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Pollo con pesce, 2014. Pixel su monitor 4961 px x 3543 px Fly Line & Picasso.
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Speculazione semiprofonda sui nostri istinti predatori, ci piacciano o no. Probabilmente ci piacciono, sennò che pescheremmo a fare? Insomma, qui andiamo alla ricerca della belva che è in noi: il successo nella caccia e nella pesca dipende da quanto riusciamo a riesumare l’antico predatore nascosto nel nostro Dna, e a vedere il mondo come le nostre prede.
L A PAGINA DEL POLLO 44 Roberto Messori
Cos’è un pollo, se non un gallo con qualche attributo di meno? Dopo tante puntate il pollo ormai è prossimo al professionismo e di attributi ne ha recuperati a iosa. La rubrica non è più proibita a nessuno, i commercianti ed i giornalisti tradizionali sono in estinzione, i catturatori di trote non esistono quasi più, e neppure le trote sotto misura, giacché si ripopola con iridee gigantone, ed infine non è più vietata neppure ai fenomeni, altrimenti nessuno, me compreso, vi potrebbe accedere, qui in Italia.
O N C E WERE
PREDATOR
L L
o so, il titolo del film di Lee Tamahori sarebbe Once Were Warriors, ma i guerrieri erano anche predatori, che è il nostro caso. Già, noi pescatori, come i cacciatori, siamo predatori, le loro prede camminano sulla terra o volano nell’aria, le nostre nuotano nell’acqua. Dagli albori dell’umanità all’ultima glaciazione Würm, glaciazione durata da 110.000 a 10.000 anni fa, la nostra specie ed i nostri precedenti antenati hanno continuato ad evolvere gli istinti dei predatori esattamente come il mondo animale, le cui specie, come ben sappiamo, vivono divorandosi a vicenda. Nella preistoria l’uomo era certamente dotato fisicamente ed istintivamente di capacità operative ben superiori alle nostre, ormai paragonabili a quelle delle trotelle d’allevamento incapaci di sopravvivere alla prima piena o alle insidie del più sprovveduto dei pescatori. Ciò che in noi è sopravvissuto è la passione per questi atavismi, la caccia e la pesca, dei quali una relativa percentuale di uomini non possono fare a meno. Atavismi che ci si ostina a definire sport, termine più stupido che improprio. La definizione di pesca sportiva è quanto di più aberrante si possa utilizzare a questo proposito, ben più aberrante di colui che si definisce sportivo perché passa la domenica in poltrona a guardare la partita. Quando l’uomo decorava le grotte con straordinarie rappresentazioni di mammut, uri, cervi primordiali, rinocerontoi lanosi, orsi delle caverne o leoni di montagna, ma anche salmonidi, come nella Abri du poisson
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Abri du poisson: il salmone è in grandezza naturale, la sua età 15-18 mila anni circa, la sua dimensione è quella delle braccia aperte nel tipico gesto, ma potrebbe anche essere la testimonianza della prima sbruffonata da pescatore della storia. Il taglio rettangolare che lo circonda è il tentativo, da parte del solito tombarolo (in questo caso un “grottarolo”) di rubare il raro reperto. in Francia, vicino a Lascaux, dove un enorme salmone troneggia sul soffitto della grotta, era veramente un cacciatore, un nomade legato alle migrazioni delle grandi mandrie al cui seguito si spostavano anche i grandi predatori, lui era uno di questi, certamente il più temibile ed organizzato, l’unico certamente in grado di colpire a distanza. Doti fisiche e intuitive nell’antichità Le sue doti fisiche non erano neppure lontanamente paragonabili alle nostre. La forza e la resistenza delle sue gambe e delle sue braccia, la finezza
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dell’olfatto, dell’udito, il senso dell’orientamento, la capacità di seguire le tracce, la percezione del pericolo, la resistenza alle condizioni ambientali, l’stinto di difesa, la resistenza agli sforzo prolungati dovevano essere certamente più vicini a quelli di un orso delle caverne che ai nostri, pseudo-predatori domenicali dell’epoca dei mollicci. Ma le possibilità fisiche non sono la perdita più grave. Del resto l’uomo ha sempre cercato di coltivare simili doti, come nello sport, poi non v’è giorno che non s’inventi un nuovo metodo per maniaci palestrati, o un novello sport estremo. La perdita più drammatica è quella delle attitudini istintive. Certo non voglio dire che dobbiamo diventare
Pam fotografato da una fotocamera istintuale, particolare macchina digitale che riprende solo il profondo aspetto predazionale del soggetto.
come Billy nel film Predator, il cui istinto gli fa percepire la minaccia invisibile del cacciatore alieno, ma simili istinti hanno certamente lasciato nei geni del nostro Dna deboli tracce che di tanto in tanto affiorano. Ricordo lo scorso anno quando, durante un giro di allenamento di caccia simulata con l’arco a sagome tridimensionali, nel folto di un bosco nell’Appennino modenese ebbi la viva sensazione di essere osservato: fantasticai all’improvviso un animale alle mie spalle, mi girai e vidi, di fronte a me a circa venti metri di distanza, un capriolo immobile che mi osservava. Ovviamente è scappato allo scambio del primo sguardo, ma io non avevo colto nessun rumore o odore, solo l’improv-
croonde. Il nostro sistema delle comunicazioni è basato su onde elettriche, dalla nostra stampante o tastiera senza fili al bluetooth col quale parliamo a viva voce in auto con la zia australiana. Ma non abbiamo davvero inventato nulla, solo copiato: anche il nostro cervello manda e riceve informazioni basate su segnali elettrici. Un pochino le conosciamo, ma solo un pochino. Anzi, davvero pochissimo. Trovate davvero così strano che gli animali le possano percepire e, in qualche modo, analizzare? Probabilmente il bluetooth l’hanno inventato loro. Dal film Predator: Billy “avverte” la presenza dell’invisibile cacciatore alieno, ed il suo “sistema percettivo” va in tilt: la minaccia che avverte è illogica per i suoi parametri e le sue conoscenze, non riuscendo a trovare una logica nella sua percezione diventa nervoso, inquieto, irascibile, quasi dissociato dal gruppo, finché non decide di affrontarla direttamente pur sapendo di immolarsi. Qui a destra: onde mentali tra preda e cacciatore? E tra pesci e pescatori?
visa fantasia. Del resto le tecniche di combattimento delle arti marziali di antica tradizione sono caratterizzate proprio da sistemi atti a sviluppare la sensibilità legata alla minaccia, risvegliando l’istinto e addestrando la visione e l’attenzione periferica. Di tanto in tanto può affiorare da sola, in modo assolutamente imprevedibile. V’è mai capitato di pensare improvvisamente ad una persona e poco dopo d’incontrarla? Sembra provato che il cervo sia in grado di percepire a diverse decine di metri l’istinto predatorio del cacciatore, uomo o animale che sia. Ricordo la descrizione di una tecnica di caccia dove il cacciatore, pur sottovento e invisibile alla preda, ne intuisce l’atteggiamento d’improvviso allarme: il cervo smette di brucare, drizza la coda, alza la testa per annusare e ruota le orecchie, ebbene il cacciatore deve immobilizzarsi ed eliminare dal suo pensiero l’interesse per
la preda, ad esempio pensando intensamente di essere un albero, le sue braccia i rami e le dita le foglie. Non voglio dire che nello scorgere un grosso pesce dovete fingere di essere un bonsai, ma almeno la percezione di ciò che nella vostra presenza lo può allarmare dovreste averla, almeno relativamente al rumore ed alla vista. E le percezioni non dipendenti dai cinque sensi? Queste percezioni non fanno parte dell’universo soprannaturale, al quale del resto io non credo, ma del mondo più terreno possibile: quello che (più o meno) conosciamo e che ci ospita. Ormai viviamo in una sfera satura di onde elettromagnetiche di ogni tipo e frequenza. Radio, televisione, telefonia, segnali Gps, satelliti per le telecomunicazioni e militari, tutta la tecnologia oggi si avvale di onde elettromagnetiche e tra poco trasferiremo anche l’energia in siffatto modo, come nel forno a mi-
Da quando l’uomo è diventato sedentario, sostituendo caccia, pesca e raccolta con allevamento e coltivazione, e con la produzione di armi sempre più potenti, precise e sofisticate, gli istinti che facevano di lui un predatore esclusivo sono andati via via atrofizzandosi fino a scomparire quasi del tutto. Certamente è rimasto il piacere, il desiderio, ricordate Bill, il terribile psicopatico scuoiatore del film Il silenzio degli innocenti? Cosa fa prima di ogni altra cosa? Chiede il non meno terribile Hannibal a Clarice, desidera è la risposta. Non c’è dubbio che in Bill e Hannibal aliti parecchio l’istinto del predatore primordiale... Comunque è l’istinto che ci spinge lungo le rive dei fiumi col desiderio di predare pesci, seppure in modo così raffinato e sofisticato. Dell’ancestrale bisogno di carne è rimasta la sfida, il legame con la natura ed i suoi segreti. Probabilmente nel dipingere grandi animali in quelle grotte considerate i
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più antichi santuari del nostro pianeta, i sapiens dell’Aurignaciano (e periodi successivi) riproducevano le immagini che desideravano maggiormente, quelle che sognavano di notte e speravano apparissero loro di giorno quando, da soli o in gruppo, si aggiravano tra tundre e foreste alla ricerca di quelle prede che garantivano loro la sopravvivenza e che comunque popolavano il loro universo, carnivori compresi.
A sinistra: Freud alle prese con l’incubo di un pescatore. Qui a destra: onde elettriche del cervello di una trota (elaborazione Fly Line). In basso: chissà, forse anche nell’opera “Il pescatore” di Basquiat c’è parecchio degli antichi istinti dell’uomo belva. Curiosa quella sorta d’aureola, mentre la mosca è una vera schifezza.
terapia analitica. Del resto non pare davvero possibile “comandare” meccanismi inconsci o istintivi, come del resto non si possono programmare i sogni. I curiosi possono leggere, a questo proposito, la descrizione di alcuni casi al seguente link (relazioni di psicanalisti veri, non di psicologi praticoni): www.psicoanalisi.it/psicoanalisi/1587 Istinto, inconscio e telepatia Prima del saggio “Sogno e telepatia” Freud dirà : “L’evento si spiega perfettamente se siamo disposti a supporre che questo sapere si trasla da una persona a un’altra per una via sconosciuta e con l’esclusione delle modalità comunicative a noi note. La mia conclusione è che la trasmissione del pensiero esiste”. Gli esempi di situazioni analitiche dove si verificano percezioni di accadimenti che trascendono i cinque sensi sono innumerevoli, ma pare che la scienza non riesca a riprodurle nella ripetitività sperimentale necessaria alla verifica scientifica del fenomeno oggetto di studio. Lo stesso mondo psicoanalitico è restio a “ufficializzare” suddette dichiarazioni per il timore di sconfinare troppo nell’occultismo, fatto che creerebbe brecce utili ai detrattori della
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La mia esperienza Proprio alcuni giorni fa mi è capitato un caso curioso. Stavo allenandomi da solo in un campo di tiro con l’arco attrezzato per la caccia simulata, campo realizzato in montagna con sagome tridimensionali imitanti prede animali che spaziano dai fagiani alle linci agli orsi attraverso tutta la gamma possibile di
ipotetiche prede, in grandezza naturale. Pesci niente, solo qualche anfibio. In una piazzola difficile avevo, nella valle sotto di me, a distanze tra i 30 e 50 metri circa, tre sagome di orsi, all’altezza del cuore si trovano i tre cerchi concentrici di diverso punteggio, definiti spot, super e perfect, di diametro rispettivamente di circa cm 30, cm 15, cm 5. Premetto che tiro con un arco ricurvo tradizionale con la tecnica definita “tiro istintivo”, niente mirini quindi, ma solo intuito come il tennista al servizio, o l’assist del calciatore. Con la prima freccia ho sbagliato la sagoma più lontana, errore grave, con la seconda ho colpito posteriormente la sagoma mediana, altro errore importante, al che mi sono davvero alterato, mi sembrava di essere concentrato, aspetto fondamentale, eppure ho commesso due errori che in gara sarebbero stati pesantissimi. Inferocito, ma concentrato, ho tirato la terza freccia sulla sagoma più vicina, poi ho ripetuto con rabbia e determinazione le due frecce mancate, da lontano non v’era dubbio che erano buoni tiri, di certo nello spot, ma solo al recupero ho verificato che erano tutte e tre nel perfect, caso estremamente raro anche per i campioni di tiro con arco compound, dotato di mirino di precisione e velocità di freccia quasi doppia della mia. Mi sto ancora chiedendo
Fiume Idrija, in evidenza il corridoio d’acqua citato nel testo, si noti il pescatore a destra nella foto, le proporzioni del fiume e l’impossibilità di far arrivare la mosca nel corridoio, se non dall’altra riva, sfidando la parete di roccia. cosa, dentro di me, abbia diretto quell’azione e ottenuto quel risultato giudicabile impossibile, e impensabile anche come coincidenza fortunosa. Peccato che il motivo sia irrimediabilmente celato in qualche neurone, ed impossibile da replicare a comando, neppure fomentando incazzature terrificanti. Passando dalla caccia (simulata) alla pesca vera (nei tratti no kill si pesca vero o simulato?), posso riportare un esempio di raggio più ampio, ma ancor più difficile da valutare. Da sempre, lungo fiumi e torrenti, cerco i posti che i più trascurano. Angoli difficili o rischiosi da raggiungere, che magari consentono giusto un lancio. Piccole zone spesso amene, l’anfratto alla base di una roccia, un piccolo ra-
schio presso una sponda in frana, una correntina laterale che obbliga ad un difficile guado, la discesa da una roccia per provare una piccola corrente che la lambisce, insomma avete capito. Magari il mio compagno, nello stesso tempo, pesca un paio d’ore, mentre io effettuo pochi lanci. Poche volte mi sono pentito della mia scelta. Bella forza, direste voi, è nella logica delle cose. È vero, ma v’è dell’altro. Vedere uno scorcio del fiume complicato da raggiungere, ma promettente perché capite che in quel piccolo tratto ben difficilmente ha pescato qualcuno, credo che eserciti uno stimolo in tutti noi, o quasi tutti. Tuttavia alcune volte detto stimolo lo lasciamo morire, lo percepiamo, ma andiamo per la nostra strada e continuiamo a pescare più comodamente. Questo capita anche a me. Tuttavia vi sono volte dove quel posto mi attira in modo irresistibile, non posso farci nulla, lo addocchio e non mi importa di impiegare del tempo, della fatica o correre rischi per raggiungerlo. Ricordo quella volta nell’Idrija, a
monte dell’ultima passerella prima del ponte di Stopnik, l’acqua era moderatamente alta e la qualità della pesca non eccelsa, poche e rade bollate di pesce non entusiasmante. Dopo un paio d’ore di pesca a risalire ero a fronte della roccia invalicabile sull’altra riva, per cui tutti i pescatori pescano da dove stavo pescando io. Un macigno affiorante nei pressi della roccia costringeva il flusso in un uno stretto corridoio a me invisibile, ma costituiva anche una straordinaria linea di alimentazione inavvicinabile da ogni pescatore. Con solo questo dubbio la voglia di andare a verificare fu inarrestabile: tornai indietro fino alla passerella, poi risalii il fiume sull’altra riva lungo la strada, arrivato a quella specie di “promontorio” roccioso cercai un accesso per scendere, smontai la canna e, tra roccia e vegetazione riuscii a discendere la scarpata fino al fiume, poi mi inerpicai sulla roccia per portarmi a tiro. Mi tolsi wader e giubbino, non si sa mai: sotto di me la corrente era profonda, ma riuscii a fare un paio di lanci utili tenendomi ben celato. Il dragaggio non era limitabile più di tanto, montai quindi
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un grosso palmer su amo 8, il famigerato Bruco, confidando che, se c’era un pesce, non doveva conoscere molte mosche artificiali e si sentiva di certo al sicuro da ogni insidia. Tranne che la mia: diversi minuti dopo persi la più grossa marmorata agganciata da me a mosca secca. Dopo un po’ di tira e molla si inabissò a valle sotto un macigno, sentii nel filo le vibrazioni della scabrosità della roccia e lo spezzone di tip (per l’occasione un ø 18 ) risultò abraso a circa mezzo metro dalla mosca. Non so se considerarlo un successo al 10, 30 o 50 % o una totale sconfitta, fate voi. Simili esempi ne potrei citare parecchi, mentre non so come potrebbe essere finita nei casi dove invece lo stimolo è stato surclassato dall’accidia. Mi piace pensare che nella seconda ipotesi un qualche meccanismo intuitivo mi abbia semplicemente evitato un’inutile faticaccia, o un tuffo pericoloso. Oppure le mie “onde mentali” non erano in sintonia con quelle del pesce... Oppure è tutta una massa di sciocchezze. Il cosiddetto senso dell’acqua è difficile da definire e nell’accezione dei più certamente comprende la capacità di un intuito che travalica sia i cinque sensi che la consapevolezza di essere incorsi in una giornata positiva o negativa. Ma, lungo le rive dei fiumi, anche
A destra: interpretazione di “senso dell’acqua”. Sotto: il tratto del No Kill Fario del rio delle Pozze e la briglia dove stazionavano alcune trote (una è nella foto), indifferenti ai curiosi, ma non ai pescatori.
lo stato d’animo può essere positivo o negativo. Possiamo sentire fin dall’inizio se sarà una giornata col pesce in attività, almeno in certe fasi, oppure difficile e poco produttiva, con pesce abulico e ben poco disposto ad abboccare.
Un altro caso curioso accadde nel No Kill Fario a Fiumalbo. Io ed altri amici pescatori dopo il pranzo si passeggiava (senza canne) nel tratto di torrente (il rio delle Pozze) che attraversa il paese dell’Appennino modenese, il no
kill era stato aperto da poco ed ero lì per un servizio, realizzato al mattino e poi pubblicato in Fly Line 4/1990. Alla base di una briglia stavamo osservando alcune trote che, tranquille, si alimentavano, una era piuttosto bella e non sarebbe stato male pubblicarne la cattura con una bella foto, eravamo proprio sopra di loro appoggiati al parapetto del marciapiede che costeggia il torrente. Andai quindi in auto a preparare l’attrezzatura e tornai in pochi minuti, Con gli amici che continuavano ad osservare dall’alto mi accinsi a lanciare, stavo praticamente dov’ero poco prima, ma non feci nep-
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Ecco due zone del fiume Idrija che consentirebbe giusto un lancio o due ciascuna, prima di “rovinare la piazza”, ma per raggiungerle occorre guadagnare l’altra riva, salire a monte, discendere attraversando bosco e rocce e sperare di trovare un varco, ma quanti Pam credete che si sobbarchino simili stress? pure in tempo ad alzare la canna per il primo volteggio (secondo me non potevano ancora averla vista), che le trote si dileguarono provocando non poco stupore. Magari la spiegazione è banale, ma non riuscimmo proprio a trovarla in qualcosa che avrebbero potuto vedere. Istinti perduti L’uomo, al di là degli impegni di lavoro, con poche eccezioni (per lo più casi di deformazione professionale), ha bisogno di una passione e molto spesso, forse sempre, questa passione lo porta al
confronto, sia che si dedichi a uno sport che al giardinaggio, il confronto è sempre un giocare alla guerra oppure alla predazione. Lo sport è la ritualizzazione della guerra, che si tratti di scacchi, rugby o bocce. Caccia e pesca sono gli “sport” più vicini ai nostri antichi istinti e in loro più che in qualunque altro affiorano le antiche pulsioni del nostro antenato belva. Nella caccia e nella pesca si cerca l’interazione primordiale con la natura, l’antitesi della società meccanizzata, o almeno così si crede. In esse si vuole tornare uomini dei boschi e dei fiumi, pur avvalendoci di armi tecnologicamente evolute e oggi, purtroppo, non solo di queste, giacchè l’ambiente naturale è sempre più falsificato. Intravvedere una grossa trota che bolla indisturbata, ancora ignara della nostra presenza, provoca eccitazione e questa scatena reazioni fisiche e psichiche del tutto simili a quelle del cacciatopre o pescatore preistorico. Allo stesso
modo in cui, ormai al buio, rientrando da soli attraverso il bosco un improvviso fruscio o il verso di un animale scatena paure primordiali e scariche di adrenalina; d’improvviso ci troviamo spaventati, con ansia immediata, brividi che fanno rizzare i peli, aumento del battito cardiaco e del ritmo respiratorio, riduzione dell’attenzione (e incapacità di pensare ad altro), sudorazione, tensione muscolare, calore, nausea e disturbi addominali. È tutto normale: il segnale di pericolo prepara il nostro corpo ad affrontare un predatore. Stiamo condividendo le stesse reazioni di una gazzella che si sente minacciata all’improvviso dal leone. Si potrebbe dire che l’uomo in procinto di colpire una preda o lanciare l’esca verso un pesce abbandona in parte la sua essenza umana per riavvicinarsi alla belva. Questa belva è dentro di noi ed ha partecipato attivamente ai due milioni di anni che sono stati necessari alla evoluzione della nostra specie. In fin dei conti è quello che cer-
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Il cacciatore preistorico possedeva certo doti fisiche assai superiori alle nostre: udito, olfatto, forza, resistenza e intuito erano certamente assai più simili a quelle animali che alle nostre, che ci siamo via via indeboliti con l’aumentare dell’efficacia delle armi e con la struttura di una società sempre più meccanizzata e dissociata dalla natura selvaggia. Solo nelle nostre fantasie, regolarmente trasformate in spettacolo, l’uomo ritorna quella belva della quale, evidentemente, ha un’infinita nostalgia. È anche ciò che cerchiamo di attuare noi pescatori.
chiamo, pertanto non lamentatevi se più tardi, dopo una paura immotivata, vi trovate vomito e dissenteria. Mica siamo tutti dei duri. Anche il pesce preso all’amo spesso rigurgita cibo e... fa la cacca. Se invece state per finire attaccati da un branco di cani randagi, beh, la prossima volta andate a caccia, non a pesca. Non sempre è piacevole riappropriarsi dei propri istinti, se non li conosciamo. La piaga delle “crisi di panico immotivate” sono causate da “fruscii” o “ruggiti” che affiorano dall’inconscio, paure rimosse del nostro vissuto, o forse ancora più antiche. Nel film Stati di allucinazione (1980) il professore e ricercatore Ellie Jessup, un giovane William Hurt, utilizzando una particolare “vasca di deprivazione sensoriale” e con l’ausilio di droghe, va incontro ad una sorta di pro-
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gressiva involuzione psichica e genetica fino a modificare il proprio Dna in un viaggio nel passato che lo porta agli stadi di vita primordiali. Insomma, diventa una scimmia, e qualche critico cinematografico trovò curiosa l’associazione tra l’assunzione di droghe e l’involuzione in primate...
La società meccanizzata con il suo potere alienante e le sue illimitate frustrazioni s’è anche impadronita dei fiumi, che trasforma in lunapark dove la pesca diventa un gioco. Ecco, qui a destra, come Fritz Kahan, classe 1888, assimilò il processo fisiologico a quello industriale... sembra un fiume sintetico. Ma a parte il film fantascientifico, l’uomo è da sempre sospinto a comprendere il proprio passato, sì, insomma, le solite domandine: da dove veniamo, cosa facciamo, dove andremo... e se rispondete “Dove, in vacanza?” non siete originali. Un’uscita di pesca è soprattutto un piccolo viaggio nel passato, alla riscoperta di istinti mai sopiti. Cercare di risvegliarli e soddisfarli è interpretare il proprio ruolo, come un’aquila che vuole volare. O un pesce nuotare. È questo che, sotto sotto, desiderano cacciatori e pescatori. I primi con più foga predatoria, giacché il fine primo è uccidere, i secondi con più filosofia,
poiché l’uccisione è una scelta da farsi in seconda istanza. I primi anelano all’odore del sangue, i secondi alla scoperta dei segreti del fiume, affrontabili con conoscenza ed astuzia. Diventare la preda Conoscere il nemico è la massima garanzia di una lotta vittoriosa. Sapere come reagirà, prevedere i suoi comportamenti, percepire la sua fame, il suo livello di eccitazione, i suoi gusti alimentari, riconoscere il suo senso di allarme, il suo livello di selettività e, soprattutto, le capacità dei suoi sensi non significa solo appropriarsi di conoscenze fruibili nei libri o nelle spiegazioni del nostro
Un gatto roso dall’ambizione della predazione, ma forse questa volta ha esagerato.
mentore, nonno, papà o amico che sia, significa principalmente imparare a vedere, pensare e percepire come la nostra preda. Anche noi da due milioni di anni siamo prede e dentro di noi vivono le stesse pulsioni. Quando ci muoviamo lungo le rive alla ricerca di una preda, destreggiandoci tra rocce, correnti, guadi, boscaglie da attraversare siamo all’interno di un sistema catalizzante che ci avvicina a queste percezioni. Abbandoniamo la società della comunicazione globale e della tecnologia per addentrarci in quella natura selvaggia capace di rendere selvaggi anche noi. È bene che ne abbiamo anche un po’ paura, è un buon segno. In prossimità di una buca promettente ci acquattiamo, cerchiamo di fare poco rumore, dobbiamo portarci a tiro muovendoci come un felino, lento, mimetico e silenzioso. In altre parole diventiamo belva, come quella cui stiamo dando la caccia. Anziché scattare noi facciamo scattare la canna, al pesce arriverà l’insidia, non gli artigli o le fauci, quelle semmai più tardi... La falsificazione degli istinti Ed è qui che la società meccanizzata interagisce prepotentemente col vero fine di questi atavismi.
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Nella caccia le armi sono diventate sempre più sofisticate, potenti e precise e questo progresso allontana sempre più il cacciatore dai suoi istinti, compensando anche la perdita delle capacità fisiche e psichiche, nella pesca a mosca il progresso tecnologico ha apportato efficacia più contenuta: lo spettro di azione ha guadagnato, nel nostro caso, soli pochi metri, tuttavia il Dio consumismo ci ha convinto che l’ultimo modello di grafite è più efficace del precedente, come l’ultimo modello di wader o la rastremazione biconica della coda. Anche la diffusione delle canne a due mani è soprattutto moda e business, quando quasi tutti ne saranno in possesso e le vendite segneranno il passo, certamente si riproporrà la canna ad una mano, ma con questa o quella novità in più. Probabilmente si “inventerà” la doppia trazione, impossible a farsi con le due mani. Io considero già parecchio penalizzante pescare nello stesso tratto coi compagni di pesca, al contrario della caccia, dove ci si organizza per stanare i selvatici, nel pescare in compagnia si fa tutto peggio, ciascuno condiziona tempi e comportamenti dell’altro, il fiume non viene percorso come si dovrebbe, tante zone vengono trascurate, mentre in altre s’indu-
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gia eccessivamente, se poi ci si divide e si frequentano tratti distanti, ecco che subentrano il cellulare o lo smartphone. Ma fin qui l’interferenza è relativa ed i nostri istinti possono ancora salvarsi in buona parte, la vera tragedia è la
manomissione ambientale. Il fattore più distruttivo sono i ripopolamenti con pesce d’allevamento e ciò che apportano è ben noto: fame isterica nell’eventuale popolamento pseudo-naturale o comunque preesistente, distruzione dei rapporti nella classe d’età, inquinamento genetico con perdita dell’eventuale ceppo naturale sopravvissuto, malattie epidemiche e annichilimento della riproduzione naturale, in compenso i pescatori per qualche giorno (o qualche ora) fruiscono di pesce (grosso) da catturare, e senza bisogno di far ricorso ai famosi istinti descritti, perché è anche pesce “facile”. Le zone più soggette a questi interventi devastanti sono bizzarramente i tratti no kill, vale a dire proprio quelli che, nell’intenzione originaria, avrebbero dovuto garantire maggiormente la naturalezza ambientale. Il cammino delle gestioni affidate alle associazioni o ad amministrazioni più o meno pubbliche procede rapidamente verso questa strada, ovverossia di tratti ripopolati artificialmente e distrutti ambientalmente. Il no kill italiota non è una valle recuperata alla naturalezza ove pescare nel rispetto assoluto dell’ecosistema, bensì un tratto con pesce butta, sforacchia e ributta, dove si paga un permesso per perforare bocche, assiepati lungo le rive con altri pseudopescatori per lanciare mosche imitanti, oltre che insetti, pallets, pane o colorati streamer di fantasia, adatti a pesce che poc’anzi stabulava in vasca e correva dietro l’inserviente che
In alto, Seoul, le nuove frontiere: il fiume artificiale. Chissà se il locale fly club ha pensato di realizzare un tratto no kill. Qui a sinistra: “natura artificiale” realizzata dall’artista Gino Marotta in metacrilato colorato. A destra: il mio primo pesce.
distribuiva il cibo. Non solo, ma anche le tecniche di pesca si stanno trasformando in un sistema opportunista che con la vera Pam ha ben poco a che fare. Lo sapete: la pesca alla polacca col filo. O comunque sistemi di pesca dova la coda di topo è più un impiccio che la struttura portante del sistema. D’altra parte vi sono anche associazioni che operano per ripopolare i fiumi in gestione con buoni criteri, sostenendo la riproduzione naturale tramite incubatoi di vallata ove spremere materiale prelevato dal fiume, o di procurarlo da allevamenti in grado di offrire materiale di buona qualità. Vi sono anche pescatori che cercano di svolgere la loro passione in acque meno rimaneggiate, spingendosi sempre più frequentemente lungo ruscelli ed affluenti minori, oppue si riportano nelle acque libere fuori dai confini dei ghetti. E vi sono anche pescatori che abbandonano le plastiche di sintesi per tornare al bambù refendù, più o meno consapevoli di non intaccare minimamente le proprie possibilità di cattura. Del resto è per questo che peschiamo a mosca: rendiamo tutto più difficile con armi raffinate, limitate e meno cruente al fine di batterci con la preda
ad armi pari, così da conferire più importanza alla cattura. Ho catturato il mio primo pesce al luna park, quando, dopo innumerevoli tentativi, la mia pallina da ping pong finalmente cadde all’interno di una delle tante bocce di vetro con dentro un pesce rosso. Cinquanta lire di palline; la nonna era disperata. Avevo sei anni, Che volete che vi dica? L’istinto me lo diceva che sarebbe stato solo l’inizio di una grande avventura.
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