampio e quanto profondo deve essere l’assortimento. Anita Elberse, docente della Harvard Business School, ha condotto una serie di ricerche empiriche sul mercato dei prodotti digitalizzati (musica e video), le cui conclusioni la portano a confutare la teoria della long tail. Un’analisi sulle vendite settimanali di home video registrate da Nielsen VideoScan mostra le seguenti dinamiche: ..
Le vendite si spostano effettivamente verso la coda, nel senso che aumenta il numero di titoli che vendono una o poche copie, ma questi volumi sono appunto talmente esigui che non riescono a rubare quote significative ai titoli di successo. In altre parole, la coda si allunga, sì, ma non cresce di spessore.
quelli di successo. L’idea che i prodotti sconosciuti siano dei piccoli tesori è falsa. Anche nei canali on-line si conferma che i prodotti di successo restano dominanti, anche tra i consumatori che si avventurano verso la parte marginale della coda, e risultano comunque più apprezzati di quelli sconosciuti. L’indicazione operativa per le imprese è che sarebbe imprudente abbandonare il sostegno ai prodotti best seller in favore dei prodotti meno conosciuti. Consigli per i produttori. ..
Non sovvertite radicalmente l’allocazione delle risorse sui best seller, né le strategie di gestione del portafoglio prodotti. Pochi vincenti faranno sempre molta strada, probabilmente più di prima.
..
Se producete articoli di nicchia per la coda lunga della distribuzione, tenete i costi bassi. Le probabilità di successo non sono alte e vanno diminuendo.
Inoltre, l’indagine approfondisce la composizione delle vendite nella long tail, per capire quali sono i consumatori che si rivolgono ai prodotti di nicchia.
..
Se cercate di consolidare la presenza sui canali digitali, concentrate gli sforzi di marketing sui prodotti più conosciuti.
Contrariamente alle aspettative, emerge che le vendite della long tail provengono da numerosi consumatori che solo occasionalmente scelgono prodotti di nicchia, mentre per la maggioranza degli acquisti si orienta invece sui best seller. A posteriori, le valutazioni di gradimento confermano che i titoli di successo piacciono in genere più di quelli di nicchia.
Consigli per i rivenditori.
È la conferma della nota “teoria dell’esposizione” di McPhee, il quale sostiene che:
..
Contemporaneamente, i titoli più venduti si sono dimezzati, mostrando una crescente concentrazione delle vendite su un numero di prodotti sempre minore.
In conclusione l’importanza dei best seller non diminuisce ma anzi aumenta, con una concentrazione tipica dei mercati winner-take-all.
..
..
I prodotti di successo devono una gran parte delle vendite a consumatori occasionali, che si avvicinano al prodotto anche perché attratti da quello di successo. I prodotti di nicchia devono le loro vendite a consumatori molto informati, che hanno un ventaglio di alternative e che poi consumano anche prodotti di successo (e li apprezzano di più).
In pratica, i consumatori meno esperti di una merceologia, che dunque considerano poche alternative, si orientano prevalentemente verso i prodotti di successo (monopolio naturale). I consumatori più esperti, che invece hanno alternative, sono quelli che acquistano anche prodotti di nicchia, ma giudicano migliori
..
Se lo scopo è soddisfare i clienti migliori, allora ampliate l’assortimento con più prodotti di nicchia.
..
Acquisite e gestite i clienti usando i prodotti più noti.
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Anche se i prodotti sconosciuti possono avere margini di profitto superiori, resistete alla tentazione di indirizzare troppo spesso i clienti verso la coda, perché il rischio di insoddisfazione è maggiore.
In conclusione, l’allungamento della coda è confermato, ma anche il suo appiattimento: i consumatori esperti vi troveranno prodotti che sono un diversivo, ma confermeranno il loro favore e gradimento per i prodotti best seller. Pertanto, è molto discutibile che i prodotti in fondo alla coda lunga possano ottenere grandi guadagni, anche nelle vendite on-line.
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Maggio 2009, n째 70 Choosing strategies for change
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La Società del Marketing |maggio 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Choosing strategies for change John P. Kotter & Leonard A. Schlesinger Harvard Business Review, July-August 2008 La Comunicazione e le relazioni one-to-one nei grandi eventi - del 20/5/09 Raffaele Cercola Luiss Guido Carli
“Debbasi considerare come non è cosa più difficile a trattare, né più dubia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini”. (Niccolò Machiavelli, Il Principe). Il tasso di cambiamento, già rapido, che caratterizza il mondo del management, è in continua accelerazione. Nuove normative, nuovi prodotti, crescita, intensificazione della concorrenza, sviluppi tecnologici e una forza lavoro in evoluzione costringono le organizzazioni a intraprendere regolarmente un certo cambiamento. Ma pochi cambiamenti radicali vengono accolti a braccia aperte dai datori di lavoro e dai lavoratori; essi si traducono spesso in transizioni prolungate, nella caduta del morale, in un disagio emotivo e in un costoso impegno di tempo per il management. I manager, anche esperti e consapevoli di tali difficoltà, dedicano in genere poco tempo e attenzione – prima di lanciare un processo di cambiamento – a valutare chi potrebbe opporre resistenza all’iniziativa di cambiamento e per quali motivi. È normale che le persone facciano resistenza al cambiamento. Le motivazioni più comuni sono: ..
1 Il desiderio di non perdere una posizione di valore o di potere.
..
2 La difficoltà di comprendere i benefici e le motivazioni del cambiamento. Questa sensazione ricorre particolarmente quando manca la necessaria fiducia tra i destinatari e i promotori del cambiamento.
..
3 Valutazioni diverse circa l’opportunità e/o le modalità del cambiamento. I manager che avviano un cambiamento, spesso presumono di essere in possesso di tutte le informazioni importanti necessarie per un’analisi adeguata, e pensano che anche le altre persone coinvolte dispongano degli stessi dati. Nessuna di queste supposizioni è corretta. Entrambi i gruppi lavorano su informazioni diverse
e le rispettive analisi giungono a conclusioni diverse. È possibile che le analisi di chi si oppone al cambiamento siano più aderenti alla realtà: in tal caso, combattere l’opposizione è un errore. ..
4 Scarsa tolleranza al cambiamento. Le persone temono di non essere in grado di sviluppare le nuove competenze richieste. In generale, tutti gli esseri umani tendono a consolidare le posizioni, piuttosto che cambiarle. Secondo Peter Drucker, l’ostacolo più grande per la crescita dell’impresa è l’incapacità dei manager a cambiare i propri comportamenti e attitudini con la rapidità richiesta.
Di fronte alle resistenze al cambiamento, molti manager sottovalutano l’efficacia di tattiche che invece possono influenzare positivamente persone e gruppi coinvolti nel cambiamento. Informazione e comunicazione. Comunicare le idee aiuta le persone a percepire la necessità e la motivazione del cambiamento. Partecipazione e coinvolgimento. Coinvolgendo prima i potenziali oppositori, è possibile prevenire le resistenze, specialmente quando i promotori ascoltano i soggetti coinvolti e utilizzano i loro consigli. Questa tattica è molto utile quando i promotori del cambiamento ritengono di non avere tutte le informazioni necessarie o quando hanno bisogno dell’impegno di altri per realizzarlo. Agevolazione e supporto. L’opposizione al cambiamento può essere superata anche semplicemente offrendo alle persone l’opportunità di acquisire competenze nuove (corsi di formazione) o dando loro un sostegno emotivo che faccia riguadagnare fiducia in se stessi. Negoziazione e accordi. Offrire incentivi e privilegi agli oppositori è un metodo semplice, ma può rivelarsi costoso. Manipolazione e cooptazione. Cooptare un leader della resistenza al cambiamento nel gruppo dei promotori, affidandogli un ruolo chiave nel progetto, può essere efficace. A differenza della partecipazione, alla persona non si chiede di partecipare con idee e pareri, ma solo di sostenere attivamente il cambiamento. È una tattica relativamente semplice, ma molto delicata nell’esecuzione, perchè i leader cooptati potrebbero reagire negativamente oppure non essere più riconosciuti come tali.
Coercizione implicita o esplicita. Imporre un cambiamento con la minaccia, più o meno velata, di penalizzare le persone che fanno resistenza. Il rischio è di far aumentare le resistenze ma di non farle manifestare apertamente, rendendole ancor più difficili da superare. L’errore più comune dei manager è di avvalersi di una sola tattica, indipendentemente dalla situazione, agendo più in base al proprio stile di management. L’altro errore comune è quello di procedere in modo sconnesso, promuovendo e attuando il cambiamento senza una strategia ben delineata. Le opzioni strategiche possono essere rappresentate come uno spettro continuo, che va dall’intervento più rapido, netto e deciso a quello più lento, coinvolgente e meno rigidamente definito. Coercitivo l’uno, consensuale l’altro. .. La scelta di dove posizionare – tra i due estremi – la propria strategia di cambiamento dipende molto dalle situazioni specifiche che il cambiamento si trova ad affrontare. ..
a. La quantità e il genere di opposizione prevista. Più è difficile, più si dovrà andare verso un approccio lento e coinvolgente.
..
b. La posizione dei promotori rispetto agli oppositori, specialmente nei rapporti di potere. Meno potere ha il promotore del cambiamento, più deve puntare sul coinvolgimento degli altri.
..
c. Chi dispone dei dati fondamentali per progettare il cambiamento e dell’energia per attuarlo. Più si dipende dagli altri, più occorre coinvolgerli.
..
d. La posta in gioco. Più il cambiamento è necessario e urgente per superare una crisi o per sopravvivere, più serve un intervento rapido e deciso.
Tendenzialmente, se la situazione lo consente, è consigliabile per un manager adottare una strategia più morbida e meno traumatica. Operativamente, un manager deve promuovere il cambiamento facendo attenzione a non tralasciare alcuni passaggi importanti. ..
Identificare i problemi e la rapidità del cambiamento richiesto.
..
Individuare chi potrebbe fare resistenza e perché; chi ha le informazioni giuste e chi può cooperare.
..
Selezionare una strategia di cambiamento.
..
Monitorare il processo, per reagire in maniera intelligente agli eventuali imprevisti
Naturalmente, questa analisi e le sue indicazioni si basano alla fine sulle capacità interpersonali. Ma nessuna capacità potrà compensare la scelta di una strategia inefficace e inopportuna.
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metodi per affrontare l'opposizione al cambiamento tattica
utilizzata di solito in situazioni in cui
vantaggi
svantaggi
istruzione e comunicazione
informazioni carenti o imprecise e analisi sbagliate
una volta persuase le persone saranno più collaborative
partecipazione e coinvolgimento
i promotori non hanno tutte le info necessarie e gli oppositori hanno un forte potere
agevolazione e supporto
resistenze per problemi di adeguamento gli oppositori - che hanno potere - vanno incontro a delle perdite altre tattiche sono costose o non valide
chi partecipa viene coinvolto nell' attuazione del cambiamento e tutte le info che ha vengono integrate nel piano
richiede molto tempo se vengono coinvolte molte persone richiede molto tempo se chi partecipa progetta un cambiamento inappropriato
negoziazione e accordi manipolazione e cooptazione coercizione esplicita e implicita
nessun altro approccio funziona meglio a volte è un modo semplice di evitare i contrasti è una soluzione rapida ed economica
è rapida e può vincere qualsiasi la velocità è essenziale e il promotore ha molto potere resistenza
richiede tempo e denaro e può fallire costoso se le persone approfittano della negoziazione problemi futuri se le persone percepiscono di essere manipolate rischioso se gli oppositori si irritano con i promotori
il continuum strategico
più rapido
più lento
pianificato con chiarezza
non pianificato con chiarezza all'inizio
scarso coinvolgimento di altri
coinvolgimento di molte altre persone
tentativo di vincere le opposizioni
tentativo di minimizzare le opposizioni
principali variazioni situazionali la quantità e il tipo di opposizione prevista la posizione dei promotori del cambiamento nei confronti degli oppositori (potere, fiducia, ecc.) chi dispone dei dati fondamentali per progettare il cambiamento dell' energia necessaria per attuarlo la posta in gioco (ad esempio, la presenza di una crisi, le conseguenze dell'opposizione e del mancato cambiamento)
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The bankruptcy of General Motors Briefing The Economist, June 6th 2009 I brand di nicchia: penetrazione e fedeltà del 2/7/09 Alberto Marcati Luiss Guido Carli
Il 1° giugno il tribunale di Manhattan ha dichiarato l’applicazione del Chapter 11 per la GM, una corporation con 101 anni di storia e questi numeri: ..
Oltre 9 milioni di auto e light truck prodotti nel 2008 in 34 paesi
..
463 società che danno lavoro a 234.500 persone, di cui 91.000 in America
..
493.000 pensionati solo in America, a cui fornisce pensione e assistenza sanitaria
..
476 milioni di dollari di stipendi pagati ogni mese, solo in America
..
50 miliardi di dollari all’anno di acquisti, da 11,500 fornitori, solo in America
..
$82 miliardi di assets vs 172 miliardi di debiti
Quando nel 2008 Fritz Henderson, allora CFO, cercò di piazzare un bond o delle azioni GM per avere un po’ di liquidità, nessuno espresse disponibilità a prestare soldi o comprare asset da GM a un prezzo che fosse accettabile e utile. Eppure, nell’autunno 2007 la GM – e anche gli analisti di settore – riteneva di potercela fare, con 3 anni di forti perdite e dolorose ristrutturazioni. driven abroad gm's light-vehicle sales, m united states
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rest of the world 10 8 6 4 2 0
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source: company reports
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Alla base di tale ottimismo c’era un accordo col sindacato United Auto Workers (UAW) per trasferire i debiti legati all’assistenza sanitaria a un fondo fiduciario del sindacato e ridurre paga e benefit dei nuovi assunti, in linea con il trattamento che ricevevano gli addetti degli stabilimenti americani dei costruttori giapponesi (Toyota e Honda). Molti impianti GM avevano quasi colmato il gap di efficienza che avevano verso Toyota, cominciando a sfornare alcune buone macchine, tipo la Buick Enclave e la Chevrolet Malibu. La Chevrolet Volt, poi, un’auto elettrica rivoluzionaria, prevista per il 2010, avrebbe fatto impallidire la Toyota Prius. Così, malgrado i tagli agli incentivi ai dealer e alle vendite alle società di noleggio, la quota di GM stava risalendo, dopo anni di flessione costante. Infine, c’erano i successi all’estero, dove GM faceva il 65% del fatturato. Forte in America Latina era sempre stata, e ora stava raccogliendo i frutti di aver puntato per prima su Russia e Cina. Purtroppo, alla fine del 2007, è scoppiata la bolla immobiliare dei mutui: la domanda di auto è crollata e quei clienti disposti a comprare hanno trovato difficoltà a farsi finanziare l’acquisto. Oltre a ciò, l’impennata del petrolio ha portato la benzina a 4$ al gallone, con pesanti conseguenze: ..
Le vendite di pickup e SUV sono svanite e con esse gran parte dei profitti di GM
..
I valori residui delle auto che consumano molto sono crollati, causando forti perdite a fine leasing per la finanziaria della GM
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a vita e buone pensioni. Con i due grandi concorrenti, Ford e Chrysler, costretti a fare altrettanto, e senza concorrenza da parte di altri costruttori, fu facile mascherare tali inefficienze. Negli anni ’60, con una quota di mercato oltre il 50%, i top managers di GM erano più preoccupati ad evitare interventi antitrust. Le crisi petrolifere degli anni ’70 aprirono il campo ai giapponesi, che producevano auto a basso consumo e di qualità migliore. GM tentò anche una partnership con Toyota, per produrre auto in California, da cui comprese l’importanza dell’efficienza e della lean production, ma non quella della qualità del prodotto. GM cominciò a produrre auto piccole, brutte e di scarsa qualità, sulle quali si guadagnava poco. La concorrenza delle giapponesi, che invece avevano almeno un’affidabilità superiore, impose di abbassare i prezzi, riducendo il margine ulteriormente. Non appena il petrolio scese, GM si concentrò su pick-up e SUV, dove i margini erano più alti e consentivano di assorbire il peso della copertura sanitaria e pensionistica, che stava arrivando al livello odierno: un costo extra di 1400$ a macchina.
the long skid gm's share of the us light-vehicle market %
2
45 40
Dopo 4 anni di ristrutturazioni e $80 miliardi di perdite, GM non aveva più carte da giocare.
35 30
Ma dov’è che tutto è andato storto? In un certo senso, i problemi di GM si possono far risalire addirittura alle sue origini, un secolo fa. Il suo fondatore, Billy Durant, tra il 1908 e il 1920 acquistò 39 società, tra cui Cadillac, Pontiac, Oldsmobile e Chevrolet, ma le gestì come entità separate. Nel 1923 Alfred Sloan prese la GM - arrivata sull’orlo del fallimento – e impose stretti controlli finanziari, ma senza riuscire a farne un’unica azienda. Mentre si espandeva all’estero, anche acquistando la Vauxhall e la Opel, le varie divisioni continuavano a operare come aziende indipendenti, facendosi anche concorrenza e resistendo al controllo centrale. Ma nel dopoguerra GM andava così bene da siglare con il sindacato un accordo di scala mobile, la copertura sanitaria
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sources: company reports; automotive news
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Dopo due crisi e altrettante ristrutturazioni, negli anni 2000 Rick Wagoner, il nuovo CEO, non aveva altra scelta per generare cash che tenere la produzione elevata pompando le vendite con incentivi ai dealer, credito al consumo a buon mercato e forti sconti alle flotte. Ma queste politiche a loro volta penalizzavano i valori residui e danneggiavano i brand della GM.
nel 1989, quando il ceo di gm roger smith (“il peggior manager della storia dell’auto” secondo la cbs) andò in pensione, l’Economist pubblicò un articolo da cui citiamo alcuni brani. roger smith's legacy
La fine è nota. La nuova GM è al 60,8% del Governo, che non intende gestirla, pur avendo messo 50 miliardi di dollari. Il governo canadese, che ha messo 9,5 miliardi, avrà l’11,7%. I sindacati avranno il 17,5% e i titolari dei bond il 10%. Sarà alleggerita di 14 stabilimenti, 2400 dealer, 8000 impiegati e 79 miliardi di debiti. Ora, nessuno si illude che la nuova GM possa tornare agli splendori di una volta. Ma ci sono dubbi che possa anche farcela a sopravvivere da sola. 1.
Anche dopo l’uscita di Wagoner, GM non ha manager di visione, capaci di dare la scossa e cambiare l’approccio burocratico.
2.
La revisione delle coperture sanitarie concordata con i sindacati comporta comunque un esborso di 60 milioni di dollari all’anno come dividendi che, nell’ipotesi rosea di vendere 2 milioni di auto in America, graveranno ogni auto di 300$ di extra costo.
3.
Con meno brand e meno dealer, e con concorrenti aggressivi, la quota di mercato difficilmente si attesterà sull’obiettivo del 18,5%, appena un punto sotto quella del 2009.
4.
Avendo nel Governo il maggior azionista, è probabile che GM sarà incline a produrre le auto che piacciono a Obama (piccole che consumano poco), che però non sembra voler convincere gli americani a comprarle aumentando di molto le tasse sui carburanti.
5.
I brand GM sono deboli e questo si riflette sui prezzi, inferiori da 3.000 a 10.000 dollari rispetto agli stessi modelli Toyota. Il fallimento peggiorerà la brand image e i clienti orientati a un acquisto “patriottico” privilegeranno Ford, che lotta per farcela con le sue forze.
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us car market share % of total
gm's capital expenditure
*
12 $bn 8 4
* excludes acquisition of hughes
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general motors
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0
ford chrysler forecasts
1980 81 82 83 84 85 86 87 88 89 90 91 92 93 94 bloccata da una burocrazia sclerotizzata, gm ha assistito al declino della quota da 46% (1980) a 35% (1989). Se non troverà il modo di invertire il trend, gli anni ’90 saranno l’ultimo decennio. i giapponesi in America costruiscono auto a $500-800 di minor costo rispetto ai costruttori americani. dato che la qualità, il design e il marketing delle loro auto sono migliori, non devono offrire uno sconto di $1.500 al mercato, che sta distruggendo i margini dei costruttori americani. gm ha una cultura che resiste al cambiamento. i beans counters dettano legge. il prossimo ceo, per invertire il declino, dovrebbe riformare completamente il management di gm, che è un club esclusivo. è probabile che il prossimo chairman sarà scelto tra una mezza dozzina di top executive, fedeli e con una lunga carriera interna alle spalle.
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Settembre 2009, n째 73 The game has changed
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La Società del Marketing | settembre 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The game has changed New York Office The Economist, August 22nd 2009 Le vendite di fronte ai nuovi scenari della distribuzione del 24/9/09 Luca Pellegrini IULM
Il comparto dei beni di largo consumo è storicamente molto attento agli stili di vita dei suoi consumatori, da cui dipendono i loro comportamenti d’acquisto. Poiché tali abitudini sono in continua evoluzione, gli operatori sono allenati a confrontarsi con il cambiamento continuo dell’offerta. La capacità di stimolare le scelte dei consumatori con proposte sempre nuove è tra le principali leve competitive di aziende come Unilever, P&G, Colgate e Johnson. Investire in innovazione è ritenuta una strada per assicurarsi la crescita delle vendite e dei profitti. Tuttavia, questa attitudine all’innovazione e al cambiamento – adottata come strategia competitiva – deve oggi confrontarsi con un cambiamento diverso, inatteso e brusco: la recessione economica globale. Molte importanti multinazionali dei FMCG (fast moving consumer goods) stanno riportando flessioni a due cifre sia nelle vendite che nei profitti (P&G -18% e Unilever -17% – ma non va meglio per Colgate, Sara Lee o Kimberly-Clark.) Le aziende e le divisioni specializzate nei prodotti alimentari (come Nestlè, Kraft e Kellogg) stanno facendo meglio di quelle operanti nella detergenza e nella cosmesi, ma solo perché la crisi ha spinto le persone a consumare più pasti in casa. Gli analisti sono soprattutto preoccupati che, anche dopo che la crisi sarà passata, ci potrebbero volere anni prima che i profitti tornino ai livelli di prima. Il fatto sorprendente è che questo settore era ritenuto da molti a prova di recessione: la gente può fare a meno di comprare un Rolex o una bottiglia di champagne, ma non rinuncerà mai alla carta igienica e al sapone. Il punto è che le vendite di queste multinazionali sono crollate anche perché le scelte dei consumatori si sono orientate di più verso le “private label”, ossia i prodotti offerti dalle grandi catene di distribuzione con il proprio brand o con un brand di fantasia. Prodotti che hanno un prezzo intorno al 25% più basso rispetto ai prodotti di marca e – pertanto – hanno buon gioco presso i consumatori attenti al risparmio, che oggi sono in aumento. Ma c’è anche dell’altro. Prodotti che prima venivano considerati in modo speciale, come ad esempio i deodoranti per ambiente
o il sapone per pelli sensibili, oggi tendono a essere trattati dai consumatori come tutte le altre commodities. L’aumento dei prezzi intorno al 20% imposto dalle grandi marche a seguito dell’aumento delle materie prime – proprio nella congiuntura meno adatta – ha accelerato questo trend. I distributori, dal canto loro, hanno incoraggiato l’attenzione dei consumatori verso i loro prodotti più economici (su cui peraltro i loro margini sono maggiori), dando più spazio e visibilità sugli scaffali, a scapito dei prodotti di marca, limitando ancor più la capacità attrattiva di questi ultimi verso il pubblico. In due tra le più grandi catene americane, WalMart e Kroger, la quota di mercato delle private label è il 20% e il 35%, rispettivamente. Nell’ultimo anno, le private label hanno aumentato le vendite del 9% in America e del 5% in Europa, rubando quota di mercato alle marche in molte categorie merceologiche. Le marche più esposte e più vulnerabili all’attacco delle private label sono quelle posizionate al centro, in termini di prezzo o di vendite. Invece, le marche best selling e quelle premium price non sembrano perdere molta quota di mercato, anche in Germania, il paese dove le marche private sono più diffuse, con il 40% del mercato. Molti esperti prevedono che questa abitudine a preferire le marche private durerà ben oltre la congiuntura di crisi. C’è chi sostiene che almeno metà dei consumatori che hanno in questi mesi orientato alcuni consumi verso le private label non tornerà indietro. La qualità di questi prodotti è migliorata, al punto che è difficile per i consumatori rilevare differenze rispetto agli equivalenti ma più costosi prodotti di marca, specialmente quando si tratta di commodities come i tovaglioli di carta o il latte. Eppure, non tutte le aziende di FMCG stanno soccombendo all’attacco delle private labels. Reckitt Benckiser sta aumentando le vendite (+8%) e i profitti (+14%). Il più grande produttore mondiale di pulitori per la casa ha addirittura incrementato i target di vendita e di profitti, laddove colossi come P&G e Unilever li hanno ridimensionati. Questa divergenza non riguarda solo l’attuale congiuntura, ma viene da più lontano: nel periodo 2005-2008, Reckitt ha aumentato il fatturato del 9%, P&G solo del 5% e Unilever del 6%. Le ragioni del successo di Reckitt si trovano nel management, nel marketing e nel posizionamento dei suoi brand. Management. La catena di comando è sorprendentemente corta. Ci sono solo uno o due manager tra il CEO e i suoi responsabili del
marketing nelle diverse regioni del mondo. Ciò consente di prendere decisioni molto più rapidamente dei suoi concorrenti. Reckitt è in grado di trasformare un’idea in un prodotto sugli scaffali in appena nove mesi, dove i concorrenti impiegano almeno un anno, se non di più. Marketing. Reckitt sostiene che i consumatori sono ancora molto disponibili a lasciarsi convincere a pagare di più per un prodotto di marca. Nel 2008, quando i rivali già stavano tagliando le spese di marketing, Reckitt le ha aumentate del 25%, facendo ovviamente grandi sforzi per mantenere tutti gli impegni di budget. Posizionamento. Reckitt vende quattro versioni di Finish a prezzi differenti: l’ultimo e più sofisticato, Finish Quantum, costa quasi il doppio rispetto alla versione base. Reckitt continua ad aggiungere attributi extra ai suoi prodotti, aumentandone il prezzo. Ad esempio, ha lanciato da poco un deodorante per ambiente con un sensore di movimento in grado di stabilire quando diffondere il profumo, a un prezzo superiore del 20% rispetto alla versione base. Il CEO, Bart Becht, è convinto che i consumatori non pagano di più per lievi modifiche ai prodotti, tipo una nuova profumazione, mentre sono ben disponibili a pagare per innovazioni significative. “Noi – dice – abbiamo dimostrato che, pur in una recessione, i consumatori non abbandonano i prodotti migliori”. È una strategia molto diversa dai concorrenti che, dopo anni in cui hanno proposto continui miglioramenti ai prodotti per incrementarne i prezzi, si stanno precipitando a tirare fuori versioni più economiche. P&G ha sempre avuto – tra tutte le multinazionali di FMCG – uno dei portafogli prodotti più spostato verso la parte alta (qualità e prezzo). Adesso sta cercando di attirare i consumatori offrendo versioni “basic” dei suoi prodotti più famosi. Ha lanciato un Tide Basic, a un prezzo inferiore del 20% rispetto alla versione più costosa.
Mercati emergenti. In Asia e in America Latina i distributori sono più piccoli e meno evoluti e non hanno ancora le competenze e le risorse per offrire le private label. Su questi mercati, Unilever è posizionata meglio di P&G. Internet. Scavalcare i distributori e vendere direttamente al consumatore finale, via web. Il nuovo capo di P&G, Bob McDonald, ha già fatto esplicito riferimento a questa opzione. In effetti, questa è forse la sfida più grande che si sta profilando per i distributori: fino ad oggi avevano la funzione di esporre la merce e consigliare il consumatore, prima della vendita. Ora il produttore è in grado di esporre i prodotti sul web, dove si possono trovare dettagli e consigli “terzi” neanche pensabili per i negozi, e di spedire direttamente la merce, dando la possibilità di scegliere tra un assortimento vastissimo. Quale sarà in futuro la missione dei distributori? Non sarà oggi e neppure domani, ma sta arrivando il tempo di affrontare questa sfida. abandoning the middle ground market share of consumer goods in germany. % store brands
most popular brand
other brands
expensive brands 100 80 60
Ma secondo gli esperti portare un brand affermato giù nella scala dei prezzi in questo modo può essere molto pericoloso. I consumatori potrebbero non tornare più a comprare il prodotto principale, se possono avere lo stesso a un prezzo inferiore.
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Un’altra strategia che P&G e Unilever stanno seguendo per contrastare le private label è di ridurre i prezzi e aumentare le quantità di prodotto per confezione, riducendo molto i margini. In conclusione, pur se la fine della crisi allenterà di molto la pressione del mercato sulle multinazionali di FMCG, è probabile che una parte dei consumatori dei paesi occidentali mantengano quei comportamenti più frugali che hanno scoperto e adottato in questi mesi, limitando gli spazi di recupero di vendite e profitti per queste imprese.
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Che a quel punto avrebbero due possibili strade per continuare a crescere.
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sources: almark; gfk
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Novembre 2009, n째 75 The electric-fuel-trade acid test
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La Società del Marketing | novembre 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The electric-fuel-trade acid test Briefing The Economist, September 5th 2009 Il marketing, oltre il mercato e dentro la società del 13/11/09 Andrea Romano Università Tor Vergata
Con l’espressione “disruptive technology” si intende un’innovazione che risponde ai desiderata di alcuni consumatori, ma non di tutti. Una domanda che consente all’innovazione di affermarsi e di svilupparsi – eventualmente fino a raggiungere una posizione dominante. Il rischio per i prodotti esistenti è quello della classica “rana bollita”: non si accorgono di dover cambiare fino a quando è troppo tardi. Un tipico esempio. Le prime macchine digitali erano costose e offrivano una risoluzione scadente, rispetto a quelle a pellicola. Però alcuni consumatori apprezzavano di poter vedere subito le foto (e cancellarle e rifarle senza sprechi) e poi di poterle scaricare e inviarle a tutti. Quanto bastava. Oggi è molto difficile acquistare una macchina a pellicola. L’intera industria della produzione e sviluppo delle pellicole sta scomparendo rapidamente. Una storia che i capi delle industrie automobilistica e petrolifera conoscono bene, visto che stanno tutti saltando fuori dall’acqua bollente. I motori a combustione interna hanno dominato per un secolo, ma al Salone di Francoforte la scena era tutta per loro, le auto elettriche, con grandi proclami. Ghosn, a capo di Renault-Nissan, prevede che nel 2020 il 10% del mercato sarà fatto di auto solo elettriche. Se il trend fosse questo, benzina e gasolio farebbero presto la fine delle pellicole fotografiche. L’elemento centrale della propulsione elettrica è la batteria agli ioni di litio (Li-ion), già usate nei PC e nei telefoni cellulari, il cui prezzo è crollato nel 2003, rendendola utilizzabile per le macchine. Il prototipo più interessante di auto elettrica è la Tesla Roadster, creata da Elon Musk, l’imprenditore che ha lanciato anni fa il sistema di pagamento on-line PayPal. La Tesla è un’auto sportiva con un’accelerazione vicina a quella di una Ferrari (da 0 a 100 km/h in soli 3,7 secondi). Già, perché la caratteristica dei motori elettrici è di avere subito il massimo della coppia disponibile. Il prezzo è ancora molto alto (121.000 USD), ma una versione più familiare – la Model S – costerà intorno ai 50.000 USD. La ragione del prezzo elevato sta nel range di autonomia: la Tesla percorre 400 km tra una ricarica e l’altra, grazie a batterie molto capienti, che costano. Oggi la frontiera dell’auto elettrica è una batteria più economica e più veloce da ricaricare, in quanto l’auto elettrica a un prezzo accessibile deve trovare il giusto compromesso tra autonomia (capacità delle batterie), prezzo e comodità (la sosta per la ricarica dura ore, non minuti).
Le opzioni: ..
Un motore solo elettrico, accettando un’autonomia limitata e dimensioni piccole: insomma, la classica city-car.
..
Un motore ibrido, cioè elettrico con l’aggiunta di un generatore a combustione, per non restare a piedi quando si esaurisce la batteria.
..
Una rete di distributori di elettricità per auto.
Un prototipo del primo tipo è la Mitsubishi i-MIEV, in vendita dal 2010 a un prezzo sotto i 50.000 USD che potrebbe anche dimezzarsi. La batteria ha 88 celle Li-ion, rispetto alle 1800 della Tesla, con un’efficienza notevole: 160 km. Anche Fiat e Toyota stanno preparando vetture simili, mentre Daimler starebbe iniziando la produzione di una Smart a batteria Li-ion con autonomia di 115 km. In Germania la ricarica costerebbe circa 2 euro. Vetture ibride sono già in circolazione da anni, come la Toyota Prius e la Honda Insight. Le ruote sono spinte alternativamente dall’energia elettrica o dal motore a combustione (che comunque fornisce l’energia iniziale). Sono definite “parallel hybrids”. Nelle ibride di nuova generazione, le “series hybrids”, le ruote sono spinte solo dal motore elettrico, mentre il propulsore a combustione si attiva solo in caso dovesse servire più energia. La più nota è la Chevrolet Volt, di GM, attesa nei saloni per il 2010 a un prezzo intorno ai 40.000 USD, con un’autonomia a batteria di 65km, sufficiente per gli spostamenti quotidiani dell’80% degli automobilisti americani. Daimler segue una strategia diversa per le sue auto BlueZero: lascia scegliere al cliente che autonomia vuole. Infatti la berlina BlueZero è proposta in 3 versioni: una solo a batteria, con autonomia di 200 km, una a batteria con un motore a combustione per estendere l’autonomia, una con fuel cell a idrogeno per generare elettricità. La terza via, quella della rete, è la più radicale. La californiana Better Place è la più avanti. Gira il mondo alla ricerca di “enclavi” (chiamate isole), ossia località da cui le auto non escono mai: ad esempio, Israele, ma anche le Hawaii. La società offre a queste enclavi una rete di stazioni dove ricaricare le batterie o cambiarle – in pochi secondi – con altre cariche. Questo sistema, oltre ad assicurare la ricarica, presenta un altro vantaggio non trascurabile. Separando la proprietà delle batterie da quella della macchina, cambia la dimensione economica. Se le batterie si noleggiano, diventano un materiale di consumo e quindi un costo di esercizio, alla pari del carburante, abbattendo di molto il costo dell’auto. Questo avrebbe un forte appeal
per la clientela che non fosse molto sofisticata sui principi economici. Per la verità, i piani della Better Place arrivano a concepire la fornitura (somministrazione) di un servizio comprensivo di batteria e ricariche per una certa percorrenza chilometrica, a un costo/km inferiore a quello dei combustibili fossili. Ciò è possibile perché le auto elettriche sono molto più efficienti di quelle a combustione. La Bosch dichiara che un’auto normale a combustione interna percorre da 1,5 a 2,5 km con 1 kwh di energia. Un’auto ibrida (elettrica più diesel) ne percorre fino a 3,2, mentre una solo elettrica arriva a 6,5 km con 1 kwh. In aggiunta, l’energia elettrica costa meno, non solo per chi potrà in
quanti automobilisti
km al giorno
america
80%
65
giappone
90%
40
germania
90%
80
ricaricare la notte a tariffa ridotta, nel garage di casa, ma anche per chi lo farà di giorno a tariffe diurne, nei parcheggi dei supermercati, che già si stanno attrezzando. Tuttavia, la ricarica resta un problema per chi non ha un garage. Servirà una rete stradale adeguata, altrimenti la diffusione delle vetture elettriche non decollerà. Detto questo, nel prossimo futuro le batterie miglioreranno ancora, raddoppiando la propria capacità nel giro di un decennio. Bosch dichiara che un’auto con un motore di 40 kw, capace di una velocità di 120 kmh, ha bisogno di una batteria Li-ion con una capacità di 35 kwh. Oggi questa batteria costa circa 17.000 €, ma nel 2015 – grazie alla tecnologia e alle economie di scala – il costo scenderà a 8.00012.000 €. Secondo la Bosch, l’auto elettrica di massa ha bisogno di batterie con una densità di energia pari a 3 volte quella attuale, e un costo pari a 1/3. In realtà, i produttori di batteria stanno sperimentando innovazioni che potrebbero raddoppiare la capacità in molto meno di un decennio. Uno di questi, la A123 di Boston, parte del gruppo General Electric, sta sperimentando delle batterie formate con nano-particelle per ridurre le dimensioni e aumentare la capacità, e ha già un’alleanza con la Chrysler per fornire simili batterie per le auto.
Molte case auto hanno partnership con produttori di batterie. La Renault-Nissan ne ha una con la NEC, con cui prevede di lanciare nel 2010 la Leaf, una familiare elettrica, in America e in Giappone. Prevedono di venderne 200.000 all’anno, che è il target più ambizioso finora per un’auto solo elettrica. Avrà un motore da 80 kw con autonomia di 160 km, ma potrà ricaricare all’80% in 30 minuti, con dei ricaricatori veloci che Renault-Nissan spera verranno installati nelle stazioni di servizio e in altri posti pubblici. Ma c’è chi punta ancora più in alto. La cinese BYD ha lanciato la prima di una serie di auto elettriche che, grazie a batterie innovative, saranno più economiche e più veloci da ricaricare di quelle occidentali. Warren Buffett ha comprato il 10% di questa società. Ma il passaggio dal motore termico a quello elettrico comporta molto altro. I costruttori di auto si illudono se pensano che la loro tecnologia e competenza sulle altre parti dell’auto li tengano al riparo. Una volta che motore e cambio spariscono, tutto il design viene ripensato, e non solo. Una frontiera interessante è quella di eliminare completamente la trasmissione, posizionando i motori elettrici direttamente nelle ruote. Michelin sta sviluppando il sistema Active Wheel, col quale punta a fornire l’intero sistema di trazione, frenata e sospensione insieme ai pneumatici. Senza il costo e la complessità di molte parti dell’auto, non più richieste, l’intera industria automobilistica potrebbe trasformarsi insieme alle auto. E anche i petrolieri, potrebbero ritrovarsi nel business sbagliato. Certo, ancora molte cose sono delle scommesse e delle previsioni, mentre anche i motori termici stanno migliorando in efficienza. Tuttavia, pensare di basare i trasporti del futuro ancora su una serie di esplosioni in una fila di cilindri appare un modo alquanto primitivo di fare le cose. È tempo di cambiare.
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Dicembre 2009, n째 76 Top 100 best global brands 2009
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La Società del Marketing | dicembre 2009
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Top 100 best global brands 2009 David Kiley and Burt Helm Business Week, September 28th 2009 L'innovazione per superare la crisi - del 15/12/09 Udaiyan Jatar Blue Earth Network
La recessione ha messo i capi del marketing di tutto il mondo di fronte alla sfida più dura della loro carriera. Complessivamente, il valore dei Top 100 brand nel 2009 è diminuito del 3%. Eppure, ci sono stati brand che hanno prosperato, scalando la classifica o almeno mantenendo il loro valore. Questi brand sono riusciti ad entrare nella speciale classifica della Interbrand, scalzandone altri: Lançome, Burger King, Adobe, Puma, Burberry, Polo Ralph Lauren e Campbell’s. La scorsa estate AmEx ha iniziato a trasmettere una pubblicità in cui appare non un gigante della finanza, ma un umile partner dei piccoli operatori economici, quelli più amati dalla gente comune. L’obiettivo è recuperare la fiducia dei suoi clienti, intaccata dalle scommesse sui subprime. Nell’anno della peggiore crisi finanziaria, le imprese hanno avvertito l’esigenza di mettere in sicurezza il rapporto di fiducia con i clienti. In un mondo in cui il brand è un valore, la fiducia è l’asset più deperibile. Le ricerche condotte in questi mesi mostrano che i consumatori non hanno perso fiducia solo nelle banche (che sono additate come le responsabili dirette della crisi) ma nel business nel suo complesso. “La fiducia è il driver dei prezzi e dei profitti. È ciò che i consumatori cercano e ciò con cui si confrontano tra loro” – secondo Larry Light, consulente di branding con trascorsi in McDonald’s, BBDO e Bates. Storicamente, fiducia e reputazione erano appannaggio delle PR, mentre il marketing si occupava di spingere i brand e i prodotti, usando il classico approccio P&G: grandi somme in pubblicità per mantenere una “share of voice” superiore ai concorrenti e martellamento costante sulla “unique selling proposition”. Oggi i consumatori non assorbono più passivamente la pubblicità, ma ricercano attivamente il parere di altri consumatori per formarsi un’opinione sugli acquisti. D’altro canto, le imprese possono comunicare con i loro clienti con web e cellulari, senza spendere fortune in pubblicità. Già prima della crisi molte aziende avevano compreso che era sbagliato continuare a parlare solo con la pubblicità. Un caso tipico è McDonald’s. A lungo e da più parti accusata di servire cibo dannoso per la salute, per molto tempo ha ignorato queste critiche, mentre recentemente ha iniziato a collaborare con i movimenti di opinione, facendo pressione sui produttori di uova e ottenendo di migliorare gli
standard degli allevamenti, oppure schierandosi a favore della legge che impone ai ristoranti di esporre il contenuto calorico dei cibi. Inoltre, spende parte del budget pubblicitario per informare sulla provenienza del cibo (“We use 100% beef in every burger, and there's no percent better than that") e per stimolare i consumatori ad approfondire la qualità dei suoi prodotti, con grande trasparenza. Certo, i critici rimangono e l’aumento di valore del brand è dovuto al fatto che servire pasti a buon mercato premia in momenti di recessione. Ma anche la sua immagine complessiva appare migliorata: secondo il Reputation Institute il suo punteggio, da 0 a 100, è aumentato di 8 punti dal 2007, anche se con 63 resta un po’ sotto la media. ’09 ’08 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
1 2 3 4 5 8 10 6 7 9 12 11 14 17 13 16 18 20 21 24
brand coca-cola ibm microsoft ge nokia mc donald's google toyota intel disney hp mercedes gillette cisco bmw louis vuitton marlboro honda samsung apple
bln $
∆%
69 60 57 48 35 32 32 31 31 28 24 24 23 22 22 21 19 18 18 15
3 2 -4 -10 -3 4 25 -8 -2 -3 2 -7 4 3 -7 -2 -11 -7 -1 12
Nel settore auto, la gran parte dei budget di marketing viene spesa per affermare i prodotti. Ma Ford sta anche cercando di costruirsi una credibilità insistendo sulla qualità della sua gestione (implicitamente confrontandosi con GM e Chrysler che per sopravvivere hanno avuto bisogno dei soldi dei contribuenti). Secondo Jim Farley, Ford Motor marketing chief, molti clienti sono piccolo imprenditori o impiegati, in grado di capire e valutare la gestione di un’impresa. “They will trust a company they believe is run really well”. Ford ha destinato soldi normalmente spesi per dare sconti ai clienti alle PR e ad assicurarsi una presenza costante su Facebook e altri siti, mentre la comunicazione si focalizzava su storie che riflettono come la società sia gestita con più intelligenza dei suoi rivali, incluso gli sforzi per tagliare i costi costruendo una stessa auto per più mercati.
Le attuali campagne pubblicitarie hanno poco o nulla a che vedere con quelle precedenti. Le pubblicità piene di calore che celebravano il sogno americano e il duro lavoro sono andate. Quelle di oggi puntano su aspetti più razionali, coinvolgendo il consumatore sui temi a lui più vicini, quali la tecnologia, i consumi, la qualità. Molti manager e dealer hanno fatto resistenza, temendo che questo approccio fosse insufficiente, ma invece i fatti sembrano indicare il contrario: Ford ha guadagnato un punto di quota di mercato, spendendo una media di 1.800 $ in meno per auto in promozioni. the big winners rank 09 7 43 50 58 20
rank 08 10 58 62 63 24
brand google amazon zara nestlè apple
value 08 $ bn 32.0 7.9 6.8 6.4 15.4
∆% 25 22 14 13 12
AmEx, essendo un brand di largo consumo, non ha avuto scelta se non ricostruire la relazione con i clienti. Avendo storicamente puntato a una clientela più benestante, ha goduto di un vantaggio competitivo forte verso i due principali concorrenti, Visa e Mastercard, fino a quando non è emerso che anche AmEx, come tutti, aveva dato la carta a clienti a rischio. the big loosers rank 08 41 19 50 15 42
brand ubs citi harley davidson amex morgan stanley
value 08 $ bn 4.3 10.3 4.3 15.0 6.4
La ricerca condotta da Interbrand usando un modello sviluppato nel 1987 insieme alla London Business School si basa su 3 elementi: financial forecasting – proiezione del fatturato atteso a 5 anni, dedotti tutti i costi (diretti e indiretti, tasse incluse) e la remunerazione degli asset tangibili (proprietà, impianti, magazzino, capitale); quello che resta è un margine/valore attribuibile agli asset intangibili.
A differenza di McDonald’s e Ford, molte imprese finanziarie hanno scelto di mettere la testa sotto la sabbia, adottando un profilo basso, nascondendosi. Come UBS, la cui “prima strategia dovrebbe essere di puntare a stare fuori dai titoli dei giornali”. Il capo del marketing, Randall Beard, convinto che una simile strategia non avesse alcuna possibilità di funzionare, dopo aver cercato inutilmente di portare la società verso la trasparenza e l’apertura, ha lasciato l’azienda. “I clienti ci stanno dicendo in migliaia di modi che se non sei aperto con loro, loro non si fidano di te. Resistere può essere controproducente, poiché è davvero facile per i clienti verificare se i comportamenti della società corrispondono a quello che dice.”
rank 09 72 36 73 22 57
La recessione ha messo i capi del marketing di tutto il mondo di fronte alla sfida più dura della loro carriera. Complessivamente, il valore dei Top 100 brand nel 2009 è diminuito del 3%. Eppure, ci sono stati brand che hanno prosperato, scalando la classifica o almeno mantenendo il loro valore. Questi brand sono riusciti ad entrare nella speciale classifica della Interbrand, scalzandone altri: Lançome, Burger King, Adobe, Puma, Burberry, Polo Ralph Lauren e Campbell’s.
∆% -50 -49 -43 -32 -26
role of branding – è una percentuale dei margini derivanti dall’insieme degli asset intangibili, essendo il brand solo uno di essi; per alcuni prodotti estremamente importante (profumi) mentre per altri decisamente meno (Microsoft, acquistato molto perché pre-installato): misura come/quanto il brand influenza il processo d’acquisto. brand strength – è la valutazione del potenziale della marca di assicurare una stabile domanda d’acquisto (rischio associato all’aspettativa che il brand produca le performance attese); si considerano il mercato, la leadership, la stabilità e la capacità di operare attraverso le barriere geografiche e culturali (global reach); il tasso di sconto così ricavato si applica al margine del brand per attualizzarne il valore potenziale.
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Gennaio 2010, n째 77 Toyota. Losing its shine
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La Società del Marketing | gennaio 2010
102 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Toyota. Losing its shine Briefing The Economist, Dicember 12th 2009 Il successo del marketing olistico - del 28/1/10 Paolo Cuccia Il Gambero Rosso
1
the car in front global light-vehicle sales, % of total toyota
vw group
renault-nissan
gm
hyundai kia
ford 18
Toyota ha problemi, che l’attuale crisi del mercato automobilistico mondiale ha solo evidenziato.
15
Akio Toyoda, nipote del fondatore, ha preso in mano le redini di Toyota a giugno 2009 e a ottobre ha fatto un annuncio shock, denunciando che la compagnia attraversa un momento critico.
12 9
Per farlo ha citato Jim Collins, guru del management e autore di “How the mighty fall”, dove indica le cinque fasi di declino di una grande impresa di successo: 1. 2. 3. 4. 5.
hubris born of success; undisciplined pursuit of more; denial of risk and peril; grasping for salvation; capitulation to irrelevance or death.
Toyota starebbe già al quarto stadio, in cui servono calma, focalizzazione e azioni ragionate, mentre invece spesso si cercano soluzioni rivoluzionarie che non fanno altro che affrettare la fine. Nell’anno fiscale chiuso a marzo 2009 Toyota ha riportato la sua prima perdita dal 1950 ($ 4.3 miliardi). Nell’anno precedente aveva chiuso con un profitto di circa $ 16.7 miliardi, mentre nei primi 3 mesi 2009 la perdita è stata di circa $ 7.5 miliardi ($ 2.5 miliardi più di GM, allora avviata al fallimento). È in corso un piano di emergenza per aumentare i profitti, che già nel 3° trimestre 2009 ha portato i conti in positivo per circa $ 570 milioni.
6 3 0 1999
2001
03
source: morgan stanley
05
07
09* *forecast
Certo l’apprezzamento dello yen ha influito, ma ciò che preoccupa ancor più della situazione finanziaria a breve (grazie a una liquidità comunque elevatissima – oltre $ 26 miliardi) è che Toyota sembra aver perso quel ritmo di crescita della quota di mercato che sembrava inarrestabile. Nel 2002 l’obiettivo fissato per il 2010 era del 15% del mercato mondiale. Conquistando volumi di mercato a ogni costo, nel 2007 Toyota era arrivata a circa 9 milioni di veicoli, superando il 13% di quota, rimasta poi stabile nel 2008, ma scesa nel 2009 probabilmente sotto il 12%. Ciò perché ha mantenuto o perso quota in tutti i principali mercati, eccetto il Giappone, dove ha goduto di forti incentivi fiscali per i veicoli ibridi, nei quali è molto più competitiva dei concorrenti.
2
trouble on the freeway us light-vehicle sales, jan-nov 2009, units, m 0
0.5
1.0
1.5
2.0
gm
-31.6
toyota
-23.8
ford
-18.9
honda
-22.2
chrysler
-38.0
hyundai kia
6.9
nissan
-47.5
vw group
-6.6
bmw
-22.5
subaru
-13.6
mazda
-23.0
mercedes-benz
% change on year earlier
-18.7
Quali sono le questioni più critiche per Toyoda? ..
1. Toyota è stata troppo lenta a entrare nei mercati emergenti, quelli su cui si basa la crescita futura del mercato mondiale, anche quando America, Europa e Giappone saranno tornati a una semi-normalità, dopo questi anni di crisi. GM, con tutti i suoi problemi, fa meglio di Toyota in Cina e vende in Brasile circa dieci volte di più. Hyundai ha quasi raggiunto Toyota sul mercato cinese e ha una posizione di leader in India, dove invece la prima Toyota piccola ed economica, progettata apposta per quel paese, arriverà tra un anno. Ma la minaccia più grande arriva certamente da VW, che già pesa il doppio di Toyota in Cina e ancora di più in Brasile. In America, dove prevede di raddoppiare i volumi entro il 2018 (fino a 800.000 unità), nel 2009 ha segnato una flessione di vendite inferiore al 7%, contro quasi 24% di Toyota. Sotto la fortissima scuderia di brand VW sforna nuovi modelli a un ritmo incessante, tutti ben posizionati come prezzo e come immagine, dando una scossa continua non solo a Toyota ma a tutta l’industria automobilistica, con l’obiettivo dichiarato di diventare entro dieci anni il più grosso costruttore al mondo.
..
2. Toyota è anche lenta a reagire/adattarsi alle diverse opportunità che si manifestano nei vari mercati. In Cina, ha impiegato molto più dei concorrenti a cogliere le opportunità fiscali per veicoli piccoli. In Europa non ha sfruttato bene gli incentivi alla rottamazione.
..
3. In America Toyota è fortissima, ma si trova a fronteggiare una grave pubblicità negativa derivante dal richiamo di 3.8 milioni di veicoli, dovuto a un problema di sicurezza (diversi incidenti, anche mortali, addebitati al pedale dell’acceleratore fuori controllo). Ma ci sono anche altre denunce di scarsa sicurezza, in particolare nei casi di ribaltamento del veicolo.
source: morgan stanley In America, il più grande e profittevole mercato per Toyota, la quota è stabile intorno al 16,5%, non avendo approfittato del crollo delle vendite di GM e Chrysler, mentre i volumi sono calati di circa un quarto. In Europa, ha registrato la quota più bassa dal 2005 e in Cina, il più grande e più in crescita mercato del mondo, la quota del 2009 è in flessione rispetto al 2008.
103
Toyota. Losing its shine
104 Questo rischia di incrinare l’immagine unica di qualità e affidabilità di cui gode Toyota presso il pubblico americano, trasformandola in un costruttore simile agli altri. Altri che nel frattempo hanno colmato in tutto o in parte il divario di qualità che ha segnato per decenni la distanza con Toyota. Secondo i manager Toyota, proprio la ricerca frenetica della crescita sarebbe alla base di questi problemi di qualità. Il punto è che se Toyota non viene più considerata unica per l’affidabilità e la qualità, il gioco delle preferenze si sposta su altri terreni, molto più emotivi, come lo stile, la guida e gli interni. La ricerca “Total Value Index” – condotta ogni anno dalla società specializzata Strategic Vision – studia gli attributi che guidano le scelte d’acquisto e la soddisfazione dei clienti, su 23 categorie di veicoli, elaborando i feedback di 48.000 clienti. Nell’edizione 2009, per la prima volta Toyota non ha piazzato nessun veicolo al primo posto. Secondo gli autori, perché i concorrenti sono riusciti a offrire la stessa qualità, su prodotti che colpiscono di più sul lato emotivo (“love”).
0
gm hyundai kia nissan chery geely
psa peugeot citroën
La sfida dunque è di non mollare sugli elementi che hanno reso grande Toyota – qualità e affidabilità accessibili – ma aggiungendo le piacevolezze che oggi il mercato richiede. Non è facile, anche perché mai come ora la concorrenza è agguerrita. Ma avendo riconosciuto la dimensione e l’urgenza dei problemi – e confidando sui punti di forza dell’azienda – Mr. Toyoda ha già mosso il primo, fondamentale passo verso la soluzione.
9
honda
..
Smettere di costruire auto meno attraenti dei concorrenti. Mr. Toyoda: “I want to see Toyota build cars that are fun and exciting to drive”.
6
toyota
suzuki
..
3
vw group
Quali le risposte di Toyoda? Essere più aggressivi nello sfruttare la sua esperienza commerciale nei veicoli ibridi ed elettrici. Molti concorrenti sono pronti o lo saranno presto, ma Toyota è comunque molto avanti agli altri: entro pochi anni ogni modello Toyota avrà una versione ibrida e ci sono piani per estendere il brand Prius a una gamma di veicoli innovativi a basse o zero emissioni.
3
losing ground china's light-vehicle sales, % of total
dec 2008 source: morgan stanley
nov 2009
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15
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Aprile 2010, n째 80 Taking the challenge. Pepsi gets a makeover
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La Società del Marketing | aprile 2010
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Taking the challenge. Pepsi gets a makeover Briefing The Economist, March 27th 2010 L'informazione e la sfida della verità - del 4/4/10 Francesco Giorgino RAI-TG1
Coca-Cola anni fa ha coniato l’espressione “throat share”, per intendere che misura i suoi consumi in rapporto a tutti i liquidi che l’umanità ingurgita. Probabilmente per non apparire meno megalomane, Indra Nooyi, l’attuale numero uno di Pepsi, vuole che la sua azienda diventi una delle compagnie di riferimento di questa prima metà del 21esimo secolo, “a model of how to conduct business in the modern world” (… appunto). Più precisamente, la visione è che Pepsi, produttore di bevande gassate e snack salati e grassi, contribuisca alla soluzione di “one of the world’s biggest public-health challenges, a challenge fundamentally linked to our industry: obesity”. Ecco i target che Pepsi ha fissato. ..
Entro il 2015, riduzione del 25% del sale contenuto in alcuni dei prodotti più importanti.
..
Entro il 2020, riduzione del 25% degli zuccheri aggiunti nelle bevande e del 15% dei grassi saturi di alcuni snack.
..
Entro il 2012, rimozione di tutte le bevande a base di zucchero dalle scuole di tutto il mondo.
Indra Nooyi rifiuta di etichettare questa una strategia di facciata, decorativa, sostenendo invece che è l’unico modo per evitare di fare la fine delle aziende di tabacco, che sono ormai costantemente ritenute responsabili (e punite) per i danni che i loro prodotti provocano. L’opinione pubblica dei paesi occidentali è ogni giorno più sensibile verso gli ingredienti dei prodotti alimentari, e la campagna contro l’obesità dei ragazzi lanciata da Michelle Obama è solo la punta di un iceberg di iniziative contro l’abuso di grassi e sale. Negli anni ’90 virtualmente tutti i prodotti Pepsi erano dannosi (“fun for you”). Dal 2006 il nuovo CEO sta dando una progressiva sterzata verso prodotti che definisce “better for you” o “good for you”, come ad esempio i succhi di frutta. Tuttavia, molti restano scettici circa l’efficacia di questa strategia, che rischia di sacrificare i profitti sull’altare della virtù, anche alla luce dei risultati 2009, inequivocabilmente piatti. Ma la Nooyi insiste che è possibile offrire prodotti migliori e fare profitti – pur ammettendo una serie di sbagli che non intende ripetere: come l’intervento su Tropicana (packaging e campagna pubblicitaria), considerato uno dei maggiori errori di marketing dal lancio della New Coke.
Eppure, gli investitori sembrano credere nella validità della nuova strategia (anche perché Pepsi ha distribuito un dividendo maggiore e ha annunciato un piano di acquisto di azioni proprie), rivalutando anche l’acquisizione di due grandi imbottigliatori delle sue bibite. Inizialmente, questa mossa era stata accolta con perplessità, sulla scorta della posizione di Coca-Cola, che ha sempre sostenuto l’opportunità di tenere separate le due attività di produzione di concentrato e di imbottigliamento.
Il portafoglio di prodotti “good for you” di Pepsi è in crescita. Ora sviluppa circa 10 miliardi di dollari di giro d’affari (1/5 del totale) e i piani sono che entro il 2020 arrivi a 30 miliardi.
Ma adesso Coca-Cola si è in parte ricreduta, seguendo Pepsi e acquisendo il suo principale imbottigliatore.
In effetti, il lavoro sui prodotti avanza a tappe forzate, riducendo grassi, zuccheri e sale, tanto che già oggi c’è meno sale in un pacchetto di patatine che in una fetta di pane bianco.
Le finalità di questa integrazione produttiva sono chiare: .. aumentare il controllo su un portafoglio di prodotti (bevande) sempre più ampio; ..
promuovere attività di cross-marketing tra le bevande e gli snack (leva meno importante per Coca-Cola, che ha una divisione snack poco sviluppata): è la strategia del “Power of One” (vedi box) senza dover discutere sulla ripartizione dei margini per ogni grossa operazione, come è accaduto quando Wal-Mart ha chiesto di fare una promozione con Pepsi e Doritos per il SuperBowl di febbraio. Controllando gli imbottigliatori, Pepsi punta a “respond in 24 hours, instead of six weeks”.
“Power of One” è l’idea di sfruttare tutte le sinergie possibili tra le bevande e gli snack, la cui applicazione principale consiste nell’accostare sullo scaffale gli snack e le bibite, in modo che quando il consumatore sceglie delle patatine Lay è portato ad accoppiarle con una Pepsi, e viceversa. Queste sinergie erano alla base della fusione fatta 45 anni fa da Don Kendall (Pepsi) e Herman Lay (Frito Lay). ''You make them thirsty,'' Kendall told Lay, ''and I'll give them something to drink.'' Alla fine, molto dipenderà dalla capacità di Pepsi di convincere il pubblico (e le istituzioni) che sta lavorando per ridurre l’obesità, non per crearla. Attraverso una serie di attività specifiche: ..
ovviamente, ridurre nei prodotti attuali la quantità di ingredienti nocivi;
..
parallelamente, introdurre una serie di prodotti salutari;
..
promuovere nel contempo uno stile di vita più salutista, puntando il dito contro il gap tra le calorie che le persone assumono rispetto a quelle che bruciano.
Per realizzare questa crescita, la società ha assunto un esercito di esperti di alimentazione che ora lavorano nella divisione R&D, guidati dall’inglese Mahmood Khan, che si è detto stupito dalla rapidità con cui l’azienda ha abbracciato questa nuova strategia.
Il brand di punta di Pepsi nel segmento è senz’altro Quaker, che Pepsi vuole tuttavia rendere più appetibile per i ragazzi a prima colazione, attraverso sapienti interventi sul packaging (un look più attuale, pur conservando la mascotte Quaker con il cappello nero) e sui prodotti: bibite e biscotti d’avena insieme a nuove varianti di fiocchi d’avena. Secondo Nooyi, “our goal is to rewrite the rules of breakfast”. È evidente che il CEO e la società credono in questa strategia, che però non sarà indolore, nel senso che la promozione di prodotti più salutari (good for you) non potrà avvenire senza danneggiare di contro l’immagine degli altri prodotti (fun for you). Anche perché i politici e i movimenti salutistici, presumibilmente, trascureranno questi nuovi prodotti, continuando a puntare il dito sui prodotti dannosi, per cavalcare le loro battaglie.
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Novembre 2010, n째 84 Best Global Brands 2010 Report
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La Società del Marketing | novembre 2010
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titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Best Global Brands 2010 Report Interbrand Interbrand Una strategia innovativa nel mercato degli orologi di lusso - del 18/11/10 Alberto Festa Bulgari Italia
“Ci stiamo abituando a una “nuova normalità” – una normalità in cui la rilevanza e il valore dei brand è messa continuamente alla prova. Lo stesso consumatore può scegliere di acquistare un iPad al posto di un laptop, comprare un dentifricio di una marca privata e associare una maglia di Zara con scarpe di Christian Louboutin. Si aspetteranno di comprare online per poi tornare in negozio e ricevere subito le offerte più recenti e le promozioni. Con tante alternative “a portata di click”, la loro pazienza si assottiglia – rendendoli ogni giorno più sicuri, oltre che difficili da prevedere. Alla fine, anche un piccolo segno di insoddisfazione nell’esperienza con un brand può diventare rapidamente un rifiuto diffuso, grazie al passaparola online. I brand stanno compiendo un sforzo per adattarsi a questa gestione della marca in tempo reale, usando i social network per stabilire relazioni più radicate con i consumatori. Gestire questa connessione continua richiede un cambio nei comportamenti interni delle organizzazioni. I reparti marketing più avanzati hanno ormai messo al centro delle strategie di brand una forte motivazione dei dipendenti. Ma a dispetto di questi cambiamenti, il ruolo dei brand nella vita dei consumatori continua a essere importante, per la loro capacità di offrire alternative, costruire fiducia e fedeltà e sostenere un premium price. Le ricette per costruire e gestire grandi brand possono modificarsi, ma il vantaggio sostenibile di lungo periodo derivante dalla realizzazione di un forte brand resta invariato.” Questo il commento di Jez Frampton, CEO di Interbrand. the big winners rank '10 17 4 54 29 67
rank '09 20 7 63 37 81
value 09 $ bn brand apple 15.4 google 32.0 blackberry 5.1 j.p. morgan 9.5 allianz 3.8
∆% 37 36 32 29 28
I Top 100 brand del 2010 totalizzano un valore complessivo di 1.203 miliardi di dollari, in aumento del 4% rispetto a 1.158 miliardi del 2009. Inoltre, tra il 2009 e il 2010 non c’è stato alcun ingresso/uscita dal gruppo del Top 20. E Coca-Cola, IBM e Microsoft mantengono il podio con le medesime posizioni, per il secondo anno consecutivo.
Osservando i brand con i maggiori incrementi e diminuzioni di valore, emerge che i big winners segnano dei tassi di incremento circa doppi rispetto ai big loosers.
’10
’09
brand
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
1 2 3 7 4 6 9 5 10 11 8 12 13 14 15 16 20 17 19 18
coca-cola ibm microsoft google ge mc donald's intel nokia disney hp toyota mercedes gillette cisco bmw louis vuitton apple marlboro samsung honda
bln $
∆%
70 65 61 44 43 34 32 29 28 27 26 25 23,3 23,2 22 21,8 21,1 20 19 18
2 7 7 36 -10 4 4 -15 1 12 -16 6 2 5 3 4 37 5 11 4
Google (4° posizione e +36% di valore rispetto al 2009) continua la sua crescita, conciliando a fatica la sua brand promise – Don’t be evil – con la realtà di una potente global brand. Sebbene la dura scelta di uscire dalla Cina, che censurava il motore di ricerca, testimoniava l’impegno a tener fede alla promessa, dopo pochi mesi e senza clamore si è fatto convincere a operare di nuovo in Cina. Tuttavia, l’innovazione e la capacità di reach di Google sono fuori discussione e lasciano prevedere una continua diversificazione e espansione. Apple (17° posizione e +37% di valore) ha fatto svanire tutti le voci che volevano il nome iPad debole con un record di vendite impressionante. Nel frattempo, l’iPhone 4 ha raggiunto 1,5 milioni di pezzi venduti nel primo giorno. Continua a controllare la comunicazione molto attentamente, mantenendo il ruolo del brand eccezionalmente elevato. Se il brand ha un difetto, è di non riuscire a offrire nuovi prodotti perfettamente funzionanti. Steve Jobs si è dovuto scusare pubblicamente per la ricezione dell’iPhone 4. Blackberry (54° e +32%) resta il più popolare brand di smartphone nel mondo aziendale. Sforzandosi di rispondere ai bisogni, continua a espandere la base di clientela e ad ampliare la linea di prodotti. È ancora il leader del segmento business, ma la pressione di Apple
impone di continuare a innovare e spingere i suoi prodotti. Gucci (primo brand italiano, 44° e +2%) ha reagito alla crisi finanziaria puntando più sulla sua eredità – creando prodotti duraturi – che non offrendo un design trendy basato sul logo Gucci. È quanto emerge dalla campagna “Forever Now”, che celebra i 90 anni di storia con immagini risalenti agli ani ’50. Questa strategia permette al brand di aumentare i prezzi dando al consumatore il senso di fare un investimento. Ford (50° e +3%) ha dimostrato una resistenza tremenda, ritornando al profitto dopo anni di perdite in un mercato molto difficile. La sua decisione di rifiutare i sostegni pubblici ha rinforzato la percezione di un brand in salute sia negli USA sia all’estero. Nel 2010 ha proposto prodotti molto innovativi nel design e nella tecnologia, eccellendo anche nel marketing, puntando sui social network per dialogare con i giovani. the big loosers rank '10 98 11 8 41 40
rank '09 73 8 5 35 36
brand harley-davidson toyota nokia dell citi
value 09 $ bn 4.3 31.2 34.7 10.3 10.2
∆% -23 -16 -15 -14 -13
Harley-Davidson (98° e -24%) segna il peggior calo di tutti, anche in termini di posizione (era 73° un anno fa). Un declino così rapido – iniziato nel 2008 – si spiega in gran parte col fatto che l’acquisto di una Harley è divenuto improvvisamente meno importante per molti a causa della recessione. Per fronteggiare le perdite, il brand ha deciso di uscire dalle bici, fermare la linea di prodotti Buell e vendere la MV Agusta, focalizzando tutto sul solo brand H-D. Ma con tutto questo, senza una politica di innovazione i suoi prodotti potrebbero non recuperare l’appeal. Nel 2010 ha dovuto anche fronteggiare le critiche della stampa e dei social network, irritati dal fatto che il nuovo CEO non guida una Harley. Toyota (11° e -16%) – da primo costruttore mondiale nel 2008 – si era posizionata come leader in affidabilità, sicurezza, efficienza, innovazione, longevità e sostenibilità (con i suoi motori ibridi). Proprio per questo il richiamo di centinaia di migliaia di modelli a gennaio 2010 ha fatto tanti danni al brand: contraddiceva tutti i valori del brand. Inoltre, la riluttanza ad ammettere il problema ha solo peggiorato le cose. Nokia (8° e -15%) è stata percepita per anni come azienda impegnata a migliorare le comunicazioni offrendo telefonini a buon mercato, facili, funzionali e creativi. Però, pur conservando la leadership, ha fallito nel segmento più profittevole, gli
smartphones. Il brand è arrivato sul mercato tardi con il prodotto e si è fatto trovare impreparato a livello di sistema operativo e di applicazioni. Queste sfide, unitamente al fatto che i gestori stanno aumentando il loro peso rispetto agli hardware, non fanno prevedere nulla di buono per il brand nell’immediato. La ricerca condotta da Interbrand usando un modello sviluppato nel 1987 insieme alla London Business School si basa su 3 elementi: financial forecasting – proiezione del fatturato atteso a 5 anni, dedotti tutti i costi (diretti e indiretti, tasse incluse) e la remunerazione degli asset tangibili (proprietà, impianti, magazzino, capitale); quello che resta è un margine/valore attribuibile agli asset intangibili. role of branding – è una percentuale dei margini derivanti dall’insieme degli asset intangibili, essendo il brand solo uno di essi; per alcuni prodotti estremamente importante (profumi) mentre per altri decisamente meno (Microsoft, acquistato molto perché pre-installato): misura come/quanto il brand influenza il processo d’acquisto. brand strength – è la valutazione del potenziale della marca di assicurare una stabile domanda d’acquisto (rischio associato all’aspettativa che il brand produca le performance attese); si considerano il mercato, la leadership, la stabilità e la capacità di operare attraverso le barriere geografiche e culturali (global reach); il tasso di sconto così ricavato si applica al margine del brand per attualizzarne il valore potenziale.
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Dicembre 2010, n째 85 Fiat plays double or quits with Chrysler
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La Società del Marketing | dicembre 2010
116 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Fiat plays double or quits with Chrysler The Economist The Economist, November 25th 2010 Il lungo crepuscolo della sinistra - del 9/12/10 Luca Telese LA7 - Il Fatto Quotidiano
Questa marketing letter sulla Fiat – che tratta argomenti in gran parte già apparsi sulle cronache economiche italiane – ha un senso perché offre un punto di vista diverso da quello nostro, meno focalizzato sulle dimensioni interne e più comprensivo della partita che si sta giocando sullo scenario globale.
A gennaio la Fiat tornerà a vendere negli Stati Uniti dopo 27 anni. La 500 sarà in mostra in 130 concessionarie distribuite in tutta la nazione. È stata presentata a novembre al Salone di Los Angeles, insieme a una rinnovata gamma Chrysler, ed è il primo effetto tangibile dell’alleanza siglata lo scorso anno con il gruppo americano, quando era sull’orlo della bancarotta. La scommessa è che la piccola in stile retrò – uscita dalla penna di Frank Stephenson, il designer della nuova Mini – conquisterà gli americani come ha conquistato gli europei. Non sarà facile farsi accettare, dopo che Fiat era uscita dal mercato americano portandosi dietro un’immagine di qualità scadente, tanto che il suo nome era l’acronimo di “fix it again, Tony”. Ma se l’operazione dovesse riuscire, significherebbe rientrare in uno dei più grandi e appetibili mercati del mondo, raggiungendo una copertura che promuoverebbe Fiat al rango di produttore globale. Oggi Fiat è essenzialmente un produttore europeo leader in Italia, con una presenza importante e di successo in Sud America. Ma il mercato italiano è troppo piccolo e gli impianti produttivi troppo poco competitivi per garantire la sopravvivenza nel mediolungo termine. L’unione con Chrysler implica la condivisione di investimenti e tecnologie, a patto di riuscire a rivitalizzare un gruppo che ha già tanti problemi di suo. Insomma, o Fiat vince su entrambi i fronti o esce dal settore. Fiat ha acquisito il 20% di Chrysler partecipando a un salvataggio finanziato dai governi americano e canadese e dal sindacato United Auto Workers. In cambio della tecnologia italiana messa a disposizione per rinnovare la gamma Chrysler, Fiat potrà presto arrivare al 35%. Al momento del ritorno in Borsa, i due governi venderanno le rispettive partecipazioni e Fiat assumerà il controllo.
Tuttavia, i manager Fiat hanno preso posizione dall’inizio, lavorando per realizzare la piena fusione, sotto la guida di Sergio Marchionne – un canadese nato in Italia – CEO sia di Fiat sia di Chrysler. Al momento, la sua maggiore urgenza è il costo del debito Chrysler, che ha trasformato i profitti ($565m) dei primi 9 mesi 2010 in una perdita ($453m). Il debito deve essere rifinanziato a costi inferiori, per preparare il ritorno in borsa, prospettiva ancora più attrattiva dopo il recente successo del ritorno a Wall Street di General Motors. La fusione di Fiat con il più debole costruttore americano, entrambi produttori regionali con volumi di vendite intorno ai 2 milioni annui, porterebbe alla creazione di un gruppo globale, che potrebbe realisticamente puntare a un volume di 6 milioni di pezzi, generando le stesse economie di scala di concorrenti come Volkswagen e Toyota. In termini di volume, Chrysler porta in dote il brand Jeep, forte e globale, che può sviluppare ben altre vendite al di fuori del suo mercato domestico. Il piano di Marchionne è di allinearlo con gli altri brand premium del gruppo Fiat, Alfa Romeo, Ferrari e Maserati. Il rischio è che Fiat fallisca nel tentativo, come è accaduto ai tedeschi di Daimler, che hanno speso 9 anni e miliardi di dollari, senza riuscire a ottenere delle importanti sinergie tra Chrysler e Mercedes. Non riuscirono neanche ad affrancare la casa di Detroit dalla eccessiva dipendenza dai SUV, le cui vendite sono crollate quando il prezzo del carburante ha iniziato a salire. Nel maggio 2007 Daimler ha venduto il gruppo a Cerberus, un fondo di private equity, che ha fatto ogni sforzo per rivitalizzarlo fino all’avvento della crisi economico-finanziaria. Dopo due anni era sul punto di rinunciare e mettere Chrysler in liquidazione, quando i due governi hanno portato dentro la Fiat e messo in piedi all’ultimo minuto un piano di salvataggio. Il ciclo di sviluppo di nuovi prodotti era stato quasi abbandonato durante questi cambi di proprietà, tanto che nel breve termine – poiché ci vogliono circa 3 anni per sviluppare un nuovo modello – Fiat sta puntando sugli interni e sulle sospensioni per tenere su la gamma Chrysler. Dal 2013 ci sarà una gamma Chrysler completamente nuova, nei motori e nei cambi, grazie alla tecnologia Fiat. La prima reazione di Marchionne alla crisi – che aveva stoppato il rilancio di Fiat – era stata di prendere Opel, il ramo europeo di GM, che era in vendita. Ma il suo piano di chiusura di stabilimenti in Germania incontrò il veto del governo tedesco. A Torino ora giudicano quel rifiuto una benedizione. Opel avrebbe reso Fiat più forte in Europa, mentre la fusione con Chrysler la renderà un player globale. Che però indebolirà ulteriormente i legami di Fiat con l’Italia. Gli italiani ancora considerano la Fiat un’impresa nazionale, anche se da anni buona parte della produzione e dei profitti sono targati Sud America. La joint venture in Russia
con Sollers è destinata a diventare il secondo costruttore nel crescente mercato sovietico. La 500 venduta in Europa è costruita in Polonia e quelle che saranno vendute in America usciranno dallo stabilimento Chrysler in Messico. Come ha detto Marchionne, “We’re a global octopus now”. Che significa che Fiat-Chrysler è pronta a spostare le produzioni dovunque sia più conveniente. Tutto ciò è positivo. Il gap di produttività tra le fabbriche italiane e quelle estere è impressionante. In Italia, lavorano 22mila persone distribuite su cinque stabilimenti di assemblaggio da cui escono circa 650mila vetture all’anno. In un grande impianto in Brasile, Fiat produce circa 750mila veicoli con appena 9400 addetti. Lo stabilimento in Polonia fa ancora meglio: con 6100 addetti sforna 600mila vetture. Chrysler si trova a metà tra i due estremi. Ha 50mila addetti (inclusi quelli che fanno motori e cambi, a differenza dei numeri Fiat che invece li escludevano) che producono 1 milione e 600mila unità in 10 stabilimenti distribuiti tra Stati Uniti, Canada e Messico. Anche di recente, Marchionne ha escluso di avere alcun piano per smettere di costruire macchine in Italia. Fino a qualche tempo fa, questo sarebbe stato impensabile comunque. Ma le cose sono cambiate e Fiat non domina più il suo mercato domestico, dove rappresenta un terzo del mercato. Anche se un improvviso ritiro dall’Italia resta improbabile, adesso è più facile immaginare che lasci affievolire la produzione negli stabilimenti italiani, mentre pompa investimenti nei paesi dove le vendite e la produttività sono più alte. “Stiamo perdendo soldi in Italia. Non possiamo continuare così a lungo”, ha detto Marchionne, che racconta come gli stabilimenti Fiat in Italia siano intralciati da abitudini di lavoro rigide, assenteismo e scioperi striscianti. Per evitare chiusure totali ha ridotto gli addetti in tutte le fabbriche e ora promette di raddoppiare la produzione in Italia, per far fronte alla domanda attesa per i prodotti Chrysler – ma alle sue condizioni. In cambio degli investimenti necessari per aumentare la produzione, insiste per rimpiazzare il contratto nazionale con accordi di fabbrica che consentono di adattare meglio la produzione ai picchi e ai cali della domanda. Al momento non è ben chiaro se gli stabilimenti italiani adotteranno le regole di Marchionne. Quando ha annunciato di voler spostare la produzione della Panda (300mila unità all’anno) dalla Polonia a Pomigliano, per mantenerne i 5000 addetti, alcuni lavoratori rifiutarono sprezzanti questa opportunità perché significava produrre un modello di fascia bassa, al posto dell’Alfa Romeo che producono attualmente (al ritmo di 30mila all’anno). Marchionne ha l’impressione di avere dalla sua una buona parte dei lavoratori, ma a suo avviso un gruppo di sinistra, che ammonta a circa un ottavo della forza lavoro, è votato alla distruzione.
Questa vocazione al suicidio ricorda quella della British Leyland nei primi anni ’80. Marchionne potrebbe ora trovarsi nel ruolo della Tatcher, quando si perde la pazienza e si gioca duro. Data la debolezza di Fiat nel suo mercato domestico e l’ostinazione di alcuni lavoratori, il boss è sicuro che vale la pena di correre i rischi della fusione con Chrysler e del ritorno sul mercato americano. In effetti, queste due mosse importanti potrebbero essere l’unica garanzia di sopravvivenza.
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Novembre 2011, n째 94 Best Global Brands 2011 Report
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La Società del Marketing | novembre 2011
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Best Global Brands 2011 Report Interbrand Interbrand I "passaggi obbligati" della crescita sociale - del 9/11/11 Roberto Vacca Università Sapienza
Il brand è un living business asset, secondo la definizione di Jez Frampton, CEO di Interbrand. Stiamo attraversando un periodo di grande incertezza, in cui l’economia è sballottata dai marosi, i disastri naturali abbondano e i cittadini si riversano nelle strade per stimolare dei cambiamenti politici. Insomma, davvero la crisi è tutt’altro che passata. Per i brand, questi su e giù rendono i mercati – già ben affollati di concorrenti – ancor più complicati. Devono essere sempre più veloci e flessibili, per stare costantemente davanti ai cambiamenti che si verificano, invece di inseguirli. Ma quando sei davanti, la velocità da sola non basta. Per rispondere ai social media e ai mercati iperattenti servono consistenza e accuratezza. Ciascun dipendente deve essere in grado di prevedere le aspettative e i desideri dei clienti verso il brand e rispondere a tono. Per avere successo, il vertice dell’ azienda e il marketing devono gestire il brand come cosa viva, nutrendolo costantemente in modo che possa tenere il passo con il contesto che cambia rapidamente. Ogni contatto che il cliente ha con l’impresa è un’occasione per valutare il brand: in altre parole, adesso ciascun membro dell’organizzazione è un brand manager.
creatività e innovazione. Da tempo si parla di questi interventi, ma adesso il tempo delle discussioni è finito, sotto la spinta dei social network che caratterizzano quest’epoca. ’11
’10
brand
bln $
∆%
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20
1 2 3 4 5 6 7 17 9 10 11 12 14 8 15 13 19 16 20 22
coca-cola ibm microsoft google ge mc donald's intel apple disney hp toyota mercedes cisco nokia bmw gillette samsung louis vuitton honda oracle
71,9 69,9 59,1 55,3 42,8 35,6 35,2 33,5 29,0 28,5 27,8 27,4 25,3 25,0 24,5 24,0 23,4 23,2 19,4 17,3
2 8 -3 27 0 6 10 58 1 6 6 9 9 -15 10 3 20 6 5 16
I Top 100 Brands mostrano che ciò è possibile. Sono brand forti e altamente innovativi, che hanno risposto alle richieste della loro gente, dei loro consumatori e del mondo che sta fuori il palazzo dell’impresa. Di questi tempi, sono esempi ammirevoli che vanno sottolineati ed emulati Ciò che sorprende maggiormente nella classifica 2011 è che i top 20 sono gli stessi di un anno fa (con l’eccezione di Oracle, che era 22esimo) e spesso anche nella medesima posizione. È un dato che conferma l’importanza del brand proprio in momenti di grandi cambiamenti e turbolenze socio-economiche. I consumatori fanno dipendere le loro scelte sempre di più dal brand – contrariamente a quanto spesso si ritiene. Quando si spende con più attenzione, ogni acquisto diventa importante: è il value oriented mindset. Un altro dato rilevante è che tutti i brand (con sporadiche eccezioni) riportano un incremento di valore. Segno che hanno aumentato la loro capacità di stare al passo con le evoluzioni della domanda.
I leader che gestiscono i Top 100 Brands sono perfettamente consapevoli che i consumatori di Hong Kong possono desiderare cose molto diverse da ciò che chiedono quelli di Lipsia. Più i clienti sono sofisticati e pretendono diversi livelli di risposta da parte del brand, più i responsabili del marketing saggiamente aumentano la sensibilità verso i loro bisogni e desideri, con l’obiettivo ultimo di rendere l’intera organizzazione interprete e portatrice della brand experience. Questi trend impongono cambiamenti significativi nella struttura del management e nel processo decisionale, soprattutto nelle imprese grandi e tradizionali.
the big winners
Per valorizzare il brand come business asset e aumentare le barriere per i concorrenti, le imprese devono fare in modo che i valori del brand siano vissuti all’interno dell’organizzazione. Si tratta di rimuovere i compartimenti stagni, in modo che gruppi di lavoro multifunzionali possano operare insieme e sviluppare
rank '11 8 26 4 17 95
rank '10 17 36 4 19 100
brand apple amazon google samsung burberry
value '10 $ bn 33.5 12.8 55.3 23.4 3.7
∆% 58 32 27 20 20
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Ovviamente, Apple è il grande vincitore del 2011, con un incremento di valore del 58%. È l’icona del grande brand che sposa la grande tecnologia per offrire un’esperienza unica. I consumatori continuano ad aspettare i lanci dei suoi prodotti e sono veloci nell’integrarli nei loro stili di vita. La scommessa ora è se questa grande capacità appartiene all’azienda e al team, oppure se era un patrimonio personale di Steve Jobs, che si è portato con sé. L’altro grande brand che merita una citazione è Amazon, per lo straordinario incremento di valore conseguito in un anno: +32%. Un simbolo e un punto di riferimento nel mercato online, per rilevanza e reattività ma anche per il servizio e la soddisfazione dei clienti. Addirittura, il suo approccio ha ridisegnato le aspettative dei consumatori per l’intero settore dei servizi. La ricerca condotta da Interbrand usando un modello sviluppato nel 1987 insieme alla London Business School si basa su 3 elementi. Financial performance ..
Il Net Operating Profit After Tax meno il costo del capitale impiegato per generare i ricavi del brand, calcolato applicando un indicatore di settore, il Weighted Average Cost of Capital. Questo valore, proiettato per un periodo di 5 anni, rappresenta la performance attesa del brand.
Role of brand ..
Il peso percentuale del brand nelle decisioni d’acquisto dei consumatori, al netto degli altri attributi (prezzo, prodotto, disponibilità). Determinato da ricerche dirette o secondo le valutazioni di esperti o in base alla media storica del settore. Applicato alla performance attesa del brand, indica la parte di guadagni direttamente attribuibili al brand.
.. Brand strength ..
La capacità del brand di garantire i guadagni futuri attesi. 10 fattori sono valutati rispetto agli altri brand del settore. Con un algoritmo proprietario viene ricavato un tasso di sconto. Applicato ai guadagni del brand li attualizza a un present value che contiene la probabilità che il brand garantisca i guadagni futuri attesi.
I brand nella posizione ideale per continuare ad avere la preferenza dei consumatori nel futuro sono quelli che – rispetto ai concorrenti – si pongono meglio (showing strength) rispetto a 10 fattori. Quattro sono più guidati dall’interno, a conferma che la grandezza del brand comincia dentro l’organizzazione. Gli altri sei sono più visibili dall’esterno. È intuitivo che maggiore è la forza del brand e minori saranno i rischi futuri per il business. Internal factors ..
Clarity. Commitment. Responsiveness. Protection.
External factors ..
Relevance. Authenticity. Differentiation. Consistency. Presence. Understanding.
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Gennaio 2012, n째 96 Technological change. The last Kodak moment?
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La Società del Marketing | gennaio 2012
124 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Technological change. The last Kodak moment? Briefing The Economist, January 14th 2012 Performance, leadership e …? Le sfide per i Sales&Marketing manager's - del 24/1/12 Andrea Zilli Romanelli Arval
Un capitalista ti venderebbe la corda per impiccarlo. È un pensiero attribuito a Lenin, ma contiene un grano di verità. Non è insolito che i capitalisti inventino la tecnologia che distrugge il loro stesso business. Kodak ne è un esempio perfetto. La Eastman Kodak ha costruito una delle prime macchine fotografiche digitali, nel 1975. Quella tecnologia, seguita dallo sviluppo degli smartphone con camera incorporata, ha quasi ucciso il business di Kodak fondato sulla produzione di macchine fotografiche e pellicole. Eppure, Kodak è stata ai suoi tempi ciò che Google è oggi. Fondata nel 1880, divenne presto famosa per la sua tecnologia d’avanguardia e il suo marketing innovativo. Lo slogan nel 1888 era “tu premi il pulsante, noi facciamo il resto.” Nel 1976 erano Kodak il 90% delle pellicole e l’85% delle macchine vendute in America. Fino agli anni ’90 era sempre annoverato tra i 5 brand di maggior valore al mondo. Mentre le foto digitali e gli smartphone scaldavano i motori per mandare in soffitta pellicole e macchine analogiche, Kodak toccava l’apice di circa 16 miliardi di dollari di fatturato (1996) e 2,5 miliardi di profitto (1999). Gli analisti concordano nel fissare il giro d’affari del 2011 poco sopra i 6 miliardi, con 222 milioni di dollari persi nel terzo trimestre, il nono in perdita in tre anni. Nel 1988, Kodak impiegava 145.000 persone nel mondo. L’ultimo dato ne riporta circa un decimo. Nell’ultimo anno il titolo è crollato del 90%. Nelle ultime settimane siamo arrivati alla bancarotta (chapter 11). Ma dare la colpa all’evoluzione tecnologica non spiega come mai nello stesso periodo lo storico rivale di Kodak, Fujifilm, abbia fatto piuttosto bene. Le due aziende hanno molto in comune. Entrambe hanno beneficiato di un quasi monopolio nel mercato domestico, Kodak in America, Fuji in Giappone. Uno dei motivi di attrito tra Stati Uniti e Giappone negli anni ’90 era proprio il desiderio di Kodak di ostacolare le pellicole giapponesi, più a buon mercato. Entrambi hanno assistito all’obsolescenza del loro business. Ma mentre Kodak non è riuscita ad adattarsi, Fuji si è consolidata arrivando a una capitalizzazione di circa 12,6 miliardi di dollari, pur in un anno difficile. A confronto con i 220 milioni di Kodak, viene da chiedersi come mai.
an ugly picture kodak's: employees, '000
share price, $
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0 1973
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sources: company reports; thomson reuters Entrambe hanno previsto in tempo il cambiamento. Un top manager di Kodak già nel 1979 scrisse un rapporto nel quale prevedeva – piuttosto accuratamente – come i vari segmenti del mercato sarebbero passati all’uso di fotografie digitali: prima i militari, poi le categorie professionali e poi il mass market. Il tutto entro il 2010. Si sbagliava solo di pochi anni. Anche Fuji negli anni ’80, in previsione di un passaggio alla fotografia digitale, definì una strategia in tre punti. 1) Spremere dalle pellicole ogni soldo possibile. 2) Prepararsi al passaggio al digitale. 3) Sviluppare nuovi business. Entrambi avevano ben chiaro che non bisognava accelerare il passaggio dalle pellicole, dove c’era un margine del 70%, al digitale, dove nel migliore dei casi il margine era del 5%. Ma entrambi dovettero adattarsi. Kodak è stata più lenta Anche per una debolezza culturale. Nonostante grandi investimenti in ricerca, rigorose metodologie industriali e ottime relazioni con la comunità, Kodak aveva un atteggiamento di compiaciuta supponenza, tipico dei monopolisti. Che risultò evidente quando nel 1984 lasciò che Fuji gli sfilasse la sponsorizzazione delle Olimpiadi di Los Angeles, invadendo con le sue pellicole molto più economiche il mercato domestico di Kodak. Un altro motivo di lentezza per Kodak fu l’approccio dei suoi vertici allo sviluppo: puntavano al prodotto perfetto, invece di seguire
lo schema tipico dell’high-tech: make it, launch it, fix it. Anche quando si decisero a diversificare, impiegarono anni a fare la prima acquisizione. Avevano una struttura imponente di venture capital, che però non ha mai rischiato investimenti in settori nuovi tali da creare un’alternativa. L’entrata nel farmaceutico, basata sul patrimonio di prodotti chimici creati per le pellicole, non ebbe grande fortuna e terminò negli anni ’90. Anche Fuji capì che la sua chimica poteva essere usata per altri scopi e scelse di puntare sull’impiego del collagene nei cosmetici (è un antiossidante presente nella nostra pelle come nelle pellicole). La linea Astalift è molto diffusa in Asia e sta per essere lanciata in Europa. Fuji ha anche cercato nuovi impieghi per il suo know-how nelle pellicole. Ha investito 4 miliardi di dollari nel settore delle pellicole ottiche per gli schermi piatti LCD: oggi ha il 100% del mercato in un particolare prodotto, una pellicola che espande l’angolo visuale degli LCD. George Fisher, a capo di Kodak negli anni ’90, decise che il loro know-how non fosse nella chimica ma nella gestione dell’immagine: offrì ai clienti la possibilità di postare e condividere le foto on-line. Uno brillante avrebbe trasformato questa idea in qualcosa di simile a Facebook, ma Fisher no. Non ha fatto ricorso all’outsourcing, che avrebbe permesso a Kodak di muoversi più rapidamente e con maggiore creatività. Al contrario, si è sforzato di seguire, adattandolo, il business model classico di Kodak, detto “razor-blade”: vendere le macchine a buon mercato e confidare sulla domanda di pellicole costose (come Gillette, che usa i rasoi per fare soldi con le lamette). È un modello che non funziona con le macchine digitali. Eppure, Kodak ha costruito un business simile sulle macchine digitali, che però è durato pochi anni, fino all’arrivo dei telefonini con camera incorporata. Kodak ha anche sbagliato a capire e prevedere i consumi delle economie emergenti. L’attesa che la classe media cinese comprasse milioni di pellicole si rivelò effimera, visto che dopo poco i consumi si sono orientati sulle camere digitali. Come è accaduto per la telefonia, dove i new comers hanno saltato quella fissa per arrivare direttamente a quella mobile, anche per la fotografia sta accadendo lo stesso, proprio sotto la spinta dei nuovi smartphone. La strategia di Kodak negli anni è stata pure priva di continuità, cambiando ad ogni nuovo CEO. L’ultimo, Antonio Perez, arrivato nel 2005 da Hewlett-Packard, si è impegnato a condurre l’azienda nel mercato delle stampe digitali, cercando anche di fare soldi dall’enorme patrimonio intellettuale (da qui anche la disputa legale con Apple). Ma il business delle immagini digitali è troppo piccolo rispetto a quello delle pellicole e non può reggere il peso di una grande azienda.
Anche alla Fuji il cambiamento tecnologico portò a aspri conflitti interni, che in un primo tempo videro prevalere gli uomini del settore delle pellicole per il mercato consumer, che si rifiutavano di vedere la crisi. Ma alla fine ad avere la meglio fu Komori, che li definì pigri e irresponsabili per non essersi preparati al passaggio al digitale. Assumendo sempre più poteri tra il 2000 e il 2003, preparò velocemente la trasformazione dell’azienda, tagliando costi e posti in un periodo di 18 mesi. “Un’esperienza dolorosa, ma l’unico modo per sopravvivere. Dovemmo anche ricostruire il nostro business model.” Sconfessando in pratica l’operato del suo mentore e predecessore. Azioni preventive di questa portata non sono assolutamente tipiche del sistema industriale giapponese. Ma proprio la cultura giapponese, in cui gli azionisti sono più pazienti e meno pressanti sui risultati a breve, permise a Komori di perseguire la sua visione. Paradossalmente, Fuji ha reagito alla crisi con la velocità e la flessibilità di un’azienda americana, mentre Kodak mostrò la resistenza al cambiamento di un’azienda giapponese. La lezione di Fuji è un monito a non cercare scorciatoie di marketing quando occorre invece puntare a sviluppare nuovi prodotti e nuovi business. Secondo Komori, Kodak non ha diversificato abbastanza. Forse, la sfida era semplicemente troppo grande, troppo radicale e troppo rapida. La nuova tecnologia digitale era così profondamente diversa che non c’era molto da utilizzare in quella precedente per fronteggiare la sfida. Molte aziende dominanti in altri settori sono state spazzate via da shock molto minori. C’è chi sostiene che Kodak avrebbe fatto meglio a scegliere una strada tipo “Intel inside”, ossia fare da brand di fiducia e garanzia per le macchine montate dentro i cellulari. Ma Canon e Sony erano in posizione migliore, grazie ai loro brevetti superiori – e neanche ci sono riusciti. A differenza delle persone, le aziende possono in teoria vivere per sempre. Ma molte muoiono giovani, perché il mondo degli affari, diversamente dalla società civile, è una guerra senza quartiere. Fuji è sopravvissuta, grazie a nuove strategie e nuovi business, mentre i profitti delle pellicole (che erano il 60% del totale) scomparivano. Kodak, come molte altre grandi aziende prima di lei, semplicemente ha fatto il suo tempo. Dopo 132 anni è sfumata, come una vecchia fotografia.
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Febbraio 2012, n째 97 Freeing up the sales force for selling
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La Società del Marketing | febbraio 2012
128 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Freeing up the sales force for selling O. Nottebohm, T. Stephenson, J. Wickland McKinsey Quarterly, July 2011 2012. Quale Marketing? - del 15/2/12 Multi-speaker /
La maggior parte dei venditori passa meno di metà del tempo a vendere davvero. Ma le aziende possono ridisegnare l’organizzazione commerciale per consentire ai venditori di focalizzarsi sul loro vero lavoro. Ecco una situazione tipica. In una grande industria, al reparto telesales le persone passavano il 75% del tempo lontano dal telefono, a sbloccare vendite incagliate, scorrere dati per rispondere alle domande dei clienti e preparare insieme proposte anche per le richieste più semplici. I venditori esterni, ben pagati, passavano il 45% del tempo all’interno, in attività di sales support o semplicemente per controllare l’avanzamento delle trattative. Predisporre una normale proposta richiedeva meeting con non meno di sette persone, mentre per farsi approvare un prezzo speciale ci volevano fino a tre settimane di sforzi continui. Questo modello di inefficienza è culminato nel lancio problematico di un nuovo prodotto, quando non sono riusciti a predisporre in tempo le offerte per assicurarsi gli ordini iniziali. È stata la sveglia che aspettavano. Nell’arco di un paio d’anni, hanno lavorato a snellire l’organizzazione commerciale, creando delle “sales factories” con all’interno uno staff di supporto specializzato e responsabilizzato e dei deal coordinator per spingere le trattative all’interno del sistema, al posto dei venditori. I processi interni sono stati standardizzati e semplificati, insieme all’implementazione di un sistema di performance management. Una trasformazione difficile e timeconsuming, che non tutte le imprese possono permettersi, ma i cui risultati sono indiscutibili: i venditori hanno il 15% di tempo in più da dedicare a vendere, il tasso di conversione proposte/vendite è aumentato del 5% e il tempo per i processi interni alle vendite è calato del 20%. Sono situazioni comuni a molte imprese, eppure poche affrontano il problema: in molte organizzazioni le vendite rimangono un centro di costo largamente non gestito e una leva di crescita e differenziazione sottoutilizzata. L’idea guida è di massimizzare il tempo dedicato a vendere e a relazionarsi con i clienti. Suona perfino ovvio. Ma bisogna ricordare che l’aumento della complessità collide con questo principio.
Comprensione del problema. Spesso le aziende riducono le vendite alle attività legate alle transazioni commerciali: preparazione dell’offerta, quotazione e controllo dell’affidabilità del cliente. Certo, tutto parte con il supporto alla preparazione delle offerte, ma poi vengono coinvolte funzioni che non sono direttamente legate a specifiche trattative, come l’help desk, l’IT, la finanza e le risorse umane. In aggiunta, ci sono processi a monte, quali la definizione delle strategie, i sistemi di compensation e la pianificazione della copertura del territorio. Tutte queste cose assorbono molto del tempo dei venditori. Comprendere queste connessioni è il primo passo per liberare le vendite da incombenze che ne limitano la produttività. L’approccio è seguire il processo degli ordini, partendo dai lead commerciali fino alla consegna, per capire dove ci sono gli ostacoli. Questa analisi fa emergere subito tutte le inefficienze dell’organizzazione commerciale, spesso impiegata per oltre la metà del tempo in attività non di vendita. Una volta che il percorso è stato mappato, si tratta di sviluppare e standardizzare le soluzioni correttive, tenendo conto che ciò che si cambia in un’area può avere ripercussioni in un’altra. Ottimizzazione dell’intero processo di vendita. Non poche imprese lavorano da molti anni a ogni fase del processo commerciale, avendo anche apportato significativi miglioramenti a ciascuna di esse. Eppure, il ciclo complessivo della vendita risulta appesantito, con conseguente insoddisfazione dei clienti, sempre più a rischio di abbandono. Il problema è che questi interventi sono focalizzati sulla singola attività e perdono di vista il ciclo lead-trattativaordine-consegna-incasso. Ad esempio, spingere le persone a produrre con più velocità può finire col generare lavori parziali, che devono poi necessariamente essere rilavorati: la maggior velocità diventa maggiore lentezza. Prima di perdere definitivamente i migliori clienti, conviene agire in profondità. L’osservazione delle singole fasi magari fa scoprire che trattative che pesano il 20% del business assorbono l’80% del tempo dell’organizzazione commerciale. Allora, può essere utile incanalare le trattative su tre binari, segmentati in base al valore e alla complessità dell’ordine: semplice, medio e alto. Ogni binario viene così impostato eliminando i passaggi inutili. Ad esempio, su piccoli cambiamenti di prezzo non serve rifare l’intera trafila decisionale. In questo modo le risorse, liberate dalle piccole incombenze, possono dedicare più impegno alle trattative più complicate e di maggior valore, che richiedono più personalizzazione sul cliente.
Dove è stato applicato, questo metodo ha ridotto significativamente i tempi necessari a completare le trattative aumentandone anche molto la qualità. Inoltre, i costi delle operazioni commerciali si sono ridotti fino al 15% e anche i clienti hanno potuto ridurre i loro costi dedicati all’interazione con l’azienda fornitrice, alcuni fino al 25%. Come implementare. Trasformare le vendite non è facile. Per prima cosa, bisogna vincere la naturale prudenza dei senior manager, che temono che toccare le vendite pregiudichi il fatturato. Secondo, bisogna convincere i manager delle altre funzioni (ad esempio il finance) a lavorare insieme ai sales manager e ai sales support manager per individuare e cogliere le opportunità di modifica. Terzo, il tutto deve ricevere un’adeguata pressione dal vertice, l’unico in grado di superare le questioni interne e avere una visione d’insieme, per puntare alla soluzione migliore, indipendentemente da ciò che “si è sempre fatto”. Non è escluso che servano anche nuovi talenti dall’esterno. Le trasformazioni che hanno successo cambiano radicalmente i processi di vendita e i modi con cui le persone interagiscono, dal cliente alle vendite al back-office. Un produttore di beni di largo consumo, dovendo ridisegnare le sales operation in Sud America, ha centralizzato e semplificato molte attività (ad esempio, il controllo del credito e l’ordinazione di servizi aggiuntivi) che prima venivano svolte dal sales support localmente. In questo modo, lo staff commerciale ha avuto più tempo da dedicare a cose di maggior valore, quali la strategia di pricing e l’analisi del post-promotion, fornendo più supporto al team di vendita. In ultimo, per ottimizzare e proteggere il tempo dei venditori serve controllo. La proliferazione dei canali nelle vendite B2B e B2C iniettano continuamente attività non-sales nella giornata del venditore. Senza trascurare il fatto che le vecchie abitudini dei venditori sono sempre in agguato. Quando un cliente chiama per una qualsiasi questione, è difficile che il venditore non lasci tutto ciò che sta facendo per dedicarsi a soddisfare quella richiesta, ritenendo in buona fede di essere più efficace di tutti i sistemi di back-office. Non di meno, il loro tempo va speso a vendere, non a rispondere alle domande dei clienti. Un sistema che funziona è quello di imporre un elevato numero di appuntamenti con nuovi clienti ogni settimana. Elevato al punto da non essere perseguibile senza cambiare il comportamento verso le attività di back-office. All’inizio è difficile e ci sono resistenze, ma quando i risultati iniziano a venire, il cambiamento si autoalimenta: più stanno fuori a vendere, più vendono, meno vogliono occuparsi del sales support.
129 In conclusione, analizzare le sales operation lungo tutta l’organizzazione non è facile, né lo è introdurre quei cambiamenti che riguardano tutta l’azienda. Eppure, quanto più le vendite sono snellite e le sovrapposizioni del back-office ridotte, tanto più i clienti saranno contenti nel vedere che le trattative si chiudono velocemente e le dispute si risolvono rapidamente. Nelle grandi aziende, il risultato può essere anche di centinaia di milioni, tra minori costi e maggiori vendite. Benefici che parlano da soli.
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Maggio 2012, n째 100 Primo, lincenziamo tutti i manager
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La Società del Marketing | maggio 2012
132 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Primo, lincenziamo tutti i manager Gary Hamel Harvard Business Review, december 2011 Dal brand "persona" al brand "ambiente" - del 29/5/12 Andrea Rea SDA Bocconi
Alcuni anni fa stavo conversando con il presidente della filiale italiana di una multinazionale americana, quando mi informò che la casa madre aveva deciso il taglio di circa 15.000 colletti bianchi. La mia domanda fu immediata e spontanea: cosa farete se dopo riuscirete a fare le stesse cose che fate oggi? Quali conclusioni ne trarrete? Una domanda insolente, lo ammetto, che però nascondeva l’intuizione che le imprese, soprattutto quelle grandi, sprecassero troppo tempo a non far niente di produttivo. Ma restò un’intuizione, sebbene più o meno largamente condivisa con tanti altri manager, perché la questione somigliava a quella che la Terra gira intorno al Sole: se non ti chiami Galileo Galilei lasci stare. E pure lui, alla fine … Adesso però è arrivato Gary Hamel, uno dei guru del management, a sollevare la questione in modo radicale dalle colonne di Harvard Business Review. “il management è l’attività meno efficiente della vostra organizzazione” Sia chiaro subito che il problema non è la quantità di lavoro sviluppata dai manager, che anzi sono in buona parte dei grandissimi lavoratori, in quantità e in qualità. Il problema sta nel modello di gestione, che chiede loro di fare cose in larga misura ridondanti, con delle procedure inefficienti, generando di fatto un sistema ingombrante e costoso. La gerarchia è un costo. Che cresce con l’aumentare della dimensione. Assumendo un rapporto di supervisione di 1 a 10, ogni volta che l’organizzazione si moltiplica per 10 nasce l’esigenza di un nuovo livello: con 100 addetti ci saranno 10 supervisor e un altro manager a coordinare i supervisor. Si può variare il rapporto, ma non il criterio. Oltre al costo, c’è il rischio di decisioni sbagliate. Più si è in alto, più si è distanti dalla realtà delle cose, più si ha potere, meno le decisioni sono contrastabili. È curioso come decisioni di scarso impatto siano facilmente correggibili perché prese da manager abbastanza in basso nella catena di comando, mentre quelle davvero importanti sono di pertinenza dei vertici, il cui potere le rende difficilmente contrastabili.
Inoltre, i livelli implicano le autorizzazioni, che sono insieme la responsabilità e l’autorità di un manager. Ma l’autorità va agita, altrimenti svanisce. Dunque ogni bravo manager sa che deve in qualche modo riempire la sua facoltà di autorizzare entrando nelle decisioni e – di fatto – rallentando anche i processi semplici. Infine, c’è il problema dello svilimento delle risorse che stanno più in basso. Persone mediamente capaci, che governano la loro vita e quella della loro famiglia, vengono ritenute inaffidabili per decisioni anche modeste, come autorizzare mezza giornata di permesso di un dipendente o acquistare il toner di una stampante. Ovviamente, la persona tende ad appoggiarsi sempre di più a chi decide per lei, appesantendo il sistema. “La vostra organizzazione probabilmente non è costruita sui principi dell’autogestione. È più probabile che sia costruita come una struttura burocratica, con uno spesso strato di regole e linee guida, una gerarchia a più livelli e una serie di processi manageriali, il tutto finalizzato a garantire conformità e prevedibilità.” Quello che in verità appare davvero singolare è l’incoerenza di questo sistema con il contesto entro cui si muove – o crede di muoversi – l’impresa: il mercato. L’economia di mercato si fonda sul principio che gli animal spirits tendano all’equilibrio generale. Sappiamo che funziona, seppur non completamente, essendo necessari a volte dei correttivi, dei quali peraltro è bene non abusare. Fin qui la macroeconomia. Ma se ci immergiamo nella cultura d’impresa, ossia nella microeconomia, scopriamo invece un sistema che – pur non dichiarato – è assolutamente dirigista, nel senso che non fa alcun affidamento sulla natura fluida della realtà e degli individui. Anzi, cerca in tutti i modi di proteggersi da essa. È inquietante. Ma perché? Forse perché in realtà la cultura dell’impresa è nata molto prima dell’impresa stessa, affondando le sue radici nell’unica organizzazione che l’umanità aveva prodotto prima: l’esercito. Oppure (o anche) perché l’uomo, avendo prodotto la macchina industriale, ha poi cercato costantemente di replicare quella logica nell’organizzazione, mirando a persone il cui comportamento fosse programmabile come quello delle macchine. Poi, con l’avvento dell’economia della domanda, che imponeva di confrontarsi con i clienti e con i consumatori che avevano la possibilità di scegliere, e – soprattutto – con l’economia dei servizi, che non prevedono scorte di magazzino né controllo qualità ex ante, si è trovato costretto a formulare le procedure: ipotesi più o meno possibili di realtà, per le quali precostituire dei comportamenti, nella convinzione (a quel punto anche giustificata) che le persone non fossero in grado di elaborarne uno ad hoc. Dunque, i manager costano, aumentano il rischio di errori di valutazione, rallentano il processo decisionale e spesso tolgono
autonomia agli impiegati. Ma allora, sono davvero necessari? No, secondo la Morning Star, un’azienda che da oltre vent’anni si dirige senza dirigenti. Alla Morning Star, che nel 2010 ha fatturato oltre 700 milioni di dollari, nessuno ha un capo. I dipendenti negoziano le responsabilità con i loro pari, tutti hanno la facoltà di spendere il denaro dell’azienda e ognuno ha la responsabilità di procurare gli strumenti necessari al proprio lavoro. Sostituendo il capo con la missione e dando maggiori poteri concreti agli individui, la Morning Star è riuscita a creare un contesto in cui le persone sono in grado di gestirsi da sole. La Morning Star, basata in California, è la più grande azienda al mondo per la lavorazione del pomodoro. Fondata nel 1970 da uno studente MBA dell’UCLA, ha tre stabilimenti, una società di trasporti e un’azienda che gestisce la raccolta del pomodoro. Non è quotata in borsa, ma è altamente redditizia e in crescita ben oltre la media del suo comparto. Non c’è nessuno che dà ordini e nessuno che li riceve. Ogni dipendente stila una propria mission personale, in cui descrive come intende dare il proprio contributo al processo complessivo e che – di fatto – guida le sue azioni. Ogni anno, tutti i dipendenti negoziano con i colleghi con cui hanno rapporti una lettera d’intesa, la CLOU (Colleague Letter Of Understanding). La libertà di cui ognuno gode è vissuta come uno strumento per aderire meglio alla CLOU. Mentre le imprese occidentali si sforzano di elaborare e di realizzare il concetto di empowerment (facendo teneramente sorridere, visto che il potere, per definizione, non è qualcosa che si possa dare), alla Morning Star l’hanno superato, poiché lì i dipendenti semplicemente ce l’hanno, il potere. I dipendenti possono spendere i soldi, producendo un breve business case che includa il rendimento dell’investimento e condividendolo con i colleghi. Già, perché in realtà alla Morning Star i dipendenti, pur avendo molta autonomia, raramente prendono decisioni unilaterali senza consultarsi con i colleghi. E la capacità di ciascuno di agire viene verificata da tutti, con la pubblicazione due volte al mese di report finanziari dettagliati e trasparenti: in questo modo, stupidità e pigrizia vengono subito smascherate. In conclusione, non è prevedibile che tutte le aziende adottino un modello gestionale privo di manager, sull’esempio della Morning Star. Ma i problemi dell’attuale sistema sono una realtà con cui è necessario confrontarsi, prima che la realtà si confronti con noi.
Del resto, con il dovuto rispetto per l’analisi statistica delle grandezze, quello che ogni manager percepisce tangibilmente ogni giorno che lavora non può essere tanto diverso da come stanno davvero le cose: l’organizzazione è diventata una cosa ipertrofica, che cresce ormai anche solo per mantenere se stessa, alimentando burocrazia e inefficienza. Tanto che sempre di più la bravura dei manager sta nel produrre un output concreto e giusto, “nonostante” l’organizzazione. È buffo, no? Nel trionfo del liberismo e del capitalismo, troviamo l’essenza genuina del comunismo. Quella che pretende di fare a meno dell’individualità: creatività, singolarità, adattabilità, ricerca di strade migliori, competitività. Su questa base sabbiosa è crollato il comunismo macroeconomico. Cosa ci fa pensare che non possa crollare anche quello microeconomico? autogestione vantaggi
svantaggi
costi più bassi
adattamento più difficile
maggiore iniziativa
responsabilità come sfida
competenze più profonde
inserimento più lungo
maggiore flessibilità
problema del crescere
più collegialità maggiore lealtà decisioni migliori
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Novembre 2007, n째 53 Liquidi e mutanti. Industrie dei contenuti & consumatori digitali
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La Società del Marketing | novembre 2007
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Liquidi e mutanti. Industrie dei contenuti & consumatori digitali Nielsen AC Osservatorio Contenuti Digitali La relazione tra marca e consumatore: errori ed omissioni delle imprese italiane - del 22/11/07 Gadi Schoenheit Intermatrix Italia
L’Osservatorio permanente contenuti digitali ha commissionato ad ACNielsen un’indagine qualitativa (focus group su cinque tipologie di utilizzatori di contenuti dai 13 ai 50 anni) e un’indagine quantitativa (8.500 individui rappresentativi della popolazione italiana con più di 14 anni). I consumi culturali più ricorrenti (spesso + qualche volta) degli italiani sono i libri (71% delle donne, 52% degli uomini), il cinema (35% e 36%), mostre e musei (30% e 27%) e poi a scendere concerti e teatro. Metà della popolazione (52%) non usa internet, un quarto (25%) si connette ma non tutti i giorni, un quarto (23% - heavy users) si connette tutti i giorni o quasi. Gli heavy users sono più tra gli uomini (29%) che tra le donne (17%), ma il gap di genere si registra dai 25 anni in su, mentre tra i giovani e i giovanissimi gli heavy users sono più donne che uomini. Secondo le abitudini di consumo di cultura e tecnologia, gli italiani si dividono in 5 gruppi.
segmento
%
mln
consumi culturali e tecnologici vivono
tv people
31
15,5
zoccolo duro e inerziale, con bassa propensione sia alla cultura che alla tecnologia
sud
tradizionalisti 24 12,3
conservatori, mediamente predisposti ai contenuti culturali ma con un basso utilizzo della tecnologia
centro
Sofisticati
13
6,9
mediamente predisposti alla tecnologia ma elevati consumatori di contenuti culturali
nord
Eclettici
14
7,4
hanno un’elevata propensione ai contenuti culturali e usano costantemente tutte le nuove tecnologie
grandi centri
technofan
18
8,9
Patiti delle tecnologie in sé, ma non come veicolo di cultura quanto piuttosto come strumento di comunicazione e scambio
Ovunque
Avendo un “panel familiare” Nielsen ha potuto mettere in relazione gli stili dei genitori con quelli dei figli, da cui emerge che:
Si notano il “divide tecnologico” (2/3 degli italiani hanno uno stile distante dalle tecnologie) e il “divide culturale” (metà degli italiani con bassa propensione al consumo di cultura). italiani tra cultura e tecnologia cultura +
58
21
13
21
20
7 57
20
13
24
26
matrice tradizionale 11
13
8
24 31
tecnologia +
tecnologia -
3 5
12
avanguardie tecnologiche
12
10
5
26
30 29
cultura >54
45-54
35-44
25-34
14-24
base: totale popolazione con più di 14 anni fonte: acnielsen 2007
..
a) I figli manifestano uno stile di consumo soprattutto da Technofan e da Eclettici (in seconda battuta), salvo i figli dei TV people (in parte).
..
b) I genitori Tradizionalisti e Sofisticati riescono meno degli altri a trasferire il loro stile di consumo ai figli.
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L’avanguardia tecnologica (Eclettici e Technofan) consuma molta tecnologia (messagistica istantanea, forum/blog e siti di condivisione di contenuti come You Tube e MySpace, chat e wiki) ma non necessariamente contenuti culturali (musica, video e libri). L’acquisto di contenuti culturali (CD, DVD e libri) interessa metà degli italiani (59% i libri, 49% la musica e 44% i DVD) e avviene off line, salvo un 3% on-line. Gli alto-acquirenti (>10 acquisti/anno) di cultura musicale e video sono al 70% le avanguardie tecnologiche (eclettici e technofan), mentre i grandi consumatori di libri sono per metà le avanguardie tecnologiche e per metà i sofisticati, i tradizionalisti e i TV people. Tra coloro che comprano contenuti culturali, i 2/3 acquistano almeno due tipologie e il 40% tutte e tre (libri, musica e video). I libri entrano nel paniere dell’82% di coloro che acquistano contenuti. acquisti ultimi 12 mesi
Posizionando i 5 gruppi in base ai consumi di cultura e tecnologia, e segmentando ciascun gruppo per fasce d’età, emerge che il “divide tecnologico” è legato molto all’età: tra i Technofan e gli Eclettici il peso degli over 45 è appena il 15 e il 21%, mentre è il 42% tra i Sofisticati per arrivare al 70% tra i TV people e al 78% tra i Tradizionalisti. È possibile che con il passare del tempo questo gap si riduca. Invece, il “divide culturale” sembra trasversale alle generazioni. L’analisi congiunta genitori-figli consente anche di formulare ipotesi sugli sviluppi futuri degli italiani, delineando le tendenze dei figli di ciascun segmento di genitori. da genitori segmenti tv people tradizionalisti sofisticati eclettici technofan
7,6 7,9 4,0 2,0 1,8
i figli sono tv people tradizionalisti sofisticati eclettici technofan 31% 8% 14% 20% 27% 18% 11% 19% 24% 27% 5% 8% 18% 28% 41% 10% 5% 40% 45% 13% 1% 2% 24% 60%
acquirenti
alto acquirenti
acquirenti
alto acquirenti
base: totale popolazione con più di 14 anni fonte: acnielsen 2007
acquirenti
alto acquirenti
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Marzo 2008, n째 57 The Existential Necessity of Midlife Change
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La Società del Marketing | marzo 2008
142 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The Existential Necessity of Midlife Change Carlo Strenger e Arie Ruttenberg Harvard Business Review, February 2008 Il Product Placement nella strategia di posizionamento della Marca - del 17/3/07 Andrea Rea SDA Bocconi
In Occidente l’aspettativa di vita è intorno agli 80 anni e continua ad allungarsi. Così capita che verso i 50 un professionista abbia davanti a sé un periodo di vita all’incirca pari al tempo professionale già speso. A questo punto, un cambiamento pare quasi inevitabile, pur se con origini diverse. Tiratevi su le maniche: la mezza età è la vostra migliore e ultima occasione per realizzare i vostri sogni segreti. A volte, la spinta potrà venire proprio dall’animo della persona, che non si accontenta più del suo lavoro e del suo ruolo e sente il bisogno di nuove sfide, oppure pensa che deve a se stesso il tentativo di un’iniziativa professionale “in proprio”. In altre occasioni, sarà invece l’azienda a non avere più spazi di crescita per il manager o - addirittura - a entrare in conflitto con chi è identificabile più con la storia che con il futuro dell’impresa. Ad ogni modo, volontario o forzato che sia, un cambiamento alla mezza età sembra un’opzione concreta. Eppure, nonostante sia frequente, necessaria e prevedibile, molti arrivano palesemente impreparati, vittime di due convinzioni: ..
a) che la mezza età sia ormai l’inizio del declino: scoraggiante;
..
b) che chi realizza un cambiamento in questa fase della vita riesce a operare delle trasformazioni quasi magiche, grazie alla visione e alla determinazione: ancora più scoraggiante.
La mezza età non è affatto l’inizio del declino. È invece una fase di grandi potenzialità, anche per la possibilità di capitalizzare sull’esperienza accumulata. Certo ci sono delle limitazioni, soprattutto fisiche, ma anche grandi risorse. Quasi tutti i manager arrivano alla mezza età avendo affrontato e superato molte crisi, alcune apparentemente insormontabili. E grazie a ciò hanno conosciuto i loro punti di forza. Uno di questi, che tende a consolidarsi con l’età, è la capacità di inquadrare i problemi, che adesso affrontano con calma e sicurezza. E con una libertà di pensiero e di azione forse mai conosciuta prima. Infatti, la sensazione di libertà che accompagna i primi anni di carriera è in realtà piuttosto illusoria, determinata dalla scarsa conoscenza degli altri e di se stessi (inclinazioni e capacità). In gioventù si prendono decisioni convinti di poterle sostenere, solo perché si è ancora in parte inconsapevoli di ciò che si può e si vuole fare. Quando con gli anni non si è più oppressi dall’ansia di non saper fare e dal bisogno di dimostrare il contrario, si gode di una libertà che solo la consapevolezza può dare.
Anche la fretta si attenua molto: i manager che progettano un cambiamento non hanno premura, vogliono valutare bene le possibilità e confrontarle serenamente con le proprie risorse caratteristiche, ormai note. Non esistono trasformazioni magiche. Le storie che molti libri propagandano, e che lo slogan della Nike “Just do it!” racchiude, sono pure fantasie. Il nostro cervello lavora con gradualità, non con cambiamenti istantanei. Natura non facit saltus. Le storie di medici che si svegliano una mattina e aprono una catena di specialissimi ristoranti con prenotazioni lunghe dei mesi sono delle fandonie. Gli esseri umani vivono il cambiamento lentamente, con paure, esitazioni, ripensamenti e anche, sì, accelerazioni. Il problema è che, quando il manager di mezza età si scontra con queste rappresentazioni fantastiche della realtà, ne esce debilitato, persuaso che non riuscirà mai a fare ciò che aveva immaginato e che altri invece hanno realizzato, grazie alla loro visione del futuro e alla determinazione con cui l’hanno perseguita. E così resta a fare ciò che sta facendo. Questo equivoco si comprende meglio specificando la differenza tra sogno e fantasia. Il sogno è l’uso dell’immaginazione per creare scenari in cui il nostro potenziale può essere sfruttato. I sogni per essere tali devono essere pertanto strettamente connessi al nostro potenziale. Quando non lo sono, si tratta di fantasie. Per essere produttivi, i sogni devono essere strettamente connessi al nostro potenziale. Altrimenti sono mere fantasie. Il sogno è essenziale per realizzare il cambiamento. Se invece indulgiamo alla fantasia, non solo sprechiamo energie, ma creiamo degli ostacoli al cambiamento, ogni volta che verifichiamo che le nostre capacità sono inadeguate a realizzare quel determinato cambiamento. Il caso di Albert è emblematico. Un manager di banca, nel pieno della carriera, in predicato di diventare il numero uno, iniziò a star male e scoprì che il suo fisico cominciava a rifiutare la routine del lavoro. Avendo una forte passione per il cinema, valutò seriamente l’opzione di fare lo sceneggiatore o addirittura il regista. Ma il confronto con la pratica (provò a scrivere un copione) rese evidente che non aveva alcuna possibilità di riuscire, cosa che lo depresse e lo persuase che avrebbe fatto meglio a restare in banca fino alla pensione. Poi, grazie a una profonda riflessione, aiutata da un consulente,
capì che avrebbe potuto utilizzare le sue grandi capacità e la sua vasta esperienza in un’altra avventura professionale, pur senza diventare un regista come aveva fantasticato. Alla fine, si unì ad altri manager che uscendo da una grande azienda del settore dei media intendevano creare una realtà più piccola e valorizzare di più la creatività, ma non erano capaci di pianificare una strategia né avevano le relazioni per ottenere un finanziamento: esattamente le migliori risorse di Albert. All’inizio temeva l’umiliazione di non avere più la sua lussuosa auto aziendale, l’ufficio prestigioso con la segretaria e tutti gli altri benefit. Ma la sua autostima lo sostenne, e dopo alcuni anni conduceva un’esistenza molto più creativa e tutti i suoi disagi fisici erano scomparsi. Imparare a suonare il piano a 50 anni pensando di diventare un grande concertista è pura fantasia. Ma fare il manager di un’orchestra è un sogno realizzabile. Oggi è più facile dare una svolta decisa al proprio lavoro. Sono sorte professioni che prima neanche esistevano, e le grandi imprese tendono a esternalizzare un numero sempre crescente di funzioni. I manager possono sfruttare queste opportunità, a patto di avere una profonda consapevolezza delle loro competenze e di ciò che realmente vogliono e di ciò a cui - invece - sono disposti a rinunciare. Acquisire tale consapevolezza può essere anche un processo di lunga durata, e non sempre facile. Le aziende possono aiutare i loro senior manager a crearsi questa nuova mentalità, includendo dei percorsi di preparazione. Questi percorsi hanno un costo, ma danno anche un ritorno all’azienda. Innanzitutto, i manager allargheranno i propri orizzonti e questo - fintanto che restano a lavorare in azienda è un valore per sé. Ma soprattutto, aiutando i manager a progettarsi un’esistenza professionale dopo l’uscita dall’azienda, si evita che questi identifichino la fine del lavoro in azienda con la fine della vita. La generazione del baby boom sta invecchiando, ma la sua produttività è tutt’altro che finita. Molti sono in grado di programmare e vivere con piacere una seconda carriera. Non è così facile come certe pubblicazioni promettono. La vera trasformazione non è qualcosa che matura dentro di noi e poi improvvisamente sboccia. La mezza età può essere un periodo di opportunità senza precedenti per la crescita interiore. L’autorealizzazione è un lavoro complesso. È uno sforzo personale fondato su competenze e determinazione. Fortunatamente, mai come nelle mezza età abbiamo la migliore consapevolezza di noi e sappiamo valutare le possibilità e le opportunità.
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Aprile 2008, n° 58 A ravenous dragon. China’s quest for resources.
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La Società del Marketing | aprile 2008
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A ravenous dragon. China's quest for resources. Special Report The Economist, March 15th, 2008 Marketing: back to basis - del 4/4/08 Arun Sharma University of Miami
Dire che la Cina sia affamata di commodities non è un’esagerazione. Il Paese conta circa 1/5 della popolazione mondiale, eppure ingurgita più della metà della carne di maiale mondiale, 1/2 del cemento, 1/3 dell’acciaio e più di 1/4 dell’alluminio. Rispetto a 10 anni fa (1999), sta spendendo 35 volte di più in importazioni di soia e petrolio, e 23 volte di più in importazioni di rame. In pratica, dal 2000, la Cina ha assorbito oltre 4/5 dell’aumento dell’offerta mondiale di rame. Inoltre, la Cina diventa sempre più affamata. Sebbene il consumo di petrolio stia calando in America, il prezzo stabilisce nuovi record, perché la domanda della Cina e delle altre economie in sviluppo è ancora in crescita. La International Energy Agency stima che per il 2030 la Cina avrà triplicato le sue importazioni di petrolio. La domanda cinese di ogni sorta di materie prime sta crescendo così velocemente e sta creando una tale prosperità per agricoltori, minatori e petrolieri, che espressioni quali “bull market” e “ciclo espansivo” non le rendono giustizia. Piuttosto, i banchieri hanno coniato una nuova parola: super-ciclo. Però, non tutti gli osservatori ritengono che l’inappagabile appetito della Cina per le commodities sia sproporzionato. La critica maggiore è sulla politica estera. Per assicurarsi forniture di materie prime su cui fare affidamento, la Cina sta coccolando dittatori, saccheggiando paesi poveri e minando gli sforzi dell’Occidente di diffondere democrazia e prosperità. L’America e l’Europa, strillano i più critici, stanno “perdendo” l’Africa e l’America Latina. Tutto intorno a Lubumbashi, Congo, ci sono i segni di un’improvvisa invasione cinese. Le aziende di stato cinesi costruiranno o rinnoveranno strade e ferrovie in tutto il paese, a fronte dei diritti di estrazione del rame, per una spesa di 12 miliardi di dollari; che è 3 volte il PIL del Congo e 10 volte gli aiuti promessi dall’Occidente. Questa posizione ignora i benefici che l’abbuffata di commodities della Cina porta ai paesi poveri, e anche ad alcuni paesi ricchi, come l’Australia. Le economie dell’Africa e dell’America Latina non sono mai cresciute così velocemente. A sua volta, tale crescita tirerà fuori dallo stato di povertà molta più gente che non gli incerti programmi umanitari dell’Occidente. Inoltre, la Cina non è l’unica a sostenere regimi dittatoriali. Ad esempio le truppe francesi sparse in Africa, alcune delle quali hanno recentemente consegnato un carico di armi libiche all’uomo forte del Ciad, Idriss Déby. La Cina potrebbe e dovrebbe usare la sua influenza per imbrigliare i più nauseanti dei suoi alleati, inclusi i governi di Sudan e Myanmar. E sta cominciando a farlo. Le stesse dimissioni per protesta di Steven Spielberg da consulente per le Olimpiadi hanno pesato molto in Cina, che ha smesso di opporsi allo spiegamento di forze di pace delle Nazioni Unite in Darfur, e sta addirittura inviando alcuni dei suoi ingegneri militari per unirsi alle forze di pace. Il Sudan/Darfur è la prova di quanto il governo cinese sia diventato sensibile alle
critiche, a dispetto della loro reputazione di impassibilità. feeding frenzy china' s imports of: by value, january 1st 1999-100
insieme. Il combustibile di gran lunga più comune per la produzione di energia è il carbone. Di conseguenza, più acciaierie e impianti chimici significano più piogge acide e smog, per non parlare del global warming. Questi non sono solo fastidi, ma producono un enorme strascico sociale. Ogni anno, causano milioni di malati, centinaia di migliaia di morti premature, raccolti più poveri, e così via. Pan Yue, il vice ministro per l’ambiente, stima che il costo inflitto dall’inquinamento ogni anno sia intorno al 10% del PIL. Nessuna meraviglia, quindi, che l’inquinamento sia la causa di proteste e dimostrazioni sempre più frequenti. Se ne contano circa 60.000 nel solo 2006, secondo le stime delle autorità. Alcune sono guidate non da contadini impotenti, ma da cittadini di Shanghai e Xiamen ben organizzati, uno sviluppo che atterrisce i legislatori cinesi. E il potenziale per crisi ambientali ancora più distruttive è enorme: il nord della Cina è già a corto di acqua e i ghiacciai che alimentano i fiumi si stanno sciogliendo, a causa del global warming.
soyabeans
crude oil
copper ore and concentrate
source: national statistics Wen Jiabao, il primo ministro cinese, ha fatto dichiarazioni pubbliche in favore della democrazia in Myanmar – e questo (per quanto il concetto di democrazia dei governanti cinesi sia diverso da quello degli occidentali) è un segnale forte per un governo che reclama la non ingerenza negli affari interni degli altri paesi. Quanto più la Cina fa affari con il resto del mondo, tanto più la sua politica estera è destinata ad ammorbidirsi. Eppure, la fame della Cina di risorse naturali sta creando non pochi problemi. Ma la maggior parte li crea in Cina, non all’estero. La Cina sta spazzolando sempre più commodities non solo perché la sua economia sta crescendo così velocemente, ma anche perché la crescita è concentrata in settori che assorbono un sacco di risorse. Negli ultimi anni c’è stato un cambio marcato dall’industria leggera all’industria pesante. Così adesso la Cina consuma più materie prime per unità di prodotto. Può sembrare un cambiamento lieve, ma le implicazioni sono drammatiche. Intanto, ha incoraggiato questa sorta di intrecci internazionali che tanto imbarazzo causano alla Cina. Ma quel che è peggio, sta peggiorando il già grave inquinamento cinese. L’industria pesante richiede una gran quantità di energia. Le acciaierie, ad esempio, assorbono il 16% dell’energia cinese, contro il 10% assorbito da tutte le abitazioni del paese messe
Il governo è consapevole di questi problemi e sta cercando di porvi rimedio. Il Congresso del Popolo questo mese ha trasformato l’Agenzia di Pan Yue in un ministero. Ha aumentato le multe per inquinamento, ha ridotto i sussidi per il carburante e ha limato i benefici fiscali per l’industria pesante. Sta anche promuovendo fonti di energia pulita, come i mulini a vento e il gas naturale. Eppure, nonostante i grandi sforzi di ripulire Beijing in tempo per le Olimpiadi di agosto, gli atleti ancora dubitano che l’aria sarà buona da respirare. Il campione mondiale di maratona, ad esempio, ha minacciato di rinunciare alla gara a causa dell’inquinamento. Tutti i progetti “verdi” del governo sono tuttavia minati da un’artificiale abbondanza di capitali a basso costo, e dall’entusiasmo con cui la burocrazia li indirizza verso l’industria inquinante. Le banche cinesi, con la benedizione del governo, applicano tassi d’interesse reali negativi ai depositi e così possono prestare il denaro a basso costo alle industrie di stato. Molte di queste imprese beneficiano di terre gratis e pagano dividendi irrisori allo stato, lasciando molti soldi per gli investimenti in imprese ancora più inquinanti. I correntisti cinesi e i contribuenti stanno finanziando proprio le industrie che li stanno lentamente avvelenando. La Cina è destinata a consumare enormi quantità di materie prime nel corso della sua crescita. Ma dato il livello attuale di inquinamento del paese, e l’inquietudine che tale inquinamento sta generando, dovrebbe frenare la sua fame di risorse. Un modello di sviluppo meno sprecone sarebbe anche più salutare.
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Dicembre 2008, n째 65 42째 Rapporto sulla situazione sociale del Paese
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42° Rapporto sulla situazione sociale del Paese Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma Censis, 5 dicembre 2008 Lo sport business (R) - del 11/12/08 Pier Luigi del Viscovo Istituto Sperimentale di Marketing
Secondo gli esperti del Censis la crisi c’è e ci segna, ma apre a un adattamento innovativo della società: una seconda metamorfosi. Alla crisi ci crediamo e non ci crediamo. Per alcuni si sfiammerà presto, per altri il tracollo durerà a lungo. Questa diversa percezione riflette l'assenza di una consapevolezza collettiva, a conferma del fatto che restiamo una società «mucillagine». Come affermato lo scorso anno, il contesto sociale è condizionato da una soggettività spinta dei singoli, senza connessioni fra loro e senza tensione a obiettivi e impegni comuni. Questa regressione antropologica, con i suoi pericolosi effetti di fragilità sociale, è visibile nel primato delle emozioni, nella tendenza a ricercarne sempre di nuove e più forti, al punto che «la violenza o lo stravolgimento psichico si illudono di avere un bagliore irripetibile di eternità, mentre nei fatti sono solo passi nel nulla». È stato l'anno delle paure. Su questa base si sono moltiplicate piccole e grandi paure (i rom, le rapine, la microcriminalità di strada, gli incidenti provocati da giovani alla guida ubriachi o drogati, il bullismo, il lavoro che manca o è precario, la perdita del potere d'acquisto, la riduzione dei consumi, le rate del mutuo). In un anno elettorale, la politica ha trovato vantaggioso enfatizzare le paure collettive e le promesse di securizzazione (dai militari per le strade alla social card per i meno abbienti), finendo per generare una più profonda insicurezza, un’ulteriore sensazione di fragilità. La crisi finanziaria internazionale: la «segnatura» c'è stata. La crisi ci ha segnato, ed è verosimile attendersi per il prossimo anno ulteriori fasi di flessione. Ma ha determinato un salutare allarme collettivo. Si tratta ora di vedere se il corpo sociale coglierà la sfida, se si produrrà una reazione vitale per recuperare la spinta in avanti, sebbene siano in agguato le «italiche tentazioni alla rimozione dei fenomeni, alla derubricazione degli eventi, all'indulgente e rassicurante conferma della solidità di fondo del sistema». Non basta una reazione puramente adattiva. Rispetto a una crisi che ci segna in profondità, sarebbe deleterio adagiarsi sulla speranza che tutto si risolverà nella dinamica della lunga durata, grazie alle furbizie adattive che ci contraddistinguono da decenni e secoli. Rischieremmo che «la lunga durata diventi luogo del rattrappimento e della rinuncia ad un ulteriore sviluppo». Rischieremmo: l'appiattimento su parole d'ordine non più universalmente condivise (il mercato,
l'occidentalizzazione, la globalizzazione, l'Europa allargata); di continuare a vivere individualisticamente; l'acutizzarsi di un disagio sociale legato all'esaurimento delle sicurezze di base garantite da un welfare oggi in crisi e dalle attuali prospettive o paure di impoverimento; gli effetti ulteriori degli squilibri antichi della nostra società (il sottosviluppo meridionale, l'inefficienza dell'amministrazione pubblica, il drammatico potere della criminalità organizzata). Rischieremmo forse un collasso per implosione su noi stessi, per cui non possiamo lasciar cadere la sfida, l'allarme, la paura che la contingenza attuale ci propone. Verso una seconda metamorfosi. Le difficoltà che abbiamo di fronte possono avviare processi di complesso cambiamento. Attraverso un adattamento innovativo (exaptation, per usare un termine mutuato dalla biologia), cioè non automatico ma reso vitale e incisivo da fattori esogeni e leve di trasformazione, possiamo spingerci verso una seconda metamorfosi (dopo quella degli anni fra il '45 e il '75) che forse è già silenziosamente in marcia. La nostra seconda metamorfosi sarà il risultato della combinazione dei «caratteri antichi della società» con i processi che fanno da induttori di cambiamento. Tra questi vi sono: la presenza e il ruolo degli immigrati, con la loro vitalità demografica e la moltiplicazione emulativa di spiriti imprenditoriali; l'azione delle minoranze vitali già indicate lo scorso anno, specialmente dei player nell'economia internazionale; la crescita ulteriore della componente competitiva del territorio (dopo e oltre i distretti e i borghi, con le nuove mega conurbazioni urbane); la propensione a una temperata gestione dei consumi e dei comportamenti; il passaggio dall'economia mista pubblico privata a un insieme oligarchico di soggetti economici (fondazioni, gruppi bancari, utilities); l'innovazione degli orientamenti geopolitici, con la minore dominanza occidentale e la crescente attenzione verso le direttrici orientali e meridionali. Mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale. Le classi dirigenti (non solo quella politica) tendono invece ad automatismi di segno opposto: accorciano i raggi delle decisioni, le riservano a sfere di responsabilità molto ristrette, le rattrappiscono al breve termine, se non addirittura al presente. «In poche stanze si possono prendere provvedimenti e iniziative planetarie, ma poi la realtà segue opzioni, comportamenti, paure di tipo diffuso, su cui sarebbe deleterio avviare una rincorsa punto per punto (una Cig qua, una rottamazione là) che non riuscirà mai a far recuperare una dinamica fatta da tanti soggetti, l'unica dimensione di cui abbiamo bisogno per uscire collettivamente dalla crisi». Per la società italiana resta l'imperativo: «mercato largo, economia aperta, policentrismo decisionale». Consumi, mutui e indebitamento: dentro e oltre la crisi delle famiglie. Nel 2008 i consumi hanno subito una flessione in termini reali, diminuendo dello 0,2% e dello 0,6% rispettivamente
nel primo e nel secondo trimestre. Non sorprende che il 44,7% delle famiglie (era il 27% nel 2007) sia pessimista per l’immediato futuro, mentre il 17,4% è incerto e disorientato. Il 76% dei consumatori ha acquistato prodotti di marca commerciale, il 54,3% ne ha intensificato l’acquisto negli ultimi tempi, il 72% ricorre a prodotti in offerta speciale. Altri comportamenti sono espressione di un adattamento rapido ai tempi di crisi: il 53% si reca presso i mercati rionali per l’acquisto di prodotti alimentari, il 48,8% va all’hard discount. Il livello di indebitamento delle famiglie è aumentato negli ultimi tre anni, attestandosi attualmente al 48,5% del reddito disponibile (nel 2004 si era poco al di sotto del 40%), rimanendo comunque a livelli più bassi della media dei Paesi dell’area dell’euro (in Francia, Spagna e Regno Unito le passività finanziarie delle famiglie superano il valore del reddito disponibile). Quasi il 60% delle famiglie con mutuo (oltre 2,8 milioni) non ha difficoltà nel pagamento delle rate, il 29,1% (circa 838.000) ha qualche difficoltà ma senza rischi di insolvenza, il 9,7% (circa 279.000) ha notevoli difficoltà, mentre il 2,8% (circa 81.000 famiglie) non riesce a rispettare le scadenze. Le strategie cautelative delle famiglie. Ben il 71,7% degli italiani pensa che il terremoto dei mercati finanziari potrà avere ripercussioni dirette sulla propria vita, solo il 28,3% dichiara che ne uscirà indenne. Nonostante le preoccupazioni, il 37% degli italiani pensa che la crisi potrebbe migliorarci, costringendoci a rivedere i nostri difetti; il 30,3% dichiara più cinicamente che, come sempre, ci scivolerà tutto addosso; e il 32,8% crede, più pessimisticamente, che la crisi farà emergere egoismi e interessi personali esasperati. Ciò che preoccupa di più tra i possibili effetti del credit crunch è il rischio di dover rinunciare in futuro al tenore di vita raggiunto (il 71,1% degli italiani). Se dalle aspettative, in gran parte condizionate dal quotidiano cannoneggiamento di notizie e prese di posizione ufficiali sulla recessione, si passa a valutare il numero di famiglie effettivamente interessate da fattori critici, lo scenario diventa più realistico. L’11,8% delle famiglie italiane (circa 2,9 milioni) possiede azioni e/o quote di Fondi comuni, soggette quindi all’alta volatilità del mercato borsistico; l’8,2% (circa 2 milioni) ha un mutuo per l’abitazione, ma solo 56.000 hanno saltato qualche pagamento e 193.000 hanno molta difficoltà a pagare le rate (250.000 famiglie nel complesso); il 12,8% (circa 3,1 milioni) usufruisce del credito al consumo. Tra le strategie per affrontare il difficile momento, il 33,9% degli italiani dichiara che intende risparmiare di più, cautelandosi rispetto agli imprevisti; il 25,2% sembrerebbe non avere altra strada che un significativo taglio dei consumi; in pochi si dichiarano confusi e incerti sul da farsi (9,6%), oppure orientati a lavorare di più (7,4%) o a barcamenarsi cercando di spendere di meno (8,6%); solo il 3,8% dichiara che sarà costretto a intaccare i risparmi messi da parte e lo 0,5%che si indebiterà.
La temperanza nei consumi garantisce il buon vivere. Sempre più orientati alla liquidità, in fuga dal risparmio gestito, gli italiani ritengono che in questa fase i soldi vadano tenuti in contanti (29,3%), in depositi bancari e/o postali (23,4%) o, al limite, vadano usati per cogliere una buona occasione sul mercato immobiliare in rallentamento (22,2%). Se proprio si deve investire, è meglio ricorrere agli inossidabili titoli di Stato (16,4%). La propensione alla cautela, spesso tacciata di arretratezza o chiusura all’innovazione, si sta dimostrando una polizza contro l’erosione delle risorse familiari. Infatti, per quanto riguarda i consumi, stime del Censis fissano in oltre 5,5 milioni gli «indenni», vale a dire gli italiani che spenderanno allo stesso modo usufruendo di un ampio paniere di beni e servizi (8 su 13 tipologie di consumo); all’estremo opposto, sono poco più di 880 mila i «penalizzati», che dovranno tagliare radicalmente i consumi rinunciando a gran parte delle spese. Mentre sono decisamente elevate le quote di italiani che definiscono irrinunciabili (mantenendo la spesa almeno agli attuali livelli) singoli settori di consumo: il cellulare (quasi il 59% degli attuali utilizzatori, oltre il 69% tra i più giovani, in totale 26,8 milioni di persone), una vacanza l’anno di almeno una settimana (53,7%, 21,1 milioni), l’automobile (50%, oltre 17,8 milioni), gli alimenti della propria dieta quotidiana (quasi il 48%, 23,2 milioni), le spese per le attività sportive e per il fitness (47,8%, 10,1 milioni), il parrucchiere e l’estetista (41%, quasi 18 milioni). Le spese per il dentista e le visite mediche specialistiche sono giudicate irrinunciabili dall’85,8% degli italiani. Quote inferiori, ma comunque significative, difenderanno l’abitudine di cenare al ristorante almeno una volta al mese (33,6%, 11,9 milioni di persone), le spese legate a hobby personali (35,9%, 9,3 milioni), l’acquisto di almeno alcuni capi di abbigliamento di qualità e/o firmati (25,1%, 8,4 milioni).
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Febbraio 2009, n° 67 La crisi. Può la politica salvare il mondo?
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La Società del Marketing | febbraio 2009
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La crisi. Può la politica salvare il mondo? Alberto Alesina, Francesco Gavazzi Il Saggiatore, novembre 2008 Il risparmio tradito: onestà e trasparenza nel marketing finanziario - del 26/2/09 Beppe Scienza Università di Torino
Che cosa è successo? Prima di paragonare la crisi attuale a quella del ’29, è bene ricordare che allora il PIL americano crollò del 30%, in gran parte a causa degli interventi politici che seguirono il crac della borsa: ..
1 la Fed non fornì liquidità alle banche, la tolse;
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2 il Congresso impose dazi alle importazioni, innescando una reazione internazionale che portò al protezionismo;
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3 Hoover, per punire gli speculatori, introdusse regole restrittive alla finanza, che però ostacolarono la stabilizzazione dei mercati;
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4 Hoover, per difendere la domanda interna e il potere d’acquisto, impedì di tagliare i salari, portando molte imprese al fallimento e molti lavoratori alla disoccupazione;
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5 Hoover, per contenere il deficit di bilancio, aumentò le tasse, comprimendo ancora di più l’economia.
Ora, da almeno 15 anni gli USA consumano più di quanto producono, grazie al fatto che il sistema finanziario internazionale funge da collegamento con altre economie, quella cinese soprattutto, che al contrario hanno un surplus di risparmio. La svalutazione del dollaro e l’aumento dei consumi in Cina stavano riportando la situazione in equilibrio. Ciò che ha portato alla crisi del 2008 è stata la regolamentazione dei mercati finanziari, in parte assente e in parte sbagliata. Le banche d’investimento hanno investito in proprio usando la leva finanziaria, cioè senza avere un’adeguata copertura di capitale proprio. Quando gli investimenti sono andati male, la copertura finanziaria si è rivelata insufficiente. Alan Greenspan – presidente della Fed negli anni ’90 – ha responsabilità in quello che è successo: ..
Ha mantenuto bassi i tassi di interesse. Questo ha depresso i rendimenti sui titoli sicuri, spostando gli investitori su titoli rischiosi. La maggior domanda di titoli rischiosi ne ha ridotto i rendimenti, inducendo le banche d’investimento a ricorrere al debito per finanziare le attività,
anziché capitalizzarsi e investire del proprio. ..
Ha omesso di regolamentare i mutui subprime, sottovalutando il rischio di aprire il mercato ai mutui a tasso variabile crescente. Molti politici europei, in quegli anni, citavano Greenspan contro la BCE, che invece persisteva nelle sue politiche restrittive a difesa dell’inflazione. In buona misura, si trattava degli stessi politici che oggi puntano il dito contro la finanza americana, responsabile della crisi.
A cosa serve la finanza. La buona finanza consente di investire e di crescere di più, assolvendo a due funzioni essenziali: ..
Trasformare le buone idee in imprese e posti di lavoro: senza il venture capital Google e altre non sarebbero mai nate.
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Ridistribuire il rischio degli investimenti.
La liberalizzazione dei mercati finanziari è alla base della crescita dell’India negli ultimi vent’anni. I vantaggi della globalizzazione. La prima fase di globalizzazione è iniziata nell’800, dopo il Congresso di Vienna, ed ha toccato il suo apice prima della Grande Guerra: nel 1912 gli investimenti internazionali erano pari al 20% del PIL mondiale, quota mai più toccata fino al 1980. La seconda fase, le cui basi furono gettate dopo la Seconda Guerra Mondiale, si è sviluppata molto a partire dagli anni ’90. Nel periodo, la povertà si è ridotta in tutte le parti del mondo. Le persone che vivono con meno di 1 dollaro/giorno sono diminuite di 1/3 da 630 a 400 milioni (17% e 6,7% della popolazione mondiale). Inoltre, il reddito dei poveri del mondo è cresciuto più del reddito dei ricchi, riducendo di fatto la disuguaglianza. L’euro. L’Italia sta attraversando da molti anni – ben prima dell’introduzione dell’euro – una fase di minore crescita rispetto ai paesi OCSE, dovuta a: ..
Caduta della produttività
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Riforma solo parziale del mercato del lavoro
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Pressione fiscale e spesa pubblica a livelli quasi “svedesi” – senza la qualità dei servizi
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Inefficienza della P.A. e della giustizia civile
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Scuole gestite nell’interesse degli insegnanti più che degli alunni
continentale, altri fattori tipicamente italiani hanno ulteriormente frenato lo sviluppo.
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Scarsa concorrenza nei mercati dei servizi e delle professioni
Su tutti, la scarsa partecipazione al lavoro di giovani, donne e pseudo-anziani.
L’euro ha solo evidenziato tali problemi. In particolare, non poter svalutare la moneta pone vincoli all’andamento di prezzi e salari: con l’euro, in pratica, diventa importante legare l’andamento dei salari reali all’aumento della produttività. Aumentare la produttività significa lavorare meglio, investire di più, accrescere la flessibilità della forza lavoro, ridurre i vincoli che impediscono agli imprenditori di fare il loro lavoro, migliorare i servizi e il sistema giudiziario. Sono tutte cose difficili e impegnative. Quando manca il coraggio o la forza politica per farle, la cosa più semplice è creare fantasmi. E i fantasmi sono forse utili per giustificare i governi in carica, ma non risolvono i problemi: li buttano sulle spalle del governo successivo, moltiplicati. Non ci sono miracoli. In Italia, il reddito medio reale (a prezzi costanti) è cresciuto costantemente dal dopoguerra: 3.500 euro nel 1950, 9.700 nel 1970, 13.100 nel 1980, 16.313 nel 1990, 19.800 nel 2006. Ma rispetto ai paesi OCSE l’andamento è un po’ diverso: il reddito procapite rispetto a quello americano era il 40% nel 1950, il 72% nel 1970, quasi l’80% nel 1990 e ultimamente è tornato sotto il 70%. Siamo sotto la media dei paesi dell’euro: l’Irlanda ora ha un reddito procapite di 27.000 euro. Cosa è successo? Dalla fine della guerra agli anni ’70 si lavorava moltissimo, poi si iniziò a costruire un forte sistema di welfare, che avrebbe potuto essere sostenuto se la crescita fosse rimasta quella degli anni ’50 e ’60. Quello sviluppo era garantito dall’imitazione della tecnologia americana, imitazione basata su un sistema di grandi imprese, di finanza incentrata sulle banche e di intervento dello Stato in economia. Ma negli anni ’70 questa rincorsa si esaurì, poiché il gap tecnologico era ormai colmo e dunque la scommessa non era più copiare la tecnologia altrui, ma crearne di nuova, con l’innovazione. Il modello economico – su cui poggiava il successo dei decenni precedenti – divenne un ostacolo. Invece di accelerare la distruzione delle vecchie aziende e favorire la creazione di imprese nuove e innovative, i governi continuarono a proteggere quelle esistenti e a sognare una politica industriale dirigista. Nello stesso periodo, la turbolenza sociale e politica consigliò ai governi di sostenere il welfare, finanziandolo prima con l’inflazione (anni ’70) e poi con il debito pubblico (anni ’80). Mentre questo quadro ha riguardato tutta l’Europa occidentale
In pratica, lavoriamo in troppo pochi e facciamo fatica a mantenere gli altri, direttamente o indirettamente (attraverso lo Stato). Le ricette? Eccole: partecipazione al lavoro % di persone 15-64 anni anziani 55-64 anni giovani 15-24 anni donne
italia
g7
63 35 31 50
74 59 53 66
..
Ridurre il prelievo fiscale sui redditi delle donne.
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Aumentare l’età pensionabile.
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Caricare il costo delle rette universitarie non sui contribuenti ma sugli studenti, in modo da evitare “parcheggi” e spingerli a chiedere una formazione di livello che introduca al lavoro.
..
Eliminare i contratti precari, dando adeguate garanzie a tutti ma senza le rigidità e le protezioni attuali.
Lo Stato deve fare 3 cose: produrre beni e servizi che i privati non producono, ridistribuire il reddito dai più ricchi ai più poveri, assicurare i cittadini contro malattia e disoccupazione. Lo Stato italiano fa male tutte e tre le cose: con inefficienza e con inefficacia. Il mondo salvato dalla politica? Si sente dire spesso che la politica deve riprendere la supremazia sull’economia. Se ciò significa riportare lo Stato dentro l’economia, imbrigliare i mercati e ricreare imprese pubbliche, questo è lo “statalismo antiliberista”, i cui guasti sono ben conosciuti. Tuttavia, l’Italia è in una fase critica e gli economisti e i politici devono parlarsi per trovare e implementare le scelte migliori. Quando ciò non è accaduto, le conseguenze sono state gravi. In Europa, tra le due guerre, Keynes ammonì i francesi a non forzare la mano con le pretese di riparazione dei danni di guerra, che avrebbero messo in ginocchio la Germania: cosa che puntualmente avvenne e sfociò poi nella guerra. In Italia, Modigliani e Tarantelli si fecero sentire, inascoltati, contro l’accordo del 1975 tra Confindustria, Governo e sindacati sul punto unico di contingenza, che portò a un decennio di inflazione intorno al 20%. Quando queste tre parti si siedono al tavolo, quasi sempre i contribuenti sono chiamati a pagare il conto.
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Giugno 2009, n째 71 Generare classe dirigente - 3째 Rapporto
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La Società del Marketing |giugno 2009
158 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Generare classe dirigente - 3° Rapporto Associazione Management Club Luiss University Press, Aprile 2009 50 Lettere dal Marketing - del 15/6/09 Robert Lusch, Steve Vargo University of Arizona, University of Hawaii
La crisi contribuisce a mettere in evidenza la fine di un ciclo di cultura collettiva, che riconduce al centro della scena l’economia reale, intesa anche come chiamata di responsabilità. Il sistema dei valori riprende in considerazione il peso dell’interesse collettivo, dell’eguaglianza sociale (almeno nelle opportunità), dell’attenzione per il futuro, della sostanza rispetto all’apparenza.
Ad ogni modo, alla classe dirigente viene riconosciuto un patrimonio di valori da gestire in positivo per superare la crisi e proiettare il Paese nella fase successiva, a patto di saper: ..
Promuovere la responsabilità come valore.
..
Promuovere la fiducia basata sui comportamenti.
capacità della classe dirigente percepite dalla popolazione applicazione di criteri di merito per accedere e fare carriera nelle professioni
medico
Se si vuole uscire dalla crisi “non si può più vendere un futuro improbabile, ma si può invece ricostruire un futuro possibile”. Più specificamente, si registra la diffusa sensazione che: ..
Il “ciclo dell’avere” debba essere completato da un “ciclo della responsabilità”.
..
Il “ciclo dei diritti” debba essere affiancato da un “ciclo dei doveri”.
..
Il “ciclo delle non regole, del non rispetto dell’altro e dell’eccesso” debba essere equilibrato da un “ciclo del rispetto dell’etica diffusa”.
24
dirigente piccola impresa
21
imprenditore media impresa
20
imprenditore grande impresa
19
dirigente media impresa
19 14
dirigente grande impresa classe dirigente
10
magistrato
10
dirigente bancario/finanziario
9
giornalista
9
Tuttavia, il Rapporto mette in guardia dalla “tentazione del pendolo”: aver attribuito in passato al mercato tutti i meriti (fino all’estremo) non deve autorizzare all’errore opposto, di attribuire tutte le soluzioni all’intervento dello Stato nell’economia. Dunque, il ritorno al reale suscitato dalla crisi non sembra cancellare, ma anzi sottolineare, il valore del merito, percepito come strumento importante per uscire dalle difficoltà. Il campione – rappresentativo della popolazione italiana – ha espresso un giudizio molto netto e critico sulla percezione che ha della capacità della classe dirigente, nelle sue diverse componenti. Si nota che al fondo, con un saldo negativo, viene posizionata la componente “pubblica” della classe dirigente: in ultimo i politici e poco sopra il management della macchina amministrativa dello Stato e degli enti pubblici. Appena meglio, e comunque con un saldo positivo, il gruppo dei professori, giornalisti, bancari e magistrati. La stima degli italiani va dunque alla classe dirigente che opera nel sistema produttivo privato, siano essi imprenditori o manager, mentre al top si posizionano i liberi professionisti, ritenuti i più capaci e selezionati in base al merito, seguiti dai medici.
32
libero professionista
professore università -17 -27
4
dirigente pa
esponente politico
Insomma, la nuova situazione sollecita una chiamata all’assunzione di responsabilità (accountability) che diventa, da strumento tecnico, una categoria etica, sociale e politica. È in questo quadro che la classe dirigente deve dimostrare di saper promuovere una filiera del merito, che faccia da leverage positivo di sviluppo, specialmente nella situazione critica che stiamo vivendo. La popolazione ha anche indicato le caratteristiche che una classe dirigente adeguata al compito dovrebbe esprimere, che possono essere sintetizzate in 3 aree. Al primo posto c’è l’area delle competenze/capacità: il Paese deve essere in grado di selezionare dei leader preparati per i compiti che devono affrontare. Al secondo posto troviamo l’area che definisce l’approccio del leader: senso di responsabilità, decisionismo e organizzazione/management.
6° messaggio. Non bisogna farsi illusioni sulla rapidità di entrata di una vera “stagione del merito”, anche se questo è sostenuto in maniera più esplicita che in passato. 7° messaggio. Serve un equilibrio tra riconoscimento del merito educativo e riconoscimento del merito professionale. 8° messaggio. Un’elite può essere selezionata con meccanismi di merito (formativi o professionali), ma anche con meccanismi basati sulle relazioni.
Al terzo posto, decisamente meno importante per la popolazione, troviamo la fedeltà e il rispetto delle regole e delle direttive, ma anche la necessità di senso etico/legale. È significativo che la popolazione abbia attribuito scarsa importanza al senso di legalità, come aveva invece fatto nella stessa indagine del 2007, quando “senso morale, legalità, etica” erano al vertice delle caratteristiche richieste (90%). Nello specifico, le indicazioni emerse dalle interviste sono sintetizzabili come segue. 1° messaggio. La maggioranza degli intervistati esprime una valutazione positiva della formazione ricevuta, rispetto all’immagine mediamente negativa delle istituzioni universitarie e scolastiche. 2° messaggio. Esiste un’esplicita e ripetuta domanda di merito e di maggior severità, proveniente non solo dalla scuola/università, ma anche dalla popolazione intervistata. 3° messaggio. È necessario lavorare su una filiera lunga ed integrata di formazione-lavoro piuttosto che separatamente sulla formazione e sul lavoro (pubblico o privato che sia). 4° messaggio. C’è la progressiva maturazione di una cultura complessiva del merito, inteso come “virtù pubblica”. 5° messaggio. L’ambiente aziendale può costituire un laboratorio di formazione di classe dirigente sul lavoro.
Passando agli interventi positivi, la ricerca indica alcune scelte di politica operativa per promuovere la filiera del merito e della responsabilità. Innanzitutto, il percorso formativo deve assumersi la responsabilità di far conseguire agli studenti l’apprendimento previsto, senza scaricare sui cicli successivi le carenze. In secondo luogo, non è possibile applicare criteri di merito agli studenti da formare, senza fare altrettanto con gli operatori della formazione, promuovendone la motivazione ma anche la selezione. In conclusione, il compito della classe dirigente è di riorientare e rafforzare il Paese, di fronte alla sfida che la crisi pone, non limitandosi a fornire risposte di protezione e difesa, che pure sono necessarie. Si tratta di creare una sintonia al rialzo in chiave di sviluppo e non una sintonia al ribasso, centrata sull’assistenza e sulla protezione. Bisogna avviare e gestire un processo culturale che saldi Responsabilità e Fiducia, impegnando la classe dirigente a promuovere il merito non solo verso il basso, ma anche verso l’alto: dunque verso se stessa
caratteristiche attese in una classe dirigente "ideale" avere attitudine e capacità
85 78
essere competenti assumersi le proprie responsabilità
63
saper prendere decisioni corrette e tempestive
63
saper organizzare il lavoro proprio e degli altri
63
osservare fedelmente le regole dell'organizzazione
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avere senso etico e della legalità
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attenersi alle direttive avute essere fedele ai capi
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essere capaci di fare proposte
26 0
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Ottobre 2009, n째 74 After the storm. A Special report of the world economy
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La Società del Marketing | ottobre 2009
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After the storm. A Special report of the world economy Simon Cox The Economist, October 3rd 2009 Lezioni di strategia della crisi - del 20/10/09 Giorgio Di Giorgio Luiss Guido Carli
L’economia mondiale si sta riprendendo dal disastro finanziario. Ma non ritornerà alla normalità di prima. Il comunicato rilasciato dal G20 di Pittsburgh ha usato il termine “normalcy”, con cui si intende ciò che è normale allorché la gente non lo considera più scontato, garantito. Oggi, dopo la crisi, la gente chiede stabilità e prevedibilità, due cose normali ma non più scontate. Ci sono periodi di crescita e periodi di crisi. Ma le crisi non sono tutte uguali. Alcune fermano la crescita. Altre cambiano il contesto. Anche dopo che sono passate, la situazione non ritorna come prima, ma si assesta su una “nuova normalità”.
Ciò significa che – rispetto a prima della crisi – i consumi resteranno più bassi e il costo del denaro più alto. L’economia mondiale può anche crescere per alcuni trimestri, ma non arriverà ai livelli a cui sarebbe stata se non fosse scoppiata la crisi. Allora, escludendo la prospettiva più ottimistica, di una ripresa che recupera totalmente la ricchezza persa in questi mesi, restano due scenari possibili: ..
1. L’economia torna a crescere ai ritmi di prima, pur senza recuperare quanto lasciato sul campo in questi mesi. È quanto accaduto in genere nelle precedenti crisi finanziarie, come ricorda l’FMI. 2. L’economia si assesta su tassi di crescita inferiori a quelli di prima. Investimenti, occupazione e produttività crescerebbero, ma meno di prima.
..
after the fall scenarios for recovery
Quale sarà la “normalità” dopo che la più grande crisi dai tempi della Grande Depressione sarà passata?
scenario 1: full recovery
Eppure, uno sguardo più attento consiglia di essere prudenti. L’economia sta tornando a crescere, ma non sta tornando alla “normalità”.
output level
Gli indicatori economici appaiono rassicuranti. Le previsioni a breve sono di crescita e la borsa è in ripresa. La produzione ha smesso di diminuire in tutte le principali economie del mondo. L’FMI ha recentemente aggiornato la stima di crescita del 2010 al 3,1%, dall’1,9% di aprile. Gli analisti non sono più tanto pessimisti.
baseline scenario 3: widening loss scenario 2: permanent loss years
source: european commission
La disoccupazione sta ancora aumentando e molta capacità produttiva resta inutilizzata. Le principali cause della crescita attuale sono precarie e temporanee.
I risultati dei due scenari sarebbero molto diversi. Nel secondo caso, un deterioramento permanente del potenziale di sviluppo delle economie darebbe luogo a un futuro piuttosto grigio di redditi più bassi e aspettative modeste.
..
È precisamente ciò che la politica deve evitare ad ogni costo, realizzando interventi delicati e abili:
.. ..
La ricostituzione delle scorte di magazzino non durerà per sempre. La domanda mondiale è stimolata dai governi, non dagli animal spirits del mercato. In molte economie mature, il debito delle famiglie è preoccupante e le banche sono sottocapitalizzate: anche se ora sono ammortizzati dagli interventi fiscali e monetari, gli squilibri finanziari delle famiglie e delle banche rimangono.
.. .. ..
Stimolare la domanda senza devastare i conti pubblici. Contenere la disoccupazione senza ingessare il mercato del lavoro e il passaggio dei lavoratori da settori vecchi e maturi a settori nuovi e in espansione. Ma soprattutto, stimolare l’innovazione e i commerci, che sono in ultima istanza i veri motori dello sviluppo.
Stimolare la domanda è la cosa più urgente. Non è un segreto che la domanda globale debba essere riequilibrata. I consumatori americani – già troppo indebitati – devono darsi una regolata, mentre i paesi in crescita devono spendere di più e risparmiare di meno.
I Governi devono anche combattere la disoccupazione senza ingessare il mercato del lavoro. La disoccupazione prolungata è un danno, perché le persone perdono le competenze e il legame con il mondo del lavoro, e questo giustifica interventi di salvataggio dell’occupazione o di agevolazione delle assunzioni.
Ciò implica che la Cina rafforzi la sua moneta e lo “stato sociale”, in modo da aumentare la quota di PIL che va ai lavoratori. La Germania e il Giappone devono introdurre riforme strutturali per favorire la crescita della spesa, soprattutto nei servizi. Finora è mancata la volontà politica, ma il G20 ha dato dei segnali incoraggianti, impegnando i membri a rivedere le loro politiche economiche con gli altri membri.
in lockstep oecd countries, % change on previous year 5 gdp* 4 3
La spesa privata, nelle economie mature, non crescerà subito. L’economia dovrà fare affidamento ancora per molto sulla spesa pubblica, più a lungo di quanto sarebbe auspicabile. Interventi di pressione fiscale atti a rigenerare le finanze degli stati deprimerebbero la ripresa, come è accaduto in America nel ’37 e in Giappone alla fine degli anni ’90.
2
industry r&d*
I Governi dovranno mettere a posto i bilanci, ma solo quando il settore privato sarà forte abbastanza, e usando strumenti che aiutino la crescita economica. Il grosso cioè dovrebbe venire da tagli di spesa. Comunque, nel caso, meglio tassare i consumi e il carburante che non i salari e i profitti.
1982
spain ireland sweden united states euro area denmark britain italy oecd germany canada australia france japan source: oecd
4
6
8
10
85
source: oecd
90
95
2000
05
07
*divided by standard deviation
Ma non tutti gli interventi sono validi allo stesso modo. Uno dei sistemi migliori, adottato in Germania, è quello di aiutare le imprese che tagliano le ore di lavoro anziché i posti, per mantenere intatta la capacità della forza lavoro. Dopodiché, il mercato deve essere libero di reinventarsi, lasciando che i settori industriali vecchi siano rimpiazzati da nuovi settori in sviluppo.
actual change from trough to q2 2009 forecast change from q2 2009 to q4 2010 2
0 1
grim, and getting grimmer unemployment rate. changes in percentage points
0
1 +
12
Ma più di ogni altra cosa, sarà la crescita della produttività a determinare il nuovo equilibrio (la “normalità”). Nel mondo ricco, la produttività dipende dall’innovazione, mentre altrove è il commercio a pesare di più. La crisi sta minacciando entrambi. Le imprese che hanno difficoltà economiche e finanziarie tagliano subito la spesa per la ricerca e lo sviluppo. Le economie emergenti devono ripensare la loro dipendenza dalle esportazioni. Sia i Governi dei paesi ricchi che quelli dei paesi emergenti saranno tentati di intervenire. Ma devono evitare di proteggere settori specifici. Le forze sane del mercato saranno molto più efficaci delle politiche industriali per stimolare la produttività. Tutto considerato, la tempesta è passata, ma le difficoltà sono ancora enormi. I politici hanno molte cose da fare – e molti errori da evitare – se vogliono ottenere il massimo dalla ripresa.
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Febbraio 2010, n째 78 43째 Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese
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La Società del Marketing | febbraio 2010
166 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
43° Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese Giuseppe De Rita Fondazione Censis, 4 dicembre 2009 Un nuovo consumatore: gli anziani che non invecchiano (R) - del 18/2/10 Pier Luigi del Viscovo Istituto Sperimentale di Marketing
“È passato e passa il tempo, in compresenza di paure e scampate paure, ma quel “non saremo mai più come prima” che un anno fa dominava la psicologia collettiva sembra essersi mutato in un “siamo sempre gli stessi” che ci appiattisce alla contingenza, ma non ci deprime. È avvenuto che il modello su cui silenziosamente si incardina la nostra società ha ancora una volta funzionato, replicando se stesso. Abbiamo infatti resistito alla crisi: .. .. .. ..
..
perché non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale; perché il settore bancario ha mantenuto un forte aggancio al territorio; perché il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende; perché abbiamo un mercato del lavoro per metà molto elastico (si pensi alle dimensioni del sommerso, fra l’altro ulteriormente crescente ) e al tempo stesso molto protetto (si pensi al peso del lavoro “fisso” e degli ammortizzatori sociali); perché imprese e lavoro sono da sempre fortemente protetti dalla patrimonializzazione delle famiglie (risparmi e proprietà della casa); perché tutti i soggetti della società vivono quotidianamente integrati al territorio, alla sua coesione sociale e alla responsabilità delle sue amministrazioni. Se abbiamo passato senza troppi danni il 2009 lo dobbiamo senza dubbio all’intrecciarsi quotidiano di queste componenti socioeconomiche, come del resto ammettono tutti gli osservatori, anche quelli che per anni le hanno ritenute regressive sul piano della modernità del sistema.
Il Censis riscontra due “vibrazioni collettive”, una difensiva e una innovativa. Sul primo fronte, quello difensivo, si comincia ad avvertire la stanchezza di sopravvivere resistendo “alle pressioni degli eventi”, vivendo “da molti mesi in apnea”.
Ma pure in tale sforzo, gli italiani continuano “a ruminare giorno per giorno” uno sviluppo incrementale, che “è il nostro modo fattuale di sfuggire all’esistente ed evitare di adattarvisi”. Si osservano “tre grandi processi di complessa trasformazione del sistema”: ..
una “ristrutturazione del settore terziario”, in cui tende ad affermarsi una logica selettiva, fondata sulla qualità;
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una “tendenziale" attribuzione della leadership dello sviluppo sulle spalle del sistema delle imprese;
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“un ritorno all’importanza prioritaria degli interessi e alla tendenza ad agirli in presa diretta, più che a rappresentarli sul piano dell’opinione collettiva.” È questo “il processo più sostanziale e delicato dell’attuale momento."
In un periodo storico in cui il mondo della rappresentanza ha perso una delle sue storiche gambe, cioè la carica di pressione identitaria (di classe, di gruppo sociale, di movimento), ritorna in piena nudità e senza pudori la seconda gamba, quella degli interessi reali. E cresce la volontà di perseguirli con un’azione diretta. Siamo un Paese pervaso dagli interessi, ma essi si coagulano sempre meno nella loro rappresentazione all’interno del mondo dell’opinione, cercano piuttosto una agibilità diretta. Ma il primato dell’opinione (che spesso scivola nel cosiddetto opinionismo), lasciato in libertà rispetto ai temi e alle tensioni degli interessi, resta a produrre effetti non di alta qualità nella vita quotidiana e in particolare nelle sue componenti sociopolitiche, partitiche o giornalistiche che siano. Queste, anche quando non cedono al degradarsi verso il gossip, restano comunque prigioniere nell’esasperazione di un diffuso antagonismo (talvolta a forte tasso di personalizzazione) che non permette loro di uscire dal recinto dell’opinione, nel quale possono solo esasperare il proprio grido. In particolare i soggetti politici, piccoli o grandi che siano, perdono quel ruolo di pensamento, di ricerca, di proposta, di sintesi interpretativa che solo può legittimarne la leadership. Nell’antagonismo vissuto colpo su colpo si perde infatti la capacità di pensare su tempi lunghi, di lavorare sugli assi di progressione della nostra storia, di convogliare energie collettive sui necessari obiettivi di sistema. In ultima analisi viviamo in un mare spesso tumultuoso di opinioni, ma: ..
non abbiamo nessuno spazio di autorità condivisa;
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le poche strutture di autorità sono tutte più o meno provocatoriamente autoreferenziali;
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le persone deputate a queste strutture oscillano fra l’autogratificante esercizio dei loro piccoli poteri e il loro decrescente padroneggiamento rispetto agli interessi in atto;
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non c’è quindi autorità anche nell’autorità più alta e tradizionale, cioè nello Stato, dove verso l’esterno tutto è inerme (si pensi al deficit sul patrimonio delle infrastrutture e delle opere pubbliche) mentre all’interno si diffonde un senso di generale demotivazione, tanto che è verosimile che i tanti dipendenti che vagano nei palazzi burocratici siano vittime più del “non avere nulla da fare” che della loro conclamata “fannullaggine”; e non bastano a restituire allo Stato autorità e fiducia isolati episodi di un buon governo del fare, validi nello specifico ma ininfluenti rispetto alla necessità di una politica di sistema e rispetto alle grandi esigenze dell’assetto complessivo, infrastrutturale o intellettuale che sia, del sistema.
Avviene così, quasi paradossalmente, che mentre la retorica collettiva sembra preoccupata di difendere, salvare, rilanciare la dimensione politica e statuale, la corrosione esercitata su tale dimensione dal primato dell’opinione ha comportato un grande deficit di interpretazione sistemica; di visione complessiva di cosa siamo e del dove stiamo andando; di capacità e volontà di definire una direzione di marcia su cui orientare gli interessi in giuoco, i processi in atto e la stessa volontà di agire. Questo “triplice drammatico deficit” ha fatto emergere “l’esigenza di un’adeguata nuova élite culturale e/o di una nuova leadership di classe, presuntivamente neoborghese”, che però appare contrastata dalla presenza, “di tre parziali élite e di tre piccole borghesie, che facendo riferimento a tre culture diverse (quella di tradizione risorgimentale, quella dell’impegno sociopolitico riformista, quella che difende e promuove la competizione individuale e il mercato) non diventeranno mai una élite al singolare e non diventeranno mai una borghesia al singolare. Il fatto è che le tre culture (risorgimentale, riformista e individualista) sono sempre meno spendibili come fattori di mobilitazione sociale e politica. La prima, consegnata alla storia tanto enfaticamente quanto frettolosamente, senza averla calata mai nella quotidianità sociale.
“L’opzione riformista, con la politica che modifica le strutture pubbliche in risposta al crescente peso dei bisogni sociali, è un’opzione che non ha più quella credibilità necessaria per sostenere, se non una ideologia di media levatura, almeno un ciclo politico di una certa consistenza. Alla cultura risorgimentale e alle aspirazioni riformiste si è andato sovrapponendo, dagli anni ’70 in poi, un terzo ciclo di ispirazione culturale centrato sulla soggettività individuale, sullo spirito competitivo, sul libero giuoco del mercato. Ma anche questo invasivo primato della soggettività è destinato, seppure con una certa sfasatura temporale rispetto alle altre due culture sopracitate, a declinare, a sfarinarsi silenziosamente. Il “fai da te” è sempre più visto come comportamento rassegnato e non come sfida vincente; l’individualismo vitale è sempre meno capace di risolvere i problemi della complessità che lo trascende; il soggettivismo etico mostra la corda rispetto all’esigenza di valori condivisi; senza contare che la spietatezza competitiva e la carica di egoismo che derivano dal primato della soggettività hanno creato squilibri e disuguaglianze sociali che pesano sulla complessiva qualità e coesione della vita collettiva. Il protagonismo soggettivo potrà ancora supportare qualche avventura personale (sempre meno), ma non sembra più capace di innervare pensieri e gruppi sociali trainanti, di esprimersi in modo tendenzialmente egemonico. La domanda in fondo è: “è in grado la attuale società italiana, quella società replicante di cui si è parlato all’inizio, di trovare la strada per costruire un ciclo di nuovo orientamento allo sviluppo? Si può rispondere che “chi replica non crea”, ma il modello di sviluppo italiano è “un modello storico, cresciuto dal basso, nel tempo, senza transeunti basi ideologiche e progettuali. Esso è quindi strutturalmente restio a cedere il passo ad approcci, élite e protagonisti di più o meno alto pensiero.” Dunque forse è più corretto concludere “che il destino di questo sistema, forse senza che esso se ne renda conto, è quello di costruire costantemente il dopo, in uno scambio continuo e in una costante combinazione fra adattamento e sviluppo incrementale. Difendendo oggi i suoi processi e le sue sfide nella ristrutturazione terziaria, nel compiuto protagonismo del mondo delle imprese, nell’arricchimento dei criteri di agire gli interessi reali. Sfide certo meno appassionanti, rispetto alla retorica nostalgia dei cicli precedenti e ai richiami fondamentalisti; e sfide faticose da sostenere da un modello vocazionalmente replicante. Ma sfide storiche, poste dal tempo. Qui e adesso.
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Marzo 2010, n째 79 Gendercide
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La Società del Marketing | marzo 2010
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Gendercide Briefing The Economist, March 6th 2010 Il marketing in tempi di crisi. Intelligence. Budgeting. Support to sales. Business development - del 18/3/10 Multi-speaker /
Immagina di essere un giovane marito in attesa del primo figlio, in un paese povero ma in forte sviluppo. Sei parte di una nuova classe media, il tuo reddito è in crescita e pianifica una famiglia piccola. Ma i costumi tradizionali ancora ti condizionano, specialmente nella preferenza dei figli maschi verso le femmine. Magari il lavoro per sfamare la famiglia è ancora molto duro, da maschi. Magari solo i maschi possono tuttora ereditare la terra. Magari una femmina è destinata a sposarsi e entrare a far parte di un’altra famiglia, lasciandoti solo in vecchiaia, senza nessuno che possa prendersi cura di te. Magari le serve una dote. Ora immagina che puoi permetterti un’ecografia. L’ecografia dice che sarà una femmina. Tutti intorno a te reclamano il maschio. Tu stesso preferiresti un maschio. Tu non ti sogneresti mai di uccidere una bambina, come fanno là nei villaggi. Ma un aborto sembra un’altra cosa. Che fai?
In Cina e in India settentrionale il rapporto alla nascita tra maschi e femmine è 120 a 100. In natura è sì leggermente a favore dei maschi, per bilanciare una maggiore esposizione dei ragazzi alle patologie infantili, ma non in questa misura. roads to gendercide males per 100 females, 0-4 year old
3 125
northwest india (punjab and haryana) china
120 115 110
south korea
105
india 100 1949
60
source: world bank
70
80
90
2000 05
Per chi è contrario all’aborto, si tratta di un omicidio di massa. Ma anche chi pensa che l’aborto debba essere “safe, legal and rare” (per dirla con Bill Clinton) deve riconoscere che questo fenomeno è una catastrofe, con conseguenze gravi sul piano sociale. In Cina ci sono più giovani uomini non sposati di quanti uomini in totale ci siano negli USA. Ora, dovunque nel mondo giovani maschi sciolti significano problemi. Nelle società asiatiche, dove il matrimonio e i figli sono il viatico d’ingresso in società, sono visti alla stregua di criminali. where boys are off balance males per 100 females at birth. 2000-05 natural ratio 100
105
110
115
120
coinvolti, tra cui Taiwan e Singapore, alcuni paesi ex-comunisti dei Balcani e del Caucaso, e perfino alcune comunità americane di origine cinese e giapponese. Il gendercide esiste in quasi tutti i continenti e riguarda i ricchi come i poveri, i colti e gli analfabeti, gli Indu, i Musulmani, i Confuciani e i Cristiani. Il benessere non è di per sé un freno. Taiwan e Singapore sono economie ricche e aperte. Le zone della Cina e dell'India che hanno il peggior rapporto uomini/donne sono quelle più ricche e alfabetizzate. one child policy males per 100 females
china armenia
strict
medium
relaxed
130+
120-129
110-119
< 110
azerbaijan georgia south korea india serbia belarus bosnia cyprus hong kong singapore source: united nations Milioni di donne mancano all’appello perché abortite, uccise o semplicemente abbandonate a un destino di morte. Non è un’esagerazione definire questo fenomeno un “gendercide”. Amartya Sen, premio Nobel per l’economia, ha fissato il numero a 100 milioni. Ma nel 1990: oggi è più alto, perché in aumento. In Cina il rapporto maschi/femmine alla nascita era 108 negli ultimi anni ’80, ma era arrivato a 124 all’inizio del millennio e in alcune province tocca quota 130. Sarebbe un errore ritenere che questa carneficina sia soltanto cinese. In Cina è senz’altro più marcata, ma molti altri paesi sono
source: bmj 2009 La politica della Cina in favore del figlio unico spiega solo in parte il fenomeno, visto che molti altri paesi ne sono colpiti. In effetti, le cause dello sterminio delle bambine sono tre. 1. 2. 3.
L’antica preferenza per i figli maschi. Il desiderio moderno di famiglie più piccole. L’ecografia.
Nelle società in cui avevi comunemente 4 o anche 6 figli,
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Gendercide
172 la probabilità che prima o poi arrivasse il maschio era molto alta, quasi una certezza. Adesso che al massimo si pianificano due figli – o si deve rispettare il limite di uno solo, come in Cina – è frequente abortire un feto femminile e riprovare, nella speranza che venga il maschio. Ecco perché il rapporto maschi/femmine è più distorto proprio nelle zone più evolute. Ed ecco anche perché l’anomalia si amplifica dopo il primo figlio. Il primogenito può anche essere una femmina, ma il secondo deve a tutti i costi essere maschio, visto che non ci sarà un’altra possibilità.
no younger sisters males per 100 females at birth, by birth order
2 200 175 150
In alcune aree, il rapporto maschi/femmine per il terzo figlio è oltre 200 (2 a 1).
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Un solo paese è riuscito a cambiare questo andazzo perverso: la Corea del Sud. Negli anni ’90 il ratio in Corea del Sud era squilibrato quasi come oggi in Cina. Oggi, sta andando verso la normalità. Non è stata una cosa voluta, ma semplicemente il frutto del cambiamento di cultura che ha interessato il paese. La donne studiano di più, il sentire comune non discrimina fra uomini e donne, le leggi prevedono uguali diritti. Tutto ciò fa apparire la preferenza per il figlio maschio una cosa antiquata e priva di fondamento.
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La modernità prima esacerba il pregiudizio (e lo aiuta, con la tecnologia), poi lo annulla. Ma il cambiamento è avvenuto quando la Corea è diventata una società opulenta. Cina e India hanno un reddito procapite pari a un quarto e un decimo della Corea, rispettivamente. Aspettare che il benessere e la modernizzazione facciano il loro corso significherebbe sacrificare ancora molte generazioni di bambine. Questi paesi devono agire direttamente per contrastare questa barbarie, anche nel loro stesso interesse. Ovviamente, la Cina dovrebbe abbandonare la politica del figlio unico, anche se i governanti fanno resistenza perché hanno paura dell’incremento di popolazione. Ma questo limite non è più necessario (se mai lo è stato), visto che altri paesi asiatici hanno diminuito il tasso di natalità quanto la Cina, senza questa indebita pressione. Per non dire che le sue distorsioni sul rapporto maschi/femmine sono devastanti, anche a livello sociale. Il presidente Hu Jintao afferma che il suo principio guida è la costruzione di “una società armoniosa”. Politiche che stravolgono la vita familiare così profondamente non possono andare in quella direzione.
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birth order taiwan (1990)
south korea (1992)
china (2005)
sources: park and cho, population and development review, vol 21, no 1, march 1995; bmj 2009 Tutti questi paesi devono rivalutare il valore delle bambine, incoraggiando la loro scolarizzazione, abolendo leggi e costumi che le escludono dalla linea ereditaria, far accedere le donne alla vita sociale. Mao diceva che “le donne reggono metà del cielo”. Se il mondo non fa abbastanza per fermare questo gendercide, il cielo rischia davvero di venire giù.
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Maggio 2010, n째 81 NOI
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La Società del Marketing | maggio 2010
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NOI Walter Veltroni Rizzoli, 2010 Prospettive sociali e politiche (cioè NOI) - del 20/5/10 Walter Veltroni Camera dei Deputati
Quali desideri, speranze, timori avevi la notte del 31 dicembre 1999? Dov'eri il 23 novembre 1980, il giorno del terremoto in Irpinia? E l'8 dicembre 1980, quando fu ucciso John Lennon? Hai ricordi – diretti o dei tuoi famigliari – dei discorsi di papa Giovanni XXIII, come quello "della luna" l'11 ottobre 1962? E dei fatti drammatici del 1943: il bombardamento di San Lorenzo (19 luglio), la caduta del fascismo (25 luglio), l'armistizio (8 settembre), la deportazione degli ebrei di Roma (16 ottobre)?
Il senso del libro NOI di Walter Veltroni – per me – non è nelle storie che racconta. Sono quattro storie diverse e distaccate tra loro. Ognuna potrebbe vivere da sola. Per il lettore. Ma non per i protagonisti. Alcuni di loro si portano dietro la storia o le storie che hanno vissuto vent’anni prima. Stanno molto attenti a non riversarle sui contemporanei né sul lettore, ma loro la ricordano, e te lo dicono. Tu che leggi non hai bisogno di conoscerla, ma loro sì. La portano con sé. Vengono da prima. Tutti tranne gli ultimi. Questo per me è il senso: la dimensione temporale delle persone e delle loro vite. Non ci possiamo vedere solo nell’oggi, ma nel passato e nel futuro. Questo è duro, perché porta e impone responsabilità che l’oggi potrebbe non includere. Ma credo sia ineluttabile. È lo spessore temporale. Ma nell’ultima storia il meccanismo si inceppa, quasi scompare. È come se fosse successo qualcosa nelle persone del 2025. Una frantumazione, che rende possibile essere sganciati, galleggiare nel momento. Esistono e vivono. Ma potrebbero anche non farlo. Questa è l’intervista di Veltroni da corriere.it (…) Noi perché Io è poco. L’Io è stato la libertà, oggi che non ci sono più le ideologie però l’Io non ce la fa più, quindi la rete ed il Noi diventano particolarmente importanti. Umanamente stare nella rete è meglio che far parte della rete. Quando si sta sulla rete la si guarda dall’esterno con una certa freddezza… bisogna starci dentro per condividere le passioni, le speranze, le ansie, i sogni… il resto è una funzione che spetta a chi la deve descrivere, non a chi la deve vivere. Girando l’Italia ho imparato che c’è un Paese molto preoccupato, molto incupito e che non c’è più quella voglia di futuro che ha sempre avuto dal dopoguerra in poi. Adesso si ha come la sensazione di uno sfarinamento. Il forum di Noi mi ha insegnato che c’è una gran voglia di raccontare e questa è una cosa bellissima, finché c’è voglia di raccontare un Paese è vivo, e vorrei dire anche che finché c’è voglia di ascoltare un Paese è vivo. Si tende a vivere in un presente attraversato bulimicamente e questo io lo considero l’elemento più drammatico del nostro tempo, anche perché quando si toglie la memoria ad un Paese lo si espone alla possibilità di ripetere le tragedie che ha già conosciuto e compiuto. La memoria è uno stranissimo animaletto che si presenta se sollecitato o suscitato da eventi esterni o anche di impatto
Obama e Kennedy sono figli di un tempo diverso della stessa matrice culturale. Sono le due esperienze di presidenza americana che si assomigliano di più negli ultimi 50 anni. La speranza di Noi è che questo Paese ricominci ad avere speranza, perché un padre deve sapere che lavora tutta la vita perché il figlio possa fare meglio di lui…e non è più così. È questa la speranza di cui parlavo, non una speranza astratta, non un valore ma la speranza concreta che l’ascensore sociale di questo Paese ricominci a muoversi perché è fermo da troppo tempo e l’aria si sta facendo irrespirabile. Per me l’Ulivo e il PD erano la stessa cosa e cioè l’idea della costruzione di un soggetto riformista nel quale far convergere vecchie e nuove culture politiche in una sintesi e in una fusione tutta nuova. Siamo un Paese in eterna emergenza, in cui c’è sempre un’elezione da affrontare, una crisi da risolvere e soprattutto, o forse per questo, siamo un Paese senza progetti, non c’è più l’ideologia che dava una risposta a tutto ma ci deve essere una visione, si deve dire al Paese dove lo si vuole portare e io francamente questo, in questo momento, non lo vedo. con le cose. Io nel libro ho parlato di tantissime cose (il tempo raccontato dal libro) e quando andavo a presentarlo c’era sempre qualcuno che si alzava e faceva riferimento ad una di queste cose, fosse la Coccoina piuttosto che i biscotti Strudel piuttosto che il gioco del meccano; la memoria agisce così, per impulsi esterni e anche questa è una memoria che dobbiamo salvaguardare, se viene perduta individualmente alla fine ci si scopre più soli di quanto si pensi. Nel mio caso la politica e la letteratura sono due mezze mele di una persona, sono due grandi passioni ma non le uniche della mia vita perché spazio dal cinema, alla musica, allo sport. Bisogna avere passioni, avere cose che ti entusiasmino anche gratuitamente, anche futilmente. Quando un Paese esplode di gioia perché Grosso ha tirato il rigore contro la Francia, in fondo è stato bravo Grosso, questo avvenimento potrebbe non riguardarli, invece li riguarda perché un Paese ha anche il diritto e il bisogno di essere felice. Sin da bambino sono sempre stato innamorato della Juve, il calcio naturalmente è un gioco, però per me è sempre stata una passione vera. Per quanto mi riguarda è più il jazz che il rock perché il jazz è una meraviglia di creatività e per me è il sinonimo della libertà. Credo sia la migliore colonna sonora di questo tempo che viviamo proprio per il suo carattere di destrutturazione e di ricostruzione sempre nuova.
A questa cosa che il Paese sia migliore della classe politica non ho mai creduto, in fondo il Paese sceglie la sua classe politica, la esprime. In questo momento ho l’impressione che il Paese sia arroccato. So che c’è un tempo in cui la speranza è più difficile da promuovere, però so anche che una società senza speranza è destinata a morire. Cosa vuol dire cambiare? È una bellissima domanda in un Paese come il nostro. Grandi rivoluzioni, odio, morti ammazzati, sangue per strada… e tutto è sempre uguale. Prendiamo la mafia che c’era in questo Paese, c’è e che tutti danno per scontato che ci sarà. No, bisogna affrontare con coraggio questa questione e questo significa cambiare un Paese; non le chiacchiere, ma il cambiamento fatto dalle decisioni prese. Ci vuole qualcosa che sta sparendo nella politica, che è il senso del valore della priorità degli interessi nazionali: il dividere il nord dal sud del Paese, lo scagliarsi contro gli immigrati, il mettere contro giovani e anziani, alla fine sfascerà questo Paese. Per me il domani? Non posso pensare che domani sarà peggio dell’oggi o peggio di ieri…non può che essere migliore perché se non è migliore rischiamo tutti quanti. Il messaggio agli italiani è di avere il coraggio di ritrovare la speranza. Ci vuole coraggio adesso. È molto più semplice adagiarsi sulla paura, ci vuole il coraggio di ritrovare la speranza.
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Luglio 2010, n째 82 Economic conditions snapshot
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La Società del Marketing | luglio 2010
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Economic conditions snapshot McKinsey Global Survey Results McKinsey & Company, December 2009&April 2010 2011. Prevedere i consumi e i mercati - del 8/7/10 Multi-speaker /
non troverà le imprese così esposte. Al secondo posto però c’è il lancio dI nuovi prodotti e servizi, perché la domanda si sta scaldando di nuovo e questo è il tempo in cui si possono rimettere in discussione le posizioni di prima, proponendo un’offerta nuova.
top priority in ceos’ agendas in 2010 males per 100 females at birth, by birth order stabilizing company finance geographic expansion r&d/development of new products or services improving operational efficiency hiring new talent m&a managing potential volatility retaining and developing existing talent adapting to new or potential regulation
steps companies will take in next 12 months
1
4
9 6 6
16 14 12
23
% of CEOs who ranked given action no. 1, n = 192 1
I top executive di tutto il mondo stanno compiendo i primi timidi ma decisi passi per cogliere le opportunità che scorgono nel miglioramento della situazione economica. Sebbene gli executive siano consapevoli che il vero rischio per la crescita sia ora la reale consistenza della domanda, 6 su 10 confidano in un aumento di domanda da parte dei propri clienti. Certo, il primo pensiero è ancora l’equilibrio finanziario. I CEO che mettono in cima alle priorità la stabilizzazione dell’impresa dal punto di vista finanziario sono il gruppo più rilevante. Ma subito dopo troviamo quelli che mettono al primo posto lo sviluppo dei mercati e lo sviluppo dell’offerta (nuovi prodotti e servizi). Anzi, sommando queste due priorità, potremmo dire che è la crescita del business la priorità numero uno. Il 12% mette al primo posto il lavoro sui costi, obiettivo che è probabilmente destinato a restare a lungo nelle top priority dei CEO. Quasi uno su dieci mette al top l’assunzione di nuovi talenti: segno che la ripresa è ormai una realtà. Segno confermato anche dai pochi che ancora pensano soprattutto a gestire l’incertezza e la fluidità dello scenario economico. È interessante osservare come queste priorità si riflettono nelle strategie a breve delle aziende. Al primo e al terzo posto ci sono l’aumento della produttività e la riduzione dei costi operativi. È comprensibile: le aziende vogliono diventare comunque meno fragili, più solide. La crisi passerà e verranno tempi migliori, ma la prossima
apr 2010, n = 1,896
feb 2010, n = 1,373
increase in productivity
54
introduction of new products or services
48
reduction in operating costs
47
management of pricing
46 47
hiring of talent
31
36
34 34
search for merger or acquisition opportunities increase in capital investments
18
23
15 14
exit from certain markets
14 12
increase in operating costs to manage increasing demand
12 15
reduction in capital investments
10 11
reduction in spending on philanthropic activities increase in hedging
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42
29
restructuring
57
6 4
increase in spending on philantropic activities
2
no steps
1 3
5
A seguire, le imprese si dicono impegnate nel governo dei prezzi. In effetti, non poche aziende hanno accettato (o anche proposto) prezzi e condizioni che in tempi normali avrebbero rifiutato, pur di mantenere il livello della produzione (o limitarne il calo). Ma il segnale più significativo è probabilmente la crescita
62
181
delle assunzioni, in calendario nel 2010 per 4 aziende su 10 (42% due mesi fa era 29).
Ma la crisi ha segnato profondamente l’approccio delle imprese all’intelligence e al planning.
Ma su quale scenario i CEO di tutto il mondo basano queste priorità strategiche?
Adesso molti top executive indicano che le aziende stanno ricominciando a pianificare per il futuro.
A livello globale, prevedono un aumento della stabilità, frutto di una crescita forte dei mercati emergenti, mentre i mercati maturi resteranno deboli, fino a che i redditi e l’occupazione non ritorneranno a crescere.
Quelli che non vanno oltre il trimestre sono ormai una minoranza, anche se comunque c’è prudenza nell’estendere l’orizzonte dei budget e anche del planning strategico, che oggi sono più brevi di quanto lo fossero prima della crisi.
È incoraggiante che 7 su 10 prevedevano già a dicembre che per metà 2010 l’economia del proprio paese sarebbe migliorata.
A parte l’arco temporale delle previsioni, la grande differenza sta nel controllo del business rispetto al piano, che oggi viene fatto molto più frequentemente.
how do you expect your country’s economy to be at the end of the first half of 2010?1
L’altro cambiamento importante è che oggi i piani sono differenziati, in quanto tengono conto di più di uno scenario. È una complicazione forte, che rende la capacità di intelligence dell’imprese un fattore ben più critico di quanto non lo fosse diventato negli ultimi decenni.
% of respondents2 substantially worse
moderately better
moderately worse
substantially better
the same
0 dec 2009 n = 1,608
11
20
62
7
oct 2009 n = 1,698
10
25
57
7
1 Su quattro top executive intervistati a dicembre 2009, uno dichiarava che la ripresa era già in corso, un altro che sarebbe iniziata nella prima metà del 2010 e un altro ancora la aspettava per la seconda metà dell’anno. Solo uno di loro la posizionava nel 2011 o dopo. when do you expect an upturn to begin? % of respondents, n = 1,608 an upturn has already begun jan-mar 2010 april-june 2010 second half of 2010 first half of 2011 > 2 years from now don’t know
9
2
7
24 15 15
28
Non era ottimismo, ma il riscontro di esperienze concrete, sul lavoro come nella vita privata: consumi e stipendi in crescita, ristoranti e negozi più pieni, persone che cambiano lavoro e “il telefono che squilla con nuove occasioni di lavoro”.
Vengono considerate analisi aggiuntive e diverse. I senior manager vengono coinvolti di più nel processo di panificazione, sia stimolandoli a portare i problemi al tavolo, sia condividendo le decisioni.
changes in company’s processes since sept 2008 % of respondents, 1 n = 1,478 strategic-planning process frequency of assessing progress against plan time frame of plans made analyses included in process people included in process time when process takes place strategic-planning process has not changed
18 17
41 38 35 34
budgeting process more frequent assessment of budgeting process budgets now take into account several scenarios analyses included in process have changed budgets now cover a shorter time frame people included in process have changed individual department or business unit budgets are normalized for effects of external shocks budgeting process has not changed
20 17 11
32 27
25
41
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Ottobre 2010, n째 83 The American Economy - Profits, but no Jobs
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La Società del Marketing | ottobre 2010
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The American Economy - Profits, but no Jobs Briefing The Economist, September 18th and August 7th 2010 50 Lettere dal Marketing - del 1/10/10 Antonio Marzano, Matteo Caroli CNEL - Luiss Guido Carli
“Progress has been painfully slow”. È quanto ha riconosciuto il Presidente Obama poche settimane fa a proposito dell’economia americana. Le statistiche indicano che l’economia è in crescita da 15 mesi, ma a un ritmo così debole che molta gente crede di stare ancora in recessione. Per alcuni mesi, nel secondo trimestre, tutto sembrava indicare addirittura un nuovo crollo, visto che la crescita aveva rallentato all’1.6% su base annua, mentre la creazione di nuovi posti di lavoro e il mercato delle case si erano fermati. Il rischio c’era, con la crisi debitoria in Europa e il disastro BP nel Golfo. La cose sono andate meglio, ma gli indicatori non hanno dissipato le paure di un imminente ritorno alla recessione (la famosa crisi a forma di W). Eppure l’attività delle imprese – soprattutto le fusioni – indica che gli animal spirits del mercato stanno tornando. Secondo alcune stime, il tasso di ripresa dei profitti dal punto più basso della crisi è il più forte dalla fine della Grande Depressione. Le vendite al dettaglio non stanno andando male e le richieste di sussidi di disoccupazione sono in calo. Insomma, l’economia americana – pur ancora debole – non sembra sull’orlo di una ricaduta. Ma nonostante tutto, gli Americani non sono ottimisti. Non lo sono gli investitori, poiché non sono riusciti a far crescere i prezzi delle azioni in linea con la crescita dei profitti, come sarebbe accaduto prima della crisi. Non lo sono i cittadini, con un tasso di crescita del PIL intorno al 2.5%, troppo basso per assorbire la disoccupazione arrivata quasi al 10%. Non lo sono i politici, allarmati dal fatto che le imprese stanno accumulando liquidità ma senza creare più occupazione. È questo il punto. Robert Reich, economista di Berkeley e già ministro del lavoro di Clinton: “Il dato finale è che maggiori profitti delle imprese non implicano più maggiore occupazione. Siamo testimoni del fatto che la sovrapposizione profitti/lavoro sta in grande misura scomparendo.” In termini visivi, possiamo dire che “profitti” e “occupazione” sono due insiemi che non tendono più ad essere sovrapposti. Il concetto affermatosi negli ultimi decenni, che impresa
e lavoratori condividono gli stessi rischi e gli stessi interessi, sembra incrinato dai fatti. È il risultato della crisi, o meglio delle azioni intraprese per fronteggiarla. Le imprese si sono ritrovate troppo fragili, esposte e dipendenti dal sistema bancario. Non potendo contare sulle banche nemmeno per la gestione finanziaria ordinaria, avevano un disperato e urgente bisogno di riserve di liquidità. Così hanno tagliato i costi, specialmente gli investimenti e il lavoro, scongiurando la temuta pioggia di fallimenti. Ma la reazione della borsa di fronte a questi risultati migliori healthy profits, few jobs s&p 500 excl, financials, net income/loss, $ bn
us unemployment rate %
150
10 *
100
8
50
6
+ 0
4
50
2
100
0
-
2007 08 sources standard & poor's; bureau of labour statistics; the economist
09
10
*estimate
delle attese riflette comunque uno scetticismo crescente tra gli investitori, circa la capacità che le imprese mantengano questo livello di profittabilità in un’economia debole. Che i profitti calino (in percentuale) più dell’economia è normale, in tempi di recessione, così come non sorprende che recuperino più rapidamente quando il ciclo economico riprende. Ma anche in una ripresa forte, ben presto i profitti smettono di fare meglio dell’andamento generale dell’economia e si allineano: è comprensibile che gli investitori siano preoccupati di ciò che può accadere in un’economia che potrebbe rischiare una seconda caduta, come avverte Alan Greenspan. C’è però anche chi ritiene che la borsa stia perdendo un’occasione, non comprendendo che c’è in corso un cambio strutturale nell’economia. Già nel pieno di questa crisi – molto peggiore di quelle dei primi anni ’80 e dei primi anni ’90 – i profitti delle imprese in rapporto al
PIL sono calati meno di quanto sia accaduto nelle precedenti crisi. Oggi sono già all’11% del PIL. E questo fenomeno è comune ad altre importanti economie occidentali, inclusi Giappone, Germania e UK. Insomma, la maggior profittabilità delle imprese sarebbe un fatto strutturale, dovuto principalmente a tre fattori. 1.
Maggiori profitti provenienti dalle economie in sviluppo, che stanno godendo di una ripresa più forte e trainano le esportazioni.
2.
Abbondanza di offerta di lavoro, che sta facendo scendere il costo orario e aumentare la produttività.
3.
Focus delle imprese a gestire con efficienza il business esistente, invece di inseguire la crescita del giro d’affari.
Il mercato adesso sta punendo le aziende che investono sullo sviluppo del fatturato, mentre premia quelle che si stanno concentrando sul core business profittevole. Il settore delle compagnie aeree ne è un esempio. Tagliando la frequenza dei voli, hanno ridotto i posti vuoti, evitando di ripetere i disastri finanziari del passato. Quando Delta ha annunciato di voler incrementare la sua capacità di trasporto, il titolo è calato, nonostante avesse riportato di recente buoni profitti. Questo orientamento a migliorare l’efficienza senza investire sulla crescita durerà per un po’. Le imprese hanno ancora molto “grasso” da sciogliere. A cominciare dagli acquisti, dove molti stanno progettando un secondo giro di vite sui fornitori. Sia perché il primo giro, appena dopo l’inizio della crisi, non ha dato tutti i risultati attesi, sia perché anche i fornitori si sono a loro volta organizzati per ridurre i costi e possono dunque trasferire parte di queste efficienze sui costi delle imprese. Ma anche l’accelerazione sulle fusioni lascia intendere che altre aree di efficienza verranno a galla. Certo non durerà per sempre, ma per ora questa ricerca di efficienza non accenna a diminuire. E di conseguenza, la non equivalenza tra profitti e occupazione potrebbe durare a lungo. Resta da capire perché le imprese stiano puntando sull’efficienza invece che sulla crescita, sui processi anziché sul marketing. Perché la digestione di questa crisi è molto più faticosa e lunga. Quando una crisi è causata o accentuata da politiche monetarie restrittive, basta diminuire la pressione sui tassi e l’economia si riprende. Ma questa recessione è stata causata da una profonda
crisi finanziaria, non monetaria. Le riprese dopo le crisi finanziarie sono lente e deboli, perché bisogna ripristinare il sistema bancario e ricostruirne i bilanci. Secondo l’analisi delle serie storiche, questo periodo di riduzione del debito dura circa sette anni. In questo caso, le famiglie stanno riducendo il loro debito in modo insolitamente veloce, ma siamo più o meno a metà del guado. Questo fatto incide sulla domanda interna. Innanzitutto, influenzando il sentiment: gli Americani non sono ottimisti, e chi non ha ottimismo non è incline a molte spese voluttuarie, che sono quelle su cui si fonda gran parte dell’economia nei paesi occidentali. In secondo luogo, chi è gravato da un mutuo, garantito da un immobile che spesso non vale il debito, ha ancora accesso al credito, ma a condizioni diverse da prima: gli viene chiesto un anticipo maggiore e gli vengono applicati tassi di interesse più alti. Insomma, la crisi finanziaria, imponendo alle banche di ripristinare la qualità dei loro bilanci e delle loro esposizioni, interferisce con la funzione di trasmissione delle politiche monetarie all’economia reale. Le banche, alle prese con la pulizia dei bilanci, hanno minor capacità di prestare denaro ovvero sono più prudenti perché devono richiedere maggiori garanzie, per riqualificare il debito. In apparenza, oggi le banche sono molto più capitalizzate di prima, e quasi l’intero ammontare delle esposizioni verso i clienti sono garantite o coperte da apposite riserve. In realtà, ancora non è ben chiaro quale sia il rischio reale dei mutui, spesso su immobili che valgono meno di quanto scritto, di cui molti avviati a chiusura anticipata perché insostenibili da parte dei clienti. Inoltre, il fatto che molti cittadini siano legati alla casa che non possono vendere in quanto gravata da un mutuo superiore al suo valore di mercato, rappresenta per l’economia americana un fattore di vischiosità, impedendo alle persone di spostarsi dove c’è il lavoro. Se la domanda interna non riprende, la crescita economica resterà debole, incapace di stimolare l’appetito delle imprese, che dunque continueranno a seguire un modello di business meno espansivo e più rivolto alla sicurezza del risultato. I politici – invece di giocare allo scaricabarile sulle responsabilità della crisi – dovrebbero avere il coraggio di certe scelte. Incoraggiare la pulizia dei mutui sulle abitazioni. Ma soprattutto alleggerire la tassazione sul lavoro e incentivare le assunzioni, per evitare che la disoccupazione si cronicizzi. Nel frattempo, politiche di formazione per riqualificare i lavoratori alle richieste dei nuovi impieghi.
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Gennaio 2011, n째 86 44째 Rapporto sulla situazione sociale del Paese
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La Società del Marketing | gennaio 2011
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44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese Censis Fondazione Censis, 3 dicembre 2010 2011: quale Marketing? - del 26/1/11 Multi-speaker /
La crisi è arrivata e sta andando, ma senza aver sortito gli effetti dirompenti immaginati e previsti. Abbiamo resistito grazie alla qualità del nostro modello di sviluppo. Anche in presenza di una crescente (e per ora non reversibile) disoccupazione e di un calo di entusiasmo verso i consumi (o meglio gli eccessi di consumo), abbiamo tenuto il livello dei redditi e dei consumi, manifestando di recente una ritrovata fiducia nella ripresa. Certo, percepiamo le minacce della speculazione internazionale ai nostri conti pubblici, ma le lasciamo fuori dalla vita quotidiana, perché non ci sentiamo in grado di governarle. Tra il 2000 e il 2009, il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito. Ma il declino demografico o l’immobilismo del mercato del lavoro non c’entrano. incrementi % 2000-2009 a confronto paese pil occupati residenti
ita 1,4 8,3 5,8
fr 10,9 5,0 6,2
ger 5,2 2,9 0,4
uk 13,4 5,4 4,9
Il biennio di crisi è stato il culmine di un decennio segnato da una continua resistenza collettiva a sintomi e processi di declino. Questa resistenza ci ha salvato e appagato, ma anche molto stancato. Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare. Il modello italiano degli ultimi anni – utile a difenderci e a sopravvivere – non garantisce la ripresa e, soprattutto, non pare in grado di creare una partecipazione collettiva.
Il disinvestimento individuale dal lavoro. Mentre in tutto il mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali con l’autoimprenditorialità, l’Italia – patria del lavoro autonomo e imprenditoriale – vede ridursi in questi anni proprio la componente del lavoro non dipendente: 437.000 imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 al 2009 (-7,6%). L’Italia è anche il Paese europeo con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito dell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica e il 38% al lavoro di sabato. E siamo il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (lo fa solo il 3% contro una media europea del 14%). Nei primi due trimestri del 2010 si è registrato poi un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9%, a fronte di una riduzione media dello 0,9%. Poco fiduciosi nella possibilità di trovare un’occupazione, ma anche poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani hanno avvertito più degli altri gli effetti della crisi. Sono 2.242.000 le persone tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né cercano un impiego. Più della metà degli italiani (il 55,5%) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio: una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8%. La società italiana sembra insicura della sua sostanza umana. Sono evidenti le manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattivi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa. E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. «Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana». La sensazione di fragilità, la scarsa consistenza dei legami e delle relazioni sociali condannano i singoli a uno stato di
isolamento e rendono il sistema inconsistente (“mucillagine”). Uno dei fenomeni rilevanti è la crescita dell’indistinto. Siamo una società non solo “liquida”, ma indistinta. La causa di questo fenomeno sta nella mancanza di dispositivi di regolazione, di “disciplinari”. La nostra società è priva di regolazione: tutto sembra aleatorio e oscillante. Disciplina e autorità si manifestano sempre meno e perdono giorno per giorno anche il loro significato simbolico. Un’onda di pulsioni sregolate. Non riusciamo più a individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale», con comportamenti individuali all’impronta di un «egoismo autoreferenziale e narcisistico»: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte (come il balconing). La somma di questi comportamenti diventa un’onda collettiva e compatta di pulsioni sregolate. Siamo una società in cui gli individui vengono sempre più lasciati a se stessi, liberi di perseguire ciò che più aggrada loro senza più il quotidiano controllo di norme o di sistemi. «Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti». Questo senso di muoversi nel “vuoto” crea nei singoli una diffusa insicurezza, che è il vero virus che opera nella realtà sociale di questi anni. È su questo che bisogna lavorare, perché non facilmente accettabile da una società che per generazioni ha perseguito la sicurezza come valore fondante (lavoro fisso, casa di proprietà, risparmio). L’uso stagnante del risparmio familiare. Mattone, liquidità, polizze: sono questi i pilastri ai quali le famiglie si sono ancorate per resistere alla crisi. Nel primo trimestre del 2010 i mutui erogati sono aumentati in termini reali del 10,1% rispetto alla stesso periodo del 2008, superando i 252 miliardi di euro. Nel biennio è aumentata la liquidità detenuta dalle famiglie (+4,6% in termini reali i biglietti e depositi a vista, +10,3% gli altri depositi). Nei primi nove mesi del 2010 i premi per nuove polizze
vita sono aumentati del 22% rispetto allo stesso periodo del 2009. Tra le famiglie che fronteggiano pagamenti rateali, mutui o prestiti di vario tipo, il 7,8% dichiara di non essere riuscito a rispettare le scadenze previste, il 13,4% lo ha fatto con molte difficoltà, il 38,5% con un po’ di difficoltà: a soffrire di più sono state le famiglie monogenitoriali e le coppie con figli. Nonostante la generale propensione a evitare impieghi rischiosi, negli ultimi mesi si registra però il ritorno a un profilo meno prudente nella collocazione del risparmio familiare, con un aumento tra il primo trimestre 2009 e il primo trimestre 2010 delle quote di fondi comuni d’investimento (+29,3%) e delle azioni e partecipazioni (+12,5%). «Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento». Così, all’inconscio manca oggi la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Ogni giorno di più il desiderio diventa esangue, indebolito dall’appagamento derivante dalla soddisfazione di desideri covati per decenni (dalla casa di proprietà alle vacanze) o indebolito dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati (con bambini obbligati a godere di giocattoli mai chiesti e adulti al sesto tipo di telefono cellulare). «La strategia del rinforzo continuato dell’offerta è uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri». Tornare a desiderare. Di fronte ai duri problemi attuali e all’urgenza di adeguate politiche per rilanciare lo sviluppo, viene meno la fiducia nelle lunghe derive su cui evolve spontaneamente la nostra società. Ancora più improbabile è che si possa contare sulle responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici. La complessità italiana è essenzialmente complessità culturale. Nella crisi che stiamo attraversando c’è quindi bisogno di messaggi che facciano autocoscienza di massa. Non esistono attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla «legge». Più utile è il richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita».
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Febbraio 2011, n째 87 The rich and the rest
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La Società del Marketing | febbraio 2011
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The rich and the rest Briefing The Economist, January 22nd 2011 Italiani: quale giornalismo? - del 24/2/11 Oliviero Beha RAI
Il gap tra i ricchi e il resto della popolazione mondiale sta crescendo, e questo è un problema che preoccupa tutti i grandi della Terra. Lo hanno detto, forte e chiaro, tra gli altri, Hu Jintao, David Cameron, Warren Buffett e Dominique Strauss-Kahn: leader che in genere non condividono esattamente le stesse posizioni. Hu Jintao si prefigge di costruire in Cina una “società armoniosa”, riducendo le disparità di reddito tra le elite urbane e i poveri delle campagne. Cameron ha dichiarato che le società con le maggiori disuguaglianze sono anche le peggiori “secondo quasi tutti gli indicatori della qualità della vita”. Warren Buffett si sta battendo per elevare la tassa sulle successioni, per evitare all’America i rischi di una plutocrazia. Strauss-Kahn propone un nuovo modello di crescita globale, avvertendo che l’aumento dei gap minaccia la stabilità sociale ed economica. I membri del World Economic Forum considerano l’aumento delle disparità economiche il principale rischio del prossimo decennio, insieme ai fallimenti della governance globale. Il dibattito sulla disuguaglianza non è nuovo. Ma negli strascichi di una crisi finanziaria largamente addebitata alle tigri di Wall Street, da cui i più ricchi si sono ripresi più velocemente, e davanti a tagli di spesa pubblica che colpiranno i poveri più duramente, i toni del dibattito sono cambiati. Negli ultimi due decenni l’elite politica mondiale riteneva la disuguaglianza in sé meno importante, rispetto alla preoccupazione che la fascia sociale più disagiata migliorasse le sue condizioni. Tony Blair – laburista, predecessore di Cameron – è stato colui che meglio ha incarnato questa posizione: è rimasta famosa la voce di come il suo partito, il New Labour, fosse “intensely relaxed” circa i milioni guadagnati da David Beckham, compiaciuto del fatto che la povertà infantile fosse in calo. Adesso il focus è sulla disuguaglianza in sé, e sulle sue pericolose conseguenze. Gli argomenti a sostegno dei danni della disuguaglianza sono: ..
I paesi con le più ampie disparità nella distribuzione dei redditi sono quelli con i peggiori indicatori sociali, dall’alto tasso di omicidi alle basse aspettative di vita.
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Le disparità di reddito hanno conseguenze macroeconomiche: molti importanti economisti ammettono
che la disuguaglianza era alla base della crisi, poiché i politici hanno cercato di contrastare il gap di reddito incoraggiando le fasce povere della popolazione a indebitarsi. ..
La disuguaglianza corrompe la politica, attraverso l’influenza non salutare dell’elite finanziaria.
Se questi argomenti fossero corretti, servirebbero interventi radicali, in particolare un maggiore focus sulla re-distribuzione dei redditi. Il fatto è che il nesso di causalità tra la disuguaglianza e i mali sociali che ne deriverebbero è spesso debole. L’alto tasso di omicidi in America, secondo molti, dipende più dalla diffusione delle armi che dalla disuguaglianza; così come la longevità giapponese è merito più dell’alimentazione che non dell’uguaglianza; e poi, bisogna ammettere che le società più uguali non appaiono più così tanto in salute. Anche il tema del legame tra disuguaglianza e crisi finanziaria non sta in piedi, sul piano temporale: i poveri in America sono restati indietro negli anni ’80, mentre la crisi è scoppiata due decenni più tardi. Per correttezza di analisi, è opportuno fissare alcuni dati sulla disuguaglianza. A livello globale, il gap tra ricchi e poveri si è in realtà assottigliato, in quanto i paesi più poveri stanno crescendo più rapidamente. Tuttavia, non tutti questi paesi seguono il medesimo andamento. L’America Latina è stata a lungo la culla delle società più disuguali del mondo, mentre ora molti paesi sud-americani – incluso il più grande, il Brasile – stanno modificando questo aspetto dell’economia e della società. Come? I governi hanno elevato i redditi dei più poveri accelerando la crescita e aumentando la spesa pubblica per migliorare il sistema del welfare (ma non aumentando la pressione fiscale sui ricchi). Il gap tra ricchi e poveri è invece aumentato in altre economie emergenti (soprattutto Cina e India) come pure in molti paesi ricchi (specialmente in America, ma anche in paesi noti per il loro egualitarismo, come la Germania). Le motivazioni non sono le stesse per tutti. In Cina la disuguaglianza dipende molto dal sistema dei permessi di residenza (hukou), che limita la migrazione interna verso le città. In America la disuguaglianza è iniziata negli anni ’80 e si è ampliata di recente, a causa della crescente porzione di reddito che va al top della popolazione – l’1% che guadagna di più, occupato prevalentemente nella finanza. Dunque, è bene sgombrare il campo dalle approssimazioni, che allontanano dalla soluzione. La vecchia ricetta di Davos di spingere la crescita e combattere
la povertà resta tuttora valida. Invece di combatterela disuguaglianza in quanto tale, i politici farebbero bene a correggere le distorsioni del mercato che spesso si nascondono dietro le disparità di reddito, e che impediscono anche la crescita economica. Piuttosto, oggi la situazione sembra richiedere una maggiore distinzione tra le diverse cause di disuguaglianza e le relative diverse strade per aumentare la mobilità sociale. Il mercato globale offre opportunità di gran lunga maggiori a chi sta in cima alla piramide sociale, sia egli uno scrittore, un avvocato o un gestore di fondi. Come pure, la tecnologia favorisce chi ha più competenze. Questi fattori economici di disparità sono spesso rinforzati da fattori sociali: uomini colti e preparati tendono a sposare donne di pari livello. Il risultato combinato di tali fattori è l’emergere di un’elite globale. Concettualmente, si tratterebbe di un processo meritocratico, che però non sempre si verifica. Leggi e istituzioni sono spesso strutturate in modi che ostacolano la competizione e favoriscono chi già è dentro (insiders), a spese della crescita e dell’uguaglianza. Le leggi possono essere inique in modo anche eclatante: testimonianza ne siano i limiti che la Cina impone alle migrazioni, che impongono ai poveri di restare nelle campagne. Oppure possono contenere distorsioni più subdole e nascoste: basta guardare a come i potenti sindacati degli insegnanti hanno di fatto impedito agli americani più poveri di ottenere una buona educazione, piuttosto che al non dichiarato sistema del “too big to fail”, che ha incoraggiato i banchieri a muoversi senza scrupoli, lasciando il cerino agli altri. Sono problemi ben diversi tra loro, ma tutti conducono a un ampliamento delle disuguaglianze, a una crescita inferiore e a minori opportunità di salire gli scalini sociali. Messa in questo modo, appare chiaro quale sia il modo migliore per combattere la disuguaglianza e aumentare la mobilità sociale. ..
I governi devono agire con l’obiettivo di far crescere il livello di vita dei poveri e della classe media, anziché puntare a diminuire il benessere dei ricchi: investendo in formazione (e rimuovendone le barriere), abolendo le leggi che impediscono a chi è capace di andare avanti e concentrando la spesa su quelli che ne hanno davvero bisogno. Queste riforme sono addirittura più urgenti nei paesi ricchi, dove le prospettive per i meno abili sono bloccat o in diminuzione.
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I governi dovrebbero liberarsi di leggi e sussidi che favoriscono specifici settori economici. Il miglior sistema per diminuire l’ingordigia della finanza è quello di imporre
alle banche una capitalizzazione più elevata e il pagamento della rete di protezione implicita che gli viene dai governi. Nei paesi emergenti ci dovrebbero essere un contrasto più energico ai monopoli e una riconferma dell’impegno a ridurre le barriere al commercio – niente più del libero commercio spinge la concorrenza e abbassa le barriere sociali. Tali riforme non riuscirebbero certo a ridurre tutte le disparità di reddito, visto che in un mondo libero capacità e intelligenza sarebbero comunque ricompensate, in alcuni casi in modo eccellente. Ma contrasterebbero le più dannose e ingiuste disparità nella distribuzione dei redditi, consentendo a un numero maggiore di persone di spostarsi verso le fasce alte. Spingerebbero anche la crescita e renderebbero l’economia mondiale più stabile. Se le elite di Davos sono davvero preoccupate per il gap tra i ricchi e gli altri, questa è la strada da seguire.
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Marzo 2011, n째 88 The fallout
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La Società del Marketing | marzo 2011
196 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
The fallout Leaders The Economist, March 19th 2011 Italiani: pronti alla ripresa? - del 24/3/11 Giuseppe De Rita Censis
Perché quel senso di ordine, di obbedienza alle regole, non è un bene primario per noi. Quando l’abbiamo avuto, non se n’è fatto nulla di buono.
Questo uno-due terremoto-tsunami sta mettendo a dura prova la capacità di quel popolo di resistere, superare e ricominciare. Non parliamo poi del potenziale disastro annunciato, quello nucleare.
Ma non abbiamo capito – e dunque criticato – neanche il modo di comunicare delle istituzioni, che evitavano accuratamente di usare termini espliciti che dessero la reale dimensione del disastro. Per noi puzza. Intendiamoci, probabilmente c’è del marcio anche lì, anzi pare quasi certo. Ma lo stile adottato non viene contestato come copertura del marcio. Perché anche qui la motivazione è un’altra: il bisogno di credere che le istituzioni stiano sopra gli eventi, e non sotto. Solo così io cittadino posso affrontarli e superarli, sapendo che dall’altra parte, sopra, c’è un mio prodotto che supera l’evento stesso. Quando a scuola ci insegnavano che lo scintoismo è una religione speciale, quasi un codice etico che modella la società, intendevano proprio questo.
A caldo, i giapponesi hanno reagito con quel che hanno, in termini di mezzi e organizzazione (che non è poco), e come sanno in termini di comportamenti (che per molti è tanto – ma non è detto).
Ma soprattutto ho visto tanta, tanta riservatezza. Ho visto mostrare contrizione, ma non sofferenza palese, certo non in misura equivalente alla tragedia subita.
Tutto il mondo si è tolto il cappello di fronte alle immagini di tragedia senza lamento, di sofferenza senza esternazione. E l’abbiamo chiamata “dignità”.
Questo modo di vivere può essere apprezzato o disprezzato. Ma essere scomposti e disubbidienti, criticoni verso il potere (piove, governo ladro), e piangere in pubblico il proprio dolore significa esattamente questo. Non significa essere indegni. La dignità è un’altra cosa.
Il Giappone è noto per il triste primato di aver subito i primi e unici due attacchi nucleari bellici, che sono diventati il simbolo della distruzione di massa che l’uomo è in grado di infliggersi da solo.
Più propriamente, i giapponesi si sono dati ciò che a loro serve, ordine e fiducia. L’ordine, opposto al caos, da ripristinare immediatamente, con determinazione, al punto da ostentarlo come principio, in attesa che diventi realtà. La fiducia, in se stessi, nell’organizzazione sociale. Naoto Kan ha interpretato e soddisfatto pienamente queste due necessità vitali, oggettive, spargendo un senso di ordine e di controllo su calamità che sono oggettivamente sfuggite. La gestione del terremoto di Kobe nel 1995 fu invece un vero disastro, da questo punto di vista. Ho forti perplessità a definire “dignità” il comportamento dei giapponesi – per quanto i media ci hanno trasmesso. Se mi si chiede se quel popolo sia dignitoso, rispondo che sì, al meglio delle mie conoscenze lo è. Ma non lo evinco da ciò che ho visto. Perché dovrei intendere che chi assuma altri comportamenti, nelle medesime sorti avverse, sia meno o affatto “dignitoso”, e questo lo trovo ingiusto e non corrispondente al vero. Ho visto una compostezza, un’obbedienza, quelle sì, che noi occidentali (lasciamo stare noi italiani, per amore di centocinquantenario) faremmo fatica a mostrare in situazioni meno critiche. Non ne capiamo le motivazioni profonde. Sarebbe un sacrificio senza ritorno. Perché stare composti e attendere, quando magari potremmo renderci utili, aggiungere valore, darci da fare, insomma?
La domanda è come reagiremo noi all’impatto che queste catastrofi inevitabilmente avranno sulla vita di tutti noi, in ogni parte della Terra. Certo, ora chi sta sotto le macerie e a contatto con le radiazioni sono i giapponesi. Ma credere che gli effetti restino lì è fuori luogo. Le borse hanno accusato la paura dell’impatto su quella che resta la terza economia mondiale, ma le forti e immediate iniezioni di liquidità da parte della banca centrale hanno evitato il panico. I danni saranno molto maggiori dei 100 miliardi di dollari che costò il terremoto di Kobe, ma un paese così ricco dovrebbe farcela a reggere. I danni al settore energia limiteranno la crescita, ma gli investimenti necessari per la ricostruzione compenseranno. Ovviamente, queste valutazioni devono essere riviste se la crisi nucleare peggiorerà. Questo è l’aspetto con le maggiori implicazioni per noi tutti. Non per i danni in sé, ma per le implicazioni sul rapporto popolazioni-nucleare. Il settore nucleare giapponese ha una storia segnata da incompetenze e insabbiamenti e – a parte l’eroismo di pochi – la gestione di questa crisi da parte della Tepco, l’operatore degli impianti di Fukushima, è perfettamente in linea con la sua storia.
Comunque andrà, gli strascichi saranno consistenti, non solo in Giappone. Germania e Stati Uniti hanno subito tirato il freno, anche perché maggiori preoccupazioni portano a un bisogno di maggiori sicurezze, che in termini concreti significa costi in più, che riduce il trade off a favore del nucleare. La stessa Cina, non esattamente un campione di sensibilità ambientale e di sicurezza, ha annunciato una pausa di riflessione per le 27 centrali in costruzione, più del doppio di ogni altro Paese. Oggi la Cina è il più grande committente di centrali al mondo, e i suoi piani prevedono ulteriori 50 reattori. Probabilmente, dopo la pausa la Cina proseguirà su questa strada – e comunque non si farà certo fermare dall’opinione pubblica. La Cina ha davanti a sé un bisogno crescente di energia, che provvederà a soddisfare con tutti i mezzi, dall’eolico al gas e al carbone, incluso il nucleare. La questione nucleare oggi non è più una faccenda di progettazione e tecnologia, è una faccenda di fiducia. La società civile deve incarnare affidabilità e trasparenza, al punto da creare istituzioni che meritano e ricevono fiducia. Nessun paese ha giocato bene questa partita, ne sia conferma la crisi giapponese. Tuttavia, le democrazie sono quelle che più degli altri esprimono istituzioni aderenti al profilo. Il problema è però che le democrazie sono anche molto esposte alle pressioni di gruppi politici e d’opinione, anche non maggioritari, che riescono a impedire che le cose accadano. Per queste ragioni, è probabile che il nucleare si realizzi più facilmente in quelle nazioni che possono fare a meno di un consenso sociale fondato sulle garanzie di sicurezza. La Cina, appunto, e la Russia, che non per caso è la nazione che ha in programma la costruzione del più alto numero di nuovi impianti, dopo la Cina. Eppure, le democrazie farebbero male ad abbandonare il nucleare, che resta positivo in quanto affidabile, sicuro e privo di emissioni. Anche in termini di vite umane, il saldo ad oggi è largamente positivo. Il numero di decessi legati al disastro di Chernobyl è molto incerto, ma si parla di alcune migliaia. Ebbene, l’estrazione di carbone dalle miniere cinesi uccide tra 2 e 3.000 lavoratori ogni anno, per tacere degli effetti legati all’inquinamento. Insomma, restare dentro il nucleare – non fosse altro che per poter richiedere a tutti gli altri il rispetto degli standard di sicurezza – è una scelta ragionevole. E pertanto molto difficile da compiere di fronte al panico della minaccia atomica. La questione della convenienza basata sulla conta dei morti, prim’ancora che macabra, appare scorretta. La convenienza deve basarsi sulla capacità di controllare quelle morti, più che sul loro numero. L’impressione è che nell’incidente nucleare ci sia ben poco sotto il controllo umano. Forse il punto chiave del nucleare è proprio
questo: siamo in grado di costruire impianti con un altissimo grado di sicurezza, che minimizza le probabilità di un incidente, ma siamo ancora poco in grado di governare l’incidente, una volta occorso. In altre parole, quando la ricerca ci potrà dire, in presenza di un incidente grave, “gira quella chiave e blocca tutto”, allora sì, il nucleare sarà sicuro. Tornando al Giappone, per nessun paese la scelta sul nucleare è altrettanto dolorosa e difficile, tra il terrore del nucleare e la mancanza di fonti alternative domestiche. La rinuncia imporrebbe un massiccio ricorso all’importazione di gas e carbone. Il mantenimento significherebbe confrontarsi e superare un grave trauma nazionale, e accettare il rischio di ulteriori incidenti, per quanto meno probabili. Nella sua storia recente, il Giappone ha fatto seguire a grandi calamità grandi cambiamenti. Il terremoto del 1923 portò a un rafforzamento dello stato in senso militare. La sconfitta nella seconda guerra mondiale e le due bombe atomiche avviarono un periodo di crescita pacifica. Questa catastrofe – e l’atteggiamento della popolazione in risposta ad essa – potrebbe avviare una fase nuova, di recupero di fiducia in se stessi, di cui il paese ha tanto bisogno. Può darsi che il fallimento del sistema di governance basato sull’occultamento, culminato nell’assurda gestione degli impianti nucleari, induca una richiesta di riforme sociali e politiche nel senso della trasparenza e del confronto aperto. Molto dipende da come il premier Kan riuscirà a convincere la gente che le informazioni che dà sulle radiazioni sono affidabili e che è in grado di alleviare le sofferenze di chi soffre fame e freddo. La posta in gioco è alta. L’epilogo di tante morti e sofferenze e distruzioni potrebbe essere anche la rinascita verso un periodo di riforme delle disfunzioni politiche del sistema, di cui il Giappone ha disperato bisogno.
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Aprile 2011, n째 89 70 or bust!
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La Società del Marketing | aprile 2011
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70 or bust! Leaders The Economist, April 9th 2011 Investire nel Mezzogiorno - del 28/4/11 Pino Aprile RAI
In sintesi, si tratta di mettere da parte ancora per qualche anno i depliant delle vacanze e le passeggiate ai giardinetti con i nipotini. L’andamento demografico e la diminuzione dei guadagni sugli investimenti stanno costringendo i lavoratori in età di pensione a restare alla scrivania più a lungo del previsto. Questa verità, per quanto dolorosa, non è una novità per i cittadini dei paesi più opulenti, i cui governi hanno da tempo cominciato a confrontarsi con il problema dell’invecchiamento. Molti hanno annunciato o introdotto innalzamenti dell’età pensionabile, per contenere il peso delle pensioni sul bilancio dello stato, incentivando parallelamente i lavoratori a restare in attività, conservando il proprio posto di lavoro o anche cercandone un altro. Sfortunatamente, anche i piani più forti si stanno rivelando inadeguati. I lavoratori anziani dovranno restare produttivi economicamente più a lungo di quanto i governi abbiano previsto; e questo non potrà accadere senza che i governi, ma anche le imprese e i lavoratori, assumano un atteggiamento diverso. Dal 1971 ad oggi l’aspettativa di vita media dei 65enni dei paesi ricchi è aumentata di quattro/cinque anni. Stando alle previsioni, nel 2050 sarà aumentata di ulteriori tre anni. Fino ad oggi, le persone hanno destinato questa porzione aggiuntiva di vita interamente al tempo libero. L’età media di pensionamento nei paesi OCSE nel 2010 è stata 63 anni, quasi un anno prima che nel 1970. Vivere più a lungo e andare in pensione prima. Potrebbe non essere un problema se i lavoratori attivi fossero in aumento. Ma in questi paesi i tassi di fertilità sono stati in calo. L’implicazione concreta è che nel 2050 ogni pensionato americano graverà su 2,6 lavoratori attivi. In altri paesi i numeri sono ancora peggiori: in Francia 1,9, in Germania 1,6 e in Italia 1,5. Come dire che i sistemi pensionistici iniziano a mostrare delle crepe. Molti governi stanno già pianificando innalzamenti dell’età pensionabile. L’America sta andando verso i 67 anni, l’Inghilterra verso i 68. Altri si stanno muovendo più lentamente. In Belgio le donne possono andare in pensione a 60 anni e non si parla di modificare questa soglia. In base alle leggi attuali, la media dell’età pensionabile nel 2050 sarà ancora sotto i 65 anni, appena sopra il livello che c’era dopo la seconda guerra mondiale.
Anche i piani americani (67) e inglesi (68) sono inadeguati, visto che l’aspettativa di vita continua a salire – nei paesi ricchi aumenta di circa un mese ogni anno. In Europa l’età pensionabile dovrebbe arrivare a 70 anni entro il 2040; l’America può stare un po’ sotto quella soglia, grazie al fatto che ha una popolazione più giovane. Lavorare più a lungo implica tre grandi vantaggi. Il lavoratore si becca più anni di salario. Il governo incassa più tasse e paga meno pensioni. L’economia cresce più velocemente, dato che più persone lavorano più a lungo (i lavoratori anziani sono un segmento di consumo troppo sottovalutato). Eppure, molti considerano una vita lavorativa più lunga una minaccia, più che un’opportunità – e non solo per il fatto di restare alla scrivania più a lungo. C’è chi si preoccupa che non ci siano in giro abbastanza posti di lavoro. Questa paura un tempo veniva usata per sostenere che le donne dovessero stare a casa, per lasciare tutti i lavori agli uomini. Ora sono gli anziani che devono liberare il posto per i giovani. L’idea che una società possa essere più prospera se paga i suoi cittadini per stare a spasso è semplicemente priva di senso. Se così fosse, abbassando l’età pensionabile saremmo tutti più ricchi. In realtà, l’innalzamento dell’età pensionabile è solo una parte della soluzione, visto che in pratica molti lavoratori vanno in pensione prima del limite. Secondo uno studio americano, se gli europei andassero in pensione semplicemente al limite di età oggi in vigore, compenserebbero l’impatto dell’invecchiamento della popolazione per i prossimi 20 anni. Perché ciò diventi realtà, devono cambiare le abitudini e gli approcci in uso. Le imprese si preoccupano troppo della qualità del lavoro dei lavoratori anziani. Nei lavori usuranti – e anche in quelli che richiedono uno sforzo fisico – questo è senz’altro vero: dopo i 60 anni diventa difficile. Questi lavoratori dovrebbero più propriamente essere impiegati in lavori meno impegnativi fisicamente. Ma il problema dovrebbe tendere a ridimensionarsi rispetto al passato, visto che le economie dei paesi ricchi sono più basate sui servizi che non sull’industria manifatturiera. Nei lavori basati sulla conoscenza, l’età è tutt’altro che uno svantaggio. Sebbene gli anziani possano essere più lenti nelle nuove tecnologie, hanno molte più capacità ed esperienza da vendere.
Nondimeno, per molte persone la produttività tende a diminuire con l’età. Il punto è che il sistema retributivo dovrebbe riconoscere questa realtà. Il sistema tradizionale, in base al quale la gente viene promossa e pagata di più man mano che invecchia, deve per forza cambiare. In America, il settore privato si sta confrontando con il costo abnorme del sistema pensionistico. Tanto che ai nuovi assunti non viene proposto lo stesso schema. Nel settore pubblico invece ancora si adotta il medesimo meccanismo per tutti. In Inghilterra si stanno valutando modifiche sostanziali: pur non toccando i diritti già acquisiti, d’ora in avanti il calcolo dovrebbe basarsi su un sistema diverso, che tenga conto sia degli anni effettivi di lavoro (visto che molti nel pubblico vanno in pensione prima) sia del salario medio percepito negli anni, anziché nell’ultimo. Ciò dovrebbe scoraggiare gli abusi e facilitare il lavoro part-time. In America, il sistema pensionistico del settore pubblico è più difficile da modificare, perché “blindato” da leggi costituzionali. A differenza dei salari, le pensioni sono state ritenute intoccabili. Ma il deficit è stimato oggi intorno ai 3 trilioni di dollari, per cui è ipotizzabile che i politici si decidano a mettervi mano, anche toccando la costituzione. Nel settore privato, i lavoratori si trovano di fronte a due potenziali rischi. Il primo è che il crollo dei mercati finanziari riduca il valore reale dell’accantonamento pensionistico. Il secondo è che essi vivano più a lungo del periodo coperto dalla pensione. Per questo i governi stanno spingendo ad aumentare l’accantonamento pensionistico, anche invertendo l’opzione per il lavoratore: scegliere se uscire, non se entrare nel sistema pensionistico. D’altro canto, il minimo che il governo possa fare, per chi ha lavorato fino a 70 anni, sarebbe di garantire – a chi non è riuscito a costruirsi una pensione privata sufficiente – una pensione statale decente che gli consenta una vita dignitosa.
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Giugno 2011, n째 90 Rethinking Capitalism Creating Shared Value
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La Società del Marketing | giugno 2011
204 titolo autore fonte conferenza relatore azienda
Rethinking Capitalism Creating Shared Value Michael E. Porter & Mark R. Kramer Harvard Business Review, January-February 2011 50 Lettere dal Marketing - del 20/6/11 Paolo Cuccia, Giorgio Di Giorgio, Luca Telese Il Gambero Rosso, Luiss Guido Carli, LA7-Il Fatto Quotidiano
Il sistema capitalistico è sotto assedio. Negli ultimi anni, il mondo degli affari è stato criticato e considerato la causa principale di problemi sociali, ambientali ed economici, e sono in molti a ritenere che le aziende stiano prosperando a spese delle loro comunità. La fiducia nel business ha toccato nuovi minimi, portando le Amministrazioni pubbliche a varare politiche che minacciano la competitività e minano alla base la crescita economica. Il mondo del business è caduto in un circolo vizioso. Gran parte del problema sta nelle aziende stesse, che rimangono intrappolate in un approccio superato e ristretto alla creazione di valore. Concentrate come sono a ottimizzare la performance finanziaria di breve termine, non vedono i principali bisogni insoddisfatti del mercato e ciò che può influenzare maggiormente il loro successo a lungo termine. Perché, altrimenti, dovrebbero ignorare il benessere dei propri clienti, l'impoverimento delle risorse naturali che sono essenziali per la loro attività, l'affidabilità dei fornitori e le difficoltà economiche che attraversano le comunità in cui loro producono e vendono i propri prodotti? Le cose non devono andare per forza in questo modo, sostengono Porter della Harvard Business School e Kramer, amministratore delegato della società di consulenza sull'impatto sociale FSG. Le aziende potrebbero riconciliare affari e società civile se solo ridefinissero il proprio obiettivo nei termini di creazione di “valore condiviso”, il che significa generare valore economico in modi tali che producano valore anche per la società, affrontando le sfide che questa si trova a fronteggiare. Un approccio basato sul valore condiviso è quello che rimette in contatto il successo di un'azienda con il progresso sociale. Le aziende ci possono riuscire in tre modi distinti: riconcependo prodotti e servizi, ridefinendo la produttività all'interno della catena del valore e costruendo cluster settoriali di sostegno dove sorgono le varie sedi dell'azienda. Riconcepire prodotti e servizi. Nel business, abbiamo trascorso decenni ad analizzare e a promuovere la domanda, ignorando la questione più importante e basilare di tutte: il nostro prodotto soddisfa i bisogni dei nostri clienti? E quali esattamente? Per un’azienda, il punto di partenza per creare questa forma di valore condiviso è identificare tutti i bisogni, tutti i benefici e tutti i danni di carattere sociale che sono o potrebbero essere incorporati nei suoi prodotti.
the connection between competitive advantage and social issues There are numerous ways in wich addressing societal concerns can yield productivity benefits to a firm. Consider, for example, what happens when a firm invests in a wellness program. Society benefits because employees and their families become healthier, and the firm minimizes employee absences and lost productivity. The graphic below depicts some areas where the connections are strongest.
environmental impact supplier access and viability
energy use
company productivity water use
employee skills
employee healt
worker safety
Ridefinire la produttività all’interno della catena del valore. Le opportunità di creazione di valore condiviso nascono perché i problemi sociali possono determinare dei costi economici nella catena del valore dell’azienda. Wal-Mart, per esempio, è riuscita ad affrontare entrambi i problemi riducendo il packaging e ridisegnando le rotte dei camion per eliminare 100 milioni di miglia dai percorsi di consegna nel 2009, risparmiando 200 milioni di dollari pur consegnando maggiori volumi di prodotti. L’innovazione nell’eliminazione della plastica utilizzata nei punti vendita le ha fatto risparmiare milioni di dollari in termini di minori costi di conferimento alle discariche. Costruire cluster settoriali di sostegno. Nessuna azienda è un’entità a sé stante. La produttività e l’innovazione vengono pesantemente influenzate dai cluster, o concentrazioni geografiche di imprese collegate, fornitori, terzisti, enti accademici, associazioni e dall’infrastruttura logistica del settore
(come i “distretti industriali” italiani). Quando il sostegno del cluster è debole o manca, la produttività diminuisce. Un sistema scolastico inadeguato impone costi di formazione successiva e di produttività. La minore disponibilità diffusa di reddito limita la domanda di consumo e genera degrado. Purtroppo, poiché le aziende si stanno isolando sempre di più dalle comunità in cui operano, la loro influenza nella soluzione di questi problemi si è attenuata, nonostante ne subiscano il costo incrementale. Un aspetto critico – che si riscontra nei Paesi emergenti come nelle economie mature– è la creazione/mantenimento di mercati rigidi, poco aperti e poco trasparenti. In questi mercati che sono dunque poco efficienti se non addirittura monopolistici, dove i lavoratori sono sfruttati e/o discriminati e la formazione dei prezzi è iniqua e non trasparente, la produttività ne risente. Diverse società note per il loro approccio rigido al business (fra cui GE, Wal-Mart, Nestlé, Johnson & Johnson e Unilever) hanno già avviato importanti iniziative in questi ambiti. Nestlé, per esempio, ha riprogettato i suoi processi di raccolta, lavorando a stretto contatto con i piccoli coltivatori delle aree più povere che sono rimasti bloccati in un ciclo di scarsa produttività e qualità, oltre che di degrado ambientale. Nestlé ha offerto consigli sulle pratiche di coltivazione, ha aiutato i contadini ad assicurarsi stock di piante, fertilizzanti e pesticidi, e ha cominciato a pagare loro un sovrapprezzo per chicchi migliori. Raccolti e qualità più elevati hanno aumentato il reddito di questi agricoltori, l'impatto ambientale delle fattorie si è ridotto e la fornitura sicura di buon caffè è cresciuta in modo significativo. È stato creato del valore condiviso.
csr
csv
value: doing good
value: economic and societal benefits relative to cost
citizenship, philanthropy, sustainability
joint company and community value creation
discretionary or in response to external pressure
integral to competing
separate from profit maximization
integral to profit maximization
agenda is determinated by external reporting and personal preferences
agenda is company specific and internally generated
impact limited by corporate footprint and csr budget
realigns the entire company budget
example: fair trade purchasing
example: trasforming procurement to increase quality and yield
in both cases, compliance with laws and etichal standards and reducing harm from corporate activities are assumed Il profitto non è tutto uguale. Questo concetto è stato disperso causa della visione ristretta e di breve termine imposta dai mercati finanziari e da gran parte del pensiero manageriale (con la sola eccezione di Peter Drucker). I profitti che coinvolgono una finalità sociale rappresentano una forma più elevata di capitalismo, che farà progredire la società più rapidamente, consentendo al tempo stesso alle imprese di crescere di più. Si crea un ciclo positivo di prosperità per le aziende e per la comunità, da cui derivano dei profitti destinati a durare nel tempo. La creazione di valore condiviso presume il rispetto della legge e degli standard etici, oltre all’impegno di mitigare eventuali danni causati dalle imprese, ma va oltre. Nell’economia globale, l’opportunità di creare valore economico attraverso la creazione di valore sociale sarà una delle forze più idonee a sostenere la crescita. Questo approccio rappresenta un modo nuovo di intendere i clienti, la produttività e i fattori esterni che influenzano il successo delle imprese. Mette in luce gli enormi bisogni da soddisfare, i grandi e nuovi mercati da servire e i costi interni dei deficit sociali e di comunità – nonché i vantaggi competitivi che si possono ottenere agendo su questi fronti. Il concetto di valore condiviso potrebbe cambiare il volto del capitalismo e le sue relazioni con la società intera, oltre che guidare le prossima ondata di innovazione e crescita della produttività dell'economia globale e aprire gli occhi dei manager all'enorme quantità di bisogni umani che vanno ancora soddisfatti, ai grandi mercati che aspettano solo di essere serviti e ai costi interni dei deficit sociali (ma anche ai vantaggi competitivi che possono derivare dal risolverli). La nostra comprensione del vero significato del valore condiviso è, però, ancora agli inizi e per coglierlo appieno i manager dovranno acquisire nuove skill e nuovi saperi, mentre il settore pubblico dovrà capire come regolarsi in modo da agevolare la crescita del valore condiviso e non, invece, ostacolarne la diffusione. Non tutti i problemi sociali possono essere risolti con soluzioni basate sul valore condiviso. Ma il valore condiviso offre alle imprese la possibilità di utilizzare le loro competenze, le loro risorse e la loro capacità manageriale per promuovere il progresso sociale. E di farlo con modalità che difficilmente potrebbero eguagliare anche le meglio intenzionate organizzazioni governative e del settore sociale. Così facendo, in fondo alla strada le imprese torneranno a guadagnare il rispetto della società.
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Luglio 2011, n째 91 The perils of extreme democracy
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La Società del Marketing | luglio 2011
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The perils of extreme democracy / The Economist, April 23rd 2011 2012. Prevedere i consumi e i mercati - del 07/07/11 Multi-speaker /
La California sta chiudendo un altro anno fiscale con un enorme buco di bilancio e nessuna speranza di ripianarlo, come prevede la sua Costituzione. Anche altri Stati americani hanno lo stesso problema, a causa della difficile congiuntura economica. Ma la California neanche negli anni buoni riesce a chiudere il bilancio in pareggio. Questa è una delle ragioni per cui il suo rating è crollato, in una sola generazione, dall’essere uno dei migliori tra i 50 Stati al peggiore in assoluto. Come è possibile che sia così mal governato un posto che ha così tante risorse – dalle diversità alle bellezze naturali agli inarrivabili cluster di talenti di Hollywood e della Silicon Valley? La tentazione di accusare di questo i governanti è forte. I legislatori della California appaiono come un mucchio abbastanza bizzarro, partigiani e bloccati. Nonostante il governatore Jerry Brown, che ha guidato lo Stato anche in passato, tra il 1975 e il 1983, faccia ogni sforzo per mettere al lavoro l’esecutivo. Ma il vero problema è rappresentato dagli strumenti di democrazia diretta: ..
i recalls, con cui i californiani mandano a casa a metà mandato i politici eletti e investiti della responsabilità di governo;
..
i referendum, con cui possono annullare le leggi votate dai legislatori;
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le leggi di iniziativa popolare, con cui i votanti possono approvare le loro leggi.
A partire dal 1978, quando la Proposition 13 diminuì le tasse sulla proprietà, centinaia di leggi di iniziativa popolare sono state approvate sulle materie più disparate, dalla formazione ai pollai. Questa forma di legislatura dei cittadini ha prodotto il caos. Molte di queste iniziative hanno ridotto le tasse o autorizzato spese, rendendo ancor più difficile tenere in equilibrio i conti pubblici. Alcune sono così male articolate che sortiscono effetti opposti a quelli voluti: a causa di tutte le pretese del sottobosco governativo, la Proposition 13 ha finito per centralizzare le finanze della California, spostandole dalle amministrazioni locali al governo centrale. Invece di essere un freno alle richieste delle elite, come era nelle intenzioni, le iniziative popolari sono diventate
lo strumento di interessi specifici, con lobbisti e estremisti che sfornano leggi sconcertanti per la loro complessità e oscure nelle ramificazioni. In più, questa pratica ha molto impoverito la rappresentatività del governo statale. Del resto, chi vorrebbe far parte di una legislatura in cui il 70-90% del bilancio è già stato allocato? È stata una tragedia per la California, ma è un problema per molti altri stati. La democrazia diretta riguarda almeno la metà degli stati americani e – in varie forme – molti altri paesi. In Inghilterra si tiene ora un referendum – il primo dopo molti anni – per cambiare il sistema elettorale. L’UE ha appena introdotto la prima procedura per iniziative di legge sovranazionali. Con le tecnologie che rendono più facile tenere referendum e i cittadini europei sempre più arrabbiati verso i politici, non c’è da stupirsi che la democrazia diretta prenda piede. Perché no? Dopo tutto, c’è un modello di successo: in Svizzera la democrazia diretta risale al Medioevo per le amministrazioni locali e al 19esimo secolo per il governo federale. Lì la combinazione di democrazia diretta e democrazia rappresentativa sembra funzionare. Siamo sicuri che la California (che ha adottato proprio il modello svizzero) sia solo il caso sfortunato in cui una buona idea è stata realizzata in modo sbagliato?Non del tutto. Bisogna premettere che quasi nessuno è contro la democrazia diretta e i referendum, che spesso sono un modo per rafforzare una legislatura. Nella stessa California, le riforme per evitare i brogli e le primarie combinate – due miglioramenti della vita politica – sono state introdotte per mezzo di leggi di iniziative popolari, sostenute da Arnold Shwarzenegger, un governatore eletto con il sistema del recall. Ma ci sono forti segnali che inducono ad un uso prudente, in particolare quando si tratta di consentire alle persone di aggirare l’attività legislativa con leggi fatte dai cittadini. Il dibattito sui meriti della democrazia diretta e rappresentativa risale ai tempi antichi. Per semplificare, possiamo dire che Atene favorì la democrazia pura, il popolo che legifera (anche se gli oligarchi spesso finivano per avere l’ultima parola). Roma invece scelse la Repubblica, intesa come cosa pubblica, dove i rappresentanti eletti potevano decidere per il bene comune e venivano ritenuti responsabili dei risultati conseguiti. In America, i Padri Fondatori, specialmente James Madison e Alexander Hamilton, hanno seguito lo schema dei Romani, con l’intento fermo di evitare che le pericolose passioni della folla e la minaccia di fazioni minoritarie indebolissero il processo democratico. L’essenza della democrazia è molto più che non un continuo scrutinio. La democrazia è fatta di decisioni, di istituzioni mature
209 e di un sistema di bilanciamento e controllo dei poteri (check and balance), come esistono nella Costituzione americana. Per ironia della sorte, la California introdusse la democrazia diretta un secolo fa, come “valvola di sicurezza” contro l’eventualità di un governo corrotto. Il sistema ha iniziato a funzionare male solo di recente. Con la Proposition 13, ha smesso di essere una valvola ed è diventato l’intero motore. Tutto ciò è fonte di preoccupazione e speranza insieme. La speranza è che la California possa rimettersi sulla giusta strada. Già si parla di una riforma, benché attraverso un’iniziativa popolare (per ironia), visto che l’idea di un’assemblea costituente è stata bocciata lo scorso anno per mancanza di fondi. Si parla anche di restaurare il potere e la credibilità del legislatore, che è il cuore di ogni democrazia rappresentativa. Insomma, la democrazia diretta deve tornare ad essere una valvola di sicurezza, non il motore. Le leggi di iniziativa popolare dovrebbero essere più difficili da introdurre. Dovrebbero essere inoltre più corte e più semplici, in modo che i cittadini che le votano possano comprenderle. Indicare i costi associati alle norme e la fonte di copertura degli stessi. Eventualmente, una volta introdotte, dovrebbe essere consentito al parlamento di modificarle. Questi stessi principi dovrebbero essere applicabili anche ai referendum. La preoccupazione è che la società occidentale stia lentamente scivolando nella direzione opposta. Le perplessità derivanti dalla globalizzazione rendono i governi meno popolari e spingono verso il populismo. Molti europei possono anche sorridere davanti al caos pazzesco nel quale si sono ficcati quei pazzi californiani con il loro stesso voto, ma quanti di loro resisterebbero alla tentazione di un voto diretto contro l’immigrazione? O contro la costruzione delle moschee? O a favore di minori tasse? Ciò che è andato storto in California può facilmente andare storto anche altrove.
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Settembre 2011, n째 92 Women in Business
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La Società del Marketing | settembre 2011
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Women in Business / The Economist, July 23rd 2011 Io resto in Calabria (e faccio impresa) - del 21/9/11 Pippo Callipo Callipo Conserve Alimentari
risorse umane. È infatti dimostrato che le imprese che hanno più donne nei posti chiave producono risultati migliori di quelle a trazione esclusivamente maschile. girl power women board-members*, 2010, % of total board members
Ogni cosa che un uomo può fare, una donna può farla meglio. E diversamente, aggiungerei. Eppure, fino agli ultimi decenni del secolo scorso, le uniche donne che entravano nella stanza dei bottoni erano quelle che servivano il caffè. Oggi le cose sono cambiate e nessuno mette in dubbio che una donna possa guidare una grande impresa. Basti guardare a Indra Nooyi alla Pepsi-Co o a Carol Bartz alla Yahoo! O a Ursule Burns alla Xerox. Ma complessivamente il numero di donne a capo di una corporation resta decisamente basso. In Francia e in Germania, nessuna delle aziende quotate incluse nella lista CAC 40 o DAX vede una donna al posto di comando. In America, appena 15 delle Fortune 500 (le più importanti imprese) sono guidate da una donna, mentre in Gran Bretagna va un po’ meglio: delle prime 100 aziende quotate al FTSE, 5 vedono una donna alla guida. Molti governi – soprattutto in Europa – stanno obbligando le imprese a riservare alle donne alcune poltrone del CdA, convinti che un intervento radicale e coercitivo sia l’unico modo per porre fine a tale squilibrio. La Norvegia è stata la prima, avendo introdotto nel 2003 una norma che obbliga le aziende quotate a riservare alle donne il 40% dei posti in CdA entro il 2008. La Spagna ha approvato una legge simile nel 2007 e la Francia quest’anno. Anche l’Olanda sta lavorando a una misura simile. Il 6 luglio il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione che spinge gli Stati membri a riservare alle donne il 40% dei posti nei CdA entro il 2020. Ovviamente non si tratta di un obbligo, ma resta comunque indicativa dell’aria che tira. Viviane Reding, commissaria alla Giustizia, ritiene che l’unico modo per superare questa discriminazione sia l’imposizione per legge. Le motivazioni di business per affidare a una donna la guida di un’impresa ci sono e sono sostanziose. È probabile che una donna riesca meglio di un uomo a sintonizzarsi con i gusti e le aspirazioni del più grosso segmento di consumatori che c’è al mondo: le donne, appunto. Non c’è dubbio che le donne rappresentino un bacino di potenziali talenti abbastanza inesplorato e le aziende non possono permettersi di competere attingendo solo a metà delle migliori
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*in the largest listed companies
Il grafico mostra come non sempre la presenza delle donne nei CdA sia in linea con la loro presenza ai vertici operativi delle imprese. La società di consulenza McKinsey ha analizzato di recente le 89 società quotate in Europa che hanno un’alta percentuale di donne nei posti chiave. Dal confronto con la media delle imprese operanti nello stesso settore emerge che quelle con maggior presenza femminile vanno meglio. Il ROE è maggiore, così come i profitti e la stessa quotazione del titolo. Gli specialisti di McKinsey – pur stabilendo la relazione tra avanzamento delle donne e migliore performance – non sono in grado di stabilire quale sia la causalità. Se cioè queste imprese vadano meglio perché hanno promosso più donne ai posti di comando ovvero il contrario, che abbiano fatto questo grazie alle migliori performance.
Sia come sia, resta il fatto però che fissare delle quote significhi forzare l’avanzamento di donne che in altro modo non arriverebbero mai alla stanza dei bottoni. Ci sarebbe da sorprendersi se poi si dimostrassero brave quanto coloro che sono arrivati alla medesima posizione senza questo tipo di aiuto. Analizzando la Norvegia – la prima ad aver fatto questa scelta – si trovano prove che non sia stato un bene per il business. Oggi la percentuale di donne nei CdA è 3 volte maggiore della percentuale di donne che occupano una poltrona di direttore esecutivo. Le imprese norvegesi ci sono arrivate promuovendo molte donne che però non avevano la stessa esperienza dei manager che dovevano guidare. Come detto, i risultati sono stati abbastanza deludenti. Ma se le quote non sono la soluzione, cosa bisogna fare per avere più donne in vetta? Le donne fanno bene quanto gli uomini – se non addirittura meglio – nella scuola e all’università. Dei neoassunti delle imprese americane più importanti (le blue chip) oltre la metà sono donne. Ma da quel momento in avanti le donne vengono superate dai maschi. Anche gli stipendi degli uomini sono più elevati. Perché? Intanto, sono meno aggressive nel chiedere e negoziare lo stipendio iniziale e i successivi aumenti. Secondo studi fatti, gli uomini sono quattro volte più pronti a chiedere un aumento rispetto alle colleghe. Questo, nel tempo, fa una bella differenza. Poi, più si sale la scala gerarchica, meno donne si trovano. Nelle grandi imprese americane, le donne che occupano una posizione di middle manager sono il 37%, a fronte del 28% che occupa posizioni di senior management e di appena il 14% come membri dei comitati esecutivi. Tutta colpa della discriminazione? Secondo Herminia Ibarra, docente alla business school francese Insead, si tratta proprio di questo: gli uomini sottovalutano costantemente le donne. Da uno studio emerge che gli uomini, pur valutando le donne pari a sè (se non meglio) da molti punti di vista, le ritengono poi prive di visione strategica. In generale, sono proprio i meccanismi che regolano le carriere che favoriscono gli uomini. Quasi tutti coloro che arrivano al top hanno alle spalle una figura potente che li sostiene e li spinge, un mentore o qualcosa di simile. È quanto sostiene un’analisi della Harvard Business Review, che aggiunge anche che le donne non riescono a coltivare quello che viene chiamato “capitale relazionale”. Molte si trattengono per evitare che una relazione stretta con un collega
maschio più senior possa dar luogo a pettegolezzi e dicerie. Per tacere del noto problema dell’aria condizionata. Non c’è dubbio che questi fattori pesino. Ma l’ostacolo maggiore alla scalata delle donne verso la stanza dei bottoni resta il fatto che si sforzano di bilanciare lavoro e famiglia. Sono le donne che sopportano il maggior peso dei figli e dei genitori anziani. Secondo McKinsey, le donne europee dedicano alle faccende domestiche il doppio del tempo degli uomini. Nel 2009, in America, il 31% delle donne che lavorano ha chiesto una pausa (in media di 2,7 anni) e il 66% è passato a un lavoro part-time o ad orario flessibile. Anche per la difficoltà di conciliare carriera e figli, molte donne particolarmente brave scelgono incarichi dove c’è meno il rischio di orari sballati, come ad esempio le risorse umane e la contabilità. Le donne puntano anche ad aree in cui le prevedibili assenze prolungate non rendano le competenze obsolete. Alcuni governi si impegnano seriamente per aiutare le donne a tenere insieme la famiglia e la carriera. La Francia e i Paesi Scandinavi fanno molto per l’assistenza dei bambini, tenendoli anche fino alla sera. Diversamente dall’America e dalla Gran Bretagna, dove i bambini vengono buttati fuori a un’ora in cui difficilmente il lavoro dei genitori è terminato. In America, i genitori devono anche affrontare il problema delle vacanze: molto lunghe quelle scolastiche e eccezionalmente corte quelle lavorative. C’è anche l’aspetto positivo: le donne con bambini diventano subito efficienti, perché sanno che tutto deve essere terminato a una certa ora, poiché dopo devono essere a casa. Avere più donne al comando non è giusto, è necessario. Oggi tutte le imprese cercano di fare qualcosa per facilitare alle donne il compito di tenere insieme carriera e famiglia. La tecnologia si sta rivelando preziosa. Ormai lavorare da casa e fuori orario per completare quello che non si è fatto in ufficio è la norma, così come utilizzare gli spostamenti per fare telefonate di lavoro. Certo, perché ciò accada le donne dovrebbero rispondere al cellulare …
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Ottobre 2011, n째 93 The jobless young
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La Società del Marketing | ottobre 2011
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The jobless young / The Economist, September 10th 2011 La Brand Identity non è l'identità del brand - del 11/10/11 Antonio Romano InArea
La disoccupazione giovanile di oggi sta producendo dei danni che peseranno per decenni, sia sui giovani coinvolti che sulla società in senso lato. I primi a farsi sentire sono stati i giovani spagnoli, che si sono detti “indignados” per il modo in cui la classe dirigente sta gestendo questa durissima fase economica. Poi la protesta si è rapidamente diffusa. Ma agganciare la rabbia dei giovani occidentali solo alla congiuntura politico-economica è sbagliato. Ormai da alcuni anni un’intera generazione si sta scontrando con una dura realtà: è stato rotto quel contratto sociogenerazionale “impegnati nello studio e nel lavoro e avrai una vita migliore di quella dei tuoi genitori”. La disoccupazione giovanile sta aumentando in molti paesi OECD. In Europa, uno su cinque sotto i 25 anni è senza lavoro. In America non va troppo meglio, visto che comunque superano il 18% – che arriva al 31% tra la popolazione nera. In molti di questi paesi la disoccupazione tra i giovani è circa il doppio di quella complessiva. In Italia e in Gran Bretagna arriva al triplo. In Svezia, il tasso di disoccupazione dei giovani fino a 24 anni è 4,1 volte più elevato di quello registrato tra le persone dai 25 ai 54 anni. Non è insolito che nei periodi difficili siano i giovani a perdere per primi il lavoro. Sono relativamente meno esperti e in molti paesi hanno dei contratti che rendono il licenziamento più facile, che non per i loro colleghi anziani. Nessuna sorpresa dunque che l’impresa – messa di fronte alla necessità di tagliare il costo del lavoro – agisca proprio e prima su di loro. In questi anni, la crescita scarsa, accompagnata a una diffusa austerità nei consumi e alla riduzione dei programmi di stimolo all’occupazione giovanile, ha fatto impennare la disoccupazione. Per onestà, va anche ricordato che i giovani, una volta espulsi dal lavoro, hanno meno difficoltà a rientrare rispetto ai colleghi anziani: first out, first in. Tuttavia, in questa crisi anche quel vantaggio sembra sfumare, nella misura in cui la ripresa è lenta e – soprattutto – non recupera l’occupazione. Eppure, la disoccupazione tra i giovani non viene percepita come
quel problema grave che è, a causa di alcuni fatti che ne alleviano l’impatto sociale. Innanzitutto, oggi i giovani possono appoggiarsi ai genitori, ma anche ai nonni, che dispongono del reddito (lavoro o pensione) per poter sostenere i loro bisogni primari. Inoltre, molti scelgono di proseguire con gli studi, per farsi trovare più competitivi all’appuntamento con il mercato del lavoro. In più, un giovane disoccupato, proprio a causa della sua disoccupazione, ritarda l’assunzione di responsabilità economiche: il matrimonio, con conseguente famiglia da mantenere. Infine, il bisogno di cure mediche, forte tra i lavoratori più anziani, è praticamente assente tra i più giovani. Nonostante la minore drammaticità oggettiva, è pericoloso non vedere che la disoccupazione giovanile produce dei danni gravi, che durano a lungo nel tempo. a poor present youth* unemployment, selected countries % of youth labour force 2005
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*15 to 24 years old
Ci sono dei costi sociali direttamente legati alla disoccupazione, quali i sussidi, il minor gettito fiscale dai redditi e dai consumi,
la capacità produttiva sprecata. Uno studio della London School of Economics ha calcolato che i 744 giovani disoccupati inglesi rappresentano ogni settimana un costo di 155 milioni di sterline, tra sussidi e produttività persa. I costi indiretti sono ancora maggiori. Il principale è l’emigrazione. Le migliori risorse tra la popolazione giovanile scelgono frequentemente di andare a lavorare all’estero, dove le condizioni sono più favorevoli, agevolati dal fatto di non avere ancora una famiglia. L’Italia è uno dei paesi che soffre maggiormente e da più tempo di questo “brain-drain”, a causa della sua economia stagnante Un altro costo è la criminalità. Sarebbe esagerato legare i recenti tumulti nelle città inglesi alla disoccupazione giovanile, ma anche negare che ci sia un legame tra disoccupazione e criminalità appare ottimistico. I giovani maschi sono più propensi a infrangere la legalità, rispetto alla maggioranza della popolazione, se non altro perché hanno più tempo e meno da perdere. Oltre ai costi sociali, va considerato l’impatto sulle persone coinvolte. I giovani si sentono particolarmente colpiti dalla disoccupazione, a livello economico e anche emotivo. Studi condotti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno concluso che giovani perfettamente equivalenti – per preparazione, classe sociale e quoziente intellettivo – si differenziano negli anni in base al reddito: quelli che hanno avuto un periodo significativo di disoccupazione guadagnano meno. Maggiore è il periodo, maggiore il gap di reddito Ma non c’è solo un gap economico. Dopo un periodo di disoccupazione, la tentazione forte è di accettare qualsiasi lavoro, pur di entrare nel mercato. Lavori dove la retribuzione è più bassa, così come le opportunità di crescita e di carriera. Da un certo punto di vista, non c’è nulla di sbagliato, salvo che poi le imprese, quando cercano per posizioni migliori, con maggiore reddito e prospettive, guardano ai neo-laureati, piuttosto che a chi fa lavori inferiori o è disoccupato. Questo tende a relegare i giovani colpiti da lunghi periodi di disoccupazione in un’area con scarse prospettive rispetto alla preparazione e alle aspettative. È il fenomeno che l’OECD ha definito “youth left behind”. La disoccupazione giovanile porta con sé un certo grado di infelicità, che eccede il solo piano economico. Un ulteriore effetto sociale è la “full-nest syndrome”. Nell’Unione Europea, il 46% dei giovani tra 18 e 34 anni vive con un genitore, perché ancora non hanno lasciato la casa familiare o perché vi hanno fatto ritorno, seppure per un periodo. Di fronte a questa piaga, i governi devono assolutamente liberalizzare il mercato del lavoro, per consentire che i giovani
abbiano almeno le stesse possibilità degli adulti. In aggiunta, devono impegnarsi affinché i giovani escano dal sistema scolastico con competenze rilevanti per le imprese. A volte, agevolare la vocazione dei ragazzi può produrre dei danni enormi, nella misura in cui si specializzano in discipline che hanno poco sbocco lavorativo. A meno che questi percorsi non si accompagnino a periodi di apprendistato nelle imprese, a cui poi può seguire l’inserimento. In Germania, dove la disoccupazione giovanile è al 9,5% – tra le più basse nella UE – un quarto delle imprese offre programmi di apprendistato, a cui partecipano circa due terzi dei giovani studenti delle superiori, dedicando in media tre pomeriggi a settimana. Queste misure sono comunque destinate ad avere un impatto scarso su quelle fasce di giovani che vivono in ambienti dove la disoccupazione è cronicamente diffusa. Qui proprio la mancanza di modelli di riferimento negli adulti genera una mancanza di aspettative già dall’adolescenza. In questi ambienti servono piuttosto interventi personalizzati, poiché politiche generalizzate potrebbero paradossalmente aumentare la marginalizzazione di questi giovani rispetto al mercato del lavoro. a sad prospect discouraged youth* workers, selected countries % of youth labour force 2005
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La Società del Marketing | dicembre 2011
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45° Rapporto sulla situazione sociale del Paese Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma Censis, 2 dicembre 2011 Imprese, società e territorio - del 12/12/11 Vincenzo De Luca Sindaco di Salerno
Prigionieri dei poteri finanziari, che fanno rigore ma non sviluppo. Fragili, isolati e eterodiretti. In questi mesi la società italiana si è rivelata fragile, isolata e eterodiretta. Nel picco della crisi 2008-2009 avevamo dimostrato una tenuta superiore a tutti gli altri, guadagnandoci una good reputation internazionale. Ma ora siamo fragili a causa di una crisi che viene dal non governo della finanza globalizzata e che si esprime sul piano interno con un sentimento di stanchezza collettiva e di inerte fatalismo rispetto al problema del debito pubblico. Siamo isolati, perché restiamo fuori dai grandi processi internazionali (rispetto all’Unione europea, alle alleanze occidentali, ai mutamenti in corso nel vicino Nord Africa, ai rampanti free rider dell’economia mondiale). E siamo eterodiretti, vista la propensione degli uffici europei a dettarci l’agenda. I nostri antichi punti di forza (la capacità di adattamento e i processi spontanei di autoregolazione nel welfare, nei consumi, nelle strategie d’impresa) non riescono più a funzionare. Secondo De Rita «viviamo esprimendoci con concetti e termini che nulla hanno a che fare con le preoccupazioni della vita collettiva (basti pensare a quanto hanno tenuto banco negli ultimi mesi termini come default, rating, spread, ecc.) e alla fine ci associamo - ma da prigionieri - alle culture e agli interessi che guidano quei concetti e quei termini». Una dialettica politica prigioniera del primato dei poteri finanziari. Era prevedibile che la verticalizzazione e la personalizzazione del potere coltivate negli ultimi vent’anni avrebbero impoverito nel tempo la nostra forza di governo. Si è così creato un deficit politico che ha favorito una logica di polarizzazione decisionale: in basso vince il primato del mercato, in alto il primato degli organismi apicali del potere finanziario. «Ognuno per sé e Francoforte per tutti» sembra il messaggio corrente, per De Rita. «Ma una società complessa come la nostra non può vivere e crescere relegando milioni di persone a essere una moltitudine egoista affidata a un mercato turbolento e sregolato, e affidando la tenuta dell’ordine minimale a vertici e circuiti finanziari ristretti e non sempre trasparenti». Oggi la dialettica politica sembra prigioniera del primato, anche lessicale, della regolazione finanziaria di vertice, che però può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita. È illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. «Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà». Per uscire dalla crisi, coltivare la lunga durata della nostra linea evolutiva. Il solido «scheletro contadino», metafora della nostra cultura
di continuo adattamento, resta il riferimento della nostra evoluzione sociale. Siamo ancora una realtà in cui vige il primato dell’economia reale, nonostante l’attuale trionfo dell’economia finanziaria. La nostra crescita dell’ultimo mezzo secolo è stata il frutto di processi di sviluppo della soggettività individuale (iniziativa imprenditoriale di piccola e media dimensione, vitalità delle diverse realtà territoriali, coesione sociale, forza economica e finanziaria delle famiglie, diffusa patrimonializzazione immobiliare, radicamento sul territorio del sistema bancario, responsabile copertura pubblica e privata dei bisogni sociali): fattori ancora essenziali per superare la congiuntura negativa e il declinismo. «Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia». Una forte articolazione socioeconomica interna. «La vitalità è sempre tesa al molteplice e la lunga durata si associa progressivamente ai processi di articolazione». Così, alla crisi non ha corrisposto una reazione omogenea, ma una risposta articolata e differenziata. Ci sono le «minoranze attive» che restano fedeli alla sfida imprenditoriale, ma non riescono a trainare il resto della società; i «borghigiani», che hanno scelto di perseguire una più alta qualità della vita; il «ceto medio», impaurito dalla prospettiva di uscire dalla fascia intermedia della composizione sociale; la parte marginale della società, resa ancora più fragile dalla crisi. Nel prossimo futuro potrebbero essere incubati germi di tensione sociale e di conflitto a causa dell’aumento delle diseguaglianze e dei processi che creano emarginazione. Lo sviluppo delle relazioni. Il disinnesco delle tensioni passa attraverso l’arricchimento dei rapporti sociali. La lunga durata porta infatti alla differenziazione dei soggetti e dei loro comportamenti, ma la società è fatta di relazioni fra soggetti. È nel binomio «più articolazione, più relazione» che la società italiana può riprendere respiro. Lo si vede nella ricerca di nuovi format relazionali: l’esplosione dei tanti social network, la diffusione di aggregazioni spirituali, la crescita di forme amicali collettive (le crociere, le movide, le sagre), lo sviluppo di aggregazioni capaci di supplire alle carenze del welfare pubblico (asili nido, mense scolastiche, esperienze mutualistiche), la partecipazione comunitaria a livello di quartiere urbano o di area agricola, i borghi risistemati e le medie città di antico prestigio, la tenuta di tutti i soggetti intermedi portatori di interessi o di istanze civili. La difesa e valorizzazione della rappresentanza. Un sistema che vive nel quotidiano svolgersi dell’articolazione e delle relazioni esprime il bisogno di sedi e meccanismi di rappresentanza, dove le parti possono contribuire ai processi decisionali ai vari livelli. «Il vuoto lasciato nella fascia intermedia della società dalla polarizzazione fra il mercato (e il soggettivismo etico che esso produce) e la verticalizzazione finanziaria
(e i suoi spazi astrali, ma non trasparenti) può essere riempito soltanto dalla rappresentanza». Senza il funzionamento della rappresentanza, sociale e politica, la società sarebbe priva di vitalità dialettica e dinamica sociale, oltre che di un indispensabile tessuto socio-politico intermedio. quel che resta del modello italiano Identità plurime e interessi: gli italiani in recupero di serietà. In tempi difficili come quelli attuali, c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco che, come spesso è accaduto nei passaggi chiave della storia nazionale, può essere decisiva nel fronteggiare le difficoltà. Il 57,3% degli italiani è disponibile a sacrificare il proprio tornaconto personale per l’interesse generale del Paese (anche se, di questi, il 45,7% limita la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). Cosa dovrebbe essere messo subito al centro dell’attenzione collettiva per costruire un’Italia più forte? Per più del 50% la riduzione delle diseguaglianze economiche. Moralità e onestà (56%) e rispetto per gli altri (54%) sono i valori guida indicati dalla maggioranza degli italiani. Emerge la stanchezza per le tante furbizie e violazioni delle regole. L’81% condanna l’evasione fiscale: per il 43% è moralmente inaccettabile (le tasse vanno pagate tutte e per intero), per il 38% chi non le paga arreca un danno ai cittadini onesti. L’erosione del modello di sviluppo fondato sulla famiglia. È vero che all’82% di famiglie italiane proprietarie della loro abitazione corrispondono percentuali molto più basse negli altri Paesi europei: nel Regno Unito si raggiunge il 70% circa, quasi il 60% in Francia e il 45% in Germania. L’attivo finanziario delle famiglie, al netto dei debiti, ammonta al 175% del Pil, ma in valore assoluto c’è stata una erosione significativa di questo patrimonio, dai 3.042 miliardi di euro del 2006 a 2.722 miliardi: -11%, ma in valori reali -16%. La rivincita della razionalità sull’emozione. Da una ricerca del Censis sulla popolazione con più di 50 anni emergono le basi profonde dell’identità: al primo posto l’esperienza del singolo (45%), seguita dall’eredità culturale familiare (43%) e dal carattere (42%), mentre raccolgono percentuali irrisorie la classe socio-economica (5%), l’appartenenza religiosa (4%), politica (1%), etnica (0,2%). Dopo anni di emotività confusa, il primato della ragione e dell’esperienza si traduce anche in un nuovo atteggiamento verso la politica. Gli eccessi del passato danno meno presa all’adesione per simpatia, fascinazione e carisma. Si chiede una classe dirigente di specchiata onestà sia in pubblico che in privato (59%), che i leader siano preparati (43%), illuminati da saggezza e consapevolezza (43%). le cause del ristagno economico Il deficit di classi dirigenti. Nel nostro Paese i vertici decisionali si sono ridotti di oltre 100.000 unità tra il 2007 e il 2010. In più, le donne sono
poche, l’età media è elevata e solo un terzo è laureato: a conferma che il fenomeno è dovuto non solo ai comportamenti dei vertici più elevati, ma anche alla sterilità dello strato sociale che dovrebbe esprimere il ricambio. La parabola declinante della produttività. Mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil è cresciuto in termini reali solo del 4%. Si è ridotta la nostra capacità di generare valore. La produttività oraria è andata progressivamente calando. Nel 2000, fatto 100 il livello di produttività medio europeo, l’Italia presentava un valore pari a 117, sceso nel 2010 a 101. Tale dinamica è stata condizionata dalla qualità della crescita occupazionale degli ultimi anni, con un aumento dei lavori a bassa o nulla qualificazione a scapito di quelli più qualificati. Segnali di deterioramento nei servizi. I cittadini e le imprese si trovano a fare i conti con un sistema dei servizi che mostra evidenti segnali di criticità. Il trasporto pubblico locale soffriva già di una grave inadeguatezza dell’offerta. Tra il 2007 e il 2010 i passeggeri trasportati dai bus urbani sono aumentati del 2%, mentre i posti/km offerti sono diminuiti del 3%; nelle ferrovie regionali e metropolitane +10% di passeggeri e -1% di posti. Ma nel 2011 il trasporto pubblico ha subito mancati trasferimenti in attuazione dell’accordo Stato-Regioni, con queste ultime costrette ad aumentare le tariffe e a ridurre i servizi. Un’Italia in sospensione, ma di fronte all’emergenza c’è una responsabilità collettiva pronta a entrare in gioco.
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Marzo 2012, n째 98 Nuclear energy. The dream that failed
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La Società del Marketing | marzo 2012
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Nuclear energy. The dream that failed Special report by Oliver Morton The Economist, March 10th 2012 Enduring Crisis. Strumenti operativi per limitare i danni - del 15/3/12 Beppe Scienza Università di Torino
Un anno dopo Fukushima, il futuro dell’energia nucleare non è luminoso, tanto per motivi di sicurezza quanto per ragioni di costo. L’enorme potere del nucleo atomico – sentenziò il chimico Frederick Soddy nel 1908 – “potrebbe trasformare un continente deserto, sciogliere i ghiacci polari e fare del mondo intero un sorridente Giardino dell’Eden”. Da un punto di vista squisitamente militare, quel potere ha piuttosto minacciato di fare il contrario, con la sua capacità ineguagliata di trasformare i giardini in deserti. Gli idealisti speravano che un uso civile e coscienzioso avrebbe riequilibrato le cose, generando una fonte di elettricità per i secoli a venire abbondante, economica, affidabile e sicura. Ma così non è stato. Né pare che lo sarà nel prossimo futuro. 26 anni fa, quando l’industria nucleare sembrava quasi moribonda, l’Economist indicò una strada chiara per la sua ripresa: “costruire impianti in abbondanza, per accumulare, anno dopo anno, un record di zero decessi, nessun incidente rilevante e nessuna discussione sul fatto che il risultato fosse: energia a buon mercato”. La conclusione, che l’industria nucleare fosse “sicura quanto una fabbrica di cioccolato”, si scontrò un mese dopo con l’incidente di Chernobyl, dove un reattore andò fuori controllo e esplose, uccidendo chi vi stava lavorando e molti di coloro che furono inviati a soccorrere e sistemare il disastro, spargendo lontano un’ampia nube tossica, rendendo inabitabile una vasta area e sfollando dalle loro case decine di migliaia di persone. La reale portata del danno della contaminazione è ancora ignoto, mentre le sofferenze patite dalle vittime sono sotto gli occhi di tutti. 25 anni dopo, quando per qualcuno era passato abbastanza tempo da parlare di “rinascita nucleare”, è successo di nuovo. Eppure, i burocrati, i politici e gli industriali di quella che era stata definita “la città nucleare” del Giappone non erano gli inaffidabili funzionari di quello Stato decadente e autoritario che è ritenuto colpevole del disastro di Chernobyl. Questi portavano delle responsabilità, verso gli elettori, verso gli azionisti e verso la società. Nonostante ciò, queste persone hanno lasciato che il loro entusiasmo per l’energia nucleare nascondesse regole deboli, sistemi di sicurezza inadeguati e una colpevole ignoranza dei rischi tettonici che incombevano sul reattore, mentre proclamavano il mito del nucleare sicuro.
Ora, non è che tutte le democrazie gestiscono le cose in modo tanto modesto. Ma il nucleare è avviato a diventare sempre meno un affare delle democrazie. Il più grande investimento all’orizzonte è quello della Cina – non tanto perché la Cina stia facendo una scommessa forte sul nucleare, ma perché è un’economia talmente grande che qualsiasi cosa faccia, anche se limitata per lei, assume delle dimensioni che sono enormi per tutti gli altri. Le norme di sicurezza cinesi saranno probabilmente riviste, in risposta all’incidente di Fukushima. Alcuni dei suoi nuovi impianti sono tra i più moderni e sicuri mai progettati. Ma la sicurezza in questo campo richiede di più di una buona ingegneria. Gli impianti nucleari possono essere tenuti in sicurezza solo preoccupandosi costantemente del loro pericolo. Ciò che serve è un sistema normativo indipendente e una cultura della sicurezza meticolosa e autocritica, capace di ricercare continuamente quei rischi che possono essere sfuggiti. Queste sono attitudini che né la Cina né la Russia (che pure prevede di costruire nuovi impianti) hanno dimostrato ancora di possedere. Certo, in ogni paese è difficile che il sistema normativo sia indipendente, quando il settore che deve essere soggetto alle norme esiste in buona sostanza grazie al placet del governo. Senza l’appoggio dei governi i privati non costruirebbero mai impianti nucleari. In parte, per i rischi derivanti dalle opposizioni locali e dal cambio di orientamento della politica – ad esempio, la Germania, che aveva considerato sicuri i suoi impianti, fino a che Fukushima non ha mandato al settore il suo messaggio raggelante. Ma soprattutto perché i reattori sono troppo costosi. I moderni impianti del dopo-Chernobyl vantavano un investimento contenuto che però non si è mai riscontrato. Quei pochi reattori in costruzione in Europa viaggiano abbondantemente sopra il loro budget di costo, già di per sé elevato. In America, dove c’è la più grande flotta di impianti nucleari, il gas ha abbattuto il costo dell’energia alternativa al nucleare, tanto che i nuovi impianti sono economicamente convenienti solo nelle aree dove il mercato dell’elettricità è ancora regolamentato, come nel sud-est. Nei paesi dove il mercato dell’energia è liberalizzato, non è economicamente possibile costruire nuovi impianti nucleari, per il semplice fatto che sono troppo costosi. Quelli esistenti possono essere utilizzati in modo molto profittevole, la loro capacità può essere ampliata e la loro vita allungata. Ma le attese riduzioni nei costi di costruzione in America come in Europa non si sono realizzate e i tempi di costruzione si sono allungati.
Perché il nucleare possa avere un ruolo più rilevante di oggi, deve diventare molto più economico ovvero le alternative devono diventare più costose. In teoria, la seconda sembra più probabile: il costo del danno ambientale portato dai combustibili fossili ancora non è stato coperto. Imponendo una carbon tax a copertura dei rischi ambientali, il prezzo dei carburanti fossili salirebbe. Ma a conti fatti i prezzi del carbone difficilmente riuscirebbero a giustificare l’uso di energia nucleare. L’Inghilterra ha proposto un prezzo base per il carbone che sarebbe circa quattro volte il prezzo corrente sul mercato europeo, per rendere appetibile la costruzione di un paio di impianti nucleari. Ma anche a questi livelli, servono ulteriori forti motivazioni per decidere a favore del nucleare. Inoltre, non pare possibile mantenere ovunque il prezzo del carbone così elevato e per lungo tempo. Che i prezzi dei fossili spingano o meno verso il nucleare, è evidente che questa fonte di energia sarebbe più competitiva se fosse meno costosa. Ma nonostante lunghi e generosi programmi governativi di ricerca e sviluppo, ancora non pare che lo diventerà. I reattori nucleari e i loro utilizzi non sono cambiati molto nell’arco di settant’anni. L’innovazione spiega i suoi vantaggi quando più progetti possono competere tra loro, dove nuovi concorrenti possono entrare facilmente, dove la normativa è leggera. Alcune tecnologie per l’energia rinnovabile rispondono a questi criteri e infatti stanno diventando più economiche. Non è detto che l’energia nucleare riesca a fare lo stesso. I fautori sostengono che reattori moderni, piccoli e costruiti in serie eviterebbero alcuni dei problemi degli impianti attuali. Ma per creare vera innovazione questi reattori dovrebbero trovare un mercato ampio tanto da permettere una competizione uno contro l’altro: questo mercato semplicemente non c’è. Innovare nel nucleare è tuttora possibile, ma non è una cosa che vedremo presto. Il che non vuol dire che l’energia nucleare scomparirà dall’oggi al domani. I reattori acquistati oggi dureranno fino al prossimo secolo e fermare reattori ben gestiti, che sono stati già pagati e hanno anni di funzionamento davanti (come ha fatto la Germania) non ha molto senso. Alcuni paesi, preoccupati delle forniture di energie da parte di altri, continueranno a costruirne. Così come potrebbero farlo quei paesi che puntano anche alla costruzione (o alla capacità di costruire) armi nucleari. Se poi i prezzi dei combustibili fossili dovessero salire e restare alti, per la loro scarsità o per le tasse imposte, il nucleare potrebbe diventare di nuovo attraente. Nel 2010 l’energia nucleare forniva il 13% della domanda globale di energia, laddove nel 1996 la quota era del 18%. Uno scenario pre-Fukushima della International Energy Agency prevedeva una crescita del 70% delle capacità nucleari fino al 2035; considerando che anche le altre fonti sono previste in crescita,
la quota rimaneva stabile intorno al 13%. Uno scenario più attento ora prevede che i paesi ricchi non avviino ulteriori impianti oltre quelli già in costruzione, che gli altri paesi realizzino la metà di quelli dichiarati (che nel campo dell’energia nucleare è piuttosto frequente) e che i legislatori siano meno generosi nel consentire l’estensione della vita di quelli esistenti. Tutto questo proietta una capacità in lieve flessione e una quota del mercato dell’elettricità che scende al 7%.
L’energia nucleare non scomparirà, ma il suo ruolo non potrà mai essere più che marginale. In un mondo di energia a basse emissioni, il ruolo del nucleare sarà limitato alla domanda di energia non soddisfatta, dopo che le fonti rinnovabili saranno state sfruttate al massimo. La promessa trasformazione globale è sfumata.
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Aprile 2012, n째 99 Lavoro e formazione: l'importanza dell'esperienza all'estero
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La Società del Marketing | aprile 2012
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Lavoro e formazione: l'importanza dell'esperienza all'estero Intervista a Pierluigi Celli, DG Luiss Guido Carli Censis, 7 marzo 2012 Gli scenari del lavoro al 2020 - del 18/4/12 Domenico De Masi S3 Studium
1. Nel 2009 Lei ha inviato una lettera al quotidiano La Repubblica, in cui suggeriva a suo figlio di lasciare l’Italia, affermando che il bel Paese “non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio”. Ad oggi la sua opinione in merito è cambiata? Ritiene ancora che l’unica opportunità per i giovani sia quella di abbandonare il Paese e cercare una realizzazione professionale all’estero? R: La lettera nasceva come provocazione sulla base dell’esperienza che stavo facendo in università nell’accompagnare al lavoro i ragazzi che si laureavano. Un impegno che assorbe gran parte della mia giornata lavorativa insieme al tempo dedicato ad ascoltare gli studenti nei loro problemi quotidiani. Le difficoltà crescenti di trovare occupazione e di incontrare prospettive soddisfacenti, mostravano con chiarezza l’accentuarsi della crisi che allora non sembrava sollecitare riflessioni né interventi. Il contesto generale, poi, segnalava un paese in degrado progressivo e quasi inarrestabile, con sbandamenti preoccupanti sia a livello politico-istituzionale che civile. Da allora, l’argomento della disoccupazione giovanile e della contrazione delle opportunità lavorative è diventato quasi di moda sulla stampa, nei convegni e nelle prese di posizione pubbliche. Le soluzioni non sono ancora arrivate, ma almeno il contesto sociale e politico è cambiato, sembra esserci una diversa sensibilità alla questione morale, e la speranza che si ponga mano in qualche modo al problema si sta facendo più concreta. Io credo, per quello che mi è dato di vedere, che i giovani possano trovare nell’esperienza all’estero confronti e arricchimenti personali e professionali utilizzabili positivamente. Del resto i circuiti internazionali, per gli studenti, si stanno moltiplicando, e questo è un bene. Se poi tutto questo sarà possibile utilizzarlo in patria è un desiderio che sta a cuore a tutti noi. Per chi abbia interesse genuino per le sorti del nostro paese, poter contare su di una generazione più ricca di saperi, più aperta, e meno condizionata da logiche di appartenenza o da devozioni improprie, non può essere che un vantaggio.
2. Partendo dal discorso inverso, noi in questi anni abbiamo “esportato” tanti talenti, ma quanti ne abbiamo attirati sul nostro territorio? L’Italia non dovrebbe preoccuparsi maggiormente di attirare "nuove menti" per migliorare il confronto internazionale? Quale dovrebbe essere in tal senso il ruolo delle Università? R: Per attirare risorse competenti e di pregio dall’estero bisognerebbe offrire condizioni almeno compatibili con quelle presenti oggi in altri paesi evoluti o in quelli che hanno imboccato risolutamente la via di un rapido sviluppo. Cosa che l’Italia ancora non sembra assicurare. La logica meritocratica nella valutazione, selezione, promozione e accompagnamento nella crescita professionale dei talenti e dei volenterosi, è tutt’ora largamente casuale e limitata, quando non addirittura negletta od ostacolata. Altrettanto si può dire dei riconoscimenti economici da agganciare ai curricoli e ai risultati. Le nostre università, poi, con lodevoli eccezioni certo, sono ancora largamente dominate da atteggiamenti difensivi di antiche corporazioni, in cui la tutela di posizioni di potere e della discrezionalità nei percorsi di carriera più o meno familistici offre condizioni opache che scoraggiano anche quelli disposti a rischiare. È chiaro che il superamento di queste forme di arroccamento autoreferenziale si presenta come una condizione minima per superare le diffidenze esterne: chi vale vuol essere sicuro di capire su che terreno e con quali regole si gioca, mentre l’impressione più accreditata è che principi e valori correnti legittimino comportamenti non comparabili con gli standard internazionali. Negli anni recenti, la perdita di reputazione del paese all’estero ha fatto il resto.
3. Lavoro, flessibilità, precariato. Le domande e gli interrogativi su questo tema sono infiniti, le risposte limitate. Università, imprese, istituzioni, è un rimbalzo di responsabilità. Ma il futuro dei giovani che oggi vivono questa situazione dove trova le risposte?
4. “Luiss on the road”. Tre studenti della Luiss alla scoperta dell’Italia 229 migliore. Quindi un’Italia migliore esiste ed è possibile? 13 le regioni da visitare, 35 le tappe in 17 giorni e oltre 6mila chilometri da percorrere in treno, in auto e in aereo. Quali i modelli positivi che crede questi ragazzi incontreranno?
R: L’università deve fare i conti (e stenta a farli) con un mercato del lavoro in cambiamento profondo, in cui le conoscenze trasmesse, ancorché pregiate, non sono più sufficienti, da sole, a intercettare i nuovi modelli occupazionali. Servono ‘teste’ allenate ad affrontare problemi che richiedono saperi multipli, compositi, più larghi delle singole specializzazioni e abili a intercettare connessioni, a discriminare, a pensare strategicamente.
R: L’iniziativa, accanto ad altre come il Laboratorio di impresa, l’incubatore, Italia-camp, controesodo etc, è nata in Luiss per dare una risposta al bisogno degli studenti di trovare ragioni valide per impegnarsi responsabilmente in questo paese.
Bisogna rendersi conto che gli studenti – per arrivare a questo tipo di formazione eccedente i singoli sillabi di istruzione – devono essere messi in grado di sperimentare, almeno negli ultimi anni di studio, condizioni assimilabili a quelle richieste dalle nuove forme di organizzazione del lavoro e delle professioni; e questo perché le imprese, ormai, incalzate dal tempo che taglia piani e spazi di manovra, molto spesso non sono più in grado di garantire ai nuovi arrivati disponibilità dilatate di adattamento all’ambiente lavorativo. Di qui l’urgenza di avere quasi dei ‘semilavorati’, almeno per quanto riguarda l’adattabilità ai nuovi contesti e la capacità di interpretare le situazioni e l’articolazione delle variabili in campo. Andrebbe retrocessa agli ultimi anni dell’università la possibilità di sperimentare in vitro quello che sarà l’ambiente in evoluzione che attende lo studente alla fine del suo ciclo di studi, e che richiede una flessibilità di testa che va allenata praticamente, per anticipare la maturazione professionale, la disponibilità a lavorare in gruppo come scelta consapevole, l’attitudine ad affrontare problemi meno routinari, la responsabilità nel proporre idee e soluzioni. Serve, in definitiva, un pensiero articolato, critico e ‘largo’, che sia in grado di leggere segnali, di stabilire rapporti non del tutto evidenti, di decrittare ciò che è essenziale rispetto a quello che può essere trascurato. Tutto questo non è risolvibile nella forma canonica del corso di tradizione, nelle lezioni frontali, negli esami ridotti a escussione di testi standard. L’accademia ha doveri nuovi: uscire dai clichè collaudati e fornire agli studenti occasioni diverse di apprendimento, più direttamente esperienziale ancorché teoricamente legittimato, con un risalto significativo per iniziative progettuali, esercitazioni su idee valorizzate sulla base della capacità degli studenti di rischiare in proprio, e così via.
Andare a vedere di persona cosa sta crescendo di buono e di valorizzabile in giro per l’Italia, raccontarlo, con i mezzi di comunicazione più diversi e sui social network, ai compagni di università, alle famiglie, agli amici, a chi ha responsabilità politiche e civili, confrontarsi con il coraggio e la fatica di chi crede che in questo paese sia ancora possibile cambiare, è un buon test per decidere su cosa costruire nei propri anni residui in università e come prepararsi “al dopo” per non deludere e non essere delusi. Ci sono molti modi per lavorare a una ‘testa ben fatta’; l’unico che non dà risultati apprezzabili è rintanarsi nella sacralità accademica. Se ‘l’esprit de geometrie’ garantisce forse gli strumenti e la capacità di misura, è ‘l’esprit de finesse’ che alimenta l’interpretazione, la sensibilità all’evoluzione, la passione per le scelte meno convenzionali. In fondo, la voglia di non arrendersi.
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La Società del Marketing | "Prologo"
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Consigli per gli acquisti e per le vendite Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 8 maggio 1995
Pare che il marketing sia arrivato in politica, o che la politica abbia scoperto il marketing: ampia questione! È comunque un fatto che alcuni dei principali strumenti del marketing industriale abbiano guadagnato la ribalta grazie all'uso che i partiti ne fanno. Pensiamo ai "sondaggi", meglio noti come "ricerche di mercato", ma soprattutto pensiamo agli spot pubblicitari. Ma perchè è rilevante, per noi che ci occupiamo di impresa, ragionare su come la politica possa avvalersi di strumenti di marketing? Perchè, specialmente per la pubblicità, la politica non si limita a usare il mezzo come tutti gli altri utenti, ma pretende di "valutarlo", di "correggerlo", di asservirlo ai bisogni di una parte degli utenti: i comunicatori politici. Ecco che diventa importante partecipare alle discussioni di queste settimane, portando il punto di vista dell'impresa utente di mezzi televisivi. Alcune sere fa ho ascoltato con piacere al programma radiofonico Zapping Aldo Biasi, che è uno dei pubblicitari italiani di maggior spessore e intelligenza. Egli sosteneva che un "dimagrimento" dei due colossi Rai e Fininvest sarebbe auspicabile se consentisse di liberare mercato per emittenti a copertura regionale, così da permettere l'accesso allo strumento della pubblicità da parte di imprese a distribuzione locale. Oggi, se un'industria olearia o conserviera che distribuisce i suoi prodotti localmente volesse competere attraverso la pubblicità televisiva, dovrebbe acquistare spazi su reti nazionali, che coprono tutta l'Italia: uno spreco di soldi, visto che molti consumatori, al di fuori della regione, vedrebbero la pubblicità senza poter comprare il prodotto. Ma esistono già molte emittenti locali. Infatti credo che l'idea sia proprio di liberare una fetta di mercato per consentire ad alcune TV locali di crescere, rimanendo a copertura regionale, ma con una qualità di programmi pari alle reti nazionali: solo così potranno avere una share di ascolto tale da attirare la raccolta pubblicitaria. Questo avvierebbe quel pluralismo tanto invocato. Perchè in ultimo è sempre la raccolta pubblicitaria che garantisce l'indipendenza dei media e quindi permette il sorgere di opinioni diverse. Il problema però sta nel conciliare una pluralità di soggetti indipendenti con la necessità di strutture televisive efficienti in grado di abbattere i costi e migliorare la qualità: Rai e Fininvest generano economie di scala impensabili per reti regionali, e quindi possono offrire programmi di elevata qualità.
Scelte industriali per la TV Voglio analizzare la questione scomponendo la realtà in tre parti: gli impianti, la diffusione e i programmi. 1. Gli impianti. Per impianti intendo tutti gli apparati di produzione: studi di registrazione, macchinari, studi di montaggio. Intendo anche i magazzini di film e di programmi. Credo che tutto questo insieme di risorse per la televisione dovrebbe essere gestito da imprese da dimensioni sufficientemente grandi da generare le maggiori economie possibili, il cui business sarebbe quello di noleggiare alle emittenti quello che serve ai loro palinsesti. Queste imprese di produzione potrebbero finanziare e acquistare la produzione cinematografica, potrebbero riprendere spettacoli sportivi e culturali, potrebbero arrivare a progettare e girare programmi in autonomia. Il tutto sarebbe poi offerto sul libero mercato alle varie emittenti, che potrebbero scegliere di trasmettere il campionato di serie A o il Gran Premio per intero, mentre altre ne trasmetterebbero solo stralci, noleggiando questi diritti per il tempo che si vuole, un giorno, un mese o cinque anni. Si ridurrebbe al minimo così la sovrapposizione di investimenti superflui in impianti e magazzini, e il costo dei programmi potrebbe anche diminuire, pur consentendo il giusto profitto a queste imprese di produzione. 2. La diffusione. Per diffusione intendo ovviamente le frequenze: cioè la possibilità per l'emittente che ne abbia diritto di raggiungere via etere gli apparecchi televisivi del suo target. È una questione spinosa che deve arrivare alla giusta sistemazione al più presto, perchè altrimenti è superfluo parlare di programmi e di cosa trasmette chi, visto che poi è impossibile vedere. 3. I programmi. È qui che si materializza la vera essenza della televisione: nella costruzione dei palinsesti e nei contenuti dei programmi. Ogni emittente farebbe il suo palinsesto in base alle strategie commerciali, che derivano dal target di audience che ci si prefigge come obiettivo. Ad esempio, un'emittente potrebbe perseguire la grande audience, per raccogliere pubblicità di prodotti di largo consumo, e allora trasmetterà il varietà alla sera, il contenitore alla domenica e eventi come Sanremo. Un'altra si rivolgerebbe ad un pubblico più di nicchia, con pubblicità e programmi mirati. Un evento sportivo come i Mondiali di Calcio avrebbero spazio sulle reti di massa per la semifinale in cui gioca l'Italia, mentre sarebbero appannaggio di un'emittente tipica per le partite da amatori (Grecia-Corea, che può influenzare il girone dei nostri probabili avversari in finale, se vinciamo la semifinale, perchè le reti....).
Pluralismo uguale segmentazione È questo il vero mercato televisivo, dove è assolutamente necessario quel pluralismo di soggetti, che molti invocano ma che pochi provocano. Se non si svincolano le emittenti dai grandi investimenti che ci sono alle spalle, si perpetuano due fenomeni che pare nessuno voglia: da un lato, le grandi reti nazionali, che tali investimenti hanno effettuato, devono rincorrere l'audience per motivi di conto economico, e quindi mai potrebbero deviare risorse per i cosiddetti programmi "culturali" (dato il pregiudizio che la cultura non possa fare audience, discutibilissimo!). D'altro canto, le piccole TV locali non potranno mai sviluppare programmi di qualità senza i necessari capitali da investire in tecnologie, e quindi non avranno mai l'audience sufficiente per raccogliere la pubblicità che serve a sostituire le "televendite" con i programmi veri. Questo stato di cose comporta anche che i palinsesti delle reti nazionali siano ancora poco segmentati per fascia di pubblico: mi sembra cioè che siano ancora pochi e relegati in orari difficili i programmi altamente focalizzati su un target, mentre molti ancora inseguono il grande pubblico. Questo vale anche per la struttura dei palinsesti: ad esempio, tutti i programmi di prima serata cominciano alle 20:30/ 20:45, minuto più, minuto meno. Molte persone lasciano il lavoro tardi, e rientrano a casa proprio a quell'ora, e devono scegliere se prepararsi la cena o sedersi a vedere il film: se prevale l'istinto di sopravvivenza, sono poi condannati allo zapping dalle 21:30 fino alle 22:30, quando riprendono i TG, e poi cominciano altri programmi, davanti ai quali ci si addormenta. Perchè nessuna emittente decide di partire con il film alle 21:30? Forse perchè rischia di perdersi chi è già a casa, e non se lo può permettere, altrimenti perde audience e raccolta di pubblicità. La TV per le imprese Ma cosa importa alle imprese se qualcuno si perde il film? Importa, importa. Vediamo perchè. Un'offerta televisiva poco segmentata comporta che anche gli spazi pubblicitari siano poco segmentati, e quindi pure il loro costo: così un'impresa che si rivolge a una nicchia non può permettersi la televisione mentre chi offre prodotti di largo consumo trova estremamente conveniente la pubblicità televisiva, e ne abusa, aumentando l'affollamento (ma questo è poi un altro problema). In definitiva, la segmentazione dell'offerta TV significa più focus per gli investitori, e quindi meno spot per colpire il target e meno dispersione di risorse, e disponibilità a pagare di più per uno spot ma trasmetterne di meno: un riequilibrio tra diversi investitori con un mercato più accessibile a tutti, piccoli e grandi, nazionali e regionali.
Il futuro è Costanzo In conclusione, quando la politica si occupa e si preoccupa della TV, non dovrebbe attaccare tutta la struttura delle reti, nè tantomeno nascondervisi dietro, usandola come alibi. Quando si sostiene che vendere una rete sarebbe come privare la Ferrero della Nutella, si dice una cosa giusta. Ma ci premeva solo chiarire che il passaggio del marchio Nutella a un altro imprenditore potrebbe anche avvenire mantenendo la produzione presso gli impianti Ferrero, ripagando quindi gli investimenti. In effetti, già le reti nazionali Rai e Fininvest sono organizzate per sinergie industriali di impianti, e addirittura la Fininvest ha realizzato sinergie di programmi e di raccolta con Italia 7, che pure non le appartiene. Dal lato opposto, come mai Maurizio Costanzo propone TeleSogno? Non sarà perchè in pratica ha già realizzato la sua emittente/programma, con redazione snella, studio in affitto e troupe, e gli serve solo la diffusione, cioè le frequenze, e una concessionaria esterna per la raccolta pubblicitaria (pardon, la raccolta dei consigli per gli acquisti).
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Lo sviluppo nasce dall'impresa Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 25 luglio 1994
È arrivata la ripresa. Come a suo tempo la crisi, anche la ripresa economica si annuncia prima a un livello psicologico e poi segue nei fatti, nei fatturati, nella produzione, nell’occupazione… forse. Alcuni anni fa, mentre stavamo effettivamente un po’ satolli del consumismo degli anni ’80, un caro signore ammonì: “La festa è finita, andate in crisi”. E noi tutti capimmo che dovevamo entrare in crisi. Molti di noi non persero il lavoro, e continuavamo a guadagnare gli stessi redditi, ma ugualmente decisero che era meglio spenderne meno in consumi. Così psicologicamente si espiano le abbuffate degli anni ’80, e nell’economia reale si faceva uno sgambetto niente male a bar, ristoranti, negozi e fabbriche di varia voluttà: in breve, si facilitava il compito della crisi, che in una certa misura ci sarebbe toccata comunque. Ma tant’è, la componente psicologica è una determinante degli andamenti delle economie moderne. Ma cos’è questa crisi? Ora però abbiamo davanti la ripresa. Dobbiamo avercela. Questa crisi non si regge più. Abbiamo capito che avevamo esagerato. Ci siamo pentiti. Non lo faremo più. Ma ora basta, ma quelli che hanno perso il lavoro non lo hanno ancora ritrovato. Beh, lo troveranno, prima o poi. Noi, per il momento, riprendiamo a comprare e a spendere. Come prima? No. Non come prima. Un cambiamento nel consumismo c’è, ci sarà; gli anglosassoni, che con la ripresa sono più avanti di noi (ma lo erano stati anche con la crisi), la chiamano “Cost Conscious Mentality”. Che non significa attenzione alle spese per ridurre, per tagliare. Significa disponibilità a scendere senza sperperare, puntando cioè a portare a casa un valore che corrisponda al costo sostenuto. C’è un detto che comincia a farsi risentire: “Chi più spende meno spende”. Si punta a comprare qualcosa che vale/dura di più, anche se costa di più. Si compra meno, ma meglio. Gli esperti di psicologia del consumo sanno che il cambiamento è notevole; non si tratta solo di aver scoperto la “qualità” (i mobili di vero legno, le auto tedesche, etc.). Il fatto è che l’attenzione del consumatore si sposta dall’atto di acquisto all’oggetto dell’acquisto: si trae soddisfazione un po’ meno dal fare shopping e un po’ più dal valore dell’oggetto acquistato/posseduto. Quel piacere intenso di andare in giro a comprare, spendere, comprare, spendere… c’è ancora, ma è minore, o meglio è bilanciato da un altro piacere, meno effimero e più duraturo, il senso di aver “speso bene”.
L’impresa e la spesa Ora, per le imprese italiane questa ripresa non significa semplicemente che gli ordini ritorneranno ai livelli di un tempo, ma che i nuovi stili di consumo andranno capiti, interpretati e assecondati: come si presenta l’impresa italiana alla congiuntura dei prossimi anni, positiva ma piena di sfide? A metà giugno il Mediocredito Centrale ha presentato il “Quinto Rapporto sull’Industria italiana e sulla Politica Industriale” il presidente dell’Istituto, Gianfranco Imperatori, con il supporto dello Studio Ambrosetti, ha riunito a Fiuggi nomi illustri dell’economia, tra cui Fabrizio Onida, Enzo Giustino e Vittorio Merloni per parlare delle opportunità e delle sfide che aspettano le imprese italiane. Si era tra economisti, con qualche eccezione, e si è dunque parlato di macroeconomia. Qui non si vogliono riportare i contenuti del convegno, ma solo derivarne alcuni spunti di riflessione e dibattito. Stando agli interventi, il sistema delle imprese cavalcherà la ripresa con successo se verranno risolti alcuni nodi fondamentali: l’adeguatezza culturale del sistema bancario (vicino più al patrimonio dell’impresa che alla sua gestione – secondo Merloni). Il costo del denaro, il costo del lavoro, la pressione fiscale e gli incentivi (che arrivano poi con anni di ritardo). C’è da chiedersi: con questi interventi, tutti giusti, vengono liberate tutte le potenzialità del sistema delle imprese? Non è che magari ci sono altre aree di miglioramento altrettanto o più importanti? Arriviamoci con un esempio. Costo del Denaro: al Sud più caro Dal rapporto del Mediocredito emerge che gli oneri finanziari di un’impresa sono in media circa il 4% del fatturato. Per un’azienda che fattura 10 miliardi sono 400 milioni. Un’economista ha fatto notare che uno dei limiti allo sviluppo del Sud è che il denaro costa circa 2 punti percentuali in più che al Nord. Per la stessa azienda che fattura 10 miliardi, trovarsi al Sud o al Nord significa pagare circa 50 milioni in più o in meno alle banche per comprare il denaro: lo 0.5% del fatturato. Ecco quanto pesa il differenziale del costo del denaro. Questo sarebbe il toccasana individuato dagli economisti per far decollare le economie. Questo e altri come questo. Ora stringiamo il campo dal sistema delle imprese alla singola azienda e formuliamo alcune domande.
Che carenza di informazioni sui mercati e sui concorrenti c’è nell’azienda? Che attitudine e abitudine all’uso dei dati interni e esterni c’è in azienda, per analisi e definizione delle politiche commerciali? Che dipendenza c’è dagli intermediari nella distribuzione? Quanto poco basterebbe, spesso, per cambiare qualcosa e riuscire quindi ad aumentare i prezzi o a non scontarli del 5%? Stiamo parlando di 500 milioni di margine, sempre per quella stessa azienda, e non deve neanche cambiare il sistema bancario al Sud, o spostare la sede al Nord (che tra le due è la più semplice). Sempre del Rapporto, le piccole e medie imprese hanno dimostrato di essere più efficaci delle grandi sui costi, negli anni scorsi: sapranno essere altrettanto brave sui ricavi, negli anni della ripresa, ora che non ci si dovrà rimboccare le maniche in azienda, ma infilare giacca e cravatta e andare fuori a vendere? In conclusione, non si intende affermare l’importanza delle questioni d’impresa, microeconomiche, sulle dimensioni macroeconomiche, ma solo richiamare l’attenzione su un tema: certe capacità strategiche e commerciali sono determinanti per il successo, e se mancano bisogna renderle disponibili per le imprese, e questa è una questione macroeconomica, e gli economisti hanno il dovere di affrontarla anche se non sono grandezze misurabili e confrontabili come un tasso di sconto, e anche se serve una cultura meno statistica e più mercantile.
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Metà degli spot al doppio del prezzo Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 19 febbraio 1995
C'è un sillogismo che non condivido: la pubblicità offre i soldi per comprare i film; i film catturano l'audience; la pubblicità durante i film raggiunge l'audience e giustifica il suo costo. In pratica, o si accetta l'interruzione di film belli, nuovi e costosi, oppure ci vediamo in santa pace film vecchi, un po' noiosi e più economici. Passivi davanti alla Tv: Zapping! Qualcuno si chiederà (e qualcuno mi ha già chiesto, per la verità) perchè concentrarsi solo e sempre sulla TV e sui film: forse che non siamo esposti alla pressione pubblicitaria anche attraverso altri mezzi? Certo che lo siamo, ma il nostro ruolo è diverso. Quando sfogliamo un giornale siamo noi a decidere se e quanto essere esposti a una pubblicità, o piuttosto se saltare da un articolo all'altro. Quando guardiamo la TV non sappiamo quanto durerà la pubblicità: cominciamo a fare zapping, ma dobbiamo stare attenti a ritornare al canale di partenza ogni 10-20 secondi, per evitare che "quelli" ripartano senza di noi: com'è distensivo un bel film in TV! dopo una giornata di stress è proprio quello che ci vuole. Quando camminiamo per strada siamo esposti alla cartellonistica, ma quello è un riempitivo di momenti vuoti: nessuno interrompe di andare dove sta andando, ferma la macchina, e si guarda bene tutti i manifesti pubblicitari. Si potrà osservare: ma comunque ci viene imposto di vedere. Attenzione! Non è una guerra. Non si tratta di bandire la pubblicità dalla nostra vita, ma piuttosto di ricercare un rapporto più equilibrato tra la comunicazione delle imprese e il suo target, a beneficio di entrambi. Spot e Film: buoni amici? Esiste una terza via, alternativa, che porterebbe a ridurre la quantità di pubblicità, senza diminuire le risorse dei mezzi e quindi mantenendo inalterata la qualità dei programmi (o almeno il loro costo: la qualità è un'altra cosa, lo capisco bene). Per essere espliciti, sostengo che trasmettendo la metà degli spot e chiedendo gli stessi soldi (cioè il doppio del prezzo), le imprese non perderebbero e i telespettatori guadagnerebbero. Per 2 ragioni. La prima si chiama "affollamento", ed è ben nota a tutti gli esperti del settore (pubblicitari, marketing managers, pianificatori e misuratori di campagne pubblicitarie). A parte ovviamente le valutazioni circa la qualità del messaggio, la pubblicità serve solo nella misura in cui riesce a farsi vedere dal suo pubblico, e quindi le misure di una campagna sono: quante persone la vedono? per quante volte?
Alcuni vedranno uno spot 1 volta, altri 2 volte, altri ancora 3, altri infine 4 o più volte. Bene, gli addetti ai lavori raccomandano di considerare solo questi ultimi come bersaglio utile della campagna. Cioè, solo chi vede uno spot almeno 4 volte è considerato realmente esposto al suo messaggio, nel senso che lo ha recepito (quanto ne sia poi influenzato è chiaramente un'altra storia, che non compete a questa riflessione). L'implicazione è che i primi 3 "passaggi" sono necessari ma non sufficienti per gli spettatori che ne vedranno un quarto, mentre sono inutili per tutte le altre persone che si fermano a 1, 2 o 3. Ma li hanno visti e sentiti comunque, anche se non li hanno recepiti. Questi "passaggi" creano solo un "rumore di fondo" che poi impone di aumentare ancora la pressione. Se qualcuno vi ripetesse la stessa cosa 4 volte? Se qualcuno vi ripetesse la stessa cosa 4 volte? Se qualcuno vi ripetesse la stessa cosa 4 volte? Se qualcuno vi ripetesse la stessa cosa 4 volte? Chiedo scusa, ma è esattamente così. Spazio infinito: Big Bang Come mai si è creata una situazione così anomala? Provo ad azzardare una ragione, con l'intesa che non vuole essere un attacco alle reti Fininvest, anzi. Penso che la spinta della Fininvest abbia provocato un indubbio miglioramento della qualità della televisione in Italia, in un tempo brevissimo. Se ciò ha creato anche delle stonature (e la quantità di pressione pubblicitaria può esserne uno) il compito degli operatori è di correggerle, con una critica obiettiva e costruttiva. investimenti in pubblicità italia usa giappone germania uk francia canada taiwan sud corea
1980
1991
1037 35501 12031 6851 4648 2450 2589 354 341
7078 81492 30272 14068 13250 9359 6375 2057 3321
crescita 6,8 2,3 2,5 2,0 2,8 3,8 2,5 5,8 9,7
volte " " " " " " " "
fonte: media key - valori: milioni $ Negli anni '80 il mercato della pubblicità in Italia è letteralmente esploso, crescendo a ritmi da paese NIC del Sud-Est asiatico. Ma i consumi delle famiglie sono cresciuti nello stesso periodo di circa la metà, così che il peso della pubblicità sugli stessi è passato da 0.5% a 1.0%, raddoppiato. È stata dunque una crescita autonoma, spinta dallo sviluppo evolutivo del mercato stesso. Osserviamo allora alcuni indicatori.
crescita della pubblicità in italia tot mercato peso della tv raccolta tv rai fininvest altre
1980
1610 30% 484 215 77 192
1991
8480 50% 4751 1406 2884 461
crescita 9,3
volte
9,8 6,5 37,4 2,4
" " " "
fonte: media key - valori: miliardi £.
Mentre la raccolta della Sipra (concessionaria di pubblicità della Rai) era frenata dal "tetto" imposto per legge (263 miliardi nell'81 e 1.172 nel '91 - per TV e Radio), Publitalia '80 (concessionaria Fininvest) cavalcava la crescita passando da una quota dell'1% nell'81 a circa il 30% nel '91 (dopo aver acquisito anche la pubblicità Mondadori - ex Manzoni). Qualsiasi azienda, in qualsiasi mercato, per conseguire simili risultati deve possedere un mix di 3 fattori: un ottimo prodotto (e la Fininvest ha innescato un circolo virtuoso della qualità televisiva), uomini motivati e capaci (e i "ragazzi" di Publitalia '80 hanno creato un modello vincente - sorriso, blazer blu e Rolex) e politiche commerciali aggressive (cioè prezzi stracciati). Eccoci al punto. La vendita di spazi a prezzi bassi è stata una delle principali leve della crescita Fininvest: si comprava a 100 e si riceveva un altro 100 in omaggio. Non tutti gli anni, nè per tutti i programmi, ma più o meno è andata così. Tanto, gli spazi erano una risorsa quasi illimitata. Poi la musica è cambiata. La legge Mammì e l'Antitrust hanno posto un freno alla pubblicità trasmessa e alla raccolta, e si è cominciato a misurare non solo la quantità degli spazi, ma anche la loro qualità. Un passaggio in cambio di due La "qualità degli spazi" è la seconda ragione per cui sostengo che un aumento dei prezzi e una conseguente riduzione degli spot non danneggerebbe le aziende che investono in pubblicità. È opinione diffusa e consolidata che uno spot in prime time sulle reti Rai abbia un impatto maggiore, a parità di target, dello stesso spot trasmesso da una rete Fininvest. Per questo i grandi investitori accettano di acquistare spazi Rai. Sono aziende che impegnano decine di miliardi all'anno in pubblicità, e valutano a fondo l'impatto degli spot, in ogni condizione possibile, assistite dalle più importanti agenzie di pubblicità del mondo e dai migliori istituti di ricerche. Ebbene, spendono di più, pur sapendo che in termini quantitativi la pressione risulterà inferiore, cioè il loro spot sarà visto da meno persone e/o un numero minore di volte (tecnicamente, genereranno meno GRP). Sono convinti, in base alle ricerche, che la qualità sarà
senz'altro superiore, che il messaggio lascerà una traccia più profonda nel consumatore. Infatti, quello spot su reti Rai troverà meno affollamento, meno concorrenti tra i quali sgomitare per farsi notare, comprendere e ricordare. E anche lo spettatore, sarà meno infastidito e meno ostile verso la pubblicità, che non è un'intrusa nel programma preferito. In conclusione, questo non è un punto a favore della Rai. È un riconoscimento alla Fininvest, che ha dato un impulso alla crescita della televisione in Italia, ma anche una provocazione per migliorare ancora di più la qualità dei programmi, alzando i prezzi e diminuendo il numero degli spot. Non è una sfida facile.
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Non sparate sullo spot Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 9 gennaio 1995
Tutti i momenti della nostra giornata, privati e sociali, sono scanditi da slogan pubblicitari che, per influenzare i comportamenti d'acquisto, esplorano e violano tutti gli aspetti dell'esistenza umana, senza risparmiarne nessuno. È giusto somministrare stili di vita, idoli, per vendere patatine? Che può fare un malato di AIDS, visto che ormai la sua vita è segnata? Beh, può sempre aiutare a vendere i pullover di Benetton! Tanto, oggi lo fanno pure i familiari dei morti ammazzati dalla mafia. È spontaneo chiedersi se ci siano dei limiti, e quali. Ma non credo che una simile investigazione ci porterebbe lontano. Piuttosto, ho la sensazione che il fenomeno "pubblicità" vada analizzato, prima che misurato e circoscritto, per capire cos'è che genera e permette tutto questo. Odio non rigetto La pubblicità offre spesso lo spunto per dibattiti, ai quali partecipano giornalisti, critici, opinionisti, a volte pubblicitari, ma quasi mai i manager delle aziende che commissionano e pagano la pubblicità, e raramente la gente cui gli spot sono destinati. Per mestiere, mi trovo dalla parte di chi predispone la pubblicità. Ma per fare bene questo mestiere, mi calo anche e soprattutto nei panni di chi queste cose fruisce, spesso impotente. Quando si intervistano le persone per la strada, non si registra quell'atteggiamento diffuso e consolidato di rifiuto e malsopportazione della pubblicità, che spesso esprimono i critici. Sì, qualcuna non piace, scoccia quando interrompe i film, ma in generale sembra ormai accettata; viene giudicata, ma non rifiutata: proprio come i film al cinema. Sono di gran lunga più intolleranti i critici (che però magari guardano poco la TV), che non la gente comune: perchè? Eppure, è chiaro a tutti quale forma di condizionamento eserciti oggi la pubblicità, quante scelte siano determinate dal tambureggiare ossessivo delle marche e degli spaccati di vita (slice of life, si dice) che usano per convincere. Che un'azienda, per vendere un secondo piatto surgelato, sventoli sotto gli occhi della massaia la possibilità di riguadagnare l'armonia con il proprio figlio ribelle, è quanto meno discutibile. Che i figli preferiscano restare a casa con i genitori, e anzi riescano a far venire anche i loro amici, grazie a una vaschetta di gelato, non solo è opinabile, ma rimanda il pensiero alle altre famiglie, quelle degli amici, che, meschini, non hanno la vaschetta di gelato e quindi non meritano la compagnia dei figli. Che un'azienda, per vendere dei biscotti, suggerisca che mangiarli equivale a vivere in uno splendido mulino di campagna ristrutturato, dove tutti sono felici di svegliarsi presto per andare a scuola e a lavoro, incuranti dell'ora di traffico che li attende.
Anche questo fa riflettere, come minimo. La domanda è: perchè? <<In fabbrica produciamo cosmetici, nel negozio vendiamo speranze>>. È una frase storica, ripresa anche nel Kotler, il manuale di base del marketing. Serve a sottolineare che i prodotti "di consumo" non sono solo la sommatoria delle componenti materiali e razionali: nel caso dei biscotti, farina, zucchero, margarina, amido, burro, panna, glucosio, sale, lievito, aromi, pacco richiudibile, il tutto a un certo prezzo. No, oltre questo c'è un alone intangibile che ammanta il prodotto e ne è parte integrante: le sensazioni che ispira, i valori che condivide, veicolati dal nome, dal marchio, dal design del packaging, dallo stesso prezzo, e dalla pubblicità. Allora è colpa degli uomini di marketing, che studiano come fregare la gente! Per la verità, tutti i manager d'azienda si industriano per far vendere i loro prodotti, e garantire prosperità all'azienda e lavoro ai dipendenti, ma questo ci porta altrove, e non spiega perchè per far acquistare un rossetto si debba vendere speranza. Non ci giro intorno: se la gente compra speranza, significa una cosa sola, che di speranza c'è bisogno, e che non si trova altrove se non nelle profumerie. Alcuni anni fa ero responsabile marketing di una linea di prodotti in una multinazionale alimentare, e raccomandai una promozione che avesse per tema un gesto caritatevole, una donazione a persone e/o gruppi bisognosi. Il ragionamento a supporto era semplice: oggi la gente va meno in chiesa, e quindi non ha più occasione di fare la carità, ma il bisogno di farla ce l'avrà lo stesso. Perchè non far leva su quello per vendere piselli in scatola? Quel budget fu tagliato, e dopo un mese la Procter&Gamble lanciò "Missione Bontà", una promozione con cui chi comprava Dash aiutava a costruire una scuola in Africa. Chi è Claudia Schiffer Io dubito che Claudia Schiffer scelga i suoi cosmetici guidata dalla segreta speranza di apparire bella come una top model. Già, a lei basta aprire il passaporto per tranquillizzarsi. E chi apre il passaporto e scopre di essere una donna qualsiasi non bellissima, ma capace di educare due figli, lavorare, e essere un punto di riferimento per il marito? Che deve fare? Deve entrare in profumeria e comprarsi un flacone di speranza? Speranza di avvicinarsi un millesimo in più a una top model? Tutti noi che ci svegliamo in ritardo e controvoglia, maledicendo che è appena martedì, e prendiamo un caffè di corsa che ancora dormiamo, e ci infiliamo nel traffico e nello smog. Noi che dovremmo fare, comprarci 100 grammi di vita pura ed ecologica, racchiusa nel cellophane di una merendina? I due casi chiariscono il medesimo concetto, ma portano a due conclusioni diverse. Da un lato, dobbiamo rivalutare il senso del reale:
non siamo tutti top model, ma non per questo non abbiamo, ciascuno per sè, altrettanti buoni valori di cui andare fieri, perchè sono i "nostri". Dall'altro, se ci serve una vita più sana e vicina alla natura, prendiamone atto e cerchiamo di costruircela, da soli o insieme, ma per carità, non compriamola al supermercato. Voglio chiarire che questa non è una posizione di rifiuto. Non sto dicendo: freghiamocene della pubblicità e delle marche, e compriamo solo il prodotto nudo e crudo per quel che è, fino a che la smetteranno di tampinare con le top model e i mulini colorati. No. Sono fermamente convinto che sarebbe un passo indietro, come tornare alla TV in bianco e nero. La pubblicità dà colore, atmosfera, e in Italia ne produciamo anche di buona qualità. Inoltre, è utile oltre che bello che un prodotto si porti dietro un valore aggiunto, un messaggio, una garanzia, una punto di differenza. Ne aumenta la consistenza, lo spessore, e il coinvolgimento emotivo che suscita è uno stimolo continuo alla nostra sensibilità. Per quanto io abbia voluto evidenziare i motivi, forse è proprio un problema di quantità, di limiti oltre i quali non vorremmo trovare dei prodotti o la loro pubblicità a surrogare la realtà. Il fatto è che il consumismo sfrenato, di cui una certa pubblicità è espressione, io me lo rappresento come l'acqua: invade tutti gli spazi non occupati da altre cose. Insomma, riempie i vuoti. Ma è stupido e sterile dare la colpa allo spot, che non è il vero problema, anzi può indicarci la soluzione. Infatti, la pubblicità è fatta per chi la guarda, e quindi rispecchia in qualche modo il suo target. Perciò va analizzata e capita, perchè a volte possiamo leggervi delle realtà su cui vale la pena di riflettere.
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Microeconomia per attuare grandi riforme Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 12 giugno 1995
L'influenza della Macroeconomia sulla politica è eccessiva e ingiustificata, e in molti casi costituisce un limite o un alibi, e non aiuta a costruire. Invece, ci sono alcuni concetti di Microeconomia - di cultura d'impresa - che, trasportati in politica, sarebbero utili per rinnovare il rapporto ormai logoro tra la "cosa pubblica" e la "società civile". L'affermazione del capitalismo ha attribuito all'economia quell'importanza presso l'opinione pubblica che le era sempre stata negata. Questa maggiore considerazione dell'economia si è però incrociata con una grave crisi della politica. Col risultato che la classe politica si trova ad essere misurata in base agli indici economici (cambio della lira, inflazione, disoccupazione), influenzati in massima parte da azioni al di fuori della sfera della politica: il cambio della lira dipende da manovre speculative su base internazionale, l'inflazione dalla ripresa dei consumi, e la disoccupazione dagli assetti produttivi (se escludiamo le opere pubbliche inutili che avevano il solo scopo di generare tangenti e manciate di posti di lavoro). Nessun politica trova la forza di denunciare come fittizia la relazione tra gli aggregati macroeconomici e l'azione tampone di un governo, che opera per pochi mesi e in assenza di un vasto progetto di politica economica. Per debolezza ma anche per astuzia: se l'opinione pubblica si distogliesse dalla lira potrebbe rivolgere l'attenzione alle Usl, e allora? E già, perché i politici di oggi non saranno magari dei grandi statisti, ma sono pur sempre sopravvissuti al grande naufragio, e quindi smaliziati e acrobati lo sono senz'altro. Inoltre condire le strategie di partito (perché tali sono) con i riferimenti all'economia attribuisce al politico quel tono moderno e concreto, contrapposto al vecchio politichese. Riassumendo, a parte quest'impatto di superficie, l'economia in politica non produce nessun altro effetto, proprio perché dell'economia si guardano solo i grandi aggregati, e si trascurano i sistemi produttivi, la microeconomia: le imprese e i loro valori. La motivazione addotta dai politici, e largamente accettata dai commentatori, è che l'impresa ha come unico scopo il profitto, mentre la politica deve perseguire altri traguardi: l'occupazione, la distribuzione di un benessere minimo, la disponibilità di servizi sociali utili ai cittadini e anche alle imprese.
Questo è generalmente vero: nessuno pretende che il servizio sanitario pubblico o i trasporti pubblici urbani vengano gestiti in funzione del profitto. Però cultura d'impresa non significa solo e necessariamente profitto, anzi. Non sarebbe sbagliato dire che il profitto è la risultante di una varietà di strategia diverse, dalla qualità del servizio al posizionamento del prodotto, dall'organizzazione agli investimenti in innovazione. Addirittura, non è raro che le aziende sacrifichino il profitto a breve per garantire uno standard di qualità, che ovviamente assicura un profitto più stabile nel medio-lungo periodo. Quindi, se si vuole guardare alla cultura d'impresa per recuperare efficienza e efficacia nel settore pubblico non bisogna confrontarsi sul profitto (che mi sembra piuttosto un alibi per troncare sul nascere il confronto), ma su altri valori, tra cui spiccano il concetto di "raggiungimento dell'obiettivo" e il concetto di "responsabilità del risultato". Raggiungere l'obiettivo implica una cosa fondamentale: definire chiaramente e inequivocabilmente quale sia l'obiettivo da perseguire. Una grande squadra di calcio di serie A ha l'obiettivo di vincere il Campionato, oppure di piazzarsi in zona Uefa, oppure di vincere la Coppa Italia, o di vincere una Coppa Europea, se vi partecipa. Una grande squadra non inizia una stagione proponendosi di fare del suo meglio, e quello che viene viene. L'unica definizione vera di obiettivi, a mia memoria, è stata quella di Berlusconi: 1.000.000 di posti di lavoro! Non è importante se l'abbia fatto per ingenuità politica o per astuto calcolo di breve periodo. Non è importante se l'abbia raggiunto oppure no. I suoi avversari hanno contestato quell'obiettivo, ma senza avanzarne un altro altrettanto preciso e concreto: e hanno perso. Hanno perso contro una coalizione molto meno forte. Credo che un piano per migliorare il funzionamento della giustizia sia presente nel programma di tutti gli schieramenti (programma che esiste ma che nessuno conosce, perché i politici, pur occupando i media per ore, non lo illustrano mai, lo citano soltanto). Ora, dal punto di vista del cittadino, sarebbe interessante che un Ministro di Grazia e Giustizia si ponesse l'obiettivo concreto di accorciare del 20 per cento i tempi medi dei processi civili. Così la vita di molti che devono incassare un credito o far valere un diritto reale nel condominio migliorerebbe del 20 per cento. Ma soprattutto, dopo il tempo previsto, sapremmo giudicare quel ministro, e se qualcuno volesse sostituirlo dovrebbe impegnarsi a fare meglio.
Insomma la definizione degli obiettivi sarebbe la principale rivoluzione dell'attuale sistema politico e pubblico. Le multinazionali pretendono che gli obiettivi dei loro manager siano Smart (specific, measurable, achievable, realistic, timed). È davvero improponibile che ciascun politico, che ogni candidato, fissi per se stesso almeno un obiettivo da raggiungere? Un obiettivo che sia "specifico" (non migliorare la giustizia, ma ridurre i tempi dei processi civili), "misurabile" (non debellare la disoccupazione, ma ridurla), "raggiungibile" (non un milione, ma 300.000 posti di lavoro), "temporizzato" (non sine die, ma entro un anno, o entro cinque). In questo, modo sarebbe possibile verificare dai fatti il raggiungimento dell'obiettivo, e lo scostamento da esso - e poter dire, con serenità: ci dispiace, la troviamo simpatico, condividiamo le sue idee, ma evidentemente lei non è la persona che fa per noi. Collegato al concetto di raggiungimento dell'obiettivo c'è il concetto di "responsabilità del risultato". La mia opinione è che questo concetto sia per un verso più familiare agli operatori pubblici (politici e/o manager che siano), ma per un altro verso anche più rivoluzionario e dirompente. La responsabilità è largamente diffusa e accettata, nel pubblico. Troppo diffusa, da una miriade di norme che regolano e responsabilizzano l'azione di ciascuno, l'impiegato, il giudice, il ministro, l'onorevole. Accettata perché l'osservanza della singola norma libera di fatto il soggetto da qualsiasi altra responsabilità. Il risultato è che oggi si possono scovare e denunciare le peggiori nefandezze, ma spesso non emerge alcun colpevole. Non perché siano nascosti o coperti (non sempre almeno), ma perché di fatto non c'è un colpevole: tutti hanno eseguito il loro compito, responsabilmente. La ragione è che sono tutti responsabili di una condotta, non di un risultato. Nell'impresa non è così: i manager sono responsabili del risultato. E non si creda che questo implichi l'inosservanza delle regole, nel senso che il raggiungimento del risultato farebbe premio in spregio alla condotta. Nelle impresa il fine non giustifica i mezzi: il rispetto delle regole da parte dei manager è ritenuto necessario, anche se non sufficiente, in mancanza di risultati. Ma allora quale sarebbe il vantaggio di responsabilizzare le persone sui risultati? Semplice: che in mancanza di risultati, quelle stesse persone funzionerebbero da campanello d'allarme nell'indicare cosa non funziona nel sistema, che di fatto ha impedito il raggiungimento del risultato. In pratica, si scardinerebbe gran parte dell'omertà che non deriva da minacce, ma solo da menefreghismo: "c'è quel funzionario che è un collo di bottiglia per l'intero processo, ma chi ce lo fa fare di denunciarlo? Tanto, io ho fatto il mio lavoro e nessuno può dirmi nulla". Un caso aziendale per tutti, quello della British Airways, che per fronteggiare i cronici
ritardi della partenza dei voli, di cui erano responsabili tutti e nessuno, istituì un "gate manager" cui affidò la responsabilità del rispetto dell'orario di partenza. All'inizio molti voli partirono con aerei non puliti, e a volte addirittura senza aver caricato il pasto a bordo. Però i passeggeri arrivarono in orario, e le cause dei ritardi furono scovate e eliminate. È ovvio che se non si definiscono gli obiettivi, nessuno può essere responsabilizzato sul loro raggiungimento. In conclusione, ora che si parla tanto di riformare lo stato, sarebbe utile pensare a cambiare non tanto il sistema, o non solo, ma soprattutto i valori che permeano o regolano il funzionamento dell'apparato. E se si ammirano l'efficienza e l'efficacia dei privati, le formule con cui confrontarsi vanno ricercate nella Microeconomia delle imprese, non nella Macroeconomia dei tassi di cambio.
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Mazzette solo se c’è convenienza Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 12 giugno 1995
Un manager deve commettere reati in nome e per conto dell’azienda per cui lavora? Più precisamente: deve erogare mazzette, laddove ne ricorrano le circostanze? Perché una domanda così cruda, posta in termini tanto diretti? Perché di tutta la questione morale tra imprese e pubblica amministrazione questo è un aspetto cardine. Per due motivi. Il primo, il più scabroso. Se un pubblico funzionario accetta soldi per favorire un’impresa commette un reato per il proprio personale interesse: se la sbrigherà lui con la giustizia. Se un imprenditore paga soldi per ricevere un vantaggio illecito è libero di delinquere per favorire lo sviluppo dei propri interessi. Ma un manager? Il legale rappresentante di un’azienda che paga mazzette per l’interesse dell’impresa in cui lavora, rischia in proprio per un interesse altrui. Deve farlo? Non deve arrivare a tanto? È pagato anche per questo? Riesce a conservare il posto e la carriera, se rifiuta? È una questione spinosa. Il secondo motivo riguarda il risanamento morale nell’economia e nella pubblica amministrazione che passa proprio attraverso questa categoria di persone: nessuna legge o codice etico può operare alcun risanamento senza l’impegno diffuso e costante dei manager. Nei giorni scorsi lo Studio Ambrosetti ha organizzato un convegno su “Etica e Affari”, relatore Antonio Di Pietro. C’erano manager di aziende piccole e grandi, private e pubbliche, di vari settori, credito, finanza, energia, assicurazione, spinti chissà se più dal tema o dal relatore, che ha suscitato due sentimenti molto forti: la gratitudine espressa e la curiosità taciuta. Di Pietro ha esordito dicendo che conciliare etica e affari equivale a unire trasparenza e efficienza, o addirittura religione e commercio, e il tono suonava un po’ come “il diavolo e l’acqua santa”, nella convinzione che gli uomini siano etici, trasparenti e religiosi di base, ma che poi l’efficienza, gli affari e il commercio li facciano sprofondare nella vergogna. Come può un popolo di santi camminare nell’era del profitto senza esserne traviato? (il rapporto causa-effetto potrebbe non essere proprio in quest’ordine). Ambrosetti ha fatto un po’ di storia: quando in Europa accettavano il commercio e le sue possibili nefandezze, rendevano chiaro a tutti che gli uomini d’affari avrebbero risposto solo e direttamente a Dio, e cioè alla loro coscienza: nasceva la borghesia capitalista e il calvinismo. In Italia, invece, si continuava a essere commercianti e uomini di Chiesa, tenendo stretti il pentimento, il perdono e le indulgenze che consentivano, e ancora oggi consentono, di accettare delinquenti in posizioni sociali preminenti.
D: A parte i riferimenti alla religione, che cosa dice Di Pietro a proposito di fare soldi senza rubare? R: L’insegnamento più utile della mia esperienza è stato acquisire la consapevolezza della globalità geografica dei reati di corruzione e il movente da eliminare: la convenienza. D: Cioè? R: È difficile credere che si voglia eliminare o almeno limitare la corruzione, quando alcuni Paesi dell’Unione Europea consentono la detassazione di una percentuale del fatturato delle imprese per spese non documentate. È anche lecito pensare che proprio l’establishment economico mondiale impedisca alla comunità politica internazionale di intervenire contro i paradisi fiscali off-shore. Di che ci lamentiamo se le stesse società di revisione, che dovrebbero certificare i bilanci e garantire la trasparenza, hanno sedi nei paesi off-shore, per meglio assistere i clienti nei magheggi extra-contabili? In un mercato del denaro globale, non è pensabile una funzione di controllo e repressione che abbia severe limitazioni di frontiera, scontrandosi con Paesi che non collaborano o che ostacolano l’accertamento della verità: le Isole Cayman, ma anche la Città del Vaticano. D: Questo per quanto riguarda il controllo e la persecuzione dei reati, ma sulla prevenzione? Come fare affinché si commettano meno reati di corruzione? R: La soluzione non può che passare attraverso un “codice deontologico” che le imprese devono darsi e rispettare proprio perché così tutte hanno la possibilità di partire dallo stesso punto. D: Crede davvero nell’autodisciplina? R: Per restituire il mercato alle imprese, passando “dalla partitocrazia alla meritocrazia”, bisogna recuperare un comportamento etico perduto. Meritocrazia vuol dire innanzitutto capacità imprenditoriale, ma vuol dire anche libertà economica, riaffermazione delle regole della concorrenza e del mercato, smantellamento della burocrazia e dello statalismo, esaltazione delle capacità creative. D: Chi garantisce il rispetto di questo codice etico? R: I codici etici, che sono solo affermazioni di principio su cosa fare e cosa non fare, non servono a niente. Per funzionare il codice etico deve essere provvisto di sanzioni. D: A che tipo di pene pensa? R: Il concetto di fondo è che bisogna accettare il principio economico
della “convenienza” e contrastare su questo piano la corruzione: fare in modo che il “delitto non paghi”. Cioè dobbiamo trasformare l’etica e la trasparenza in un fattore di profitto per le imprese. In concreto, penso a sanzioni che impediscano l’accesso ai mercati a quelle imprese che contravvengono ai principi fondamentali della concorrenza libera e leale. Senza entrare in dettagli normativi, è fondamentale che l’imprenditoria venga depurata da quella che io definisco “pseudo-imprenditoria”. D: Di cosa si tratta? R: L’impresa ha una sua ragione molto precisa: creare valore aggiunto da offrire al mercato. Oggi si sono sviluppate invece aziende che servono solo a fare da filtro tra i partiti e i flussi di denaro pubblico, e che, oltre a non creare alcun valore aggiunto, squilibrano anche il mercato. Queste imprese devono essere allontanate dal mercato, lasciando operare solo quelle che possono garantire trasparenza e rispetto dei valori etici di base: le imprese doc, insomma. D: I dipendenti di livello gerarchico più basso possono costituire con i dirigenti un esempio di come ci si impegna tutti e tutti i giorni per conquistare e difendere il rispetto di un codice etico, che può garantire una leale competizione nel mercato e un clima sano all’interno dell’impresa? Lei non crede, Dott. Di Pietro? R: Certamente. Concordo che una crescita della coscienza civica sia alla base del risanamento morale nel mondo degli affari. Ma oltre ai valori, ribadisco che servono anche regole efficaci e sanzioni appropriate per chi quelle regole viola, perché bisogna rendere non conveniente l’illecito. Vorrei aggiungere che questo non è un problema delle imprese, ma di tutta la società. In una democrazia liberale il sistema delle imprese è un’istituzione, un bene collettivo, e se si salvaguarda l’impresa si garantisce tutta la collettività.
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Non più fumo, ma tanta qualità Pier Luigi del Viscovo Il Denaro, 13 giugno 1994
Il Target, cioè il cliente. Il Target, cioè il consumatore. Il Target, l'obiettivo da colpire. Per anni e anni le strategie di marketing hanno cominciato così, con la definizione del Target: chi vogliamo colpire? Qual' è il bersaglio? Ci si esprime così nel marketing, con un linguaggio quasi militare: azione d'attacco, strategia difensiva, mantenimento della posizione. Poi si suggerisce di leggere von Clausewitz (Dell'arte della guerra, o qualcosa di simile). La cultura militare aiuta, infonde quel senso di efficienza che fa sentire tanto più vicini all'unico risultato accettabile: il successo. Così dipendente invece dall'efficacia, spesso frutto di valori come "creatività", "intelligenza" (se lo chiedono mai i markettari se uno di loro è "intelligente", o si chiedono solo se è bravo? - "un grande performer", mi ha detto tempo fa un general manager a proposito di un direttore marketing col quale aveva diviso gli anni della formazione, in una multinazionale di detersivi, ovviamente). Ma non è per ironizzare che scrivo. C'è una questione che credo sia giunto il momento di porre: ha ancora senso parlare di Target? Quelli che comprano le nostre merci/servizi, preferendole alla concorrenza, sono ancora un bersaglio cui noi spariamo? Negli anni '80 tutto il marketing era incentrato sul concetto di Target: un consumatore ben individuato. Come? Attraverso un processo di segmentazione del mercato, per cui tutti erano distinti in base a parametri importanti (reddito, area, cultura, occupazione) e riuniti in sottogruppi, i cluster. I componenti di un cluster erano intesi omogenei tra loro, nei valori e quindi nelle scelte di consumo: quella macchina, quella vacanza, quel ristorante, quel dentifricio, quei programmi TV e quei codici pubblicitari. Sono andato a rileggere un testo fondamentale degli anni '80, Le Otto Italie di Giampaolo Fabris e Vittorio Mortara. Nel 1986 Fabris, pur avvertendo che ormai le omologazioni socio – demografiche non rappresentavano più la realtà, confermava che invece le persone si distinguevano e omologavano in base a fattori socio – culturali: <<In termini di omogeneità della società ciò che si perde per effetto del diminuire di rilevanza delle variabili socio – demografiche sembra infatti acquistarsi per effetto di altre variabili che (...) chiameremo variabili "socioculturali">>. In parole semplici, dalle due grandi classi che formavano l'Italia, i Borghesi e i Proletari, si passava a un numero maggiore, otto: Progressisti, Emergenti, Affluenti, Integrati, Cipputi, Puritani, Conservatori, Arcaici. Da quell'analisi fondamentale, il marketing modellò i prodotti/servizi secondo i valori degli Emergenti, o quelli dei Cipputi, a seconda se intendeva colpire gli uni o gli altri: se il Target erano gli Emergenti o i Cipputi, i quali per definizione
stavano lì fermi e si facevano sparare addosso, e compravano! Il corollario di ciò è che le strategie che miravano a più Target risultavano annacquate e quindi meno efficaci. Io non voglio contestare quell'analisi, che quasi certamente leggeva la realtà, ma mi chiedo: quando diciamo che gli anni '80 sono passati, che ora è cambiato, che significa? Che da otto classi siamo passati a 32? No. Io ho la netta impressione che sia cambiato qualcosa di più profondo, le stesse regole del gioco. Arriviamoci con i fatti. Fine anni '80. Ve la ricordate la campagna di Aldo Biasi per la Fiat Uno, "Uno, che passione!"? C'era la Uno rossa che veniva parcheggiata, lasciando la fidanzata a bordo, per fare una telefonata; poi saliva un altro, che usava la macchina e la lasciava, salivano altre persone alternandosi in una girandola, fino a che la macchina ritornava alla stessa cabina telefonica iniziale, da cui usciva il primo guidatore e entrava in macchina trovando però un'altra ragazza. A quel tempo, alla domanda "qual è il Target?", si rispondeva: "È un Target trasversale, che attraversa tutti i segmenti, in quanto la Uno è una macchina per tutti". Ora io dico: ma siamo sicuri che il Target fossero le persone? Riguardando il film ho la sensazione che il target fosse la macchina, che veniva gettonata da persone diverse, in momenti diversi, per bisogni diversi. Tralasciando i "casi", e focalizzando l'attenzione sulla vita quotidiana, osservo la stessa persona che compra la cravatta da Marinella e poi spende al mercatino, preferisce i comfort di un Relais&Chateaux e sceglie i sapori e il costo della trattoria, stappa un Brunello e insegue i 3x2 al supermercato: che significa tanta incoerenza? come diavolo fa un povero markettaro a prevedere le reazioni di un simile rivoluzionario? che peraltro spende, spende, eccome spende. Dice un vecchio proverbio: quando il dito punta la luna, l'idiota guarda il dito. E state pur certi che molti "efficienti" sosterranno che oggi è più difficile, perchè il Target è mobile, è ondivago. Io, che faccio il consumatore, mi diverto invece un casino a sparare addosso a tanti prodotti/servizi, che stanno lì belli fermi, trasudando ancora la convinzione di essere loro a puntare me. Non sarà per caso più sano infondere ai prodotti una forte identità di marca, nella convinzione che i consumatori, tutti e diversi, quando avranno quel bisogno non esiteranno a sparare sul nostro bersaglio. E non basta. Quando uno da bersaglio diventa cacciatore, quando mangia la foglia, è perché è più consapevole, più padrone delle sue scelte, e allora controlla se la scelta è stata giusta, prima di sparare ancora: se va bene è molto più fedele di prima, ma appena va male è perso - quindi ci vuole qualità, valore, corrispondenza, non più fumo.