Prefazione di Paolo Condò
C’è sempre un luogo nel quale il talento fresco improvvisamente e inevitabilmente si concentra, come attratto da un campo magnetico, per trasformarlo nella porta su una nuova dimensione. Alla fine della Prima guerra mondiale Ernest Hemingway avverte l’inutilità concettuale di un ritorno in America dopo il congedo, perché la modernità – «le cose che avvengono», per dirla con lui – abita in Europa. Si parcheggia allora a Parigi, lasciandosi vivere in un circolo di giovani e sconosciuti connazionali che si chiamano Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound, John Dos Passos, la «generazione perduta» destinata a reinventare la letteratura. Erano tutti lì, nella Parigi degli anni venti: noi li avremmo capiti più tardi, ma fra loro s’erano riconosciuti al volo. Gli esempi possibili sono infiniti, e riguardano ogni ambito. Se spulciate l’elenco degli allievi passati per l’Actors Studio di Lee Strasberg, una piccola e graziosa palazzina newyorchese, scoprirete come il metodo di recitazione Stanislavskij che lì si insegna abbia «prodotto» l’intero cinema americano degli ultimi sessant’anni: James Dean, 7
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