Mondo Cinese
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Mondo Cinese Rivista di Studi sulla Cina Contemporanea della Fondazione Italia Cina
Economia e Management / Politica Interna Relazioni Internazionali / Diritto / Storia Cultura e SocietĂ
Mondo Cinese Rivista di Studi sulla Cina Contemporanea della Fondazione Italia Cina
Numero 147, ANNO XXXIX, N° 3 Rivista quadrimestrale Copyright 2012 © Fondazione Italia Cina
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Rivista fondata dal Senatore Vittorino Colombo nel 1973 Direttore Responsabile Rita Fatiguso Segreteria di redazione Francesca Bonati, Alessandro Bracone, Paola Lavezzoli C.C.P. n. 93749836 “Fondazione Italia Cina”, Milano Autorizzazione del Tribunale di Milano n. 193 del 5-5-1973
Francesco Brioschi Editore via Santa Valeria, 3 20123 Milano www.brioschieditore.it ISBN 978-88-95399-73-7 È consentita la riproduzione parziale di singoli testi purché se ne citi la fonte. La Fondazione Italia Cina garantisce la massima riservatezza dei dati raccolti per la spedizione di “Mondo Cinese”. Ai sensi dell’art. 13 della legge 675 del 31/12/1996 i dati potranno essere distrutti, su richiesta a “Fondazione Italia Cina”, Via Clerici, 5 - 20121 Milano.
indice
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Paolo SANTANGELO
Editoriale
POLITICA INTERNA 28 Mauro CROCENZI Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese 42 Valentina PUNZI L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi 52 Alessandra CAPPELLETTI La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang
DIRITTO 68 Mauro MAZZA La tutela delle minoranze nazionali e delle autonomie 77 Ignazio CASTELLUCCI One Country, Two Systems
CULTURA E SOCIETÀ 96 Tommaso PREVIATO La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali 116 Maria JASCHOK Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) 136 Pier Francesco FUMAGALLI Ebrei in Cina: la sfida della diversità 144 QI Jinyu Mongour Tu: storia della società e indagine culturale
160 ZHANG Xi La cultura Derge dei tibetani del Sichuan 182 Cristina TURINI I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione 199 Daniele COLOGNA Reinventando Shangri-La. La cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo
OSSERVATORIO 214 Thomas ROSENTHAL e Alberto ROSSI Storia di un imprenditore uiguro
L’OPINIONE 220 Dong Yunhu, Viceministro State Council Information Office Intervista di Rita FATIGUSO
L’editoriale del Prof. Santangelo, che ha curato con la Redazione questo numero di Mondo Cinese, affronta alcuni aspetti del rapporto maggioranza Han e minoranze, che comprende anche quello centro-periferia, e le connesse implicazioni sia sul piano delle identità e dell’unità nazionale, sia su quello delle autonomie e della compartecipazione alle decisioni locali. Dopo una breve presentazione del sistema delle nazionalità nella Cina contemporanea, si offre una panoramica dei precedenti storici, una storia per molti versi multietnica, la cui conoscenza facilita la comprensione della complessità della situazione attuale. Nell’ultima parte si passano in rassegna gli articoli di questo numero, mettendo in rilievo il contributo di ciascuno.
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l tema delle minoranze etniche richiederebbe un’ampia premessa con un dibattito sull’uso, il valore e le implicazioni dei termini quali “minoranza”, “nazione”, “etnia”, che meriterebbe ben più ampio spazio1. Il discorso sulle autonomie, sulle identità e sulla democrazia si interseca con quello dello sviluppo economico e soprattutto della capacità di adattamento e di trasformazione di varie comunità in una società in continua evoluzione. A livello amministrativo e politico, la presenza di minoranze richiama soluzioni del tipo delle autonomie, di statuti particolari, ecc. Ma ovviamente le questioni travalicano la lettera della legge e della costituzione, e si pongono al momento dell’attuazione delle disposizioni legislative come delle politiche settoriali, delle autonomie locali, e dei programmi di istruzione, ad esempio. Quindi vanno esaminati i modi di attuazione delle autonomie, e le scelte che si propongono di rispondere all’esigenza di “armonia” fra maggioranza Han e minoranze etniche – un concetto ampiamente dibattuto non solo in ambito accademico, e che comunemente viene fatto ricadere sotto l’ideale della “società armoniosa”, hexie shehui. Queste scelte sono importanti nella misura in cui mirino ad evitare le tentazioni opposte di tipo separatistico o “passatistico”, e quelle autoritarie di assorbimento e assimilazione. Quanto viene sancito nella costituzione e nelle leggi in materia di autonomia e bilinguismo – dimostra Valentina
Punzi – spesso non ha riscontro pratico nella realtà per tutta una serie di ragioni. Il tema implica un complesso problema a livello individuale di “identità”, e a livello collettivo di autonomie, di tolleranza dell’“altro”, di equilibri politici e di preoccupazioni strategiche, che non sempre sono conciliabili ai casi specifici. E l’apertura di aree meno ricche allo sviluppo economico – come osserva Daniele Cologna – non sempre incontra accoglienza favorevole fra i residenti delle minoranze, che possono intendere lo sviluppo economico come interferenza sul territorio e capovolgimento dei rapporti demografici locali. La situazione cinese è erede di una lunga storia multietnica, con soluzioni peculiari e antiche, con spinte contraddittorie fra tolleranza e repressioni. E tuttavia non sembra ancora sconfitto quello sciovinismo Han (dahanzuzhuyi), criticato da Mao Zedong, in quanto è probabile che tale atteggiamento di superiorità in campo sociale e di influenza in quello politico, economico e culturale della maggioranza Han abbia radici antiche e profonde nella mentalità popolare. La mia impressione è che alcuni fenomeni siano estremamente complessi: se la tradizione di un “paternalismo” Han sembra ancora prevalere, con scelte spesso centralizzate e autoritarie, andrebbe pure vagliata con attenzione la capacità di risposta delle “periferie”, le loro resistenze ai necessari adattamenti alle trasformazioni del mondo moderno, nonché il grado effettivo di cooperazione a livello locale. Come acutamente scrive Mauro Mazza, gli organi locali del decentramento politico-amministrativo appaiono sospesi fra aspirazioni autonomistiche ed esigenze unitarie. E altrettanto contraddittorie sono le spinte intorno all’identità etnica, specie nelle aree in cui le “minoranze” si sentono “maggioranze”. Si tenga conto ancora che maggiore libertà di agire a livello locale non significa automaticamente maggiore tutela delle autonomie delle minoranze. Infatti dobbiamo considerare l’esistenza in loco di un apparato burocratico, e poi la presenza di corpi economici-politicimilitari autonomi che seguono le proprie logiche, come nel caso presentato da Alessandra Cappelletti sulle dinamiche di potere centro-periferia e i Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang. Rapporti centro-periferia Dal punto di vista terminologico, come accennato, la definizione di queste minoranze-etnie presenta una serie di difficoltà anche per i mutamenti socio-economici e l’evoluzione delle stesse ideologie2. E tuttavia l’esistenza di categorie correnti costituisce di per sé stesso una realtà storica, e una base di discussione3. Tanto in Cina quanto in Occidente il concetto di nazione resta al centro di un dibattito che rende ardua qualsiasi definizione
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“assoluta”. Esemplare il concetto di minzu su cui riflettono il contributo di Mauro Crocenzi e quello di Tommaso Previato. Naturalmente non si tratta di una pura questione teoretica o terminologica, perché le varie categorie, e naturalmente le varie soluzioni implicano spesso conseguenze politiche e ideologiche, che poi possono ripercuotersi su situazioni di diverso genere e portata. Basta esaminare le discussioni attorno a vari casi, per rendersi conto che tale questione ha diverse valenze: per gli antropologi è la comprensione della varietà dell’esperienza in loco, per le autorità la classificazione delle etnie minoritarie viene spesso collegata alla politica nazionale e alle esigenze di uno Stato unitario e centralizzato, mentre per le élite locali risponde a logiche politiche e dialettiche interne ai gruppi, e infine per i singoli soggetti ha valore il senso di identità e di distinzione, soprattutto la coscienza locale. Questo complesso incastro di problematiche emerge più o meno in tutti gli interventi, e lo ritroviamo in particolar modo per gli aspetti istituzionali nell’articolo di Mazza, per la relazione fra uno sviluppo sostenibile e il ruolo del turismo in quello di Zhang Xi. Così la via dello sviluppo attraverso il turismo e delle attività connesse porta indubbi vantaggi per molti settori, ma al tempo stesso presenta tutta una serie di prospettive e di interrogativi, in quanto l’apertura di nuovi spazi turistici in aree con una forte concentrazione di minoranze etniche comporta alcune questioni, quali la conservazione della cultura tradizionale locale; le possibilità di un modello di sviluppo endogeno o partecipativo; la capacità di coinvolgere direttamente le comunità interessate nei progetti di sviluppo supervisionati a livello centrale; la transizione culturale in seguito allo sviluppo del settore turistico; la valorizzazione delle economie locali, del loro patrimonio culturale tangibile e intangibile, le tensioni sociali createsi fra gli imprenditori arrivati da fuori e quelli locali, il processo inarrestabile di mercificazione delle culture tradizionali e di “folklorizzazione” delle ritualità religiose, costumi locali, arte popolare e feste in prodotti ad esclusivo consumo turistico. A questo proposito interessante è il fenomeno evidenziato da Cristiana Turini a proposito dei Naxi, in cui si è verificato una trasformazione della “religione dongba” in “cultura dongba”, con una “laicizzazione” che è indubbiamente influenzata dal valore della cultura scritta nella tradizione cinese. Occorre tener presente d’altra parte che la parziale trasformazione delle culture delle diverse etnie in risorse economiche segue un processo globale, non solo cinese, ed è noto come ogni trasformazione implichi l’acquisto e la perdita di qualcosa. Questo vale per tutti i periodi di particolare mutamento, è un processo continuo nella storia, ineluttabile, che vede la crescita e il declino di civiltà e di potenze, in base alla capacità di adattamento e di innovazione. La ricostruzione della tradizione, o nel
senso hobsbawmiano l’invenzione di tradizioni, così come la ricreazione della “memoria” sono altrettanti fenomeni universali, che si manifestano nelle forme e nei modi propri in ogni luogo e tempo. Così pure il ruolo dello Stato nell’influenzare la rivalutazione di alcuni aspetti di una cultura locale rispetto ad altri, contribuendo alla reinvenzione di un’identità culturale desiderabile della minoranza, è un fenomeno frequente nelle società moderne. È probabile che il “culturalismo” della civiltà cinese e il moralismo confuciano svolgano ancora un ruolo in questo processo, per quanto riguarda la Cina nel suo complesso. Quindi la stessa “reinvenzione della tradizione” con il prevalere di alcuni valori rispetto ad altri, vede in certi casi la partecipazione attiva delle élite delle minoranze, come nel caso dei Naxi. D’altronde abbiamo osservato un analogo processo per la Cina stessa: la cultura cinese ha subito enormi trasformazioni attraverso i secoli e nel presente. Esempio eclatante di risposta al possente processo di globalizzazione dell’economia e della cultura del consumo di massa è il fenomeno della migrazione interna e dell’urbanizzazione, con caratteristiche comuni ai flussi migratori internazionali, ma che dimostra anche come per la prima volta le donne di molte aree rurali siano in grado di affrontare la possibilità di una genuina realizzazione personale e di plasmare il proprio destino, seppure in una condizione di scarse tutele e di grandi difficoltà. In questo processo, descritto nell’articolo di Cologna nel numero precedente di Mondo Cinese, “la circolazione di persone, beni e idee socializza una nuova cultura nazionale e al tempo stesso apre alle influenze di una più vasta cultura transnazionale, uno spazio sociale autonomo capace di trascendere i confini nazionali per saldarsi a consumi, abitudini, aspirazioni il cui comune denominatore è dato da fattori trasversali come l’età, il genere, la classe sociale, la condizione economica, assai più della nazionalità”. Sarebbe quindi interessante vedere in che misura fenomeni analoghi si verifichino per le altre comunità non-Han. Dal punto di vista puramente pratico, bisogna considerare che di fatto esistono minoranze che presentano problemi “strategici” e nevralgici (comunità musulmane e tibetane), altre minoranze che destano attenzione, come quelle mongole, e infine gran parte delle altre che invece non presentano grossi problemi di questo genere, e tuttavia richiedono una gestione equilibrata e costante con una partecipazione decisionale sempre maggiore degli interessati. Allora, come funziona il sistema delle nazionalità in Cina? Innanzi tutto lo status di ogni cittadino della Zhonghua Renmin Gongheguo è quello di appartenente, a livello più ampio, alla Zhonghua Minzu, la minzu cinese, che distingue fra una netta maggioranza Han e 55 gruppi minoritari,
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stabiliti a seguito delle politiche di minzu shibie (categorizzazione etnica) iniziate nei primi anni Cinquanta4. Perciò nel documento personale di identità viene specificato a quale minzu il cittadino appartenga: la maggioranza è classificata come Han, mentre il resto della popolazione viene categorizzato secondo una delle 55 minoranze. Queste rientrano nelle categorie dei parlanti cinese mandarino, lingue tunguse-mancesi, mongolo e sue varianti dialettali, varianti del turco, lingue tibeto-birmane, lingue del ceppo zhuang-dong o miao-yao, e altri non rientranti in nessuna di queste categorie. Si faccia attenzione però che tale appartenenza spesso non è indicativa di una vera e propria categorizzazione etnica. Per esempio nel caso dei musulmani cinesi – grazie all’informazione fornitami gentilmente da Tommaso Previato – molti Han che si sono convertiti all’Islam hanno richiesto il passaggio all’etnia Hui per godere così di privilegi concessi a questa o quella minoranza5, quando in realtà non potrebbero farlo, in quanto si tratta di due piani diversi, uno è attinente al credo religioso e l’altro alla discendenza e alle origini etniche nel senso stretto del termine: una cosa è credere nell’Islam e un’altra è definirsi Hui perché si ha un lontano antenato di origini persiane, arabe ecc.6. Si aggiunga a questo, poi, la questione dei matrimoni misti fra Han e altre minoranze etniche. Sempre per via delle “politiche preferenziali”, youhui zhengce, e dei privilegi che esse comportano, molti tenderanno a farsi risconoscere come minoranza etnica, quando in realtà lo sono solo per metà. Per esempio, un figlio di padre Han e madre Yi potrà figurare sulla carta di identità come appartenente all’etnia Yi e godere in tal modo di una condizione di privilegio. Ognuno di tali gruppi, in quanto minoranza gode di tutta una serie di benefici che vanno dalla possibilità di avere più di un figlio, ad ottenere valutazioni meno rigide per il Gaokao, ovvero l’esame di ammissione all’università (specie per quelle minoranze che parlano lingue non affini al cinese), sussidi governativi, talora migliori occupazioni ecc. Esistono poi dei gruppi che non sono ancora stati catalogati (si veda il caso di alcune tribù mongole nel Qinghai e Xinjiang o di altri clan in aree remote dello Yunnan, come i Bajia e Kemu entrambi del Xishuanbanna o ancora dei Chuanqing del Guizhou) che però non possono essere inseriti all’interno del sistema dei 55 gruppi etnici. Molti sono anche quelli che chiedono di cambiare nome, come il caso dei Dongxiang del Gansu che richiedono una denominazione più consona come Sartha, o di alcune tribù dei monti Baima nella regione nord-occidentale del Sichuan e per questo catalogati come tibetani baima che auspicherebbero invece l’universalizzazione del nome di. La legge non prevede che se ne aggiungano altri: 55 sono stati quelli categorizzati secondo le politiche di minzu shibie e 55 devono restare.
L’eredità storica L’eredità storica, come si è accennato, non deve essere sottovalutata, per cui è bene risalire alla situazione storica precedente, che può essere molto utile per comprendere la complessità di quella attuale. C’è innanzi tutto da osservare che non tutte le minoranze possono considerarsi come “marginali” nel contesto dell’impero cinese degli ultimi secoli. Si pensi alla dinastia Qing (1644-1911), in cui i mancesi, in primo luogo, e almeno una parte dei mongoli, pur costituendo indubbiamente delle minoranze rispetto alla popolazione Han, si trovarono in posizione privilegiata nei confronti di essa e naturalmente degli altri gruppi etnico-linguistici, gli uiguri, e soprattutto quelle popolazioni meridionali, come i Miao, Yao, Lolo, Yi, Qiang, Naxi, Zhuang7. Molte di queste popolazioni vivevano in zone poco accessibili e montuose – spesso spinte dalla pressione dei coloni Han e da campagne militari – conducendo una vita piuttosto semplice, basata su un’agricoltura primitiva, l’allevamento e la caccia8. In seguito a migrazioni volontarie o coatte, risulta per esempio che gli Yao divennero numerosi nel Guangxi e nel Guangdong solo in epoca Ming e nel Guizhou dopo il 17249. La presenza di queste popolazioni pose una serie di problemi alle autorità cinesi, che fondamentalmente seguirono le tracce della dominazione mongola, e attuarono delle “autonomie controllate”, attraverso l’istituzione di cariche ereditarie affidate alle famiglie indigene più potenti, accanto all’apparato burocratico, e attraverso la ripresa del sistema delle colonie militari. Si nota peraltro la tendenza ad un maggiore predominio del “centro” sulla “periferia” dal periodo Yuan (1271-1368) a quello Qing, da un riconoscimento della società di frontiera come soggetto storico agente al crescente interventismo statale durante le due ultime dinastie, con lo stanziamento di guarnigioni Han nelle varie periferie e il restringimento del campo dell’ibridazione locale. C’è da aggiungere che la situazione amministrativa nelle aree di frontiera può sembrare confusa ai nostri occhi. Prendiamo ad esempio lo Yunnan: durante la dinastia mongola, pur essendo la regione amministrata da un “Segretariato Provinciale”, facente funzioni di governatorato, di fatto venne lasciata una larga autonomia alle popolazioni locali. Il governatore, Sayyid Ejell (1211-1279), uiguro musulmano di Bukhara, vi chiamò numerosi cinesi musulmani dal nord-ovest della Cina, creandovi una entità semi-indipendente, e istaurandovi una dinastia di governatori. Con l’avvento dei Ming, venne mantenuta e anzi consolidata la suddivisione in province, e, in gran parte dei casi, vennero confermati i capi tribù che avevano governato precedentemente, man mano che riconoscevano la nuova dinastia, nello Hunan, nel Sichuan, nel Guangxi, nel Guangdong e nello Yunnan. Sempre nello Yunnan, oltre agli ordinari uffici amministrativi,
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di controllo e quelli militari, fu nominato un Commissario per la Difesa dello Yunnan, nella persona di Mu Ying (1345-1392), che assunse praticamente i compiti di governatore militare: eliminò il potentato mongolo dei Liang a Kunming, ridusse l’influenza del clan Duan a Dali, e rafforzò il controllo sui Lolo e altre popolazioni locali. Questa carica fu tramandata ereditariamente fra i suoi discendenti, già come era avvenuto per Sayyid Ejell durante gli Yuan, e la famiglia Mu divenne la più potente e ricca dello Yunnan: benché si tratti di un raro caso di trasmissione ereditaria di una carica importante a livello provinciale nella dinastia Ming, è tuttavia degno di nota che ciò possa accadere in un territorio di frontiera, e ricorda il tipo di gestione che lo Stato esercita nelle zone abitate in prevalenza da “barbari”. Anche dopo la “pacificazione” della regione e il ritiro dei generali inviati inizialmente in loco, vennero lasciati circa 300.000 uomini delle truppe provenienti in prevalenza dall’area di Nanchino. Ciò contribuì alla sinizzazione della provincia, la cui popolazione, all’inizio dei Ming era in prevalenza (80%) non-Han. Contemporaneamente, nello Yunnan (1382-1385), come nel Sichuan (1373), nel Guizhou (1378) e in tutte le aree abitate da numerosa popolazione non-han, vennero stabilite colonie militari. Anche se dalla seconda metà del XV secolo il sistema tuntian decade nella sua funzione di rifornire le truppe e di rendere autosufficiente l’esercito, la sua realizzazione fu determinante all’inizio per lo sviluppo economico di queste aree e per il processo di colonizzazione. Infatti alle colonie militari presto si aggiunsero quelle commerciali e private. Queste ultime divennero estremamente utili con il declino delle prime, la monetarizzazione delle imposte e la sostituzione del sistema dei rifornimenti alimentari con l’invio di danaro. Molte delle tribù sottoposte all’amministrazione indiretta dello Stato erano soggette a tasse, e in genere prestavano le corvée e/o il servizio militare ai loro capi riconosciuti dallo Stato. Benché poi ogni area con concentrazioni di popolazioni non-Han presentasse proprie peculiarità e soluzioni (differenze fra “periferie” meridionali e occidentali, fra aree religioso-culturali-economiche)10, possiamo individuare delle costanti, come la “delega” ampia o limitata ad esponenti locali, responsabili nei confronti delle autorità centrali e al tempo stesso nei confronti delle comunità, con deroghe al sistema burocratico ufficiale sia per il reclutamento che per la sua trasmissione. Queste deleghe ricorrevano a notabili e a lobby locali, talora con una notevole indipendenza rispetto alle decisioni del centro. Più in generale, gli strumenti della politica statale si rifacevano alla strategia multiforme dell’“uso dei barbari per il controllo dei barbari”, e dal punto di vista culturale assistiamo alla flessibilità del sistema di “civilizzazione-assimilazione” (tonghua guocheng)11.
In questo contesto si inquadra il sistema dei comandanti indigeni, tusi e tuguan. Si tratta di titoli corrispondenti a cariche della burocrazia civile e dell’esercito, o usate nelle passate dinastie. Questo istituto, iniziato con la dinastia mongola12, ebbe grande influenza sul piano politico-amministrativo a livello locale, fungeva da regolatore e intermediario nei rapporti con le minoranze presenti in tali aree, mitigando le tensioni che spesso sorgevano alle frontiere. La loro posizione oscillava da uno stato di subordinazione al governo centrale ad uno di quasi autonomia. Si tratta in concreto di un sistema di autonomia amministrativa vigilata, attraverso l’assunzione di responsabilità da parte di indigeni che spesso ereditano tale carica, con l’assistenza di coadiutori civili e militari. La scelta competeva ai funzionari locali, previa approvazione del governo centrale. Queste cariche spesso ereditarie, come si è detto, rientravano nella tradizionale politica di “controllare i barbari con i barbari”. Tuttavia, sotto questo slogan si celano diverse realtà, che dipendono dal tipo di popolazione, dalla sua posizione geografica e strategica, dall’organizzazione e dalla religione, dalla prossimità o meno dei confini, dai rapporti con le popolazioni oltre i confini, dalle interrelazione fra indigeni e cinesi, fra immigrati cinesi e comunità sinizzate13. L’area “barbarica”, fanbu/fandi, infatti variava se riguardava la parte costiera o quella continentale, il sud o l’ovest, i territori interni e quelli esterni14. Il principio della conferma delle posizioni di responsabili locali assunte durante la dinastia precedente e il carattere “barbarico” di questi capi, influenzava anche il modo di trasmissione del titolo e del rango, riconosciuti come ereditari, previa investitura da parte delle autorità cinesi. Un caso emblematico è indubbiamente quello già citato della famiglia Mu, probabile sinizzazione di un nome di origine naxi. Un esponente di questa famiglia, che aveva già un ruolo direttivo nell’area di Lijiang, Yunnan nord-occidentale, almeno dall’arrivo dei Mongoli, collaborò col generale Fu Youde per stabilire l’autorità Ming sullo Yunnan, e venne premiato con l’attribuzione della carica ereditaria di prefetto indigeno di Lijiang. Come accennato, i suoi discendenti continuarono nello stesso ruolo per tutto il corso della dinastia, fino a Mu Zeng (1587-1646). Dopo la sua strenua difesa dei Ming, il suo erede nel 1659 riconobbe la supremazia mancese. I Mu continuano così a mantenere la carica sino al 1723, quando venne stabilita a Lijiang una prefettura regolare. Alla famiglia Mu comunque fu concessa la carica ereditaria per gli assistenti al Prefetto, ed essa continuò ad occupare una posizione di prestigio e di potere nell’area, anche dopo la fine della dinastia Qing. Questi organi, almeno in parte non formalmente burocratici, rispondevano ad una serie di esigenze pratiche, e nello stesso tempo erano in
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linea con i principi generali della concezione politica cinese. In alcune aree, come quelle fredde del Gansu e del Qinghai, adatte ad un’economia nomade pastorale, o quelle montane poco adatte all’agricoltura, oppure in quelle calde, umide e malsane del sud e sud-ovest, era difficile l’esercizio del controllo diretto dell’amministrazione cinese15. Le difficoltà erano aggravate dalla mancanza di comunicazioni, dalla scarsità di produzione alimentare in loco. Il sistema dei comandanti indigeni, invece, permetteva – attraverso il “governo dei barbari mediante i barbari” – di accattivarsi le simpatie della classe dirigente di queste popolazioni, senza entrare nel merito dei loro usi e costumi, spesso ostici o ignoti agli amministratori Han. Nella misura in cui le tribù erano distanti dalla civiltà cinese, non era opportuno, e anzi sarebbe stato controproducente, che fossero amministrate dal diritto cinese. Tale atteggiamento poi corrispondeva al generale principio del wuwei (“non fare”, “non forzare”): specie ai confini, se le tribù “barbare” accettavano di convivere con gli Han, riconoscevano la superiorità del sistema imperiale cinese, il sistema dei tusi incoraggiava la loro sinizzazione senza implicare un diretto contatto delle autorità cinesi con esse; se invece erano refrattarie e preferivano abbandonare il territorio, erano lasciate al di fuori di ogni contatto con la “civiltà”. Spesso questo sistema dialogava al di là dei confini – che naturalmente non erano definiti con precisione come quelli degli Stati moderni – attraverso un parallelo sistema di Stati-cuscinetto, simili ai paesi tributari, e attraverso una serie di alleanze, che contribuivano ad assicurare la pace e la tranquillità ai confini. Se si trattava di popolazioni interne, esso assicurava la loro sottomissione pacifica, la collaborazione e la tranquillità, di cui si facevao garanti i capi locali, evitava i conflitti fra diversi gruppi etnico-linguistici, o fra le organizzazioni tribali e l’amministrazione imperiale. Un esempio di collaborazione con lo Stato centrale è dato da Qin Liangyu (1574?-1648). Alla morte del marito, un Commissario tusi (xuanfushi) del Sichuan, ne ereditò il titolo, e combattè sia contro i mancesi sia contro alcune rivolte, fra cui quella di un altro xuanfushi, il Lolo Sha Chongming. I suoi discendenti, dopo avere riconosciuto la sovranità Qing, mantennero lo status di tusi, fino all’abrogazione di questo istituto nel 1761, quando venne creata una sottoprefettura indipendente nella località di Shizhu, nel Sichuan16. Dal punto di vista formale il rapporto fra comandante locale e autorità dell’impero si manifesta attraverso la consegna di un periodico tributo da parte dei capi locali, il ricevimento dei doni imperiali – in genere di valore superiore ai tributi – l’investitura degli eredi, l’udienza a corte, ecc. In caso di decesso del capo locale, doveva essere notificata la successione alla corte, dove era registrata la genealogia della famiglia. L’erede riceveva
allora un certificato con i titoli onorifici e l’indicazione dell’estensione del proprio dominio. In genere i magistrati locali facevano da tramite fra il tusi e le autorità centrali. Come si vede, non esisteva un’evidente differenza fra la gestione dei tusi e quella dei rapporti con le tribù “barbare” esterne, perché, anche dal lato formale, i titoli e il cerimoniale erano molto simili; ciò corrispondeva alla presenza di una frontiera “diffusa” e indefinita, non paragonabile ai confini dello Stato moderno. L’unica differenza rilevante – che denota l’esistenza di una sovranità statale, di un rapporto “interno” – era data dalla presenza di assistenti di nazionalità Han17. Tuttavia il controllo delle popolazioni e delle tribù locali attraverso questo sistema non si dimostrò facile, come risulta dalle notizie delle numerose rivolte indigene; inoltre non tutti i tusi risposero alle aspettative dello Stato, e non furono rari i casi di disobbedienza, se non di aperta rivolta, o di cattiva amministrazione ai danni sia degli indigeni a loro direttamente sottoposti, sia degli emigrati cinesi18. Con la vittoria dei mancesi, come si è visto, i vari capi tribù e tusi riconobbero per la maggior parte la nuova dinastia. Dapprima, coloro che si sottomettevano alla nuova dinastia erano in prevalenza riconosciuti. Ma, nel corso della dinastia Qing, una serie di regolamenti venne a delimitare sempre più e con maggiore precisione le competenze e i doveri dei tusi. Il processo di accentramento del potere statale e di integrazione portò quindi alla progressiva eliminazione dei tusi delle regioni interne. Quelli di confine, invece, vennero mantenuti. Alcune di queste aree autonome, poi, furono divise, altre modificate, e altre ancora abolite, e sostituite da amministrazioni regolari. Il processo di frammentazione venne in alcuni casi reso automatico con il ricorso alla divisione ereditaria delle cariche e dei titoli. Indubbiamente i più drastici provvedimenti furono quelli che prendevano il nome di “trasformazione delle enclaves governate direttamente da capi locali ereditari in circoscrizioni amministrate da cariche burocratiche ordinarie” (gaitu guiliu). A partire da Kangxi (1662-1722), e in maniera più intensa da Yongzheng e da Qianlong, si ricorse sempre più a tale modifica in molte aree dell’impero. Ciò avvenne nello Hubei, nello Hunan, nel Guangxi, nel Guizhou, mentre soltanto nelle regioni di confine del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan vengono mantenuti i tusi. Questi provvedimenti modificarono anche l’assetto economico dell’area, se si considera che il regime agrario subì una profonda trasformazione: le terre, spesso usate collettivamente e in gran parte controllate dai tusi, divennero proprietà privata dei contadini Han e dei gruppi sinizzati. Inoltre l’eliminazione del potere dei tusi permise uno sfruttamento intenso da parte dello Stato delle miniere di rame (nel Guizhou e nello
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Yunnan). Tale politica può essere intesa come espressione dell’accresciuto assolutismo, oppure, in senso progressista, come un tentativo di eliminazione delle barriere e delle discriminazioni nei confronti delle minoranze. Si tratta piuttosto di un processo di integrazione e di sinizzazione che incoraggiava la colonizzazione cinese in tutto il sud-ovest, e lo sfruttamento economico di quelle regioni19. Tale modifica costituì inoltre un mutamento nella tradizionale concezione di lasciare ai “barbari” un’amministrazione “barbara”, seppure la sua applicazione fu adottata in modo vario e flessibile. È vero che molte condizioni erano cambiate nel frattempo, con un aumento della presenza cinese e del grado di sinizzazione delle minoranze. Inoltre c’è da aggiungere che al cambiamento istituzionale non corrispose sempre un’altrettanto radicale modifica dell’assetto sociale, come nel caso di alcuni distretti creati nel XVIII secolo nel nord-est dello Yunnan. Il mantenimento dei tusi nelle aree di confine può essere dovuto al maggiore conservatorismo delle regioni periferiche, soggette all’influenza delle culture “barbariche”. Ma il diverso trattamento derivava indubbiamente anche da considerazioni di opportunità politica, data la persistente utilità dei tusi in quelle terre. Troviamo qui un esempio della flessibilità con cui la burocrazia cinese adotta la stessa ideologia sinocentrica. La posizione ambigua di queste popolazioni nella prospettiva delle autorità, in bilico fra l’interno (nei) e l’esterno (wai) nel contesto dell’impero, emerge fra l’altro dagli uffici che se ne occuparono20. Oltre alla soprintendenza del Ministero del Personale o di quello della Guerra sui tusi, sembra che anche l’Ufficio per le Traduzioni e per i vari “barbari”, siyiguan, fosse coinvolto specie per le popolazioni settentrionali e occidentali. Esso era inizialmente sezione dell’Accademia Hanlin, e dal 1496 fu posto alle dipendenze di una delle Corti, la Corte per i Sacrifici Imperiali, taichangsi, in stretta relazione con il Ministero dei Riti. Dopo il 1748, fu fuso con l’Ufficio degli Interpreti, huitongguan nel nuovo Ufficio per gli Inviati dei Paesi Tributari, huitong siyi guan, sempre sotto il controllo del Ministero dei Riti21. Con la dinastia Qing, inoltre, emerse il nuovo ufficio del lifanyuan, Corte per gli Affari dei Paesi Dipendenti, erede di quello mancese per gli Affari Mongoli, che si occupava del cerimoniale e dei rapporti con le città-Stato dell’Asia Centrale, con i mongoli, i tibetani e poi i russi. Originariamente esso svolse un compito fondamentale nei legami con le popolazioni mongole e tibetane dell’impero, e quindi non può considerarsi come un puro dicastero per gli affari esteri, seppur in un’area specifica. Il termine lifan è uno degli attributi dei funzionari locali, che indicava la speciale funzione di controllo delle popolazioni e delle tribù non-han ai confini o all’interno dei territori dell’impero22.
In conclusione, si può rilevare come una molteplicità di istituzioni e di politiche spesso sfuggano per varietà e condizioni alla logica delle categorie contemporanee connesse con la sovranità statale e la netta definizione dei confini. Esse si manifestavano nei rapporti di buon vicinato, nelle varie forme di controllo delle popolazioni a cavallo dei confini, nella gestione dell’ordine pubblico e nell’interazione con le varie entità sociali nelle multicolori zone fra ciò che è dentro e fuori l’impero23. I contributi di questo numero Quanto alla situazione contemporanea, gli articoli di questo numero di Mondo Cinese affrontano dei casi concreti, e ovviamente coprono solo una parte della complessa situazione delle minoranze e delle autonomie, non potendo affrontare tutte le molteplici problematiche relative. Eppure mi sembra che questo numero offra al lettore un quadro essenziale della complessità di questo tema con alcuni esempi specifici, presentando con equilibrio i chiaroscuri delle condizioni presenti, i progressi effettuati negli ultimi anni, ma anche i limiti e i difetti delle politiche sin qui adottate. Gli articoli sono scritti da esperti che si dedicano da anni allo studio delle minoranze o che comunque conoscono bene la realtà cinese. Mauro Crocenzi parte dalla questione di come in Cina, dalla tarda epoca imperiale ad oggi, le élites politico-culturali si siano sforzate di giungere a una definizione della nazione cinese e del concetto di nazione in generale attraverso una rielaborazione della storia imperiale e una riconfigurazione dei legami che diverse etnie intrapresero con le case dinastiche. È da questo sforzo secolare che è derivata l’idea contemporanea di minzu, un concetto rimasto a metà tra nazione ed etnia, tra origine occidentale e radici locali. Nelle ultime decadi questa categoria è andata incontro al tentativo, condotto da una parte del mondo accademico cinese, di emanciparsi dalla sua matrice coloniale per assumere delle “caratteristiche cinesi”, le cui radici sono divise tra una dimensione ideologica e una storico-culturale. Valentina Punzi esamina le principali fasi della politica scolastica nella Rpc, la cui periodizzazione corrisponde grosso modo all’alternarsi di diverse politiche nei confronti delle minoranze. La politica scolastica ha garantito lo studio delle lingue delle minoranze e promosso la produzione culturale, ma queste misure sono state strumentali e funzionali all’obiettivo a lungo termine dell’assimilazione. L’istruzione scolastica, ispirata ai principi di conformità, stabilità e assimilazione, di fatto si è discostata da un approccio seriamente pluralista, temendo la nascita di rivendicazioni indipendentiste, ostacolando di fatto la diffusione del sistema scolastico nella maggior parte delle zone delle minoranze, con l’eccezione del gruppo coreano e di quello mongolo.
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Alessandra Cappelletti presenta un’analisi delle dinamiche di potere centro-periferia, concentrandosi sui cosiddetti Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang, un potente gruppo di istituzioni politiche, economiche e militari presenti esclusivamente nella Regione Autonoma Uyghur del Xinjiang. L’autrice ne traccia l’origine e l’evoluzione, l’importanza strategica, nonché le presenti contraddizioni. Tali corpi presentano un interesse notevole per la comprensione della situazione locale, e altresì riguardano settori produttivi in cui l’Italia è presente per le facilitazioni di cui godono le imprese straniere che collaborano con essi nel Xinjiang. Tommaso Previato tratta il tema delle minoranze musulmane in Cina, descrivendone le principali fasi di sviluppo storico e le trasformazioni avute nelle varie epoche a partire dalla loro prima comparsa in terra sinica fino a dopo l’istituzione della Repubblica Popolare Cinese. Partendo da un’analisi dell’evoluzione della terminologia impiegata per descrivere il fenomeno islamico in Cina, illustra le forme di insediamento, la componente etnica e quella religiosa, per fornire infine una panoramica statistica relativa alla loro distribuzione sul territorio nazionale per quote di popolazione e maggiori aree di influenza. Mettendo in evidenza come l’emergere di nuove spinte identitarie in seno alla Cina moderna e contemporanea soggiaccia sia a linee politiche dettate dall’interno che all’insieme delle relazioni “Oriente-Occidente”, l’autore intende proporre una visione più fluida dei rapporti fra Islam e Cina, e tra le stesse minoranze musulmane, che tenga conto delle dinamiche di incontro-scontro e del loro complesso intersecarsi in un continuo susseguirsi di cicli di apertura e chiusura, di mutua interdipendenza e brusca rottura. Sempre sul tema dell’Islam in Cina si colloca l’articolo di Maria Jaschok, che tratta del ruolo della donna nelle comunità musulmane, in particolare delle predicatrici e della partecipazione attiva delle donne nell’organizzazione delle attività religiose e sociali con un ruolo dirigenziale. Tale peculiare posizione – che tuttavia è circoscritta agli ambienti esclusivamente femminili – viene messa in relazione con l’affermazione di una identità cinese musulmana all’interno della umma e con l’incoraggiamento e il sostegno dello Stato e del Partito Comunista Cinese. L’articolo riporta anche due biografie che illustrano concretamente l’analisi dell’autrice. Pier Francesco Fumagalli traccia una breve storia della presenza degli ebrei in territorio cinese e dei loro contatti con la Cina, a cominciare dalla comunità di Kaifeng, sin dal XII secolo, mettendone in evidenza alcune caratteristiche. Del sistema delle colonie militari e degli insediamenti agricoli tuntian ha accennato l’articolo di Alessandra Cappelletti e su un analogo fenomeno ritorna seppur di sfuggita anche Qi Jinyu per l’area fra Qinghai e
Gansu: l’autore ci offre una panoramica generale sulla storia degli studi riguardanti le genti Mongour/Tu, soffermandosi sull’evoluzione degli approcci riscontrata nell’arco di circa un secolo. Il termine Mongour indica tradizionalmente lo specifico gruppo etnico del Qinghai, che è poi la dicitura usata dalla stessa gente del posto per autodefinirsi. Questa denominazione è stata poi rimpiazzata da quello di Tu (autoctono, locale) a seguito delle politiche di categorizzazione etnica degli anni Cinquanta. Vengono citate anche le fonti, le cronache locali, le compilazioni dinastiche, le genealogie di note famiglie nobiliari, le indagini etnolinguistiche di ricercatori russi e altri eminenti lavori curati dai padri missionari europei di inizio XIX secolo. L’articolo fornisce infine alcune linee guida per l’analisi dell’etnogenesi di tale gruppo etnico, le sue successive fasi di sviluppo storico, le differenziazioni dei tratti culturali a seconda delle aree geografiche, la struttura socio-economica e politica. Zhang Xi affronta il tema del conflitto fra tradizione e modernità, identità e centralismo: i temi riguardano la conservazione della cultura tradizionale locale e le possibilità di un modello di sviluppo endogeno o partecipativo, che coinvolga direttamente le comunità interessate nei progetti di sviluppo supervisionati a livello centrale, come nel caso di un turismo sostenibile in aree con forte concentrazione di minoranze etniche. Nel caso in questione riguarda la regione ai confini nord-occidentali della provincia del Sichuan, che ospita forse una delle forme più originali e interessanti della cultura tibetana al di fuori del Tibet, la cultura Derge. All’introduzione storico-geografica della regione segue una riflessione sul concetto di sviluppo e la proposta di alcune caute soluzioni in materia istituzionaleamministrativa per sollevare l’economia di una zona così difficilmente avvicinabile per via dell’alta quota, e le difficoltà di comunicazione. L’articolo raccomanda uno sviluppo turistico la cui pianificazione e implementazione sia in grado di riflettere appieno la volontà dei residenti e delle minoranze etniche coinvolte. Ad esempio, constatato che i templi costituiscono centri di socializzazione e aggregazione locale, si propone che essi possano fungere da cardine per promuovere lo sviluppo turistico della zona. Cristiana Turini, dopo avere descritto l’habitat dei Naxi del Lijiang, e avere accennato ad una questione di classificazione etnica contestata, affronta alcuni temi come lo sviluppo economico, il turismo, il rapporto fra modernità, tradizione e identità. Si sofferma infine sulle trasformazioni della religione tradizionale – basata su manoscritti rituali, e incentrata su cerimonie officiate dai sacerdoti dongba per il conseguimento della buona salute e della prosperità – in “cultura dongba”. Mauro Mazza presenta il quadro legislativo relativo alle autonomie e minoranze, da un lato, e gli aspetti concreti più problematici della tutela delle
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minoranze e soprattutto della libera espressione del dissenso nel loro interno, dall’altro, offrendo un’interessante prospettiva delle questioni che si presentano nell’attuazione concreta delle norme relative alle autonomie e alle minoranze. Ignazio Castellucci esamina i contenuti e le riforme che stanno dietro lo slogan One Country, Two Systems lanciato da Deng Xiaoping negli anni Ottanta. Tali riforme hanno contribuito a cambiare la Cina degli ultimissimi decenni. L’articolo mette in rilievo come gli effetti e gli obiettivi di tale politica non si limitino al campo economico. Non meno importante è stato ed è tuttora l’aspetto costituzionale e istituzionale che è applicato ai due territori di Hong Kong e Macao, tornati alla sovranità cinese nel 1997 e 1999 rispettivamente con lo status di Special Administrative Regions, ma che in prospettiva costituisce la base per la soluzione del problema di Taiwan. Daniele Cologna affronta alcuni nodi dei rapporti con i tibetani, attraverso il “mito di Shangri-La”. Il suo articolo è un saggio di storia della mentalità, perché descrive la rappresentazione collettiva della cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo, con le sue peculiarità e le varie implicazioni. Tale mito non è una pura utopia esotizzante, perché è in grado di combinare rappresentazioni identitarie egemoniche e minoritarie, attraverso il recupero o la reinvenzione di tradizioni culturali e religiose antiche. Esso è espressione di una aspirazione ad una certa “purezza morale perduta” e al ritorno ad una natura incontaminata, aspirazione che abbina l’analogo archetipo sviluppatosi nel subconscio dell’Occidente fin dal primo Novecento ad una crescente attrazione che incrementa la macchina di un turismo “spirituale” e allo stesso tempo la spinta ad un “riequilibrio” demografico in loco. Dando vita a crescenti forme sincretiche di buddismo sino-tibetano, contribuisce alla formazione di un’identità nuova, sino-tibetana, che i cinesi non etnicamente tibetani possono percepire come elemento essenziale della propria identità. Thomas Rosenthal e Alberto Rossi riportano il caso estremamente interessante del veloce successo e dell’altrettanto repentina caduta e misteriosa scomparsa di un imprenditore uiguro. Infine, la posizione ufficiale delle autorità sulla situazione del Tibet e sulla politica nei confronti dei tibetani è lapidariamente presentata nell’intervista di Rita Fatiguso a Dong Yunhu. Dall’esame della storia di lungo periodo, nell’ultimo millennio si ricava l’impressione che la politica delle autorità centrali nei riguardi delle minoranze sia caratterizzata da una alternanza pendolare di tendenze ora verso l’accettazione di un pluralismo, ora verso la centralizzazione e il controllo. Tale oscillazione – secondo la maggioranza dei contributi – sembra riproporsi nella politica di questo sessantennio, seppure con metodi e sensibilità differenti rispetto al passato. Specie se dalla teoria si passa alla pratica, non sembra che
ancora la valorizzazione attiva degli elementi locali abbia raggiunto un livello soddisfacente, sia nel campo dell’istruzione che della programmazione economica e dello sviluppo culturale. Nonostante ciò e la persistenza di notori casi repressivi, notevoli progressi sono stati fatti nel campo della istruzione, con il prolungamento dell’età scolare anche nelle aree più remote, l’incentivazione della partecipazione scolastica, l’incremento dell’accesso all’istruzione superiore, gli indubbi miglioramenti nell’assistenza sanitaria, il generale innalzamento delle condizioni di vita, l’adozione di politiche preferenziali. E tuttavia emerge anche il persistere sotto varie forme dell’eredità di un certo sciovinismo a cui fa riscontro in vari casi la chiusura di segmenti di certe comunità locali al dialogo, che mettono in discussione l’effettiva realizzazione di un modello di sviluppo endogeno o partecipativo, come pure il coinvolgimento diretto delle comunità interessate nei progetti di sviluppo. In questo senso riscontriamo una certa continuità con il passato, anche se ovviamente le categorie utilizzate e il contesto ideologico, come pure la realtà socio-economica sono completamente mutati. Sono grato a tutti gli autori che hanno contribuito con impegno alla presentazione di alcuni frammenti di questa realtà. Vorrei infine ringraziare Thomas Rosenthal e la redazione di Mondo Cinese per la loro preziosa collaborazione, e la Scuola di Etnologia e Sociologia dell’Università Centrale delle Nazionalità (Zhongyang Minzu) di Pechino, che è convenzionata con la Sapienza di Roma e l’Università Orientale di Napoli, e che sta cooperando attivamente con l’Italia sia in campo didattico che scientifico. Paolo Santangelo
NOTE 1. Per una riflessione generale sulla questione si vedano Lipman, Millward, Crossley, Perdue (questi ultimi due si occupano principalmente di Cina d’epoca Qing, mentre i primi due analizzano anche tematiche attuali) e altri studiosi dei “border studies”. Questi ultimi, partendo da un’analisi di tipo storico, forniscono un interessante chiave di lettura del tema del multiculturalismo cinese (o della coesistenza di più frame culturali direbbe più propriamente la Crossley) e di come questo multiculturalismo di fatto sia chiamato ad esprimersi entro i meccanismi politici e le dinamiche culturali dettate da un organismo statuale unitario. Si veda Jonathan Lipman ad esempio, il quale nel suo Familiar Strangers: A history of Muslims in the northwest China, Seattle-London, University of Washington Press, 1997, non senza una sottile vena critica, esamina la natura dell’etnicità e della “periferia” in rapporto alle comunità musulmane cinesi, e ribadisce in modo convincente quanto sia “moderno” il rapporto fra minzu paradigm e nation state, seppure in qualche modo erede dalle categorie identitarie usate nella Cina tardo imperiale (Introduction). Distinguendo il “progetto di civilizzazione” dalla conquista militare, Steven Harrell identifica tre “progetti” dove un centro si fa carico di civilizzare dei gruppi periferici nella storia moderna cinese: il Progetto Confuciano nel periodo repubblicano, il Progetto Cristiano
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nella politica missionaria occidentale, e il Progetto Comunista (Stevan Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontiers, Seattle, University of Washington Press, 1995, pp. 9-27). 2. È chiaro che ogni categoria è storicamente “provvisoria” e “strumentale”, e che insufficienti si dimostrano la nozione di Stato-nazione, come pure quella di etnia, di razza, di religione e di lingua. Basta riconsiderare il passato, e le denominazioni dei vari gruppi etnici, dai jurchen agli uiguri, ci appaiono come delle etichette spesso applicate arbitrariamente a popolazioni di origini, culture, talvolta di lingue diverse. 3. Alcuni studiosi mettono in discussione la dicotomia di maggioranza-minoranze etniche prima del XIX secolo, mettendo in rilievo un’opera di “creazione” da parte della maggioranza Han, e ribaltando concetti consueti di centro e periferia, di mainstream confuciano e margini. Categorie collettive, etichette, auto-identità sono sempre soggettive e “strumentali”, e in ogni caso le realtà oggettive sono sempre più complesse. Comunque se pure si può parlare di “creazione” in senso moderno, rimane il fatto che fosse assodata nella coscienza dei letterati l’esistenza di una “maggioranza Han”, almeno dai Song in avanti. Basti pensare a quanto scrivono Gu Yanwu e Wang Fuzhi, alla fine Ming, ed è chiaro che esisteva una coscienza di questa “civiltà” distinta dagli “altri”, che si integrava con la dicotomia civiltà-barbari – per quanto mistificante o “colonizzante” si possa definire con la sensibilità moderna. Un’interessante testimonianza della rappresentazione delle minoranze si trova in Quello di cui il Maestro non parlava (Zi bu yu) di Yuan Mei (1716-1797). In alcuni racconti del capitolo 21, lo scrittore descrive gli usi dell’etnia Li in Hainan: si dividono in due gruppi – scrive Yuan – quelli incolti (sheng) e quelli civilizzati (shu), di cui i primi vivono fra le montagne e non si adeguano alle norme civili, mentre i secondi rispettano i funzionari. E poi descrive una serie di usanze strane, come le magie delle donne, le forme contrattuali per le transazioni, i costumi matrimoniali più liberi di quelli cinesi. Anche se non manca di simpatia per tali popolazioni, le descrizioni denotano un certo esotismo. È chiaro che con l’impero mancese la questione della maggioranza Han assume un carattere diverso dal periodo precedente, ma ancora il sistema della c.d. diarchia è una controprova di tale consapevolezza (sull’espansione Qing ad occidente e sul loro impero “multiculturale”, vedasi Peter C. Perdue, China Marches West: The Qing Conquest of Central Eurasia, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006). È poi evidente che una certa “creazione” si ha ad opera dei nazionalisti e dei repubblicani, attraverso la mediazione linguistico-ideologica giapponese, con la recezione di concetti occidentali (Dru C. Gladney, Representing Nationality in China: Refiguring Majority/Minority Identities “The Journal of Asian Studies”, vol. 53, n. 1, 1994). Sulla contestualizzazione storico-sociale” del concetto di nazione e di nazionalismo in generale, vedasi il basilare studio di Benedict R. Anderson, Imagined communities: reflections on the origin and spread of nationalism (edizione rivista e ampliata), Londra, Verso, 1991. Sulla rappresentazione dell’“altro” nel periodo tardo imperiale, vedasi P. Santangelo, Materials for an Anatomy of Personality in Late Imperial China, Leiden, Brill, 2010, pp. 195-211. Alcuni studiosi contemporanei ridiscutono la costruzione delle categorie identitarie, considerando ogni questione etnica non più come il riflesso di un determinato tratto ereditario, immutabile e privo di ogni sorta di flessione verso l’esterno, bensì quanto un’entità relazionale creata in opposizione ad altri gruppi in competizione per l’accesso a nuove risorse (materiali o simboliche) e in risposta a specifiche linee politiche. 4. Precisamente tali politiche sono iniziate negli anni Cinquanta e si sono protratte poi per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Si distinguono in tutto tre momenti: 1950-1954, in cui sono stati distinti ben 38 gruppi; 1954-1978, ai precedenti sono stati aggiunti altre 16 etnie; 1978-1987, l’ultimo gruppo etnico minoritario ad ottenere pieno riconoscimento sono stati i Jinuozu, nel giugno del 1979 dopodiché la struttura 55 (minoranze) + 1 (Han) che costituisce l’ossatura della Zhonghua minzu è stata formalmente riconosciuta. Riguardo le ragioni che stanno alla base di tale linea politica, Ma Rong in Minzu yu shehui fazhan, Ed. Minzu Chubanshe, 2007, pp. 123-124, si esprime nel seguente modo: 1. molti gruppi etnici delle aree di frontiera, in specie quelli del sud-ovest di Yunnan, Guizhou, Sichuan ecc. presentavano una struttura sociale assai complessa, e lo Stato fino agli anni Cinquanta di esse conosceva assai poco. Al fine di rafforzare la conoscenza verso tali realtà e di far si che tali gruppi potessero aver accesso ad un livello di modernizzazione, si dette inizio alle politiche di minzu shibie; 2. uniformarsi alle politiche di uguaglianza fra i popoli pingdeng zhengce promosse dalla Russia staliniana, secondo le quali una volta che lo status di etnia viene riconosciuto ad un determi-
nato gruppo non potrà più essere cambiato se non senza l’autorizzazione del governo centrale. Lo status di etnia non ammette ambiguità e per questo non può essere messo in discussione. Se tale status non potrà essere definito in maniera chiara le politiche di uguaglianza dei popoli non potranno essere espletate. Sono grato a Tommaso Previato per le sue informazioni e i suggerimenti. Il recente volume di Thomas Mullaney (Coming to Terms with the Nation: Ethnic Classification in Modern China, Berkeley, University of California Press, 2011) offre un nuovo contributo sul processo di classificazione delle nazionalità in Cina, ridimensionando l’idea di una esclusiva subordinazione al modello staliniano, per mettere in rilievo la duttilità e varietà dei metodi, specie per le procedure adottate nello Yunnan nel 1954. 5. Si tratta di benefici stabiliti dalle youhui zhengce “politiche preferenziali”. 6. Un Han che si converte all’Islam, anche se in quanto a credo religioso presenterà certe particolarità come non mangiare carne di maiale, praticare la circoncisione ecc., “di sangue” rimane pur sempre Han e la sua conversione non cambia le sue origini. Si capisce quindi che tutto ciò implica per le persone in questione una scelta strategica per godere di particolari privilegi. 7. Per i Zhuang, vedasi Took Jennifer, A Native chieftaincy in Southwest China: franchising a Tai chieftaincy under the Tusi system of late imperial China, Leiden, Brill, 2005. Sulla molteplicità degli interessi in campo, si veda ad esempio Kim Hodong, Holy war in China: the Muslim rebellion and state in Chinese Central Asia, 1864-1877, Stanford, Stanford University Press, 2004, che fa luce sui conflitti di legittimità fra tungani e popolazioni turche, fra signori della guerra, notabili locali e religiosi sufi nella rivolta di Yaqub beg. Per un quadro generale dell’amministrazione Ming e Qing delle aree “marginali”, vedasi P. Santangelo, Aggregazioni sociali, legalità e illegalità. L¹impero cinese agli inizi della storia globale. Società, vita quotidiana, e immaginario, vol. III. Roma, Aracne, 2011, pp. 118-120, 130-138. 8. An Jiesheng 安介生, Bianjie: biandi yu bianmin - Ming Qing shiqi beifang biansai diqu buzu fenbu yu dili shengtai jichu yanjiu 邊界. 邊地與邊民-明清時期北方邊塞地區部族分佈與地理生態基礎研究, Qilu shushe 齐鲁书社, 2009. Alcuni recenti studi occidentali contestano alla politica governativa la creazione di una immagine delle minoranze come esotiche, primitive, folcloristiche, a fronte di una maggioranza han moderna e monolitica (Gladney 1994, Thierry François, Empire and minority in China, in Gérard Chaliand (a cura di), Minority Peoples in the Age of Nation-States, London, Pluto Press, 1989). 9. V. il libro (ce) 30 sul Guangxi del Tianxia junguo libing shu. Tali movimenti interessarono d’altronde la stessa popolazione Han, che emigrò nel Guangxi prevalentemente nel periodo Ming e Qing, dal Guangdong e dallo Hunan (Wiens Herold, Han Chinese Expansion in South China, Hamden, The Shoe String Press, 1967). 10. Ad esempio nel Xinjiang all’epoca Qing analogo per certi versi alle soluzioni dello Yunnan è il sistema dei beg e dei rappresentanti musulmani (James A. Millward, Beyond the Pass: Economy, Ethnicity, and Empire in Qing Central Asia, 1759-1864, Stanford, Stanford University Press, 1998). 11. Il ruolo dello Stato imperiale nelle “periferie” è estremamente variegato, ed è esercitato normalmente attraverso la politica commerciale, e quella di relazione con i vari strati sociali, l’accomodamento con numerose minoranze etniche di frontiera, ora con la repressione, ora con il dialogo culturale. L’azione delle autorità è svolta in modi molto complessi tanto che non può essere ridotta a pura assimilazione (Pamela Kyle Crossley - Helen F. Siu - Sutton Donald S. (a cura di), Empire at the Margins: Culture, Ethnicity, and Frontier in Early Modern China, Berkeley, University of California Press, 2006). Quanto alle minoranze musulmane, Ben-dor Benite Zvi, The Dao of Muhammad: a cultural history of Muslims in late imperial China, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2005, mette in evidenza il dialogo che intercorre fra letterati confuciani e musulmani, e dimostra come nel corso dei secoli si istauri una rete di comunicazione fra i vari gruppi di musulmani presenti alla frontiera e all’interno, con la creazione e circolazione di un vasto corpo di scritti musulmani cinesi, il c.d. Han Kitab. 12. Con la dominazione mongola si può parlare di un vero processo di “empowerment” delle élite locali che fino a prima degli Yuan non erano state investite di alcun potere dall’autorità centrale (cfr. i capitoli 4 e 5 della tesi di dottorato di Previato, che sarà discussa nel giugno 2012 presso l’università Minzu). 13. Crossley - Siu - Sutton 2006; Robert Darrah Jenks, Insurgency and social disorder in Guizhou: the “Miao” Rebellion,
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1854-1873, Honolulu, HI, University of Hawai’i Press, 1994; Nicola Di Cosmo, Qing Colonial Administration in Inner Asia, “International History Review” 20.2, 1998; James A. Millward, Beyond the Pass: Economy, Ethnicity, and Empire in Qing Central Asia, 1759-1864, Stanford, Stanford University Press, 1998. 14. Hamashita Takeshi, The tribute trade system and modern Asia in A.J.H. Latham - Heita Kawakatsu (a cura di), Japanese Industrialization and the Asian Economy, New York: Routledge, 1994. 15. Huang Fensheng 黃奋生, Bianjiang zhengjiao zhi yanjiu 邊疆政教之研究, Shanghai, Shangwu yinshunguan 上海: 商務印書館, 1947. 16. Herold Wiens, Han Chinese Expansion in South China, Hamden, The Shoe String Press, 1967. 17. She Yize 佘貽澤, Zhongguo tusi zhidu 中國土司制度, Chongqing, Zhengzhong shuju 正中書局, 1944. 18. Wiens 1967. 19. Huang Pei, Autocracy at Work. A Study of the Yung-cheng Perlod, 1723-1735, Bloomington, Indiana University Press, 1974. 20. Jennifer Took, A Native chieftaincy in Southwest China: franchising a Tai chieftaincy under the Tusi system of late imperial China, Leiden, Brill, 2005 (p. 267), osserva: “It would be an exaggeration of the term “buffer state” to use it to describe this tusi as it was part of the Chinese state. However, border tusi did act as a protective fence for China”. 21. Charles O. Hucker, A Dictionary of Official Titles in Imperial China, Stanford, CA, Stanford University Press, 1985. 22. Wiens 1967. 23. Peter C. Perdue, Boundaries, Maps, and Mobile People: The Chinese, Russian, and Mongolian Empires in Early Modern Central Eurasia, “International History Review” 20.2, 1998; Peter C. Perdue, Comparing Empires: Manchu Colonialism, “International History Review” 20.2, 1998; Peter C. Perdue, Embracing Victory, Effacing Defeat: Rewriting the Qing Frontier Campaigns, in Diana Lary (a cura di), Chinese State at the Borders, Vancouver, University British Columbia Press, 2007; Dorothea Heuschert, Legal Pluralism in the Qing Empire: Manchu Legislation for the Mongols, “International History Review”, 20.2, 1998; Charles Patterson Giersch, “A motley throng”: social change on southwest China’s early modern frontier, 1700-1880, “Journal of Asian Studies”, 60.1, 2001.
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Mondo Cinese
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese Mauro Crocenzi
Both in China and in Western countries the controversial origin of national consciousness and national identity still prevents from drawing any exact definition of the concept of nation. From the Late-Qing period, following the growth of the political and cultural exchange between China and the West, the Chinese elites tried to shape an idea of Chinese nation, through the sharing of a new understanding of imperial history and of the relationships that different ethnic groups had preserved with the imperial house throughout the centuries. The contemporary concept of “minzu” is the result of China’s political struggle to become a modern nation; just like the nation, it involves both political and ethnic meanings. Moreover, it has both foreign and local roots. During the last decades, some Chinese scholars have tried to abstract the concept of “minzu” from its colonialist roots, in search of some “Chinese characteristics”, grounded on ideological, cultural and historical background1. Ammesso al dottorato in Civiltà, culture e società dell’Asia e dell’Africa presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma. Collaboratore dell’agenzia di stampa italiana China-Files
A
lla fine degli anni Ottanta, l’antropologo Fei Xiaotong (19102005)2 espose una tesi sul modello di “unità pluralistica” della nazione cinese (中华民族多元一体格局, Zhonghua minzu duoyuan yiti geju)3. Questa teoria resta ancora oggi tra le più autorevoli in Cina, sia per la validità che le viene riconosciuta negli ambienti accademici, sia perché costituisce un’argomentazione scientifica delle tesi del governo cinese, che definisce la Cina come uno Stato unitario e multietnico (统一多民族国家, tongyi duo minzu guojia). La tesi di Fei Xiaotong costituisce un importante punto d’arrivo nel confronto che teorici politici e intellettuali cinesi hanno intrattenuto per circa un secolo con i concetti di nazionalità, nazione ed etnia, categorie a metà tra scienze politico-giuridiche, storiche e antropologiche. Tanto in Occidente quanto in Cina questi concetti si trovano al centro di un dibattito tutt’altro che concluso4. Gli sconvolgimenti politici apportati dal colonialismo europeo in Asia orientale determinarono la riconfigurazione dei rapporti diplomatici attraverso l’enfatizzazione dei concetti di sovranità e territorialità nelle re-
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 29 lazioni fra i diversi poli di potere. Il modello politico di “Stato-nazione”, legittimato dagli impeti rivoluzionari ottocenteschi europei, andò così a intaccare la concezione del potere vigente nella Cina imperiale a cavallo del XX secolo. Tale cultura politica, fortemente debitrice del contributo della dinastia mancese Qing, combinava l’effettiva supremazia dell’autorità centrale imperiale con una concezione simbolica del potere, in grado di estendere nominalmente l’autorità dinastica su un territorio molto vasto e abitato da diverse popolazioni. Questo complesso simbolismo politico combinava le tradizionali teorie cosmologiche di matrice confuciana con il contributo di altre civiltà, come ad esempio quello buddhista tibetano5. Tra gli ultimi anni della crisi della dinastia Qing e gli albori della Repubblica cinese, pensatori e attivisti, riformisti e rivoluzionari si fecero portavoce di un nuovo modello di sovranità cinese, che forgiava il concetto di nazione cinese o Zhonghua minguo (中华民国) e consegnava a un’autorità centrale il potere effettivo, da esercitare all’interno di confini ben delimitati, incluse aree e regioni – come ad esempio il Tibet o lo Xinjiang – ove storicamente l’impero aveva goduto più di un riconoscimento nominale che di un potere decisionale concreto6. Lo Stato-nazione europeo mirava alla definizione ideale di un unità in cui l’identità etnica si realizzava pienamente nei confini di un’unità politica. Dalla coincidenza tra etnia e Stato scaturiva la nazione ottocentesca, che faceva dell’idea di razza, della coscienza popolare nazionale e della partecipazione politica gli elementi essenziali di una nuova cultura politica7. Le due guerre mondiali e il nuovo ordine che ne scaturì avrebbero mutato la concezione di sovranità in Occidente, oltrepassando l’ideologia nazionalista e riducendo l’autorità dei poteri centrali. Tuttavia, nella sua nascita, la Repubblica cinese rimase strettamente legata all’idea ottocentesca di Stato-nazione, segnando una decisa rottura con il passato. Nella Cina tardo-imperiale vigeva un ordine in cui si registrava un’interazione tra diversi gruppi etnici e diversi poli di potere, che si rifletteva in un’autorità politica frammentata, ma sublimata dalla centralità simbolica della funzione imperiale. Tale centralità era in parte riconosciuta dalle unità politiche ai margini dell’impero, in quanto fonte di legittimazione a livello locale, e in parte amplificata dalla storiografia ufficiale imperiale. Per questo motivo oggi è difficile capire in che misura popolazioni come quelle tibetane, dell’Asia centrale e della Cina sud-occidentale si riconoscessero all’interno del sistema imperiale8. Al fine di instaurare uno Stato moderno, unitario e centralizzato, i nazionalisti cinesi introdussero l’idea di una nuova forma di coesione politica, una forza che si rifaceva all’immaginario nazionale e che operava – attraverso il nazionalismo han – nel nome dell’ideale di integrazione fra le diverse unità etniche che avevano interagito con il centro imperiale. Pur discostandosi dall’universalismo multietnico di epoca tardo-imperiale, il nuovo potere dovette comunque rapportarsi con la base eterogenea della nuova Cina, essendosi proclamato ereditario della sovranità su molteplici
Alla sua nascita, la Repubblica cinese si lega all’idea ottocentesca di Stato-nazione
POLITICA INTERNA gruppi etnici, spesso dotati di proprie credenze religiose, tradizioni culturali, quando non di veri e propri sistemi socio-politici e linguistici peculiari. In tale contesto l’élite politico-culturale cinese, a partire dai teorici repubblicani, come Sun Zhongshan e Liang Qichao, fino ad arrivare al governo di Nanchino e anche ai teorici maoisti e post-maoisti, ha dovuto fare i conti con il bisogno di armonizzare la necessità politica dell’unità nazionale e la base culturalmente ed etnicamente eterogenea all’interno di una “moderna” nazione cinese9. C’è dunque un filo di continuità che unisce l’ideale evoluzionista della “grande armonia” delle cinque “razze” di Sun Zhongshan, il “destino storico” della nazione cinese professato da Jiang Jieshi e dal Guomin dang, la politica di riconoscimento delle minoranze etniche compiuta dal Partito comunista cinese (Pcc) e la teoria dell’unità pluralistica della nazione cinese, elaborata negli anni Ottanta da Fei Xiaotong. Questo filo è rappresentato proprio dalla necessità di fare i conti con la doppia essenza politica della Repubblica cinese, allo stesso tempo nazione unitaria e crogiolo multietnico. Tuttavia, va ugualmente riconosciuto un mutamento di posizioni nel tempo: oggi in Cina è pratica comune la denuncia della teoria sulla nazionalità di epoca nazionalista, perché volta all’assimilazione piuttosto che al riconoscimento del particolarismo etnico. Malgrado i chiari intenti politici, la distinzione compiuta dai comunisti non può dirsi completamente infondata: in una fase storica in cui la Cina fu colpita dalla presenza di forze centrifughe, che si estesero all’interno del territorio rivendicato dalle autorità centrali come “nazionale”, la retorica ufficiale fu improntata maggiormente all’ideale supremo di unità. Ciò non toglie che, in occasione dei negoziati con le autorità locali, il Guomin dang fu molto più aperto al compromesso, poiché partiva da una posizione di gran lunga meno favorevole rispetto ai comunisti che, al contrario, sarebbero riusciti a instaurare un potere centrale moto più efficace. Ad esempio, il governo di Nanchino lasciò presagire in Tibet un riconoscimento di autonomia ben più marcato di quanto avrebbe fatto intendere l’Accordo in diciassette punti nel 195110. Queste distinzioni, enfatizzate dalla contesa tutta ideologica tra Guomin dang e Pcc, non mettono comunque in discussione che nella Cina post-imperiale riformisti e rivoluzionari, repubblicani e comunisti adottarono tutti un linguaggio comune nella rilettura dei vincoli etno-politici interni all’impero, un linguaggio in cui nazionalismo ed evoluzionismo costituirono i punti cardine del processo di riconfigurazione politica. La questione nazionale alla nascita della Rpc Alla fondazione della Repubblica popolare cinese (Rpc), l’identità di tutte le minoranze nazionali era già stata incanalata su binari che avrebbero portato al riconoscimento – talvolta persino alla creazione – di unità etniche a sé stanti. Il principale riferimento teoretico in rapporto alla defi-
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 31 nizione dell’idea di “nazione” era rappresentato dalla rigida definizione commissionata da Lenin e redatta nel 1913 da Stalin11. Tuttavia, a differenza dell’URSS, le minoranze avrebbero goduto di un riconoscimento ufficiale solo all’interno dei confini nazionali, realizzabile grazie alla proclamazione del principio di uguaglianza12. Questo espediente da un lato sposava l’idea di preservazione culturale, ma dall’altro avrebbe accentuato la retorica marxista sullo sviluppo delle minoranze e – di conseguenza – sull’omologazione a modelli unitari, visualizzati negli ideali socialisti e spesso antitetici ai sistemi vigenti nelle aree popolate dalle minoranze. Il riconoscimento dall’alto del particolarismo locale avrebbe implicato di ritorno quello di un’entità politica e delle sue istituzioni centralizzate, la Cina popolare rappresentata dal Partito. Il riconoscimento del nuovo Stato e della sua ideologia sintetizzava e trascendeva le differenze etno-culturali e ricercava nella propaganda patriottica e anti-imperialista un ulteriore motivo di coesione13. Riprendendo l’impostazione assunta dal Guomin dang, la principale argomentazione della nazione comunista cinese sul piano accademico venne ricercata in ambito storico, non solo enfatizzando l’aggressione coloniale e la funzione anti-imperialista della nazione cinese, ma soprattutto esplorando i processi di interazione secolare (politica, economica, religiosa, culturale, linguistica...), che secondo gli studiosi cinesi avrebbero unito indissolubilmente i diversi gruppi in un comune destino storico14. La politica di riconoscimento dei gruppi nazionali portò così alla nascita di unità amministrative autonome su più livelli: province, prefetture e contee. Il fondamento teorico adottato dai comunisti – non esente da considerazioni strategiche – spinse però la dirigenza a non creare esclusivamente unità autonome di natura etnica (vale a dire regioni che provassero a coincidere con il territorio occupato da singole etnie), ma anche di natura regionale, portando alla luce – specie nelle zone di confine – unità politiche non per forza etnicamente coese ma comunque integrate storicamente15. In base a questi presupposti l’idea di nazione venne concepita in termini evoluzionisti, ricollegandosi in tutto e per tutto alla teoria marxista. Per gli studiosi comunisti cinesi ogni nazione avrebbe attraversato tre fasi, quella di formazione (形成, xingcheng), quella di sviluppo (发展, fazhan) e quella di estinzione (消亡, xiaowang). L’estinzione delle nazionalità non era visualizzata nella distruzione delle identità minoritarie, ma nella loro ridefinizione di un comune destino storico, ovvero nella loro naturale fusione (融合, ronghe) all’interno di una nuova forma di coscienza, tutta ideologizzata, che oscillava tra nazionalismo e socialismo16. La rinascita degli studi sui concetti di nazione e di etnia All’indomani delle distruzioni portate dalla Rivoluzione culturale, la dirigenza cinese riprese le fila di una politica etnica, ricorrendo ancora una volta al principio del riconoscimento delle minoranze all’interno del prin-
Il riconoscimento dei gruppi nazionali porta alla nascita di unità amministrative autonome
POLITICA INTERNA
L’indagine accademica attuale sui concetti di etnia e nazione
cipio unitario della nazione cinese. Tuttavia, la transizione dalla società maoista all’apertura segnò anche delle discontinuità nella considerazione del concetto di nazione. La crisi dell’ideologia socialista spostò la definizione della nazione cinese in un ambito prettamente nazionalistico, svuotandola dei vecchi riferimenti all’internazionalismo socialista. Al contrario, degli anni Cinquanta venne recuperata la condanna del nazionalismo han e di quello separatista locale, riflesso dell’avanzamento della nuova politica di tolleranza e apertura. Negli anni Ottanta in Cina si respirava un clima liberale, che fu pieno di ripercussioni in ambito accademico. Discipline come quelle dell’etnologia e dell’antropologia trassero nuova linfa e sembrarono dare delle prospettive per lo sviluppo di una ricerca scientifica maggiormente scevra di vizi ideologici17. Negli anni Cinquanta, le discipline antropologiche erano sostanzialmente rimaste ancorate alla ricerca sul campo per l’enorme lavoro di riconoscimento delle minoranze. Dagli anni Ottanta la ricerca scientifica cinese gettò le basi per una definizione più sistematica della nazione cinese. Nonostante il clima di apertura, non ci fu un completo distacco dalla necessità ideologica, tanto nel requisito nazionalista dell’unità della patria quanto nel precetto marxista sulle tre fasi di formazione, sviluppo ed estinzione della nazione. All’inizio degli anni Novanta, la crisi dei sistemi socialisti sovietico e jugoslavo spinse a una ridiscussione del multietnicismo cinese, mentre i fatti di Tian’an Men e la rivolta in Tibet richiesero la ricerca di una nuova legittimazione dei principi alla base della nazione cinese. Lo sviluppo di una prospettiva storico-culturale provvista di un fondamento scientifico e la necessità politica conversero così nell’articolazione di una nuova definizione della nazione cinese, non in aperto contrasto con quella marxista e maoista, ma più esposta all’esterno, che guardava alle tesi sul multiculturalismo e sull’etnicità che prendevano piede dagli Stati Uniti18. Oggi, in Cina, l’indagine sui concetti di etnia e nazione (民族理论, minzu lilun) rappresenta una branca autonoma della ricerca accademica. A partire dagli anni Ottanta, questo vasto campo di ricerca si è staccato in maniera più o meno velata dai classici di Lenin e Stalin senza però mai rinnegarli, ma anzi riconducendosi ad essi secondo un’ottica progressiva della ricerca. A testimonianza di questo distacco va tuttavia osservato come dalla vecchia impostazione marxista gli scritti si siano avvicinati a problematiche molto familiari per chi in Europa si è occupato della spinosa questione della caratterizzazione dell’idea di nazione: la prospettiva evoluzioniste e internazionaliste hanno lasciato spazio a riflessioni sull’essenza del concetto di nazione, sul suo significato politico o etnico, sulla sua natura derivata dall’Occidente, sul suo rapporto con la categoria di “etnia” e sulla sua estendibilità nel tempo e nello spazio19. Gli studi scientifici sono stati articolati in diverse sub-categorie, che hanno per oggetto un differente ambito di ricerca. Tra i principali settori rientrano il concetto di nazione (民族概念, minzu gainian), le teorie sulla
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 33 nazionalità di Mao Zedong, Deng Xiaoping e altre figure cardine nella storia della Rpc, il concetto di coscienza etno-nazionale (民族意识, minzu yishi o 民族自觉, minzu zijue), la questione etnica (民族问题, minzu wenti), le relazioni tra nazionalità (民族关系, minzu guanxi), le politiche etniche e per le minoranze (民族政策, minzu zhengce) e la questione dell’uguaglianza tra gruppi nazionali (民族平等, minzu pingdeng)20. La tesi sull’unità pluralistica della nazione cinese Il prof. Fei Xiaotong presentò la sua teoria in occasione di una conferenza che si tenne alla fine del 1988 all’Università cinese di Hong Kong, per poi pubblicarla l’anno successivo assieme ad altri saggi di diversi studiosi. La teoria conta di un’introduzione, undici capitoli e alcuni suggerimenti per il futuro. La prospettiva adottata faceva proprio lo spirito evoluzionista di epoca repubblicana e della prima decade maoista. Il prof. Fei si sforzava di trovare nell’interpretazione storica la ragione di essere della nazione cinese, sfruttando i risultati delle ricerche archeologiche cinesi: dall’analisi del periodo preistorico egli si soffermava sulla formazione e lo sviluppo dei gruppi nazionali ufficialmente riconosciuti dalla Rpc, di cui ripercorreva i contatti e i flussi migratori. La conclusione ribadiva un concetto dotato di antiche radici: la Cina era una nazione sviluppatasi sull’onda di scambi e contatti, da cui erano scaturiti processi di fusione e assimilazione fra i diversi gruppi etnici21. Per definire in inglese la formula di duoyuan yiti, il prof. Fei impiegò nella sua opera l’espressione “diversità nell’unità”. Tuttavia, in questo articolo abbiamo deciso di adottare la definizione di “unità pluralistica”, una traduzione a nostro avviso più fedele, poiché la parola duoyuan, in cinese, corrisponde all’idea di molteplicità più che a quella di diversità. Come anticipato, l’idea di base è quella del riconoscimento del principio multietnico e della necessità di non rendere tale principio antitetico all’unità nazionale. L’evoluzionismo di Fei Xiaotong comportava una presa di distanza da una concezione essenzialista dell’idea di nazione per assumere una prospettiva gradualista: la nazione non viene considerata come un’unità immutata o astratta dal tempo, ma immersa in un processo di formazione che, secondo alcuni studiosi – tra questi è collocabile anche lo stesso Fei Xiaotong –, nel caso della Cina non sarebbe ancora giunto a pieno compimento22. Da queste basi potevano essere identificate unità “nazionali” di vario livello, superiore o inferiore, a seconda delle dimensioni del gruppo e dello stato dei processi di integrazione interni. In Cina, tanto l’identità nazionale propriamente cinese quanto identità di tipo etnico e maggiormente localizzate vengono definite con la stessa parola, minzu (民族). È una minzu quella cinese, la Zhonghua minzu (中华民族), così come lo sono le minoranze etniche, le shaoshu minzu (少数民族), o il gruppo maggioritario han (汉族, hanzu).
La prospettiva gradualista della concezione evoluzionista di Fei
POLITICA INTERNA Il termine minzu deriva dal giapponese minzoku, a sua volta ispirato dal tedesco volk. La parola minzu, sulla scia del significato che in Europa assunse l’idea di “nazione”, si compone dei caratteri min (民), che sta ad indicare una comunità di uomini, con accezioni che vanno dall’ambito civico a quello popolare,23 e zu (族), ideogramma che suggerisce un raggruppamento di persone legato da vincoli di sangue, come il clan, o qualsiasi linea di discendenza patriarcale24. Nella terminologia ufficiale esistono unità inferiori a quella di minzu, che indicano un grado di coesione o forme di identità minori. Tra queste ci sono gli zuqun (族群), unità avvicinabili a comunità di tipo etnico o provviste semplicemente di omogeneità di tipo linguistico e culturale. Oggi in Cina sono riconosciute cinquantasei minzu e centinaia di zuqun, a testimonianza dell’esistenza di vari livelli di identità. La Cina è perciò un paese dove si registra la presenza non solo di diverse nazioni ma anche di diversi livelli di identità nazionale, a partire da “nazionalità di primo livello” (基层民族, jiceng minzu) per arrivare a una forma di identità di “livello superiore” (高层民族, gaoceng minzu), vale a dire la Zhonghua minzu. A differenziarle non è la loro natura – riconducibile a una forma di coesione e condivisione tra una comunità di uomini dotata di coscienza interna – bensì l’estensione della loro composizione interna e la diversa fase di sviluppo: più ridotta e integrata è la popolazione delle unità di livello inferiore – per quanto non siano comunità completamente omogenee – mentre più ampia e non ancora giunta a un grado di completa assimilazione interna è la nazione cinese25. Una seconda – consequenziale – condizione dell’esistenza della nazione cinese è l’idea che essa non derivi dalla semplice somma dei cinquantasei gruppi nazionali, ma dalla loro interazione e da un livello di combinazione e coesione inscindibile, perché fondato su una coscienza comune e sull’interdipendenza dei vari gruppi per la loro stessa sopravvivenza26. Per questo motivo, un’altra formula plausibile per la resa dell’espressione duoyuan yiti potrebbe essere quella di “integrità pluralistica”, in grado di rendere più approfonditamente le idee di integrazione e di interazione che muovono alla base delle teorie cinesi. Secondo gli studiosi cinesi, il sistema pluralistico e unitario è concepibile infine solo nell’equilibrio di questi stessi termini, poiché uno sbilanciamento verso il termine dell’integrità determinerebbe la negazione della diversità, così come un eccessivo riconoscimento del pluralismo diventerebbe negazione dell’unità della nazione cinese. È chiaro che, anche alla luce dei fenomeni di malcontento che negli ultimi quattro anni hanno colpito le province del Tibet, dello Xinjiang e della Mongolia interna, il risvolto politico di questa teoria è lo screditamento delle spinte separatiste, che sarebbero antitetiche non solo all’unità nazionale ma anche all’interesse delle minoranze etniche. È infatti facile notare come, dal 1911 ad oggi, nella propaganda nazionalista (prima con il Guomin dang, poi con il Partito comunista cinese) la volontarietà e la spontaneità dell’unione siano stati
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 35 proposti come dei valori essenziali all’interno della retorica sullo sviluppo e sulla famiglia della nazione cinese. Secondo lo studio di Fei Xiaotong, la nazione cinese sarebbe il risultato di un processo di edificazione intrapreso migliaia di anni fa sulla base di relazioni stabilite fin dal Neolitico da diversi gruppi, generatisi indipendentemente gli uni dagli altri all’interno degli odierni confini cinesi. Da queste relazioni, supportate da alcuni ritrovamenti archeologici e da testimonianze storiche, si sarebbe generata una prima “base culturale” comune su cui si sarebbe formata la nazione cinese27. L’idea dell’origine parallela di diverse unità etno-culturali rappresenta il fondamento su cui, oggi, l’idea di nazione cinese viene concepita in Cina: in epoca preistorica, lo sviluppo di varie comunità in diversi punti dell’odierno suolo cinese risulta essere dimostrazione della natura sia unitaria sia pluralistica della nazione cinese, poiché contemporaneamente evidenzia un’origine autoctona e di diversi gruppi etnici. La stessa compresenza appare nell’omogeneità territoriale geografica del sub-continente cinese, isolato dall’esterno grazie a imponenti barriere naturali (il deserto a Nord, l’oceano a Est, le foreste tropicali a Sud e le montagne a Ovest), ma allo stesso tempo caratterizzato al suo interno da una vastità ambientale, geografica e climatica28. Nel tempo, i gruppi generatisi sul territorio cinese avrebbero avviato dei processi di associazione e distinzione, che si manifestarono in campo politico-economico, in quello culturale e anche nelle relazioni di sangue. Questi fenomeni determinarono la fusione, l’estinzione e il mescolamento di molteplici unità, da cui scaturì la formazione di due gruppi principali, quello agricolo han e quello nomade dei xiongnu. Secondo quest’ottica, tanto il confronto culturale o economico quanto lo scontro militare funsero da fattori che favorirono l’assimilazione fra le due unità maggiori e quelle minori circostanti, proiettandole in un comune destino storico. Sulla base delle tesi di Fei Xiaotong, gli studiosi cinesi hanno individuato tre fasi nel processo di formazione della nazione cinese. La prima è quella di formazione, un periodo in cui si svilupparono le varie nazionalità attorno a un nucleo coesivo han. Culminata nel primo periodo Qing, questa fase portò al riconoscimento di vari gruppi etnici sotto la stessa unità politica. Il riferimento è al multietnicismo sponsorizzato dalla dinastia mancese, nonché all’unità amministrativa, all’estensione e – in una certa misura – alla territorialità emerse sotto l’impero Qing durante i regni di Kangxi (1662-1722) e Qianlong (1736-1795). La seconda fase corrisponde alla crisi del modello unitario e pluralistico Qing; si tratta dell’epoca coloniale, culminata nella fine dell’impero, nella divisione politica e nell’occupazione giapponese, che a loro volta divennero condizione per lo sviluppo di una coscienza nazionale cinese. L’ultima fase è infine quella della riunificazione sotto la bandiera comunista29. Fei Xiaotong definisce la prima di queste fasi introducendo il concetto di “nazione esistente di per sé” (自在民族, zizai minzu)30. Con tale espres-
La formazione di due gruppi principali: l’agricolo Han, il nomade Xiongnu
POLITICA INTERNA sione egli intende l’esistenza – in tempi già antichi – di una nazione cinese, priva però del fattore determinante della coscienza nazionale (民族自觉, minzu zijue). Una delle parti più interessanti all’interno della tesi di Fei Xiaotong è relativa a questa fase, quando egli affronta le questioni della funzione e dell’identità han. Secondo gli studi cinesi, la formazione del gruppo han sarebbe stata anticipata dalla formazione di un nucleo coeso, definito huaxia (华夏). La transizione dall’identità huaxia e quella han è esemplificativa in rapporto alla caratterizzazione del concetto di minzu. Proprio come per la nazione occidentale, la minzu trova un elemento essenziale nella coscienza. In questo senso l’assunzione di un nome condiviso da parte della comunità in questione è un fattore determinante, in quanto manifestazione di identità, atto di coscienza prioritario. Per Fei Xiaotong il nome han, introdotto dalle popolazioni esterne al potere dinastico Han, entrò in uso tra la comunità in questione solo successivamente alla caduta dell’importante dinastia. Ciò spiegherebbe come il confronto con l’esterno – nel caso degli han si pensi alla dicotomia tra popolazioni agricole e xiongnu – sia un momento essenziale nel processo di formazione di una minzu, stimolando l’auto-definizione di sé31. Per comprendere l’essenza dell’identità han, Fei Xiaotong non fa ricorso a categorie strettamente etniche, riconoscendo che l’unità han accorpava in sé comunità e culture diverse. Al centro dell’identità han egli individua invece un modello di vita economica agricola, contrapposto alla sotto-unità nomade. A questo tratto distintivo aggiungeva poi un generale riconoscimento del maggiore sviluppo tecnico e di una cultura politica condivisa, che portarono al progressivo aumento della popolazione han e la posero al centro dell’impero cinese, cuore dell’ideale di civiltà, in contrapposizione all’elemento barbaro. È proprio in questa direzione che andrebbe ricercata l’essenza della coscienza han, non identità etnica, né coscienza nazionale, bensì una forza quasi spersonalizzata, che trova la sua ragione di essere nella capacità di assimilare – grazie alla sua centralità – e allo stesso tempo recepire, portando a compimento una funzione centripeta e coesiva32. La forza centripeta sprigionata dagli han comportò l’assorbimento graduale di altri gruppi etnici in un sistema condiviso, permettendo contemporaneamente di assimilarne il patrimonio culturale: da un lato le popolazioni nomadi si convertirono ad un’economia di tipo agricolo e vennero integrate in una concezione culturale e sociale di ispirazione confuciana; dal’altro nell’impero vennero accolti sistemi religiosi originariamente estranei ma di notevole impatto culturale, come il credo buddhista e quello islamico. Secondo la tesi di Fei Xiaotong e degli studiosi che sono seguiti, l’essenza della nazione cinese trova forza proprio nel contributo di tutti i gruppi etnici che vi presero parte, basti pensare alla funzione svolta da tutti quegli imperatori non-han che adottarono e promos-
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 37 sero la concezione dell’ordine confuciano, integrandolo con sistemi culturali non-han33. I processi di assimilazione furono reciproci, dal gruppo han alle altre minzu e viceversa, ma le attuali dimensioni degli han, che costituiscono oltre il 90% dell’intera popolazione cinese, dimostrano che la principale direzione di questo processo portò alla fusione dei gruppi minoritari nella maggioranza han. La diffusione della lingua cinese a scapito delle lingue delle minoranze è un fattore che dimostra la forza dell’elemento han a confronto con le altre nazionalità, e anche la loro distribuzione sul territorio è stata presa ad esempio per dimostrare l’esistenza di una “rete” unificatrice nazionale tesa dagli han, presenti in tutti i luoghi chiave, nei centri commerciali e nei crocevia delle comunicazioni, come fossero l’elemento unificatore del pluralismo della nazione cinese34. Tra gli elementi presi in considerazione nel tentativo di spiegare l’impressionante forza centripeta dell’elemento han, rientrano anche fattori culturali e politici, meno spesso quelli militari. Tuttavia la maggioranza degli studiosi cinesi individua il motivo predominante nell’organizzazione economica. In particolare, viene fatto notare come, storicamente, i tentativi di controllo politico e di “hanizzazione” forzata produssero la resistenza delle popolazioni minoritarie. Diversamente, la forza e l’organizzazione del sistema agricolo attirarono e assorbirono spontaneamente la grande vastità delle popolazioni nomadi circostanti. Tra ideologia e relativismo culturale In rapporto alla tensione etnica che mina la Rpc dalla nascita, è possibile riconoscere due processi, entrambi avviati nel XX secolo, che prescindono dalla valutazione delle politiche etniche del governo centrale e fanno capo al concetto stesso di nazione cinese: il primo, influenzato dal nazionalismo, denota la riconfigurazione del concetto di unità politica in epoca moderna. Questo processo determinò lo sconvolgimento degli equilibri fra le diverse autorità politiche vigenti in epoca imperiale, codificando un’idea di sovranità territoriale, nazionale e centralizzata. Il risultato fu la legittimazione dell’integrazione politica ed economica delle minoranze nel nome di una nazione – quella cinese – anticamente priva di una così manifesta consapevolezza interna. Il secondo processo, debitore della retorica sia evoluzionista sia marxista, è invece teso allo sviluppo delle minoranze sotto la guida han. L’idea di sviluppo è stata costantemente al centro della propaganda governativa in epoca comunista, come fosse una sublimazione dei principi di uguaglianza e stabilità. Dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta l’idea di sviluppo è transitata da un immaginario sociale, che faceva riferimento all’egalitarismo internazionalista, a quello materiale, volto alla crescita economica e al progresso; tuttavia essa ha mantenuto la convinzione della funzione guida degli han, che come abbiamo visto è stata legittimata dalla teoria di Fei Xiaotong in quanto ragione d’essere della nazione cinese. L’effetto nel-
La rete Han come elemento unificatore del pluralismo della nazione cinese
POLITICA INTERNA la pratica è stato quello di mettere in crisi l’equilibrio tra il principio unitario e quello pluralistico attraverso l’adozione di uno spirito paternalista. Un giudizio sulla ricerca accademica in Cina non può ancora prescindere dalle interferenze dell’orientamento politico-ideologico. Il mondo accademico, pur mantenendo una certa autonomia, resta strettamente associato alla definizione ufficiale nelle sue conclusioni. Se si prende ad esempio il dibattito sulla nazione cinese e sul concetto di minzu, la ricerca in Cina sta assumendo dei metodi e dei criteri di indagine sistematici e, almeno in parte, autonomi: la definizione di nazione cinese fa uso ormai da decenni di discipline archeologiche, storiche, antropologiche e delle scienze politiche. I risultati portati alla luce è possibile che siano spesso validi all’interno di un dibattito scientifico. Ciò non toglie che la direzione entro cui opera l’indagine rivela un vizio di fondo, tipico di ogni nazionalismo, in quanto è volta alla dimostrazione dell’esistenza storica di una nazione cinese; questo perché la ricerca accademica non può allontanarsi ma deve invece dimostrare l’assunto dello Stato unitario multietnico. Non va però sottovalutato che, accanto all’influenza dell’ideologia, agiscono anche altre componenti di tipo storico-culturali. Gli intellettuali cinesi spesso citano una distinzione tra la civiltà orientale e quella occidentale: essi sostengono con orgoglio il pluralismo etnico della nazione cinese come una valida alternativa al modello di Stato-nazione, entro la cui cornice prese forma la nazione in Occidente. Questa distinzione fa riferimento alla radicalizzazione delle differenze etniche e all’esplosione nazionalista che in Europa furono tra le componenti attive della Prima guerra mondiale. In opposizione a un modello che teorizzò la rigida divisione territoriale e politica delle singole unità etniche, molti intellettuali cinesi innalzano l’ideale di un sistema di convivenza politica fondato su principi inclusivi, ovvero capace di ammettere al suo interno la coesistenza equilibrata di varie componenti politiche e culturali. Riferimenti per eccellenza di questa memoria storica condivisa è chiaramente l’immaginario delle epoche Tang e Qing. Va però evidenziato un contrasto tra l’ideale teorico della nazione cinese e la realtà pratica, che fino in tempi recenti ha dato dimostrazione della persistenza di nazionalismi locali antitetici all’idea di nazione cinese. Per spiegare questa contraddizione è possibile consultare le moltisssime analisi delle politiche centrali nelle zone popolate da minoranze etniche; tuttavia, in relazione all’oggetto di questo studio, è necessario anche indicare una tensione che anticipò la creazione di un potere centrale moderno e ha profonde radici storiche. In Cina esiste una visione della storia che deriva da una tradizione culturale peculiare e fortemente condizionata dall’autorità politica. Tradizionalmente l’unità imperiale era concepita nella centralità di una civiltà attorno alla quale e in funzione della quale avrebbero operato le realtà circostanti, in ogni caso interagendo – sebbene su livelli diversi – con essa. Questa visione unilaterale della storia fu presa in eredità dai padri della
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 39 Repubblica, laddove essi “ufficializzarono” la riconfigurazione dell’unità imperiale all’interno dell’idea di una nazione cinese, tanto a nome degli han quanto in rappresentanza degli altri gruppi etnici, a prescindere dalla visione ufficiale che le istituzioni di tali gruppi mantenevano delle loro relazioni con il centro. Alla radice delle tensioni etniche nella Cina repubblicana agisce perciò l’oscuramento di ricostruzioni storiche alternative al vincolo nazionale cinese, un atto che priva il pluralismo di natura confuciana della sua stessa ragione di essere, determinando un’interpretazione assoluta dell’esperienza storica cinese nella sua transizione da “impero” a “nazione”35. ■
NOTE 1. L’autore ringrazia la Prof.ssa Filibeck per tutta la disponibilità offerta in questi anni di ricerca e il Prof. Santangelo per i gentili e preziosi consigli. 2. Fei Xiaotong è uno degli studiosi più autorevoli della Cina. Originario della provincia del Jiangsu, dopo gli studi presso l’Università di Qinghua a Pechino e il dottorato all’Università di Londra, si affermò negli anni Trenta come sociologo e antropologo. Dedicò la maggior parte dei suoi studi alle zone agricole e alle minoranze etniche, conducendo ricerche sul campo secondo i principi del metodo funzionalista. Dopo la fondazione della Rpc nel 1949, prese parte alla politica di riconoscimento delle minoranze nazionali, una possente opera di rilevamento condotta sul campo che ha portato all’individuazione delle cinquantacinque minoranze nazionali oggi ufficialmente riconosciute. Alla fine degli anni Cinquanta, con l’intensificarsi delle politiche radicali maoiste, perse la sua influenza fino a essere travolto dalla Rivoluzione culturale. Riabilitato alla fine degli anni Settanta, divenne una delle massime autorità dell’antropologia cinese conseguendo la prestigiosa cattedra all’Università di Pechino, che mantenne fino alla sua morte, all’età di novantacinque anni. 3. Fei X. (a cura di), Zhonghua minzu duoyuan yiti geju 中华民族多元一体格局 [Il modello di unità pluralistica della nazione cinese], Beijing, Zhongyang minzu daxue chubanshe, 1998. 4. Anderson B., Comunità immaginate: Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 2000; Gellner E., Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori riuniti, 1992; Hermet G., Nazioni e nazionalismi in Europa, Bologna, Società editrice il Mulino, 1997; Hobsbawm, E.J., Nazioni e nazionalismo dal 1780, Torino, Giulio Einaudi editore, 1991; Kedourie E. (a cura di), Nationalism in Asia and Africa, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1970; Luo S. - Xu J. (a cura di), Minzu lilun he minzu zhengce jiaocheng 民族理 论和民族政策教程 [Manuale di politica e teoria della nazione], Beijing, Minzu chubanshe, 2005; Smith A.D., National Identity, Reno, Nevada, University of Nevada Press, 1991.
POLITICA INTERNA 5. Anand D., Geopolitical Exotica: Tibet in Western Imagination, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2007; Fairbank J.K. (a cura di), The Chinese World Order, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1968. 6. Wang L., Tianzang: Xizang de mingyun 天葬: 西藏的命运 [Sepoltura a cielo aperto: Il destino del Tibet], Taiwan, Mingjing chubanshe, 1998. 7. Renan E., Che Cos’è una nazione?, Roma, Donzelli editore, 1998. 8. Schwartz B.I., “The Chinese Perception of World Order, Past and Present”, in Fairbank J.K. (a cura di), 1968: 276-288. 9. Per una decostruzione del concetto di modernità applicato al caso cinese, vedi Wang H., Impero o Stato-Nazione? La modernità intellettuale in Cina, Milano, Academia Universa Press, 2009. In particolare, lo studio si propone di superare l’impostazione tradizionale della sinologia occidentale (la scuola del J.K. Fairbank), che vede la modernità in Cina come frutto dell’impatto con l’Occidente in epoca coloniale. Il post-colonialismo del Prof. Wang Hui si sforza invece di ritrovare dei modelli politici tradizionalmente definiti come “moderni” all’interno della tradizione storica cinese. 10. Norbu D., China’s Tibet Policy, Richmond, Curzon Press, 2001: 104-108 11. “A nation is a historically constituted, stable community of people, formed on the basis of a common language, territory, economic life, and psychological make-up manifested in a common culture” (Stalin J.V., “Marxist and the National Question”, in Id., Works, Mosca, Foreign Publishing House, 1954, Vol. II, pp. 307). 12. Solo in poche occasioni e tutte prima della proclamazione della Rpc fu riconosciuto alle minoranze il diritto all’indipendenza. La concessione era comunque del tutto strumentale e rifletteva l’adozione del modello sovietico nei primi anni di vita del Pcc. Dreyer J.T., China’s Forty Millions. Minority Nationalities and National Integration in the PRC, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 1976: 63. 13. Ufficio di ricerca politico della Commissione nazionale degli affari etnici (a cura di), Zhongguo gongchandang zhuyao lingdaoren lun minzu wenti 中国共产党领导人论民族问题 [Teorie sulla questione nazionale elaborate dalle principali guide del Pcc], Beijing, Minzu chubanshe, 1994. 14. Zhou E., Guanyu woguo minzu zhengce de ji ge wenti (yijiuwuqi nian ba yue si ri) 关于我国民族政策的几个问题 (一九 五七年八月四日) [“Alcune questioni riguardo la politica cinese per le nazionalità. Discorso del 4 agosto 1957”], in Ufficio di ricerca politico della Commissione nazionale degli affari etnici (a cura di), 1994, pp. 162-189. Le basi di questa prospettiva storica risalgono all’epoca nazionalista, quando il Guomin dang cercò di sviluppare un filone di ricerca in risposta alla propaganda giapponese a sostegno delle minoranze. Leibold J., Reconfiguring Chinese Nationalism: How the Qing Frontier and its Indigenes Became Chinese, New York, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 116-117. 15. Wang, H., Dongfangzhuyi, minzu quyu zizhi yu zunyan zhengzhi: guanyu ‘Xizang wenti’ de yidian sikao 东方主义, 民族区域 自治与尊严政治: 关于 ‘西藏问题’ 的一点思考 [Orientalismo, autonomia regionale nazionale e politca di dignità: Alcune riflessioni sulla questione tibetana], “Tianya”, 2008, n. 4, pp. 173-191. 16. Le teorie comuniste subordinarono l’idea di legame nazionale all’appartenenza di classe; i vincoli nazionali vennero ossia concepiti all’interno di una fase transitoria, che avrebbe anticipato la solidarietà di classe, proiettata a sua volta all’interno di ideali internazionalisti. Per questo motivo la visione evoluzionista della storia ereditata dai comunisti cinesi evidenziava il passaggio da una fase di formazione e consolidamento dei legami nazionali al loro naturale scioglimento in virtù di forme di integrazione che trascendevano i limiti dell’idea di nazione e si manifestavano nell’ideale di fusione tra le etnie: “Che cos’è la fusione tra le nazionalità? Questo concetto sta a indicare l’estinzione delle differenze e delle particolarità fra tutte le nazionalità al mondo, grazie a mutui processi di scambio e interazione, fino alla fusione in un’unità mondiale all’interno di un sistema comunista e alla scomparsa delle nazioni. In poche parole, la fusione tra le nazionalità corrisponde alla loro sparizione, a una ‘comunità composta dall’intera umanità’, a una nuova unità completamente distinta dalla nazione in grado di coinvolgere tutto il mondo” Luo S. - Xu, J. (a cura di), 2005: 42. 17. Jin B. (a cura di), Minzu lilun yanjiu ershi nian 民族理论研究二十年 [Vent’anni di ricerca sulla teoria della nazione], Beijing, Zhongyang minzu daxue chubanshe, 2000. 18. Si veda ad esempio il dibattito che tra gli anni Settanta e Ottanta si sviluppò attorno alla questione della convivenza di varie forme di identità in un singolo individuo, tanto in termini politici quanto di etnia. Glazer N. - Moynihan D.P. (a cura di), Ethnicity: Theory and Experience, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1975. 19. Songben Z. - Lu Z., Zhongguo minzu zhengce zhi yanjiu 中国民族政策之研究 [Uno studio sulle politiche etniche cinesi], Beijing, Minzu chubanshe, 2003. 20. Jin B., 2000.
Etnia e nazionalità: l’unità pluralistica della nazione cinese / 41 21. Fei X., 1998. 22. Gao, C., Qingmo minguo shiqi zhonghua minzu zijue jincheng yanjiu 清末民国时期中华民族自觉进程研究 [Studio del processo di formazione della coscienza nazionale cinese durante la tarda epoca Qing e il periodo repubblicano], Beijing, Zhongyang minzu daxue chubanshe, 2007, p. 9. 23. Il significato più generico del carattere min è quello di un insieme di persone. In origine, il carattere stava ad indicare gli schiavi; nel tempo il significato si è però sempre più avvicinato all’idea di un gruppo di persone comuni, in antitesi a coloro che ricoprivano incarichi ufficiali e militari, o anche ad un insieme di soggetti ultraterreni, fino ad assumere un valore nuovo in epoca moderna, che richiama l’idea di “popolo”. Commissione editoriale del grande dizionario dei caratteri Nuova Cina (a cura di), Xinhua da zidian 新华大字典 [Il grande dizionario dei caratteri Nuova Cina], Beijing, Shangwu yinshu guan, 2004: 613. 24. Si presuppone che il carattere zu abbia assunto il significato di “gruppo” in riferimento a vincoli di sangue già in tempi molto antichi data la sua composizione: la parte sinistra e parte di quella destra indicano infatti la “bandiera”, mentre la parte rimanente del carattere significa “freccia”. Insieme, i due caratteri indicano un insieme di frecce (vale a dire un insieme di persone armate) riunite sotto la stessa bandiera, come appunto i clan o le tribù. Ibid., p. 1199. Sull’origine dei caratteri mín e zú si veda anche: Wu, Zeyan. (a cura di), Ciyuan辞源 [Dizionario delle etimologie], Beijing, Shangwu yinshu guan, 2009: 1393, 1702. 25. Va specificato che esistono autori che hanno concepito la nazione cinese persino come una forma di identità propriamente etnica, sottintendendo cioè uno stato di integrazione interna molto avanzato tra le minoranze e gli han. Gao C., 2007: 12. 26. L’espressione cinese utilizzata è quella di xianghu yicun (相互依存), che letteralmente significa “reciproca dipendenza per l’esistenza”,vediMa R. - Zhou X. (a cura di), Zhonghuaminzuningjulixingchengyufazhan 中华民族凝聚力形成与发展[Formazione e sviluppo della forza coesiva della nazione cinese], Beijing, Beijing daxue chubanshe, 1999: 9. 27. L’idea dello sviluppo di forme di vita umana in diversi luoghi della terra, pur non essendo l’unica ipotesi presa in considerazione, è stata spesso adottata in Cina, dando origine a divergenze sulla possibile obiettività delle discipline paleontologiche, archeologiche e fisico-antropologiche maturate negli anni ottanta. A tal proposito, si è rinvigorita la polemica sulla carenza di basi scientifiche della ricerca cinese, in virtù di un vizio ideologico di partenza. Nel caso specifico, il rifiuto delle tesi che vedono lo sviluppo della vita umana a partire dal continente africano sarebbe strumentale e relativo al consolidamento dell’idea di un’identità specifica cinese o, in senso allargato, della razza “gialla”, in grado da fungere come motivo nazionalista di coesione che controbilanci il pluralismo culturale-linguistico vigente in Cina. Dikötter F. (a cura di), The Construction of Racial Identities in China and Japan: Historical and Contemporary Perspective, London, Hurst & Company, 1997: 28-29. 28. Fei X. (a cura di), 1998: 4-6; Ma R. - Zhou X. (a cura di), 1999: 6. 29. Ma R., Ethnic Relations in China, Beijing, Zhongguo Zangxue Chubanshe, 2008: 18. 30. Letteralmente l’espressione significa “nazione libera” o “nazione senza confini”. Secondo la nostra interpretazione essa intende una comunità già esistente ma ancora priva di una definizione e, in questo senso, “senza confini”, priva di una delimitazione tanto in senso teorico e geografico quanto sul piano della coscienza identitaria interna. 31. Fei X. (a cura di), 1998: 31-32. 32. Ma R. - Zhou X. (a cura di), 1999: 12-14. Va ricordata la stretta parentela tra questa impostazione e l’evoluzionismo di Liang Qichao, vedi Rhoads, Edward J. M., Manchus & Han: Ethnic Relations and Political Power in Late Qing and Early Republican China, 1861-1928, Seattle and London, University of Washington Press, 2000: 4. 33. A conferma che quella cinese non sarebbe una nazione eretta sulla base di un’identità etnica, si può annoverare la diversa origine degli imperatori cinesi, che include solo in parte figure appartenenti al gruppo han. A tal proposito, le analisi cinesi descrivono l’origine etnica degli imperatori come il “nome” (名, ming) con cui la nazione cinese veniva chiamata, tuttavia la sua “essenza” (实, shi) prescindeva dall’affiliazione ad una minzu o ad un gruppo etnico ed era rappresentata da un sistema culturale ed economico. Ma R. - Zhou X. (a cura di) 1999: 11-12. 34. Fei X. (a cura di), 1998: 32-33. 35. Il riferimento a “ricostruzioni storiche alternative” non vuole qui indicare necessariamente l’indipendentismo rivendicato da alcune popolazioni – su tutti tibetani e uyghur – in epoca moderna, ma soprattutto sistemi che contemplavano una certa interazione con il centro imperiale. Si prenda ad esempio il modello buddhista tibetano del mChod-yon, che si fondava sull’alleanza fra due diversi poli di potere (quello politico imperiale e quello spirituale dei lama tibetani) e sulla condivisa divisione delle rispettive sfere di influenza politica. Norbu D., 2001: 31.
L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi Valentina Punzi
Since the foundation of the Communist Republic, the Chinese government has aimed to build unity, nationalism and “harmony” among all the ethnic groups in the country. In order to achieve this goal, special attention has been deserved to school education with a major role in supporting the central policies towards ethnic minority groups. Though some scholars have identified a pluralistic approach to school curricula both before the spreading of the Cultural Revolution and during the present time, in the author’s opinion the development of Chinese policies in the education field actually shows a constant trend of assimilation of minority groups into the main stream of han language, culture and society. Candidata al dottorato di ricerca in Studi tibetani presso la Minzu University di Pechino
A
partire dalla fondazione della Repubblica Popolare, la storia dell’istruzione per le minoranze si è intrecciata molto profondamente con precise scelte politiche del governo cinese. Unificare gli sforzi per realizzare l’unità nazionale e lo sviluppo di aree geografiche popolate da gruppi diversi per lingua, cultura e storia, era un compito arduo e complesso, da realizzare non solo attraverso l’implementazione di un modello politico ed economico comunista ma anche e soprattutto attraverso l’istruzione in modo da stabilire la priorità della lingua cinese e della nascente cultura nazionale comunista, spesso del tutto estranee alle minoranze etniche. La promozione alternata alla soppressione di programmi d’istruzione bilingue con contenuti rilevanti per i gruppi di etnia non-han ha così riflesso la scelta altalenante tra una società multiculturale che rispettasse le differenze e un modello standardizzato in cui lingua e cultura han fungessero da catalizzatore per tutti gli altri gruppi. Studiosi sia occidentali sia cinesi hanno individuato un atteggiamento oscillante tra pluralismo e assimilazione che il governo cinese avrebbe mantenuto verso le minoranze nell’ambito dell’istruzione, suddiviso in tre fasi: un periodo pluralista dal 1949 al 1957 (rottura dei rapporti con l’Urss), una fase assimilazionista dal 1958 al 1977 (conclusione della rivo-
L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi / 43 luzione culturale) e un generale ritorno alla tendenza pluralista dal 1978 (inizio del movimento di riforma e apertura) a oggi1. Tuttavia, a mio parere, l’intera storia delle politiche verso le minoranze fino ad oggi è stata fondamentalmente orientata verso l’assimilazione. Anche quando si è favorito apparentemente il pluralismo, garantendo lo studio delle lingue delle minoranze e promuovendone la produzione culturale, queste misure sono state strumentali e funzionali all’obiettivo a lungo termine dell’assimilazione. L’istruzione scolastica, ispirata ai principi di conformità, stabilità e assimilazione, ha di fatto evitato di prendere in considerazione qualsiasi approccio pluralista, temendo che potesse minare la stabilità e istigare rivendicazioni indipendentiste. Ripercorrendo la suddivisione storica di solito accettata, cercherò di mettere in luce aspetti, a mio avviso poco valutati, che possano dimostrare la comune tendenza assimilazionista che ha caratterizzato la politica centrale verso le minoranze. 1949-1957 Dopo la classificazione delle 55 minoranze nei primi anni Cinquanta, al governo si impose un obiettivo ben preciso: integrare i diversi gruppi e far sì che in loro maturasse un senso di comune appartenenza alla Zhonghua minzu2 e di sicura fedeltà al Paese. Per facilitare il processo di integrazione, che si supponeva sarebbe stato lungo e complesso, dato lo stato di arretratezza economica e implicitamente culturale delle minoranze3, venne loro assicurato il rispetto e il mantenimento della lingua, cultura e costumi locali. D’altra parte era difficile immaginare che comunità con un’identità forte e fiere del proprio passato, all’oscuro di qualsiasi ideologia socialista, accogliessero subito e di buon grado l’intrusione e l’indottrinamento del partito. Inizialmente si cercò la collaborazione delle élite politiche e religiose locali: nelle zone ad alta concentrazione di minoranze, in assenza di un potere centrale forte, spesso i capi religiosi avevano infatti acquisito il monopolio sulla cultura e sull’istruzione: era dunque fondamentale ricorrere alla loro mediazione per rendere più accettabili i nuovi contenuti patriottici dell’istruzione scolastica di cui si voleva promuovere la diffusione su scala nazionale4. Per coinvolgere tutta la popolazione nella costruzione della nuova Cina, il partito si impegnò a sostenere l’uguaglianza di status per tutte i gruppi etnici cinesi5 ma allo stesso tempo a investire gli han della responsabilità morale di “fratello maggiore” di far evolvere le minoranze dal loro stato di arretratezza economica, indirettamente imputato a una condizione di oggettiva arretratezza culturale. Questo ruolo guida affidato agli han trovava la sua giustificazione ideologica nelle teorie evoluzioniste marxiste in campo sociale: gli han erano gli unici ad aver realizzato la perfetta società comunista, tutte le minoranze erano ancora ferme a stadi precedenti di organiz-
L’assimilazione resta l’obiettivo a lungo termine
Nei primi anni Cinquanta classificate 55 minoranze
POLITICA INTERNA
L’istruzione strumento di accesso e contemporaneamente di controllo
zazione socio-economica schiavista e feudale e quindi da aiutare e “liberare”. Nel 1951, in occasione della Prima Conferenza Nazionale sull’Istruzione per le Minoranze, si ribadì l’importanza di tenere in considerazione innanzitutto le esigenze delle minoranze: la lingua impiegata per l’istruzione doveva essere quella in uso nell’area, promuovendo il patriottismo ma sostenendo lo studio della storia e della cultura locali. Nello stesso anno il Ministero dell’Istruzione approntava il primo piano per la diffusione dell’istruzione bilingue per le minoranze, prevedendone la gestione autonoma per quante avessero già in uso sistemi di scrittura indipendenti (tibetani, uighuri, mongoli, kazaki e coreani)6. A livello legislativo, gli articoli 71 e 77 della costituzione del 1954 affermavano già il diritto delle minoranze all’impiego e allo sviluppo della propria lingua e per i governi locali l’obbligo di usare la lingua diffusa nell’area. Si potrebbe concludere che l’approccio iniziale del partito all’istruzione sia stato di apertura alla differenza culturale delle minoranze e di stampo dichiaratamente pluralista. Tuttavia, il pluralismo fu di fatto transitorio e strumentale al raggiungimento di obiettivi politici: l’eterogeneità delle minoranze doveva essere progressivamente riportata all’unità e all’assimilazione nazionale ma si riconosceva la necessità di uno svolgimento graduale del processo che garantisse risultati più stabili e duraturi. La diffusione del sistema scolastico doveva tener conto delle realtà locali ma con l’obiettivo a lungo termine di diventare istruzione di massa, doveva riconoscere le peculiarità delle minoranze ma al fine di consolidare il patriottismo. L’istruzione era dunque al tempo stesso strumento di accesso alla modernità per le minoranze e strumento di controllo in campo culturale per il governo: alle minoranze era “concesso” di studiare la propria lingua e mantenere i propri costumi, anche le pratiche religiose erano tollerate fintanto che questa apparisse la migliore strategia per raggiungere l’obiettivo dell’integrazione e della stabilità sociale. Piuttosto che puntare a un’istruzione di qualità, l’obiettivo del sistema scolastico era quello di diffondersi e penetrare nelle realtà locali per garantire un’istruzione di base anche nelle zone rurali e a tal fine furono istituite le minban, piccole scuole fondate soprattutto nei villaggi poveri delle zone interne. Inoltre, fino alla brusca interruzione dei rapporti con l’Unione Sovietica nel 1957, la Cina si ispirò profondamente all’esperienza russa per rinnovare il sistema d’istruzione7. Molti libri di testo scolastici erano tradotti dal russo, l’unica lingua straniera ufficialmente insegnata nelle scuole. Per quanto riguarda l’istruzione per le minoranze, l’Unione Sovietica offriva un suo modello per le affinità politiche del regime che ispirò sul piano teorico la Repubblica Popolare Cinese. Mostrando il massimo interesse verso lo sviluppo delle culture delle minoranze e la relativa promozione nelle scuole, a partire dai primi anni Cinquanta squadre di esperti linguisti e antropologi han, assistiti da membri delle minoranze, furono impegnati in un’imponente opera di standar-
L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi / 45 dizzazione, rinnovamento e creazione ex novo delle lingue scritte e parlate dalle minoranze8. In questa occasione vennero create ben quindici lingue scritte (tra cui Jingpo, Bouyei, Yi, Naxi, Miao, Li, Hani, Lishu, Dong, Zhuang, Wa, Bai e Zaiwa), che tuttavia spesso rimasero pressoché inutilizzate. Gli esperti coinvolti proposero in alcuni casi la creazione di più di un sistema di scrittura per dare conto delle differenze dialettali presenti nello stesso gruppo. Nel suo complesso l’operazione, scaturita da motivazioni politiche, fu condotta come un enorme sforzo accademico piuttosto che come una risposta a esigenze sentite e spontanee delle minoranze direttamente coinvolte. Nell’ambito dell’istruzione, l’intervento del governo centrale sul proprio territorio non fu, infatti, ben accolto da quelle minoranze come mongoli, tibetani e uighuri che già prima di far parte della Rpc erano in possesso di elaborati sistemi culturali e d’istruzione, nonché naturalmente della propria lingua. La questione non riguardava peraltro solo la lingua e la cultura ma anche e soprattutto la religione che per queste minoranze rappresentava la base stessa dell’organizzazione sociale e culturale. Il diretto intervento dello Stato mirava a ridurre il ruolo delle istituzioni religiose per diffondere gli stessi programmi di studio su tutto il territorio nazionale ponendo nel contempo l’accento sulle peculiarità locali, limitando la religione a un aspetto secondario di poca importanza ed esaltando gli aspetti laici nella cultura delle minoranze. In conclusione, dal 1949 al 1957 il governo comunista mostrò in apparenza di preferire un modello sociale e culturale pluralista; tale scelta fu tuttavia fortemente condizionata da valutazioni politiche. Dopo solo otto anni dalla fondazione della Repubblica Popolare, lo scenario cambiò radicalmente, non offrendo più nessuno spiraglio alle minoranze e dichiarando apertamente i suoi intenti assimilazionisti. 1958-1977 Il deterioramento dei rapporti con l’Urss nella seconda metà degli anni Cinquanta fece sì che la Cina restasse isolata non solo rispetto all’occidente ma anche tra i Paesi comunisti. Con il lancio della Campagna contro la Destra nel 1957, il controllo ideologico del Partito diventò sempre più serrato, non lasciando spazio al dissenso. Gradualmente la disponibilità e la tolleranza verso le minoranze, che almeno a livello ufficiale aveva caratterizzato i primi anni della repubblica, cedettero il passo a una politica sempre più aspra che ebbe dirette ripercussioni nel campo dell’istruzione. L’insegnamento delle lingue delle minoranze fu definito una futilità intellettuale borghese e coloro cui il governo stesso aveva in un primo momento dato incarico di condurre ricerche e indagini linguistiche furono duramente criticati. La rivoluzione doveva raggiungere nel più breve tempo possibile i suoi obiettivi di riforma politica, economica e sociale e si esigeva adesso che le
La riduzione del ruolo delle istituzioni religiose
POLITICA INTERNA minoranze tenessero il passo, gettandosi alle spalle secoli di cultura “schiavista e di sottomissione”. L’insegnamento del cinese e un curriculum standard nazionale furono imposti in tutte le scuole del Paese: sradicare le tradizioni linguistiche e culturali delle minoranze appariva fondamentale per la loro emancipazione. Alle minoranze era in un certo senso attribuita la colpa di non aver iniziato la rivoluzione autonomamente ma di aver atteso che i fratelli han accorressero in loro soccorso: questo loro presunto ritardo sembrava essere un ulteriore elemento a conferma del loro stato di arretratezza e di inferiorità. Da una parte si temeva che lo studio delle lingue e delle culture delle minoranze avrebbe alimentato i nazionalismi locali (difang minzuzhuyi) e minacciato l’unità dei diversi gruppi etnici cinesi proprio in quei territori di confine alla periferia in cui il Paese si sentiva più vulnerabile, d’altra parte si riteneva che accelerare l’apprendimento del cinese e imporlo alle minoranze fosse un passo obbligato verso la loro integrazione nazionale e lo sviluppo sociale ed economico. Non si riconosceva di fatto alle minoranze una capacità autonoma di cercare uno spazio nella modernità: chiuse in schemi culturali arretrati e feudali, la sola via d’uscita era lasciarsi guidare ubbidienti verso il futuro dalla maggioranza han. La riforma del sistema di trascrizione del cinese mandarino nel 1958 alimentò le pressioni affinché i sistemi di scrittura fossero sostituiti dalla trascrizione in alfabeto latino, iniziando dalle lingue uighura e kazaka. Opporsi significava “ostacolare il processo di unificazione dei gruppi etnici sotto la guida del Partito”; tuttavia, la resistenza da parte delle comunità locali fece sì che in breve tempo l’arabo fosse ripristinato in queste aree, almeno a livello quotidiano, come lingua scritta principale9. L’inizio della Rivoluzione Culturale, nel 1966, precipitò questo stato di cose. I concetti di lotta di classe e lotta all’intellettualismo borghese diventarono i principi guida a livello nazionale e locale. Non si concedeva più alcuna considerazione speciale per le minoranze e per i tempi di realizzazione della rivoluzione, tutti i residui della società feudale andavano eliminati: uso delle lingue delle minoranze come mezzo di istruzione, pratiche religiose, tradizioni e usi locali. Mentre si continuava ad affermare l’eguaglianza di tutti i gruppi etnici, se ne condannava l’arretratezza del sistema linguistico e culturale10. A livello nazionale, il livello d’istruzione decrebbe drasticamente: ai giovani istruiti si chiedeva di coniugare studio e lavoro manuale attraverso prolungati soggiorni nelle zone rurali più arretrate del Paese; nel momento di confusione generale e di attacchi feroci alla cultura tradizionale, molte scuole vennero chiuse e le poche lezioni disponibili si risolvevano in comizi politici di giovani esaltati11. Nel caso delle minoranze, la situazione fu ancora più grave. La scarsa partecipazione diretta ridusse le minoranze a soggetti passivi della Rivoluzione Culturale e l’effetto destabilizzante sul piano sociale ed economico che si generò fu assai più forte di quello riscontrato nelle zone han:
L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi / 47 ai problemi pregressi dello sviluppo e della mancanza di risorse in molte zone, si aggiunsero i danni della Rivoluzione Culturale. Nessuna forma di istruzione bilingue o di curricula culturali specifici era più tollerata nelle scuole: a tutti era chiesto di contribuire alla Rivoluzione e l’istruzione era diventata per tutti indottrinamento politico e propaganda. La tendenza generale era di limitare al massimo lo sviluppo delle lingue delle minoranze già esistenti e di evitare che ne venissero create di nuove. 1978-Oggi Dalla fine degli anni Settanta si riscontra un ritorno all’apertura verso le minoranze e a misure volte a tutelare la diversità linguistica e culturale del Paese. La costituzione revisionata nel 1982 all’articolo 4 ribadisce che: “tutti i gruppi etnici della Repubblica Popolare Cinese sono uguali. […] I membri di tutti i gruppi etnici sono liberi di impiegare e sviluppare la propria lingua scritta e orale, e di preservare o modificare i propri usi e costumi”. La legge sull’autonomia regionale del 1984 garantisce inoltre ampi margini d’intervento per i rappresentanti locali del governo nel campo dell’istruzione, dando possibilità di scegliere soluzioni e curricula diversi in base a valutazioni nei singoli contesti. Tuttavia, maggiore libertà di agire a livello locale significa spesso minore tutela dei diritti da parte del governo centrale. Il potere dei rappresentanti locali del governo può, infatti, condizionare notevolmente l’implementazione di un sistema scolastico bilingue, in cui sia dato spazio adeguato allo studio di entrambe le lingue, rispetto a un modello di “sommersione” della lingua locale che miri, attraverso un bilinguismo di transizione, all’affermazione esclusiva del cinese come lingua di insegnamento. Bisogna però riconoscere che oggi spesso sono gli stessi genitori a preferire che sia data priorità allo studio del cinese, nella convinzione di garantire maggiori opportunità ai figli, mentre la propria lingua viene impiegata nella comunicazione quotidiana extrascolastica e familiare e ridotta a un ruolo subalterno12. A partire dagli anni Novanta, il governo si è posto l’ambizioso obiettivo della diffusione su scala nazionale del ciclo scolastico di nove anni di istruzione obbligatoria13 istituendo nel 1989 il Progetto Speranza (Xiwang Gongchen)14 e promuovendo interventi mirati a incentivare la partecipazione scolastica attraverso l’eliminazione delle tasse e l’istituzione di multe per le famiglie che negano ai figli l’accesso scolastico. Per quanto riguarda le minoranze, l’adozione di politiche preferenziali ha incrementato l’accesso all’istruzione superiore attraverso punti bonus per la conoscenza della propria lingua oltre a quella del cinese, borse di studio e sussidi, corsi integrativi di lingua cinese di durata variabile per supplire alle carenze in lingua cinese15. Questi provvedimenti di favore riguardano tuttavia solo un’esigua rappresentanza dell’élite culturale e sono parte della più ampia strategia di as-
Il ritorno all’apertura verso le minoranze e alla tutela della diversità linguistica
POLITICA INTERNA sicurarsi il consenso, che il governo cerca di ottenere dando l’opportunità ai migliori studenti delle minoranze di proseguire gli studi nelle università più prestigiose, dislocate nelle zone han. I criteri impiegati per l’assegnazione delle borse di studio rivelano infatti che in prima istanza non sono la preparazione culturale e l’impegno a essere valutati e valorizzati ma piuttosto la fede politica, la conoscenza approfondita della lingua cinese e il livello di interiorizzazione di determinati contenuti culturali propri della cultura cinese han ma estranei a quelli delle culture delle minoranze etniche. Questo è ovviamente inevitabile, visto che si tratta della lingua nazionale e della cultura dominanti, ma credo che questo meccanismo quando applicato all’ambito degli studi accademici per gli studenti delle minoranze diventi un ciclo chiuso paradossale. Un esempio: molti studenti tibetani che sostengono l’esame di ammissione a un corso di laurea in tibetologia superano brillantemente l’esame relativo allo specifico ambito di studi ma non riescono a essere ammessi perché non superano l’esame di politica, di lingua cinese o inglese. Tenendo in scarsa considerazione il fatto che per le minoranze etniche la conoscenza dell’inglese sia praticamente quella di una terza lingua, dopo la lingua madre e il cinese; inoltre, nella maggior parte dei casi l’inglese insegnato a scuola nel loro luogo di origine è a un livello meno che elementare. La selezione per l’accesso all’università non fa dunque che confermare che la lingua e la cultura delle minoranze non siano strumenti validi per affermare la propria identità individuale nella società cinese, se non si accompagnano a una conoscenza solida della lingua e della cultura cinesi. Per molti inoltre il trasferimento in un grande centro urbano han e il conseguente allontanamento dal contesto socio-culturale di origine si traduce in un distacco netto dalle proprie radici e in un’adesione crescente ai modelli culturali han. In questo modo il governo cerca di garantirsi la fedeltà politica del futuro ceto dirigente delle minoranze. Al contrario, la maggioranza delle regioni e delle province ad alta concentrazione di minoranze continua a mostrare un livello di partecipazione al sistema scolastico notevolmente inferiore a quello degli han. È da tenere in debita considerazione l’ipotesi che la scarsa partecipazione scolastica sia in parte imputabile anche a un retaggio di processi storici e circostanze socio-culturali interni alle società tradizionali delle minoranze e precedenti l’inglobamento di tali territori e popolazioni nella Repubblica Popolare Cinese. Ciò nonostante credo sia altrettanto legittimo ritenere che oggi in quanto cittadini cinesi, tutte le minoranze etniche abbiano gli stessi diritti e doveri, e che per esercitarli debbano essere messi nelle condizioni pratiche di farlo. Se è vero che tradizionalmente parte della popolazione delle minoranze etniche fosse in misura minore o maggiore analfabeta, è anche vero che oggi spetta al governo cinese farsene carico e garantire l’accesso all’istruzione. L’insuccesso nella diffusione del sistema scolastico nella maggior parte delle zone delle minoranze, con l’eccezione dei gruppi coreano e mongolo,
L’istruzione delle minoranze dal 1949 a oggi / 49 pone in evidenza, a mio avviso, un problema di fondo: cosa si debba intendere per istruzione scolastica, come vada proposta e organizzata, in quale lingua vadano veicolati i contenuti. Tutte queste questioni non sono mai state messe in discussione includendo i soggetti direttamente coinvolti, alle minoranze viene negato il diritto di scegliere e l’esistenza di un curriculum standardizzato nazionale conferma che da parte del governo non ci sia nessuna volontà di prendere seriamente in considerazione il problema della preservazione delle differenze linguistiche e culturali. Quanto viene sancito nella Costituzione e nelle leggi in materia di autonomia e bilinguismo non ha riscontro pratico nella realtà: la pubblicazione di libri di testo nelle lingue delle minoranze non ha fondi sufficienti, gli insegnanti non sono qualificati e le infrastrutture sono molto carenti. Il governo centrale promuove l’istruzione di massa intrisa di contenuti patriottici al fine di indebolire i sentimenti nazionalistici locali. Tuttavia, è proprio evitando di tenere in considerazione le esigenze delle minoranze sui contenuti e la lingua dell’istruzione e imponendo un sistema scolastico integrazionista che si alimenta la minaccia del separatismo. ■ Bibliografia • Anwei Feng (a cura di), Bilingual education in China: practices, policies and concepts, Multilingual Matters, 2007. • Bangbo E., Teaching and Learning in Tibet: a review of research and policy publications, NIAS, 2004. • Bass C., Education in Tibet: Policy and Practice since 1950, pp. 243-244, Zed Books Ltd, 1998. • Bhalla A.S. - Shufang Qiu, Poverty and Inequality among Chinese Minorities, Routledge, 2006. • Clothey R., “China’s Minorities and State’s Preferential Policies: Expanding Opportunities?”, Paper presentato al 45th Annual Meeting of Comparative and International Education Society (Washington DC, 14-17 marzo 2001). • Dehremi E., “Thematic Introduction: Protecting Endangered Minority Languages: Sociolinguistic Perspectives”, International Journal on Multicultural Societies (IJMS), 2002, vol. 4, n. 2, pp. 150-161, www.unesco.org/shs/ ijms/vol4/issue2/art1. • Dong Yan, “Current Status, History and Prospects of Jingpo People’s Bilingual Education System: The Cultural Vicissitudes an Old Ethnic Group Encountered”, Modern Society, 2002, pp. 259-290. • Hannum E. - Park A. (a cura di), Education and reform in China, Routledge, 2007. • Hansen M.H., Lessons in being Chinese: minority education and ethnic identity in Southwest China, University of Washington Press, 1999. • He Longqun, 中国共产党民族政策史论 [Zhongguo gongchandang minzu zhengce shi lun - Sulla storia delle politiche del Pcc per le minoranze nazionali], Renmin Chubanshe, 2005. • Jing Lin, “Policies and Practices of Bilingual Education for the Minorities”,
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NOTE 1. Cfr. Minglang Zhou, 2001 pp. 125-149 2. Zhonghua minzu in questo contesto significa nazione cinese e si riferisce alla nozione di nazionalità cinese, ponendo al centro l’identità collettiva della Cina in quanto tale, al di là delle singole etnie o nationalities (minzu) di cui è composto il Paese. 3. I cinesi han definiscono spesso le minoranze etniche “luohou”, arretrate. Cfr. Hansen, 1999, pp. 10-12. 4. Soprattutto in Tibet e Xinjiang l’autorità religiosa e temporale era spesso concentrata e sovrapposta nei monasteri e nelle moschee. 5. Sull’identità multietnica cinese Mao Zedong, riprendendo la critica sovietica allo sciovinismo russo, criticò duramente lo sciovinismo han (dahanzuzhuyi), un atteggiamento di superiorità assunto in campo politico, economico e culturale dalla maggioranza han che ha radici antiche e profonde nella mentalità cinese e che ancora oggi continua a pesare nei rapporti tra han e minoranze etniche. Mao Zedong commentava: “A giudicare dalle informazioni a nostra disposizione, il Comitato Centrale ha appurato che nelle zone popolate da minoranze etniche in genere sussistono problemi, in alcuni casi piuttosto gravi, che esigono soluzioni. In apparenza tutto è tranquillo ma in realtà ci sono problemi molto seri. Negli ultimi due o tre anni è emerso che lo sciovinismo han esiste praticamente dappertutto. La situazione sarà molto pericolosa se non saremo in grado di fornire un’istruzione tempestiva e di superare risolutamente lo sciovinismo han nel Partito e tra la gente” (traduzione dell’autrice dall’inglese – cfr. The Selected Works of Mao Tse-tung, Foreign Languages Press Peking, 1977, vol. V, pp. 87-88). 6. Cfr. Minglang Zhou, 2003, pp. 19-35. 7. Cfr. Mackerras, 1995, pp. 49-56. 8. Cfr. Minglang Zhou, 2003, pp. 1-15. 9. Cfr. Anwei Feng (a cura di), 2007, pp. 25-40. 10. Ad esempio, l’uso degli onorifici in tibetano venne criticato come espressione di una società feudale e dunque vietato. Cfr. Tournadre, 2003. 11. Gli studenti erano costretti a trascorrere lunghi periodi in campagna per maturare una conoscenza approfondita della realtà rurale nazionale e a questo scopo fu lanciato il movimento shangshan xiaxiang (salire in montagna e scendere in campagna). 12. Cfr. Clothey, 2001. 13. Il ciclo scolastico di nove anni è stato reso ufficialmente obbligatorio nel 1986 dalla Legge sull’istruzione obbligatoria. Cfr. Mackerras, 2003, pp.126-7. 14. È un progetto governativo che promuove iniziative mirate all’allargamento dell’accesso scolastico e al miglioramento delle condizioni dell’istruzione nelle zone povere del Paese attraverso finanziamenti pubblici e privati. 15. A partire dal 2005 agli studenti delle minoranze è richiesto il superamento dell’esame Mhsk (Minzu Hanyu Shuiping Kaoshi, Chinese Proficiency Test for Minorities) per poter accedere ai corsi universitari nelle maggiori università del Paese. In alcune università sono organizzati corsi di lingua cinese a frequenza obbligatoria per aiutare gli studenti nella preparazione dell’esame.
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang Alessandra Cappelletti
Xinjiang Production and Construction Corps is the name of a political, economical and social organisation established in 1950’s in the Xinjiang Uyghur Autonomous Region, the China’s Far Western Muslim area. With three million residents, a legal, education, health and administrative autonoumous system, the Corps, also called “bingtuan”, control an important part of the fertile land of the region, four municipalities and two universities. Engaged in several profitable economic activities, the Corps benefit from preferential policies and support plans funded by the central government. Because almost all the bingtuan residents belong to the Han nationality, the current powerful stand of the organisation in Xinjiang raises questions on its effective role. Based on a long field research in the area, the article analyses some issues related to today’s bingtuan, focusing on the relationship between stabilization and intensification of the social and political conflicts which are currently undermining the building process of an armonious Xinjiang. Dottoranda in cotutela presso l’Università “L’Orientale” di Napoli e la Minzu University di Pechino
I
Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang, chiamati brevemente bingtuan1, sono un’organizzazione attiva solo nella regione autonoma Uigura del Xinjiang. Come riconoscono le autorità governative, i bingtuan hanno uno status particolare e unico nel panorama istituzionale cinese: istituiti nel corso degli anni Cinquanta in diverse aree della Cina2, soprattutto in prossimità dei confini internazionali, dal 1979 i Corpi sono stati smantellati per far posto a strutture economiche più efficienti e orientate al nuovo sistema di mercato3. Agli inizi degli anni Ottanta, solo nella regione del Xinjiang, sono stati ricostituiti. Ricostruire la storia dei bingtuan è un po’ come ripercorrere le tappe dello sviluppo della Cina moderna: fin da subito la loro istituzione fu finalizzata al controllo e all’integrazione delle aree di confine difficili da gestire, anche perché prevalentemente abitate da minoranze, e sono stati organizzati secondo una rigida struttura politica, economica e sociale di tipo collettivista. Colonie militari, i cui membri, in tempi di pace, svolgevano attività agricole ai fini dell’autosostentamento,
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang / 53 oggi i bingtuan si sono trasformati in un potente apparato politico ed economico; i loro “pionieri”, sostenuti da un efficace apparato di propaganda, hanno trasformato parti di deserto in fiorenti città, come per esempio Shihezi, a nord di Urumqi. L’era delle riforme ne ha modificato gli assetti e gli obiettivi, e da colonie agricolo-militari i Corpi si sono trasformati in una potente corporation che controlla e gestisce gran parte delle risorse e degli spazi del Xinjiang, un sesto del territorio cinese4, e attrae investimenti e collaborazioni da tutto il mondo, anche dall’Italia. Quei pionieri provenienti da tutta la Cina che affrontavano deserti e montagne con l’idea di portare sviluppo nella remota regione del nord-ovest, popolata in maggioranza da popolazioni turcofone e musulmane, sono diventati colletti bianchi e ricchi burocrati di partito che usufruiscono delle comodità della contemporaneità. Per l’86% han, i residenti dei bingtuan esprimono punti di vista e posizioni palesemente influenzati dalla propaganda, spesso incapaci di un’analisi più autonoma, che richiederebbe una certa conoscenza più approfondita e alcune riflessioni sulla complessa storia della regione. Grazie a un lavoro di ricerca sul campo portato avanti a fasi alterne nell’arco di quattro anni, organizzato in interviste, raccolta di materiale interno e pubblicato, visita a insediamenti urbani e agricoli, sono arrivata all’ipotesi che i bingtuan si siano trasformati da braccio di Pechino nel nord-ovest, a una realtà politico-sociale di fatto, una presenza dotata di autonomia politica e sociale, non approvata dalle popolazioni locali. Sotto l’etichetta di difensori della stabilità e baluardo della cultura han nel nord-ovest musulmano, i bingtuan costituiscono un forte gruppo portatore di interessi propri, talvolta persino in contrasto con quelli di Pechino. Nel corso degli ultimi decenni sono diventati interlocutori del centro, spesso in grado di negoziare i termini dei finanziamenti e dei lauti sussidi elargiti dal governo centrale. Questo articolo vuole a mettere in evidenza alcuni tra i principali costi che Pechino sta pagando per la stabilizzazione del suo territorio nord-occidentale. Le massicce operazioni di ingegneria sociale che hanno portato milioni di han a risiedere nei lontani territori occidentali, la maggior parte nei bingtuan, hanno creato degli interessi e dei gruppi di potere che Pechino non può ignorare. Detto questo, una politica più attenta a redistribuire in modo più equo le risorse, e un interesse più reale e meno di facciata a interagire con le minoranze regionali, soprattutto quella uigura, permettendo loro di avere rappresentanti politici riconosciuti dalla popolazione5, sarebbe un contributo politico-sociale sostanziale per la stabilizzazione di una regione la cui integrazione rappresenta ancora una sfida per le autorità di Pechino.
Bingtuan, le potenti “corporation” che controllano e gestiscono risorse e spazi nel Xinjiang
POLITICA INTERNA La storia Come sostengono i residenti dei Corpi, non è possibile parlare di bingtuan prescindendo dalla storia di queste istituzioni. Facendo attenzione a tracciare parallelismi e continuità storiche tra eventi distanti nel tempo, e diversi in quanto a contesto e situazione contingenti, è necessario menzionare che la maggior parte degli studiosi cinesi e stranieri della regione sostiene che i bingtuan siano eredi dei tuntian, le colonie agricolo-militari presenti ai confini occidentali soprattutto durante le epoche Han, Tang e Qing. L’istituzione dei Corpi avviene dunque nel corso degli anni Cinquanta, ma la strategia di controllo dei territori di confine attraverso insediamenti supportati dal centro risale naturalmente a molto prima. Gli imperi stanziali e prevalentemente agricoli dell’est, e i regni nomadici dediti alla pastorizia del nord e dell’ovest, si sono sempre contesi il controllo dell’area che oggi chiamiamo Xinjiang. Le fertili oasi intorno al deserto del Taklamakan erano ricche di prodotti agricoli e famose per le fiorenti attività commerciali che vi si svolgevano. I sovrani nomadi avevano bisogno di assicurarsi il rifornimento di quei prodotti agricoli assenti nei loro regni, mentre per gli imperi orientali l’area era importante come territorio cuscinetto tra la loro zona di influenza e quella dei nomadi6. In questo contesto le popolazioni delle oasi svolgevano un ruolo che variava a seconda della convenienza: in tempi di pace fungevano da intermediari tra i regni nomadi e i funzionari degli imperi stanziali, facilitando la comunicazione e l’interscambio dei prodotti, mentre in caso di conflitto si alleavano con la parte belligerante che garantiva loro più vantaggi e protezione. Questo stato di cose si protrasse fino alla scomparsa definitiva dei popoli e dei regni nomadi nel XIX secolo7. Nelle fonti scritte i territori del nord-ovest oltre i confini dell’impero dinastico cinese vengono denominati in vari modi: da xiyu 西 域, “territori a occidente”, a guanwai 閞外, “ciò che si trova oltre il passo”, “oltre il posto di frontiera”. L’Islam cambiò in parte le cose: nonostante le prime conversioni si ebbero nel X secolo, il nuovo credo si diffuse nell’area non prima dei secoli XV e XVI8. Da allora si aggiunsero altre denominazioni, tra le quali la più comune era 回疆 huijiang, “frontiera musulmana”9. I tuntian vengono citati nelle fonti di tutto il periodo imperiale come colonie che si trovavano nei territori di confine. Fu soprattutto durante le dinastie Han10, Tang (618-906)11, Yuan12 (1271-1367), Ming13 (1368-1643) e Qing14 (1644-1911) che la corte imperiale dimostrò un particolare interesse per i territori a occidente, per questo i tuntian assunsero una particolare importanza come strumento strategico volto a controllare i nuovi protettorati e le nuove annessioni. Bisogna comunque sottolineare che il mantenimento degli insediamenti rappresentò sempre una spesa notevole per le casse centrali e che, no-
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang / 55 nostante le guarnigioni fossero presenti sul territorio, fino al 1949 non si può parlare di completa integrazione dei territori nord-occidentali nello Stato cinese.15 Seppur non vi siano studi esaustivi sui tuntian in lingue occidentali, le fonti scritte di epoca imperiale li citano come sistema di colonie: non un apparato rigido e immutato nel tempo, ma un meccanismo dalle funzioni diverse a seconda del periodo storico di riferimento, delle necessità politiche, e della visione dei funzionari di corte che lo sostenevano. Fang Yingkai e Zhao Yuzheng16 sono tra gli studiosi cinesi che più hanno approfondito l’argomento. Considerando la rete di insediamenti un aspetto del progetto politico imperiale volto a sottrarre terreno fertile e coltivabile alle aree desertiche e alle steppe, questi autori stabiliscono una continuità storica con la politica sviluppista del Pcc che dagli anni Cinquanta ha permesso di triplicare il terreno coltivabile della regione17. Gli insediamenti avevano quindi diverse funzioni a seconda del periodo di riferimento e delle necessità della corte che li promuoveva e supportava. Provvedere al sostentamento delle guarnigioni e garantire al centro il versamento delle tasse necessarie a giustificare l’occupazione di un territorio desertico e montagnoso a maggioranza non-han e dunque, per una parte della corte imperiale, non cinese, erano solo alcune delle motivazioni a favore dei tuntian. Come espressione della politica imperiale, essi erano anche uno strumento per controllare quegli han locali che, in virtù della lontananza dal centro e delle difficoltà legate alla geografia della regione, si consideravano spesso autonomi nel governo di fatto del territorio. L’autonomia di cui la regione godeva per motivi logistici e politici evidenzia una dialettica con il centro che si configurava già da principio complessa e conflittuale. Anche per questo motivo le autorità centrali non erano riuscite a sfruttare le ricchezze e la posizione geopolitica dell’area, indipendentemente dagli interessi stranieri e a beneficio del nascente Stato-nazione18. Benché nel 1859 la conquista militare del territorio fosse stata semplice e veloce, e le campagne di controllo e i tentativi di sinizzazione avessero consentito un certo afflusso di popolazione han dal resto della Cina, l’influenza del centro rimase tuttavia molto superficiale e non equamente distribuita sul territorio. Le questioni locali erano lasciate alla responsabilità dei leader autoctoni, i quali, quando il potere e l’influenza cinesi erano forti, accettavano di sottomettersi all’impero. Quando questo era debole e poco presente, il vacuum di potere veniva velocemente riempito dal gruppo locale di turno, che – si noti bene – non ha mai rappresentato un fronte unito19. Dunque, l’opportunismo politico e lo sfruttamento del territorio che caratterizzavano la presenza cinese e sovietica nel Xinjiang, uniti alle problematiche interne, non portò mai quelle riforme che sarebbe-
L’influenza del centro rimase molto superficiale e poco distribuita sul territorio
POLITICA INTERNA ro andate a vantaggio della popolazione locale. Né prese piede la presenza e il programma politico dei comunisti cinesi. Alla vigilia della conquista del potere da parte del Partito comunista, il Xinjiang era una provincia cinese sottosviluppata, divisa, culturalmente ed etnicamente non-han. Furono queste le condizioni che il Pcc ereditò e su queste basi si prefisse di costruire il “nuovo ordine socialista”. I nuovi leader presero ispirazione dalle campagne dell’inverno del 1941, ’42 e ’43, quando la situazione economica e agricola era drammatica. Alcune unità dell’esercito furono destinate ad attività di produzione del proprio cibo e dei propri rifornimenti, in una forma moderna di tuntian. Il modello era Nanniwan, villaggio a circa 30 miglia da Yenan, dove la 359ª brigata dell’VIII corpo d’armata fu assegnata per diversi anni ai lavori agricoli e allo sviluppo industriale. Nel 1943, la Brigata sosteneva di produrre l’80% del proprio fabbisogno. Simbolicamente anche Mao Zedong, fumatore di lunga data, coltivava un appezzamento di tabacco fuori dal suo rifugio di Yenan20. Dopo la buona riuscita di sei piccole fattorie collettive fondate nel 1950 come test, dalla fine del 1952, grazie all’assistenza tecnica di specialisti sovietici, grandi fattorie collettive furono inaugurate nella regione, che poi vennero riunite in un’unica organizzazione chiamata Corpi di produzione e Costruzione del Xinjiang, 新疆生产建设兵团 Xinjiang shengchan jianshe bingtuan. Nel corso degli anni Cinquanta Pechino fece grandi investimenti nella regione, molti dei quali venivano canalizzati attraverso il Corpi. Oltre agli investimenti di capitale, si forniva anche personale specializzato han che veniva inviato nella regione. Le unità delle tre divisioni di ingegneria civile dei Corpi vennero stabilite in aree dove vi erano in cantiere grandi progetti ingegneristici. Per raggiungere l’autosufficienza, anche queste unità si dotarono di fattorie e fabbriche proprie. Per la fine del 1954 le divisioni ingegneristiche dei bingtuan avevano fondato, e lasciato in eredità per essere gestite localmente, più di una dozzina di grandi stabilimenti industriali, e avevano costruito 92 impianti di lavorazione delle materie prime. Come veniva confermato nella stampa locale, Mosca aveva fornito supporto e assistenza per la realizzazione del nascente apparato industriale del Xinjiang, che in qualche caso produceva a solo vantaggio dell’esportazione di prodotti in Unione Sovietica. Le divisioni di costruzione avevano dato il via alla realizzazione di nuovi insediamenti urbani ad Alaer e Shihezi21, e di un nuovo distretto industriale a Urumqi. Le unità dei Corpi avevano ricoperto un ruolo di primo piano nella riparazione e costruzione di vie di comunicazione e autostrade, stazioni meteorologiche e impianti produttivi, oltre ad avere fornito il loro supporto per la costruzione della ferrovia Xinjiang-Lanzhou. All’inizio degli anni Sessanta i bingtuan stavano già coltivando un terzo del territorio fertile della regione, circa 11 milioni di mu, mentre
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang / 57 oltre il 60% del lavoro era meccanizzato. Nel 1966, il territorio coltivato dai Corpi era di oltre 12 milioni di mu, mentre la produzione agricola e industriale totale aveva raggiunto un volume totale di 1.200.000 yuan, circa un terzo della produzione totale della regione22. Nel 1966 i membri dei Cpcxj erano cresciuti fino ad arrivare a 500600mila persone: in prevalenza di etnia han, la generazione dei giovani sotto i trent’anni era cresciuta in modo considerevole superando in numero quella dei veterani. Nel marzo del 1966, per esempio, i “combattenti veterani” che erano stati pionieri nella bonifica della regione rappresentavano solo il 20% della popolazione delle unità dei Corpi. I nuovi arrivati dalle città costiere e dell’interno della Cina stavano gradualmente emergendo come gruppo di interesse, per contro, il piccolo gruppo di veterani, in virtù della lunga esperienza accumulata nel Xinjiang, continuò a detenere quasi tutte le posizioni di autorità nei ranghi dei bingtuan. Questo gruppo includeva sia ex militari dell’Elp che avevano combattuto sotto Wang Zhen e Wang Enmao, sia ex ufficiali nazionalisti rieducati delle unità di Tao Zhiyue. Formalmente la leadership dei bingtuan rimase immutata fino al 1966, con Tao comandante e Wang Enmao commissario politico I prodotti più importanti dei Corpi erano il grano, di cui, oltre a soddisfare il proprio fabbisogno, disponevano anche di un surplus; il cotone, la cui produzione superava la metà della produzione regionale; la barbabietola da zucchero, la canapa e la seta. Si allevavano inoltre più di due milioni di capi di bestiame, circa il 10% del totale regionale, mentre i Corpi erano spesso elogiati per gli sforzi condotti nella ricerca scientifica rivolta al settore agricolo. Durante tutti gli anni Settanta, le autorità regionali cominciarono a mandare ex Guardie rosse e gli altri giovani dai centri urbani alle campagne. Secondo Urumqi Radio del 1979, per la fine del 1972, circa 200mila giovani colti erano stati rimandati nelle campagne. Secondo un rapporto successivo un totale di 450mila giovani, da Shanghai, Wuhan e altre grandi città, così come da altre città all’interno della regione, si erano stabiliti o erano tornati nelle campagne23. Durante gli anni Ottanta la preoccupazione principale fu quella di riformare la struttura economica interna dei bingtuan e delle loro unità agricole. Gli obiettivi di Mao erano quelli di combinare i ruoli di soldati e contadini, e di promuovere il passaggio da un’economia agricola a un’economia industriale. Deng, da parte sua, chiese a tutti i lavoratori delle imprese statali di professionalizzare la propria forza lavoro e diversificare le potenzialità economiche. I principali cambiamenti interni che aprirono la strada alle trasformazioni volute da Deng furono la professionalizzazione delle milizie e il rilassamento delle restrizioni sulle imprese e le proprietà private. Il settore agricolo, base dell’economia dei bingtuan, fu quello che subì i maggiori cambiamenti. Come nelle altre parti del paese, l’appena nato settore in-
La produzione dei Bingtuan negli anni Sessanta e Settanta: agricoltura e allevamento
POLITICA INTERNA dustriale urbano, costituito quasi interamente da imprese di proprietà statale (Soe), avrebbe dovuto aspettare il consolidamento delle riforme rurali prima di essere ammodernato. Dall’inizio degli anni Novanta si riconobbe che si dovevano attuare cambiamenti drastici al fine di salvare i bingtuan e la loro popolazione dal diventare un crescente peso per le casse statali, nonché fonte di instabilità nella regione. Nello stesso tempo, il “nuovo contributo” che si richiedeva all’organizzazione era di fungere da forza di stabilizzazione attiva nel Xinjiang. Nel corso degli anni Novanta i Corpi furono così sottoposti a una serie di riforme strutturali che elevarono il loro grado nelle burocrazia e culminarono, nel 1998, nella condizione più significativa in tutta la storia dell’organizzazione. Il primo passo fu la dichiarazione del Consiglio di Stato che i bingtuan erano un’“unità di pianificazione autonoma”, 计划单列 jihua danlie24, che avrebbe, da quel momento in poi, elaborare un proprio piano quinquennale separato da quello della regione del Xinjiang. Questa mossa elevò effettivamente lo status burocratico dell’organizzazione, che da allora in poi fu considerata alla pari di una provincia o di un ministero, nonostante permanessero ambiti chiave nei quali disponeva di poteri limitati. Tra questi le Corti di giustizia, la finanza e il sistema di tassazione. Il secondo passo, nel 1994, fu di snellire l’organizzazione fondendo gli uffici del Partito con quelli dei bingtuan, che erano sempre stati gestiti separatamente25. Da quel momento in poi, i bingtuan divennero una parte del Pcc e furono posti sotto il suo diretto controllo a tutti gli effetti. I bingtuan oggi Bastano alcuni semplici dati per far comprendere l’importanza dei Corpi nel Xinjiang e nella Cina di oggi26: con quasi 3 milioni di residenti27, il controllo di una vasta porzione di territorio fertile e risorse idriche, un’amministrazione, un sistema educativo28, militare, sanitario e legale autonomi, due università (Shihezi University ha 40.000 studenti ed è diventata la più importante istituzione accademica nella regione) e quattro municipalità sotto la propria diretta amministrazione (Shihezi, Alaer, Wujiaqu, Tumushuke), i Corpi dipendono direttamente dal Consiglio di Stato, e ricevono investimenti direttamente da Pechino. L’Università di Shihezi è diventata in cinque anni la più importante della regione, sorpassando la storica Università del Xinjiang a Urumqi, e ha attivato programmi di scambio con alcune delle più importanti università del paese, come l’Università di Pechino e l’Università Sun Yat-Sen di Guangzhou. Shihezi è una città nata negli anni Cinquanta: l’area in cui sorge era costituita da una parte del deserto pietroso del Gobi, oggi è ricca di corsi d’acqua, giardini e attività imprenditoriali. Camminando per le strade di Shihezi, popolata per il
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang / 59 98% da han, si percepiscono una rilassatezza e una ricchezza sconosciute nelle altre città della regione. La comunità imprenditoriale facente parte dei bingtuan opera in 1.900 imprese statali con contabilità indipendente, di tipo commerciale, industriale e trasporti, 13 società quotate in borsa, 11 imprese agricole chiave di livello nazionale e 50 imprese agricole a livello di bingtuan. Imprese italiane esportano macchinari per la processazione dei pomodori e collaborano con imprese dei Corpi nel settore turistico, un campo nuovo per la regione, che sta attirando ingenti investimenti e centinaia di migliaia di turisti da tutta la Cina. Il leader del Partito regionale, Zhang Chunxian, sta attuando campagne volte ad attirare sempre più investitori e turisti nella regione, le cui maggiori attività economiche sono gestite dai Corpi. La base di questa realtà complessa e diversificata è costituita da una capillare e potente struttura amministrativa, i cui uffici sono distribuiti su tutto il territorio gestito dai bingtuan. Date le caratteristiche fisiche e geografiche della regione autonoma, ogni divisione amministrativa presenta peculiarità diverse. Per esempio, a seconda della posizione geografica e delle caratteristiche della popolazione, del territorio e dei rapporti con le autorità centrali, le divisioni dei bingtuan possono assumere l’aspetto di veri e propri insediamenti circondati da mura e non facilmente accessibili, di grandi aziende agricole o impianti industriali, così come di moderne città, servite da efficienti reti di trasporto e collegamenti di vario tipo, nazionali, regionali e locali. Questa estesa realtà politica, economica e sociale è retta da una piramide di organismi, che un tempo erano di tipo militare. Oggi queste strutture mantengono le denominazioni storiche e la struttura gerarchica caratteristica dell’esercito, un apparato di milizie popolari e molte connessioni con l’Elp, in particolare con la Regione militare di Lanzhou29. L’aspetto militare e di pubblica sicurezza dei bingtuan è difficilmente accessibile, sia come materiale che come strutture, per cui non si può disporre di dati e informazioni verificabili al riguardo. A prescindere dagli strettissimi rapporti con gli apparati militari, gli attuali vertici dell’organizzazione, così come i responsabili delle sue attività economiche, sono per la maggior parte essi stessi ex militari in pensione o in congedo30. Inoltre, secondo quanto emerso durante le interviste fatte a studenti di Shihezi, ogni residente dei bingtuan, sia esso studente o lavoratore, è tenuto a ricevere un addestramento militare di 40 giorni all’anno, 20 durante l’estate e 20 durante l’inverno. L’amministrazione dei bingtuan è una piramide di strutture, organizzate su cinque livelli31: il vertice è costituito dal Quartier generale, 兵团司令部 bingtuan silingbu, o organi centrali, 兵团机关 bingtuan jiguan, con sede a Urumqi, sotto la cui amministrazione vi sono 14 divisioni, 师 shi, anche chiamate reclamation areas, 垦区 ken qu32. 13 divisioni sono di tipo agricolo, 农业师 nongye shi, mentre una si oc-
Una struttura amministrativa e politica capillare e potente
POLITICA INTERNA cupa dei progetti ingegneristici, 建工师 gongjian shi. Ogni divisione può essere considerata un distaccamento, costituito per lo sviluppo agricolo del territorio e la sua difesa, e gestisce, rispondendo agli organi centrali, l’area di competenza e le attività che vi si svolgono, di tipo agricolo, ingegneristico e commerciale. Le divisioni amministrano anche le città bingtuan, e il rapido processo di urbanizzazione che le caratterizza. Kuitun è stata ufficialmente designata municipalità nel 1975, Shihezi nel 1976, Alaer, Wujiaqu, Beitun, Tianbei e Tumushuke nel 2002. Sotto l’autorità delle divisioni vi sono a tutt’oggi 175 reggimenti, chiamati 团 tuan. Le attività dei reggimenti si differenziano in diversi settori: agricoltura, allevamento, opere ingegneristiche (11 tuan), commercio e attività finanziarie. 4.391 sono le imprese industriali, di costruzione, di trasporti e commerciali gestite dai reggimenti. I territori agricoli dei tuan sono chiamati campi dei reggimenti, 团 场 tuan chang, oppure semplicemente terreni agricoli, 农场 nong chang. Alcuni tuan sono costituiti esclusivamente da grandi imprese, come i grandi gruppi industriali Tianzhu e Tianye a Shihezi. Nel 2007 ai tuan sono stati accorpati gli accampamenti, 营 ying, che costituivano un livello intermedio tra tuan e lian 连, e avevano parte delle funzioni che ora hanno i lian. I reggimenti sono dunque suddivisi in 2.200 compagnie, lian, che si scompongono in veri e propri gruppi di produzione, 生产队 shengchan dui, sottogruppi delle compagnie. I lian sono centri operativi in cui si amministrano le attività produttive di base, i cui settori di riferimento variano a seconda delle caratteristiche del territorio. Sono equiparabili alle contee agricole e gestiscono i lavoratori a contratto, 职工承包 zhigong chengbao, personale salariato e spesso temporaneo che costituisce il livello più basso della struttura piramidale. I Corpi di produzione e costruzione dispongono di uffici e centri accoglienza su tutto il territorio nazionale e a Taiwan. La funzione di queste strutture distaccate è dare informazioni a coloro che intendono trovare lavoro nei bingtuan e a chi vuole intraprendere rapporti d’affari, oltre che a fornire servizi e supporto al personale temporaneamente fuori dal Xinjiang per lavoro o turismo. Può succedere che le autorità regionali utilizzino queste strutture come appoggio per attività da loro organizzate, come iniziative turistiche e culturali, viaggi del personale delle unità di lavoro, oppure missioni ufficiali. Gli uffici si chiamano 办事处 banshichu, “ufficio, agenzia”, e ogni realtà importante dei Corpi ne dispone di diversi in tutto il paese. A Pechino esiste il 兵团大 厦 bingtuan dasha, che ha funzioni essenzialmente di accoglienza del personale in trasferta per lavoro o turismo nella capitale, una sorta di erede delle storiche sedi delle corporazioni, 会馆 huiguan. Stabilizzazione o intensificazione del conflitto? Nel corso della ricerca sul campo sono state fatte interviste a persone
La stabilizzazione del Far West cinese: il caso del Xinjiang / 61 ritenute rappresentative dei seguenti gruppi sociali: studenti, docenti e personale universitario, residenti, impiegati, manager, agricoltori e ristoratori, di etnia han, hui, uigura e kazaka. Le interviste sono state condotte in realtà urbane e rurali, nel nord e nel sud della regione, in particolare a Kashgar, Khotan, Turpan, Shihezi e Urumqi, e in alcuni tuan agricoli vicini a queste città. I risultati che interessano il tema di questa analisi possono essere riassunti nei seguenti punti: 1. Presenza di una forte motivazione di tipo nazionalista. La maggioranza dei residenti dei bingtuan utilizzano una retorica che enfatizza il ruolo della loro organizzazione in funzione anti-separatista, sostenendo con orgoglio di avere anche delle capacità militari grazie al training dedicato. Il non meglio identificato “movimento separatista uiguro” viene spesso menzionato e sottolineato. 2. I più giovani non conoscono la storia e la diversità culturale della regione del Xinjiang, se han non possiedono alcuna conoscenza della lingua uigura. Sempre questi ultimi considerano l’essere residenti bingtuan come un’opportunità per la carriera e la vita futura. 3. C’è un forte concetto di appartenenza etnica: essere han o uiguro viene considerato un attributo fisiologico, non una costruzione socio-politica. Gli han hanno la percezione di essere privilegiati, anche se non c’è ammissione diretta. 4. Tutti gli intervistati fanno parte del Pcc, o come semplici membri o come leader. Coloro che, dopo aver aderito, hanno mostrato l’intenzione di uscirne a causa dei numerosi impegni che il tesseramento comporta, sono stati avvertiti dai relativi leader che la rinuncia all’appartenenza al Pcc comporta pesanti ricadute sulla carriera professionale. In questo modo sono stati dissuasi dall’uscirne. 5. La maggioranza degli intervistati sostiene che Pechino deve sostenere in modo più adeguato l’organizzazione e le sue imprese, soprattutto attraverso finanziamenti e investimenti, per aumentare le possibilità di business e migliorare il livello di vita dei suoi membri. Il maggiore supporto deve essere fornito anche in considerazione del ruolo che i Corpi svolgono per lo sviluppo della regione. 6. La maggior parte degli intervistati ha dichiarato che, per ragioni storiche, gli uiguri odiano gli han e che sarebbero pronti a tutto pur di vederli sparire. Questo odio etnico renderebbe indispensabile la presenza dei Corpi nella regione. In base a queste risposte, si nota che la retorica del separatismo e dell’odio etnico è in contrasto con la linea del segretario del partito regionale Zhang Chunxian, il quale si distingue per una linea più soft che enfatizza la necessità di apertura e sviluppo economico, nonché l’urgenza di arginare gli interessi di potenze straniere per la destabilizzazione della regione33. La linea dura sembra essere funzionale alla richiesta di più fondi e finanziamenti, che dovrebbero
La percezione attuale dei Corpi di produzione e costruzione da parte della popolazione locale
POLITICA INTERNA essere erogati grazie al ruolo che i bingtuan svolgono per la sicurezza della regione. Pechino invece vorrebbe cominciare a parlare di smantellamento, o quanto meno di bingdi ronghe, “integrazione civile-militare”, per liberarsi di questa struttura ancora elefantiaca e che rappresenta un peso per le casse dello Stato34. In questa tensione non è ancora chiaro chi avrà la meglio, nel frattempo il potere e le risorse a disposizione dei Corpi sembrano aumentare, mentre la società uigura sta attraversando un processo di islamizzazione e nella regione oramai ogni mese ci sono notizie, a volte riportate dai media, a volte no, di scontri e morti35. Certo i bingtuan non sono ben visti dalla popolazione locale, che se interrogata sul tema sostiene senza esitazione che: 1. si sono stanziati nelle aree più fertili e alle sorgenti dei fiumi causandone il prosciugamento; 2. sono pronti a tirare fuori le armi in qualsiasi momento, soprattutto contro gli uiguri; 3. sono una forza di colonizzazione, portatrice di odio etnico, e attirano ogni anno centinaia di migliaia di han. L’ultimo punto è sostenuto dal fatto che nelle pubblicazioni dei bingtuan si enfatizza l’unione tra le etnie e spesso non si forniscono informazioni e dati disaggregati in base all’appartenenza etnica, mentre nel materiale interno, neibu, esaminato dall’autrice i dati vengono forniti disaggregati per etnia, e quella han, nonostante ufficialmente non sia la maggioranza nella regione, nelle tabelle viene sempre considerata come prima. Nel quadro di tale rigidità di posizioni gli elementi che più saltano agli occhi sono l’impossibilità di intavolare un dialogo e il pregiudizio che caratterizza le due parti. A questo punto è difficile valutare se i bingtuan possano veramente essere una forza di stabilizzazione o se piuttosto siano un elemento di destabilizzazione della regione. E viene anche il dubbio che Pechino non abbia la forza di imporsi sul suo ex braccio nel Nord-ovest per imporre uno smantellamento che, data la realtà di fatto degli insediamenti e la quantità di residenti, appare oramai sempre più difficile da realizzare. Quello che Pechino sta cercando di fare è riconvertire i Corpi in società private, attraverso il processo chiamato bingdi ronghe 兵地融合. Tale politica viene osteggiata da dirigenti e residenti dei bingtuan, che perderebbero una buona parte delle garanzie sociali e politiche, nonché dei vantaggi economici, di cui godono sotto l’ombrello di Pechino. Un rapporto conflittuale e dialettico centro-bingtuan, nonché un progetto di stabilizzazione che in realtà rimane una sfida, è ciò che il Partito comunista e le autorità centrali dovranno affrontare nel futuro prossimo. ■
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NOTE 1. Il nome per esteso è 新疆生产建设兵团, mentre bingtuan, 兵团, letteralmente significa “unità militari”. 2. He - Shi (1994), cap. 2. 3. Per una esaustiva storia di questa organizzazione, si veda Li, Fang (1997). 4. Si veda la relativa cartina che mostra la distribuzione del territorio sotto l’amministrazione dei bingtuan nella Regione Autonoma Uigura del Xinjiang. 5. Gli attuali rappresentanti, dal segretario del partito Zhang Chunxian al segretario della regione autonoma Nur Bekri, vengono visti come venduti agli interessi del partito. 6. Per un inquadramento geopolitico della regione centro-asiatica seguendo le interazioni tra tra popolazioni nomadi e stanziali si veda Benson - Svanberg (1998). 7. Millward (2007), pp. 95-96.
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8. Dillon (2004), pp. 10-11; sul piano di islamizzazione della Cina da parte di Tamerlano si veda CHC, vol. 7, p. 259. 9. Millward (1998), p.154. Hui è oggi il termine ufficiale che designa il gruppo etnico cui appartiene la popolazione sino-tibetana di religione musulmana chiamata anche tungana, che vive prevalentemente nella regione autonoma ad essa affidata, la Regione autonoma hui del Ningxia. 10. CHC, vol. 1, pp. 412, 413, 418, 424, 482, 538, 556, 563, 647. 11. CHC, vol. 3, pp. 286, 369, 417, 396, 593. 12. CHC, vol. 6, p. 601. 13. Per un’analisi dei tuntian in epoca Ming si veda Foon Ming Liew (1984), e Mulvenon (1999). Anche CHC, vol. 7, pp. 104-105, 170, 171, 183, 207, 250, 275, 291, 294, 320, 409, 410, 451, n. 2, 525; vol. 8, pp. 70-71, 107, 108, 121, 125-126, 140-44, 149-50. 14. Si veda sotto. 15. Nonostante il territorio fosse stato conquistato e annesso militarmente, la gestione politico-amministrativa, nonché il controllo politico così com e lo intendiamo in senso moderno, non erano ancora pienamente controllati dallo Stato centrale. 16. Fang Yingkai, 1989; Zhao Yuzheng, 1991. 17. Tunken 屯垦, letteralmente “stazionamento di truppe incaricate di bonificare un territorio”. In italiano l’espressione può essere resa con “aree di bonifica”. Sul piano di riqualificazione dei terreni portato avanti dal Pcc dagli anni Cinquanta a oggi si veda anche Pai Ch’ung-te, 1973. 18. Sul “grande gioco”, si veda Hopkirk (1992); sull’influenza sovietica si veda Wang (1999) e Benson (1990). Per un’interpretazione sulla formazione dello Stato-nazione cinese durante l’epoca Qing, si veda Millward 1998. 19. Per un’analisi della storia delle popolazioni nomadi e turcofone dell’Asia Centrale, si veda Sinor, 1990. 20. CHC, vol. 13, p. 694. 21. Oggi importanti centri urbani dei Corpi, insieme a Kuitun, Wujiaqu e Tumushuke. 22. SWB/FE, no. 6020, BII, p.6. In McMillen (1981), p. 92 nota 20. 23. Beijing Review, no.11, 12 mar. 1976, p. 3. Secondo Urumqi Radio del 21 dicembre 1977 più di 375mila giovani istriuti del Xinjiang si erano trasferiti in campagna, e 20mila nel 1976. 24. In Seymour (2000), p. 184. 25. Seymour (2000), p. 185. 26. I dati sono presi dall’Annuario statistico dei Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang 2010, le cifre si riferiscono quindi all’anno 2009. 27. Il dato non considera le forze militari e i lavoratori migranti, entrambi impiegati da diversi organi dei Corpi. La popolazione totale del Xinjiang è di 21 milioni di persone, distribuite nelle poche parti abitabili del territorio, in prevalenza costituito da deserti, steppe e montagne. 28. Con 698 istituti di istruzione elementare, media e superiore, due grandi università, 202 stazioni radio e televisive, 33 pubblicazioni tra quotidiani e periodici,1555 ospedali, strutture di ricerca, dipartimenti di giustizia e procuratori, i bingtuan hanno un forte potere anche dal punto culturale, mediatico e sociale. 29. Il distretto militare di Urumqi fa parte della regione militare di Lanzhou, della quale si vedono blindati e macchine di ordinanza per le strade di Urumqi. Si veda Shichor (2009). 30. Comunicazione personale con un imprenditore italiano che collabora con alcune aziende dei Corpi. 31. La ricostruzione della struttura dei bingtuan è stata possibile soprattutto grazie alla Prof.ssa Zhang Fenyan dell’Università di Shihezi e al Prof. Zhang Jianping della Minzu University of China, Pechino, nonché grazie ai suggerimenti di alcuni funzionari del quartier generale dei Corpi a Urumqi. 32. Una sola è di tipo ingegneristico, 建工. 33. L’argomento della potenza straniera che ha intenzione di destabilizzare il nord-ovest cinese è spesso utilizzato dalle autorità di Pechino, con particolare riferimento agli Stati Uniti, che finanziano la più importante associazione di uiguri all’estero, il World Uyghur Congress. 34. Comunicazione personale con alti funzionari del Pcc a Pechino; per il bilancio dei bingtuan in rosso, si veda Wiemer (2004). 35. Mentre si sta scrivendo sono in corso scontri a Kashgar (30-31 agosto 2011).
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La tutela delle minoranze e delle autonomie In the Chinese system of territorial autonomy, local selfProfessore associato governments are created for the protection of fifty-six di Diritto pubblico nationalities officially recognized. The autonomist structure comparato presso la Facoltà di giurisprudenza articulated for the protection of national minorities includes dell’Università di Bergamo the province-level autonomous regions, and at the lower levels the autonomous prefectures, the autonomous cities of the level of prefecture, the autonomous counties and the autonomous cities of county level. From a statistical point of view, it must be taking into account that the Chinese population belonging to the Han ethnic group is actually over ninety percent of the total. On the basis of art. 4 of the 1982 Constitution, the cultural, linguistic and socio-economic rights of the national minorities are protected by the law of 1984, as amended in 2001. Despite the constitutional and legislative provisions for the protection of national minorities, however, still remains crises and events of inter-ethnic tensions, as shown especially by the cases of Tibet, Xinjiang, and Inner Mongolia. Mauro Mazza
L
a Repubblica popolare cinese si configura tuttora dal punto di vista della modellistica ordinamentale come uno Stato unitario1, nonché secondo le più aggiornate classificazioni proposte dalla dottrina giuscomparatistica italiana (di area sia privatista2 che pubblicista3), con conferme altresì nella letteratura internazionale4, come uno Stato autoritario che segue (prevalentemente, incluse però alcune non secondarie ibridazioni/contaminazioni con soluzioni di common law, soprattutto nel settore del diritto civile/commerciale)5 lo stile di civil law. Gli organi superiori del potere statale sono rappresentati, in primo luogo, dal Parlamento unicamerale nazionale, denominato Assemblea nazionale del popolo (Anp), e dal suo Comitato permanente, che sono entrambi titolari della potestà normativa primaria6. Il potere esecutivo nazionale è attribuito al Governo centrale, chiamato Consiglio degli affari di Stato (Cas) e definito organo supremo amministrativo dello
La tutela delle minoranze e delle autonomie / 69 Stato. I vertici della piramide giudiziaria7 ordinaria sono costituiti dalla Corte suprema popolare e dalla Procura suprema popolare, rispettivamente per la magistratura giudicante e per la magistratura requirente; esistono, peraltro, una miriade di giurisdizioni speciali, fra cui le corti militari, ferroviarie, fluviali, marittime e forestali8. Al di sotto degli organi superiori del potere statale troviamo gli organi locali del decentramento (politico-)amministrativo, la cui esistenza sul piano istituzionale appare sospesa fra aspirazioni autonomistiche ed esigenze unitarie9. Nel corso dell’evoluzione storica del diritto della Cina popolare, per effetto di modificazioni intervenute sia sul piano costituzionale che su quello legislativo, si è passati progressivamente dai sei livelli di governo locale previsti fra il 1949 e il 1954, ai cinque anelli contemplati dalla Carta costituzionale del 1954 fino agli attuali quattro gradini di amministrazione territoriale decentrata. Questi ultimi sono costituiti dai livelli provinciale, di prefettura, di contea e distrettuale. Allo scopo di corrispondere alle esigenze dello Stato multinazionale cinese, nel quale sono ufficialmente censite ben cinquantasei nazionalità – pur tenendo conto che secondo i dati forniti dall’Ufficio nazionale di statistica10 della Repubblica popolare cinese la maggioranza di etnia han raggiunge il 91,59% dell’intera popolazione cinese11 – l’ordinamento cinopopolare ha effettuato una modulazione dimensionale dei governi autonomi locali, nel senso che essi mostrano una triplice tipologia. Occorre, infatti, notare che al primo livello troviamo le regioni autonome di livello provinciale, al secondo gradino le prefetture autonome affiancate dalle città autonome di livello di prefettura e al terzo livello le contee autonome cui si aggiungono le città autonome di livello di contea. Dal punto di vista numerico sono istituite, oltre alle cinque regioni autonome12, settantasette prefetture autonome13 e seicentonovantanove contee autonome14. Secondo la dottrina cinese15, il riconoscimento delle minoranze nazionali non comporta atteggiamenti che la critica post-coloniale ha evidenziato essere discriminatori e di esclusione; in particolare, l’identità etnica non crea – ad opinione degli studiosi cinesi – un fenomeno di colonizzazione interna ovvero di “orientalismo” interno. Il principio di uguaglianza tra le comunità etniche nazionali, nell’ottica della protezione (costituzionale e legislativa) dell’autonomia regionale/ locale e linguistica L’art. 4 della Costituzione del 1982 stabilisce i principi fondamentali della disciplina inerente i gruppi etnici nazionali, riconosciuti dalla Rpc sulla base di minuziose classificazioni etnografiche, socioantropologiche, religiose e linguistiche mediante le quali ne è stato fissato il numero complessivo in cinquantasei16. Nella prospettiva diacronica, rileva soprattutto il sul sistema dei
Gli organi superiori del potere statale e gli organi locali del decentramento
DIRITTO jimi fu zhou (traducibile «governatorati e prefetture tenuti con le redini»), concernente forme di amministrazione per le circoscrizioni autonome abitate dalle comunità etniche non-han17. Lo studio con finalità tassonomiche delle etnie della Cina iniziò dopo la caduta dell’ultima dinastia imperiale, al tempo della c.d. Repubblica delle Cinque nazionalità, rappresentate dagli han e dalle minoranze nazionali mongola, mancese, tibetana e tatara. Le rilevazioni sistematiche sulla composizione etnica e l’identificazione linguistica della popolazione, compiute nella prima fase con l’assistenza di etnografi sovietici, furono avviate nel 1950. Ad esse parteciparono, oltre a sociologi, antropologi e linguisti, anche storici ed esperti di letteratura, musica e arte18. La comunità di gran lunga prevalente è quella dei cinesi han, ossia dei cinesi in senso stretto, con il 91,59% (v. ante) della popolazione totale secondo i dati del quinto censimento nazionale effettuato nel 2000, pari a 1.159.000.000 di individui. Gli appartenenti alle rimanenti minoranze etniche nazionali, o identità “altre”, sono cinesi quanto a cittadinanza, non invece per quanto concerne le caratteristiche etniche e linguistiche. Si tratta pur sempre di 104,49 milioni di persone, costituenti l’8,41% dell’intera popolazione della Cina, che occupano oltretutto vaste zone del Paese, approssimativamente i due terzi del territorio complessivo. A specificazione di quanto affermato nel Preambolo della vigente Costituzione, dove si definisce la Rpc Stato unitario multinazionale, il comma 1 dell’art. 4 della Legge fondamentale proibisce ogni discriminazione o forma di oppressione a danno delle minoranze nazionali, le quali sono poste su un piano di parità sia tra di loro che nei confronti della comunità etnica numericamente maggioritaria degli han. Il comma successivo della stessa disposizione costituzionale garantisce l’autonomia regionale per le aree del Paese dove vivono «comunità concentrate» di membri delle minoranze etniche nazionali, prevedendo anche l’istituzione in tali zone territoriali di organi per l’autogoverno locale, ma escludendo comunque il diritto di secessione. Il terzo e ultimo comma dell’art. 4 contempla la tutela e promozione di usi, costumi e tradizioni dei gruppi etnici, nonché la protezione e lo sviluppo delle lingue minoritarie che le c.d. genti non-han hanno diritto di utilizzare liberamente nella comunicazione sia scritta che orale19. I diritti culturali, linguistici e socioeconomici delle minoranze etniche in Cina, il relativo status politico-istituzionale, nonché la composizione e le funzioni degli organi di autogoverno locale creati nelle centocinquantacinque aree autonome etniche20 attualmente esistenti nel Paese sono disciplinati nel dettaglio dalla legge del 31 maggio 1984, dedicata all’autonomia etnica regionale. Tale provvedimento legislativo, approvato dalla seconda sessione della
La tutela delle minoranze e delle autonomie / 71 VI Assemblea nazionale del popolo ed entrato in vigore il 1° ottobre dello stesso anno, è stato successivamente emendato il 28 febbraio 2001 dal Comitato permanente dell’Anp. Aspetti problematici della tutela delle minoranze nazionali tibetana, uigura e mongola Si manifestano attualmente – come è noto – non soltanto numerose tendenze etno-nazionaliste, del resto inevitabili nel peculiare contesto istituzionale della Cina popolare storicamente caratterizzato dalla creazione di un modello di regionalismo (multi)etnico21, ma altresì autonomiste e/o indipendentiste (ovvero dell’autodeterminazione c.d. esterna), specialmente della comunità tibetana22 e di quella dei musulmani turcofoni uiguri23, anche in connessione (recte, in opposizione) con il risalente concetto strategico e geopolitico di “Grande Cina”, che comprende l’area tradizionale dell’“Impero di Mezzo” con l’aggiunta della Mongolia, della Manciuria, dello Xinjiang e del Tibet24. In particolare, sono da ricordare la peculiare natura identitaria-religiosa: a) del nazionalismo tibetano alla base della ribellione etnica nella primavera del 200825, come anche in precedenza dei disordini interetnici verificatisi a Lhasa nel 1987-1989 e culminati nell’applicazione della legge marziale proclamata nel gennaio 198926; b) del nazionalismo etnico nella Mongolia interna, dove sono stati tradizionalmente repressi i comportamenti non conformi allo Han way of life27 unitamente ai tentativi di infittire i rapporti con la Mongolia (indebolendo la posizione della Cina popolare), fino al punto che durante gli anni sessanta del secolo scorso la persecuzione politica ha duramente colpito gli appartenenti al «Partito rivoluzionario del popolo della Mongolia interna»28 mentre durante gli ultimi quindici anni si è ostacolato il radicamento, attraverso un atteggiamento non certamente benevolo nei suoi confronti da parte delle autorità cinesi, dell’«Alleanza democratica della Mongolia meridionale» (Smda), movimento politico che propone un rinnovamento delle soluzioni in tema di diritti delle minoranze e promozione della cultura nazionale mongola29, opponendosi alla “colonizzazione” cinese30; c) del nazionalismo nello Xinjiang, il quale ha occasionato gli scontri etnici del luglio 2009 fra uiguri e cinesi di etnia han31. Il nazionalismo (e il sotteso conflitto etno-nazionale) uiguro, ad esempio, ritiene che la propria terra (o “patria”) costituisca uno Stato-nazione distinto32 il quale attualmente soffre l’occupazione di un potere “coloniale” (quello cinese) che sarebbe inerentemente “straniero”33. In definitiva, giustamente si è osservato che: «Based on the concept of nationalism, the Chinese State, thus, does not recognise the ethnic
Le principali tendenze etno-nazionaliste, autonomiste e/o indipendentiste
DIRITTO character of the Uyghur movement. Since the concept of ethnicity carries no political connotation, the question of separation or secession does not exist in Chinese perception of the Uyghur issue. Moreover, the Chinese concept of nationhood is inextricably linked up with strategic concerns. The present-day Chinese nationalism is based on the idea of building a strong nation and attain a great power status. China regards Xinjiang as an integral part of itself»34. A quest’ultimo riguardo, è altresì recentemente emersa la correlativa esigenza di dare vita a forme di cooperazione regionale per combattere il terrorismo, il separatismo nonché in generale l’estremismo – id est, le c.d. tre forze diaboliche (secondo la concezione cinopopolare)35 –, controllando specialmente il radicalismo islamico36 che tende a palesarsi sia attraverso la commistione fra islamic revival e local nationalism37 che nella forma della solidarietà panmusulmana38. In particolare, il rapporto pubblicato nel gennaio 2002 dal Consiglio (degli affari) di Stato della Repubblica popolare cinese, dal titolo «“East Turkistan” Terrorist Forces Cannot Get Away With Impunity»39, considera il contrasto al movimento uiguro come parte della guerra globale al terrorismo, e individua ben nove organizzazioni terroristiche internazionali operanti nello Xinjiang. Alla finalità di contrasto del terrorismo internazionale, inclusa la dimensione terroristica dei movimenti indipendentisti, corrisponde fra l’altro la creazione nel 2001 della Shanghai Cooperation Organization (Sco)40, conosciuta anche come la “piccola Nato” dell’Asia centrale, alla quale aderiscono, oltre alla Repubblica popolare cinese, la Federazione Russa e le Repubbliche centroasiatiche ex- (o, forse meglio, post-)41 sovietiche di Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan42. ■
NOTE 1. Cfr. J. Howell, Reflections on the Chinese State, “Development and Change”, 2006, p. 273 ss. 2. Si veda, autorevolmente, G. Crespi Reghizzi, Introduzione: diritto privato comparato in Italia ieri e oggi, “Annuario di diritto comparato e di studi legislativi”, 2010, p. 3 ss., spec. p. 7 ss. e nota 16. 3. V., ad esempio, M. Mazza, Stati autoritari, in G.F. Ferrari (a cura di), Atlante di diritto pubblico comparato, Torino, Utet, 2010, p. 102 ss. 4. Cfr., ex plurimis, T. Wright, Accepting Authoritarianism. State-Society Relations in China’s Reform Era, Stanford, Stanford University Press, 2010. 5. Si veda l’analisi di M. Timoteo, Un paese due sistemi. Il diritto cinese fra civil law e common law, in AA.VV., Due iceberg a confronto: le derive di common law e civil law, Milano, Giuffrè, 2009, p. 91 ss. 6. Da ultimo, sul modello cinese-popolare delle Assemblee deliberative dei vari livelli, v. M. Xia, The People’s Congresses and Governance in China. Toward a Network Mode of Governance, Londra-New York, Routledge, 2011; Y. Sun, Constraining or Entrenching the Party-state? the Role of Local People’s Congresses in PRC China, “Hong Kong Law Journal”, 2010, p. 833 ss. 7. Sul sistema giudiziario cinese, v. ora M. Mazza, Le istituzioni giudiziarie cinesi. Dal diritto imperiale all’ordinamento repubblicano e alla Cina popolare, Milano, Giuffrè, 2010.
La tutela delle minoranze e delle autonomie / 73 8. Per ampie analisi del sistema giuscostituzionalistico della Rpc v., in particolare, R. Cavalieri (a cura di), Diritto dell’Asia orientale, Venezia, Cafoscarina, 2008; G. Ajani - A. Serafino - M. Timoteo, Diritto dell’Asia orientale, Torino, Utet, 2007; M. Mazza, Lineamenti di diritto costituzionale cinese, Milano, Giuffrè, 2006; Id., La Cina, in P. Carrozza - A. Di Giovine - G.F. Ferrari (a cura di), Diritto pubblico comparato, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 614 ss.; A. Rinella, Cina, Bologna, il Mulino, 2006; M. Palmer, The Chinese Constitution. A Contextual Analysis, Oxford, Hart, 2007; P. Gewirtz, Approaches to Constitutional Interpretation: Comparative Constitutionalism and Chinese Characteristics, in Hong Kong Law Journal, 2001, p. 200 ss.; Y. Zhang, Xianzheng Luncong [Essays on Constitutionalism], I-II, Beijing Qunzhong chubanshe, 1986. Per i profili storici, v. R. Cavalieri, La legge e il rito. Lineamenti di storia del diritto cinese, Milano, Franco Angeli, 1999; Lin Feng, La storia moderna del diritto costituzionale cinese, in P. Costa - D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 776 ss.; M. Timoteo, Circolazione di modelli e riforme giuridiche: il caso est-asiatico, Bologna, Libreria Bonomo Editrice, 2005, p. 65 ss.; J. Luther, Percezioni europee della storia costituzionale cinese, in G. Ajani - J. Luther (a cura di), Modelli giuridici europei nella Cina contemporanea, Napoli, Jovene, 2009, p. 69 ss. 9. Cfr. P.B. Potter, Governance of the Periphery: Balancing Local Autonomy and National Unity, in Columbia Journal of Asian Law, 2005, p. 293 ss.; J.O. Chung, Tao-chiu Lam (a cura di), China’s Local Administration. Traditions and Changes in the Sub-National Hierarchy, London-New York, Routledge, 2011. In Italia, v. M. Mazza, Decentramento e governo locale nella Repubblica popolare cinese, Milano, Giuffrè, 2009. 10. Per le analisi condotte sui dati statistici, v. M. Hoddie, Ethnic Identity and Change in the People’s Republic of China: An Explanation Using Data from the 1982 and 1990 Census Enumerations, “Nationalism and Ethnic Politics”, 1998, n. 1-2, p. 119 ss. 11. Cfr. National Bureau of Statistics of China, China Statistical Yearbook 2002, Beijing, China Statistics Press, 2002. Per l’esattezza, gli appartenenti alle minoranze etniche sono sulla base dell’ultimo censimento effettuato nel 2000 composte da 105.226.114 persone. I gruppi etnici minoritari con una popolazione formata da meno di centomila individui sono venti, e il loro numero complessivo di appartenenti è pari a circa 420.000. Le minoranze nazionali riconosciute abitano oltre il 60% del territorio nazionale. Il Governo cinese non adotta la definizione di «popoli indigeni», bensì quella di «minoranze etniche». Per dati aggiornati, cfr. C. Mikkelsen (a cura di), The Indigenous World 2010, Copenhagen, The International Work Group for Indigenous Affairs (Iwgia), 2010, p. 308 ss. Da ultimo, cfr. M. Cigliano, Le minoranze etniche in Cina, conferenza tenuta il 12-1-2011 presso l’Università di Napoli «L’Orientale», nonché prima le relazioni presentate al seminario su “Minoranze etniche e religiose in Cina: valorizzazione o assimilazione?” presso l’Università di Trento il 27 ottobre 2010. Adde A.-D. Senz, Zwischen kultureller Anpassung und Autonomie: Nationale Minderheiten in China, in “Aus Politik und Zeitgeschichte”, n. 39, 2010, p. 15 ss. 12. V. supra, alla nota 11 e testo corrispondente. 13. Incluse le città autonome di livello di prefettura. 14. Ivi comprese le county-level cities che dispongono di uno statuto d’autonomia. 15. Cfr. J. Pan, Deconstructing the Ethnic Minorities of China: De-orientalism or Re-orientalism, in Journal of Guangxi University for Nationalities (Philosophy and Social Sciences Edition), 2009, all’indirizzo http://en.cnki.com.cn/ (testo in cinese), nonché prima X. Fei, Ethnic Identification in China, “Social Sciences in China”, 1980, n. 1, p. 94 ss. Sullo sviluppo storico dell’etnologia e dell’antropologia in Cina, v. G.E. Guldin, The Saga of Anthropology in China: From Malinowski to Moscow to Mao, Armonk, New York, Sharpe, 1994. Sotto il profilo dell’insegnamento accademico dell’etnologia (e dell’“indgenismo”) in Cina, v. J. Wang - H. Zhang - H. Hu, Zhongguo minzuxue shi [The History of Ethnology in China], II, (1950-1997), Kunming, Yunnan jiaoyu chubanshe, 1998. Nella letteratura occidentale, si vedano ad esempio D. Gladney, Representing Nationality in China: Refiguring Majority/ Minority Identities, in The Journal of Asian Studies, 1994, n. 1, p. 92 ss., che osserva la tendenza dei discorsi sinocentrici sulle minoranze a “femminilizzare” e “infantilizzare” le minoranze medesime, con l’intento di “esoticizzare” l’immagine della minoranza; Id., China’s Indigenous Peoples and the Politics of Internal Colonialism: The Case of the Uyghur Muslim Minority, in “Harvard Asia Pacific” Review, 1999, p. 11 ss.; N. Tapp, In Defence of the Archaic: A Reconsideration of the 1950s Ethnic Classification Project in China, in Asian Ethnicity, 2002, n. 1, p. 63 ss., il quale parla di “auto-Orientalismo”, ovvero di “auto-Orientalizzazione” interna; M. Esteban, La orientalización de las minorías nacionales de China, in Revista Española del Pacífico, 2000, n. 11, p. 151 ss. Sulle discriminazioni “rampanti” operate dagli Han nelle aree abitate da minoranze, v. altresì S. Barry, Ethnic Law and Minority Rights in China: Progress and Constraints, in “Law and Policy”, 1999, p. 283 ss. Per
DIRITTO l’affermazione che si tratterebbe di categorie dell’identità accettate e perfino favorite, v. infine C. Chien - N. Tapp (a cura di), Ethnicity and Ethnic Groups in China, Hong Kong, The Chinese University of Hong Kong, 1989. 16. Sul caleidoscopio di etnie in Cina, con particolare riguardo al relativo pensiero tassonomico e alle problematiche giuridiche, esiste una vasta letteratura. In Italia, v.: O. Rossi, La politica cinese verso le minoranze, in L. Lanciotti (a cura di), Conoscere la Cina, Torino, Edizioni Fondazione G. Agnelli, 2000, p. 11 ss.; C. Turini, Società multietnica e pluralismo culturale: considerazioni su problemi delle minoranze etniche nella Repubblica Popolare Cinese, “Mondo Cinese”, n. 101, 1999, p. 37 ss.; P. Corradini, Problemi delle minoranze nazionali in Cina, ivi, n. 18, 1977, p. 3 ss.; F. Montessoro, Le minoranze nazionali nel mondo cinese, in E. Collotti Pischel (a cura di), Cina oggi. Dalla vittoria di Mao alla tragedia di Tian’anmen, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 39 ss.; M. Cigliano, La legge sull’autonomia delle minoranze e la sua attuazione, in “Mondo Cinese”, n. 63, 1988, p. 13 ss.; G. Melis, Le autonomie regionali nella Cina contemporanea, ivi, n. 60, 1987, p. 3 ss.; F. Cosentino, Problemi e caratteristiche dello sviluppo economico nelle aree periferiche della Cina abitate dalle minoranze nazionali, ivi, n. 36, 1981, p. 59 ss.; G. Casu, Le etnie nella Cina degli Han, ivi, 1977, n. 18, 1977, p. 15 ss. Tutto quanto poteva essere detto in tema di minoranze in Cina si trova probabilmente ora raccolto in C. Mackerras (a cura di), Ethnic Minorities in Modern China, I-II, London-New York, Routledge, 2011 (l’opera consta di ben 1.724 pagg.). 17. Si vedano P. Corradini, Etnie e potere nell’impero dei Ch’ing, in P. Daffinà (a cura di), Indo-Sino-Tibetica. Studi in onore di L. Petech, Roma, Dipartimento di studi orientali, 1990, p. 81 ss.; Id., Le autonomie regionali in Cina dall’Impero alla Repubblica, “Mondo Cinese”, n. 63, 1988, p. 3 ss.; Id., On the Multinationality of the Qing Empire, in Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 1998, p. 341 ss.; M. Cigliano, L’amministrazione delle popolazioni non-Han in epoca T’ang: il sistema Jimi, “Cina”, n. 20, 1986, p. 39 ss. 18. Per gli orientamenti metodologici e teorici, nonché per le implicazioni politiche, della ricerca antropologica, sociologica ed etnografica nella Cina contemporanea, cfr. E.J. Croll, New Research Trends in Anthropology/Sociology of China, “China aktuell - Journal of Current Chinese Affairs”, 2006, n. 3, p. 90 ss.; J.N. Smith, Maintaining Margins: The Politics of Ethnographic Fieldwork in Chinese Central Asia, “The China Journal”, n. 56, 2006, p. 131 ss. 19. Sugli aspetti specifici del riconoscimento e della tutela giuridica del multilinguismo nella Rpc, cfr. Fei Anling - G. Terracina, Il pluralismo linguistico della Cina moderna e le sue basi costituzionali, in A. Lollini (a cura di), Pluralismo linguistico e costituzioni. Un’analisi comparata, Merano, Alpha beta, 2004, p. 85 ss.; M. Lundberg, Regional National Autonomy and Minority Language Rights in the Prc, “International Journal on Minority and Group Rights”, 2009, p. 399 ss.; M. Lundberg - Sun Hongkai (a cura di), Review of Policy and Law on Linguistic Minorities in China, Beijing, The Ethnic Publishing House, 2007; Zhou Minglang - Sun Hongkai (a cura di), Language Policy in the People’s Republic of China. Theory and Practice Since 1949, Boston, Kluwer Academic Publishers, 2004. 20. Per la precisione, si tratta di cinque regioni autonome, trenta prefetture autonome e centoventi distretti autonomi. 21. Si veda K. Palmer Kaup, Regionalism versus Ethnicnationalism in the People’s Republic of China, “The China Quarterly”, 2002, p. 863 ss. 22. V., ad esempio, Y. Ghai - S. Woodman - K. Loper, Is There Space for “Genuine Autonomy” for Tibetan Areas in the PRC’s System of Nationalities Regional Autonomy?, “International Journal on Minority and Group Rights”, 2010, p. 137 ss.; B. He - B. Sautman, The Politics of the Dalai Lama’s New Initiative for Autonomy, “Pacific Affairs“, 2005-2006, p. 601 ss.; B. Sautman - J.T. Dreyer (a cura di), Contemporary Tibet. Politics, Development, and Society in a Disputed Region, Armonk (NY), Sharpe, 2005; W.W. Smith, China’s Policy on Tibetan Autonomy, Washington (DC), East-West Center, 2004. 23. Cfr. M.E. Clarke, Xinjiang and China’s Rise in Central Asia - A History, London-New York, Routledge, 2011; J. Tong (a cura di), The Xinjiang Problem, “Chinese Law and Government”, gennaio-febbraio 2010, p. 3-90 (Parte I), e ivi, marzo-aprile 2010, p. 3-91 (Parte II); R. Castets, La question ouïghoure et sa dimension centrasiatique, “Revue Internationale et Stratégique”, n. 64, inverno 2006-2007, p. 88 ss.; C. Betta, Il nazionalismo etnico nel Xinjiang: l’Asia centrale, l’Afghanistan e il “nuovo grande gioco”, “Mondo Cinese”, n. 110, 2002, p. 27 ss. 24. I progetti egemonici pan-sinici sono esaminati nell’ottica diacronica da M. Giaconi, Tibet: anello centrale della ‘Grande Cina’, “Africana. Rivista di Studi Extraeuropei”, 2009, p. 49 ss. 25. Si vedano R. Barnett, Les manifestations au Tibet du printemps 2008. Un conflit entre la nation et l’État, “Perspectives chinoises”, 2009, n. 3, p. 6 ss.; W.W. Smith Jr., Tibet Last Stand? The Tibetan Uprising of 2008 and China’s Response, Lanham (Maryland), Rowman & Littlefield, 2010.
La tutela delle minoranze e delle autonomie / 75 26. Cfr. M.C. Goldstein, The Snow Lion and the Dragon: China, Tibet and the Dalai Lama, Berkeley, University of California Press, 1997. 27. Si veda W.R. Jankowiak, The Last Hurrah? Political Protest in Inner Mongolia, “The Australian Journal of Chinese Affairs”, n. 19-20, 1988, p. 273 ss. Sulle più recenti agitazioni popolari nella Mongolia interna, v. Unrest in China. No pastoral idyll Turbolence in Inner Mongolia makes managing China no easier, “The Economist”, 4/10-16-2011, p. 68. 28. Cfr. Southern Mongolian Human Rights Information Center (Smhric), Regional Autonomy for Ethnic Minorities in China - A Mongol’s View, New York, 2005, consultabile nel sito Internet del Nonviolent Radical Party transnational and transparty, all’indirizzo www.radicalparty.org, dove si ricorda altresì la politica di “sinizzazione” della regione della Mongolia interna, mediante il trasferimento di cinesi han. Attualmente, i mongoli della Mongolia interna sono circa 5,8 milioni; essi hanno subito nel corso del XX secolo un processo sistematico di assimilazione nonché di reinsediamento forzato (sulla base della politica di rilocazione forzata), fenomeno quest’ultimo che ha interessato centinaia di migliaia di nomadi mongoli, vale a dire le popolazioni rurali mongole che vivono (recte, vivevano) soprattutto di pastorizia. Per effetto della massiccia immigrazione di cinesi han, sostenuta dal governo centrale di Pechino, la popolazione mongola costituisce ormai una minoranza nella propria terra; oggi, infatti, i mongoli etnici rappresentano soltanto il 20% della popolazione della regione autonoma (ne consegue che la popolazione han è, nella Mongolia meridionale, cinque volte superiore a quella mongola). 29. V. op. loc. cit. nella nota che precede. Il gruppo politico “indipendentista” sud-mongolo è stato fondato nel maggio 1992 da Hada (l’usanza mongola prevede un solo nome), un dissidente etnico mongolo e attivista democratico in favore dei diritti umani misteriosamente scomparso dopo aver scontato quindici anni di carcere in Cina per accuse di «separatismo e spionaggio»: cfr. A. Jacobs, Ethnic Mongolian dissident released by China is missing, in “New York Times”, 14 dicembre 2010, edizione online www.nytimes.org. Nel sito web dell’Associazione per i popoli minacciati/Gesellschaft für bedrohte Völker (www.gfbv.de), il cinquantaquattrenne Hada, scrittore, ex libraio (nel mese di giugno del 2001, la Libreria di studi mongoli di proprietà della moglie di Hada, la sig.ra Xinna, è stata chiusa dalle autorità cinesi per “commercio illegale”) ed editore viene definito una figura simbolo della resistenza mongola; v. Cina: salgono le tensioni in Mongolia Interna, doc. del 26 novembre 2010. 30. Sulla politica culturale “coloniale” del socialismo nella Mongolia meridionale, v. le riflessioni di U.E. Bulag, From Inequality to Difference: Colonial Contradictions of Class and Ethnicity in ‘Socialist’ China, “Cultural Studies”, 2000, n. 3-4, p. 531 ss., che esamina, nella prospettiva dell’etnografia storica, le mutue implicazioni (nonché sovrapposizioni) fra stratificazione sociale ed etnica nella Cina socialista, con particolare riguardo alle vicende della Mongolia interna al confine settentrionale della Cina. 31. Si veda M. Bulard, Quand la fièvre montait dans le Far West chinois. Les conflits ethniques fragilisent Pékin, “Le Monde diplomatique”, agosto 2009, p. 1 e 12-13. Per la disuguaglianza fra i gruppi etnici di musulmani uiguri e cinesi Han sotto il peculiare profilo del differenziale retributivo, v. X. Zang, Uyghur-Han Earnings Differentials in Ürümchi, “The China Journal”, n. 65, 2011, p. 141 ss. 32. Cfr. M. Dillon, Uyghur separatism and nationalism in Xinjiang, in B. Cole (a cura di), Conflict, Terrorism and the Media in Asia, London-New York, Routledge, 2006, p. 98 ss.; E. Van Wie Davis, Uyghur Muslim Separatism in Xinjiang, China, “Asian Affairs”, 2008, p. 15 ss. 33. In tal senso, v. Y.K. Wang, Toward a Synthesis of the Theories of Peripheral Nationalism: A Comparative Study of China’s Xinjiang and Guangdong, “Asian Ethnicity”, 2002, n. 2, p. 177 ss. 34. Si veda A. Bhattacharya, Conceptualising Uyghur Separatism in Chinese Nationalism, “Strategic Analysis”, cit., p. 371. 35. Cfr. L. Tamburrino, Il terrorismo, i “tre diavoli” e i sei di Shanghai, “Mondo Cinese”, n. 119, 2004, p. 19 ss. 36. Su cui v. Y. Shichor, Blow Up: Internal and External Challenges of Uyghur Separatism and Islamic Radicalism to Chinese Rule in Xinjiang, “Asian Affairs”, 2005, n. 2, p. 119 ss. 37. Si vedano Pan Guang, China’s anti-terror strategy and China’s role in global anti-terror cooperation, in Asia Europe Journal. International Studies in the Social Sciences and Humanities, 2004, p. 523 ss.; M. Clarke, China’s ‘War on Terror’ in Xinjiang: Human Security and the Causes of Violent Uighur Separatism, “Terrorism and Political Violence”, 2008, p. 271 ss. 38. Sulle interconnessioni fra pan-islamismo e questione uigura, cfr. J. Finley, Chinese Oppression in Xinjiang, Middle Eastern Conflicts and Global Islamic Solidarities among the Uyghurs, “Journal of Contemporary China”, 2007, p. 627 ss. 39. Cfr. Chinese State Council, “East Turkistan” Terrorist Forces Cannot Get Away With Impunity, “Beijing Review”, 2002, n. 5, p. 14 ss.
DIRITTO 40. Su cui, v. M. Al-Qahtani, The Shanghai Cooperation Organization and the Law of International Organizations, “Chinese Journal of International Law”, 2006, p. 129 ss.; Yan Wei, Summit Ascent (Shanghai Cooperation Organization charts its future), “Beijing Review”, 2006, n. 26, p. 10 ss.; Zhao Huasheng, Where Is the Sco Heading? The Shanghai Cooperation Organization should clearly define its political characteristics and functions, ivi, 2006, n. 24, p. 10 ss. 41. È stato osservato, a mio parere con fondamento e appropriatezza, che il termine “ex socialista”, o “ex sovietico”, evidenzia il distacco dal passato, mentre il termine post-socialista, così come quello post-sovietico, sottolinea invece la continuità con il passato medesimo: cfr., in tal senso, K. Keleman, Comparazione giuridica ed Europa dell’Est, in “Riv. dir. civ.”, 2010, I, p. 861 ss., spec. p. 876. 42. Si segnala che presso l’Università Fudan di Shanghai è stato creato il Center for Sco Studies.
One Country, Two Systems Ignazio Castellucci
The article is a description of the implementation in Hong Kong and Macao of the constitutional, institutional and political model known as ‘One country, two systems’. An analysis follows the description, focused on the amount of superimposition and interference of Chinese socialist institutional and legal models, from the mainland onto the legal and institutional environment of the two Sars. Mainland China’s legal and socio-economic environment is certainly shifting to some degree towards western models, to be combined with its socialist framework. Meanwhile, the two Sars are shifting the other way: towards a more Chinese institutional setting and leaving the socio-economic environment unchanged to a large extent. The superimposition of institutional and legal models in the two sars occurs through political pressure and selection of the Sars’ key political officers. Institutionally, it occurs through the presence and within the framework of the Sars’ Basic Laws, supreme laws of the two territories which come from Beijing and shall be interpreted according to Chinese socialist standards. The few cases of interpretation of the Basic Law occurred so far in Hong Kong demonstrate very clearly this attitude. There are also other ways to superimpose a more Chinese-flavoured general institutional setting over the legal systems of the Sars inherited by former colonial powers: politics and policy; economic pressure; administrative pressure, i.e. in the form off governmental instructions issued from the central government and directly addressed to the government of the Sar; support of cultural changes, in the government and also in the legal profession. Each Sar can be considered as a very interesting laboratory for experiments in the socio-economic, political, institutional and legal fields; to test models applicable to the other Sar, to the Mainland and even, as a possibility some day, to Taiwan. Professore a contratto di Tradizioni giuridiche dell’Asia e Diritto cinese nell’Università di Trento. Professore a contratto di Sistemi giuridici comparati nell’Università di Macao. Avvocato in Roma
I
l mondo cinese offre a noi, osservatori occidentali, continue occasioni di riflessione in ogni ambito delle scienze sociali; produce fenomeni per noi insoliti, che ci richiedono un certo sforzo analitico per una comprensione almeno approssimativamente accettabile e utile al miglioramento della conoscenza generale di quell’universo distante. Il campo del diritto e delle istituzioni non fa eccezione; è anzi un
DIRITTO campo fruttuoso per lo studioso occidentale proprio per la grande diversità delle concezioni di fondo, quasi cosmogoniche potremmo dire. Concezioni legate al dato culturale e politico, capaci di influenzare il diritto e le istituzioni in maniera pervasiva, generando effetti affatto diversi – rispetto alle nostre aspettative legate alle teoriche occidentali – sugli algoritmi dell’apparato istituzionale e amministrativo, o all’esito dell’interpretazione e applicazione delle norme giuridiche. Un interessante prodotto dell’ambiente politico-istituzionale cinese, e della storia mondiale di fine XX secolo è il c.d. One Country, Two Systems (一個國家兩種制度, yī gè guójiā liăng zhǒng zhìdù; o yīguó liǎngzhì, 一國兩制, in forma abbreviata; Octs nel prosieguo)1. Si tratta di un efficace slogan, cui corrisponde un modello costituzionale e istituzionale proposto pubblicamente all’inizio degli anni Ottanta da Deng Xiaoping per la soluzione del problema di Taiwan, e oggi applicato ai due territori di Hong Kong e Macao, tornati alla sovranità cinese nel 1997 e 1999 rispettivamente con lo status di Special Administrative Regions (特別行政區, tèbié xíngzhèngqū; Sar nel prosieguo). Ovvia forse l’elaborazione del concetto inizialmente e principalmente in relazione al caso di Taiwan; ma altrettanto naturale la sua applicazione – anche per testare il modello e i suoi meccanismi applicativi, certo non dimenticandone l’originaria finalità – ai due territori ex-coloniali di Hong Kong e Macao, tornati alla madrepatria alla fine del XX secolo. Il cuore del significato di Octs è dunque nella coesistenza di “sistemi” diversi (istituzionali, giuridici, economici, sociali) nell’ambito di una incontestabile unità politica (One country); un modello che permette a territori caratterizzati da diversità marcate, dovute a fattori storici, di essere parte dell’unico Stato e nazione cinese pur mantenendo le rispettive peculiarità. L’applicazione di questo modello alle due Sar si sta rivelando un esperimento di straordinario interesse dal punto di vista della politica, delle istituzioni e del diritto: il principio One country non può non comportare, infatti, una qualche misura di sovrapposizione, penetrazione, osmosi di valori del sistema dominante in quelli delle regioni acquisite, con conseguente ibridazione dei modelli istituzionali e giuridici di origine. Lo schema costituzionale e le “Basic Law” delle due Sar Il lungo processo di decolonizzazione dei possedimenti coloniali occidentali svoltosi nella seconda metà del XX secolo ha incluso, e si è concluso possiamo anche dire, con la restituzione alla Cina (c.d. handover) dei due territori di Hong Kong (in precedenza possedimento britannico, nel 1997) e Macao (già portoghese, nel 1999). La restituzione è stata in ambo i casi concordata tra la Cina e la ex-potenza coloniale, con negoziati che hanno prodotto le due
One Country, Two Systems / 79 dichiarazioni congiunte, sino-britannica (1984) e sino-portoghese (1987). In questi documenti venivano stabiliti i tempi del ritorno dei due territori alla sovranità cinese e l’obbligo cinese di non modificare per i successivi cinquanta anni i sistemi economici, sociali, giuridici e gli stili di vita nei due territori2. La costituzione cinese del 1982 prevede all’art. 31 la possibilità di costituire delle regioni amministrative speciali il cui sistema istituzionale sia definito con legge apposita dell’assemblea nazionale del popolo, e quindi di dare attuazione al modello Octs ideato proprio poco prima in relazione al problema di Taiwan. Nelle due Sar di Hong Kong e Macao, dunque, non trovano applicazione le istituzioni e le leggi vigenti nella mainland, rimanendo in vigore i precedenti sistemi giuridici di derivazione inglese (Hong Kong) e portoghese (Macao). Ben prima dei due handover l’Assemblea Nazionale del Popolo ha adottato, e il Presidente della Repubblica Popolare Cinese ha promulgato, nel 1990 (Hong Kong) e nel 1993 (Macao), le due Leggi fondamentali (Basic Law) per le due Sar, prodotte da comitati composti da membri provenienti dalla mainland e dalle due future Sar. Si tratta di due corpi normativi quasi identici, aventi l’aspetto e la sostanza di mini-costituzioni, o quasi-costituzioni, delle due regioni; documenti legali sui generis, di rango superiore alla legislazione ordinaria delle due regioni e inferiore soltanto alla Costituzione nazionale cinese. Le Basic Law stabiliscono per ciascuna Sar un high degree of autonomy rispetto alla mainland, e disegnano un’architettura istituzionale nuova, con un capo del governo (Chief Executive) nominato direttamente da Pechino, un consiglio legislativo, e una piramide giudiziaria riproducente quella precedente all’handover. Presso il governo centrale è istituito un dipartimento di livello ministeriale per gli affari di Hong Kong e Macao, e un comitato per la Basic Law è istituito in seno al Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo. Tutto il discorso appena fatto suscita ovviamente interrogativi su quale sia il senso esatto delle previsioni, contenute nelle Joint Declaration, circa il “non modificare il sistema”, e sul se e come ciò invece possa o stia accadendo3. Le previsioni sui laws (...) social and economic systems basically unchanged hanno il chiaro senso di proteggere gli interessi dei residenti nelle due regioni, e quelli nei territori delle due ex-potenze coloniali, in un tempo in cui ancora era meno evidente il cambiamento della Cina verso un modello misto caratterizzato da una forte economia di mercato. E aveva anche il senso, dal punto di vista cinese, di descrivere l’esperimento di assimilazione che dovrebbe costituire il modello di una possibile futura riunificazione tra Cina e Taiwan in termini che tranquillizzassero un poco i cittadini di quest’ultima.
Le due Regioni ad amministrazione speciale di Hong Kong e Macao e le loro Basic Law
DIRITTO “Sistema socio-economico e leggi immutate” sembra essere stato, insomma, un modo non per negare qualsiasi cambiamento nelle due regioni, ma al contrario solo un modo per escludere positivamente che alle due regioni potesse venire esteso ex abrupto, e per almeno cinquanta anni, il sistema socialista della mainland4. La lettura “estrema” della previsione, nel senso di una totale immutabilità del sistema socio-economico e del diritto non convince e non funziona. In primo luogo poiché comunque con l’handover mutava il contesto istituzionale, e questo non poteva ovviamente non avere riflessi sul sistema giuridico; in secondo luogo perché i due territori hanno mantenuto i rispettivi organi legislativi, e dunque la possibilità ordinaria di modificare le proprie leggi. Realisticamente, con queste dichiarazioni congiunte dalla notevole elasticità di significato (“basically unchanged”, dice il punto 3(3) della dichiarazione congiunta sino-britannica) si è voluta escludere solo la possibilità di una modifica radicale del sistema – quella che sostituisca/imponga un “sistema” socio-economico e giuridico diverso a quelli presenti – e non certo le ordinarie e fisiologiche evoluzioni dei sistemi giuridici delle due Sar; né ovviamente la previsione va letta come impegno cinese a mantenere l’architettura istituzionale identica a quella ivi impiantata dalle potenze ex-coloniali. Solo con questa interpretazione, contestuale e di buon senso, che lega l’immutabilità del “giuridico” legandola a quella socioeconomica e alla presenza di “sistemi non socialisti” nei due territori a fronte del sistema socialista della mainland, la previsione contenuta negli accordi internazionali acquista un senso accettabile: un senso diverso, quasi di una freezing clause di tutto il diritto e della vita nei due territori, non era certo l’obiettivo di quegli accordi. La ricostituita sovranità su questi territori difficilmente può escludere, nei fatti, la possibilità cinese di guidarne almeno indirettamente l’evoluzione socio-politica e giuridica; le limitazioni provenienti dagli accordi internazionali con Regno Unito e Portogallo potranno avere un effetto tutto sommato limitato sulle sovrane decisioni di Pechino al riguardo, o su quelle delle stesse comunità residenti nelle due Sar dotate di un “elevato grado di autonomia”. Una seria crisi politica internazionale tra la Cina e le due nazioni europee per violazioni delle Joint Declaration sarebbe immaginabile solo in casi estremi, di intervento cinese diretto e molto deciso nei territori delle due Sar. Ciò appare però alquanto improbabile, se non altro perché Pechino può molto meglio perseguire i propri fini nelle due regioni esercitando la propria influenza attraverso le istituzioni e i circuiti decisionali locali, promuovendo riforme che siano adottate dalle stesse Sar e formalizzate attraverso le istituzioni locali. E comunque, verosimilmente, né il regno Unito o il Portogallo avrebbero in
One Country, Two Systems / 81 situazioni critiche mezzi credibili per ottenere l’attuazione forzata degli obblighi assunti dalla Cina con le Joint Declarations. Di fatto, Pechino persegue una sua politica di avvicinamento socio-politico oltre che economico tra la mainland e le due Sar, e lo fa sia sfruttando i meccanismi istituzionali del modello Octs, sia intervenendo indirettamente, a livello politico ed economico, nella governance e nel sistema giuridico delle due regioni. D’altro canto, non è chi non veda come anche la stessa Cina si stia avvicinando a modelli socio-economici e anche giuridici almeno in parte occidentali, e già presenti nei due territori ex-coloniali, cui guarda molto al momento di riformare le proprie istituzioni e leggi attinenti all’economia di mercato. Vi è insomma una certa riscontrabile convergenza tra le traiettorie evolutive delle due Sar e quelle della mainland, e un certamente aumentato prestigio del modello economico cinese anche nell’opinione pubblica dei due territori; al punto che certamente i timori di una imposizione forzata del socialismo cinese su Hong Kong e Macao, ancora comprensibili negli anni Ottanta del XX secolo, possono considerarsi non più attuali. La convergenza, che mi pare oggettivamente riscontrabile, tra i sistemi socio-economici e giuridici della mainland e delle sue Sar produrrà probabilmente in un futuro non troppo lontano dei sistemi giuridici diversi da quelli di origine, e più vicini tra loro. Pare abbastanza ragionevole ipotizzare che l’ibridazione avverrà in Cina mediante l’importazione di modelli esterni e magari anche mediante lo sviluppo di nuovi modelli autoctoni, specie in ambito economico, che varranno inseriti in una cornice socialista assai meno soggetta a cambiamenti nel medio periodo. Mentre nelle Sar avverrà soprattutto un processo di sovrapposizione di schemi e modelli operativi più vicini al pensiero cinese nelle istituzioni e nei meccanismi di governance – incluse le corti – confermando così la teoria dei sistemi misti elaborata da V. Palmer, pur in relazione a tutt’altri ambiti geogiuridici5. La sovrapposizione appena menzionata è già iniziata; vediamo come. Le Basic Law e la loro interpretazione Le due Basic Law fondano, come detto, la nuova cornice costituzionale e istituzionale delle due Sar, all’interno delle quali continuano a vivere i precedenti sistemi giuridici delle due regioni. La Basic Law, cerniera tra il sistema della Sar e l’ordinamento della Rpc, è nel sistema di ciascuna Sar la suprema legge vigente nel territorio; ciò porterebbe le corti locali ad interpretarle e applicarle secondo i canoni dei rispettivi sistemi e tradizioni giuridiche: la tradizione portoghese a Macao e quella del common law a Hong Kong.
La convergenza tra i due sistemi economico-giuridici: Mainland e Sar
DIRITTO
L’interpretazione autentica delle Basic Law è comunque affidata a Pechino
Vi è però un punto fondamentale da considerare, ostativo a tale libertà delle corti delle due Sar di interpretare le rispettive Basic Law “dal basso”: le mini-costituzioni delle due Sar sono infatti anche (o prima di tutto) due atti legislativi della mainland, che regolano l’applicazione del modello Octs in due regioni del territorio cinese. Queste leggi sono quindi, dal punto di vista della mainland, documenti politicamente critici e certamente soggetti ai “modi” cinesi dell’interpetazione giuridica. Questa “cinesità” delle due Basic Law è anche confermata dal fatto che le due Basic Law sono sostanzialmente identiche, provenienti da Pechino e attuative di un unico modello politicoistituzionale nazionale, per cui è poco accettabile anche l’idea che possano ricevere un’interpretazione diversa in ciascuna delle due Sar. Le tradizioni giuridiche e costituzionali sia inglese che portoghese porterebbero il giudice a leggere la norma costituzionale (o quella quasi-costituzionale della Basic Law, nel caso delle Sar) con rigore tecnico e alla luce di principi giuridici occidentali consolidati a volte da secoli; e a volte diversi da una Sar all’altra. Il significato tecnico dei tecnici giuridici certo può variare da un sistema all’altro; e può variare grandemente fra un’interpretazione occidentale e una cinese, come si è visto ad esempio con il concetto di “immunità sovrana” nel c.d. Congo case (su cui infra). Inoltre, o soprattutto, la tradizione cinese è quella per cui la norma costituzionale ha valore politico, descrittivo, forse anche un po’ declamatorio; e magari anche programmatico, ma che non può comunque costituire canone tecnico, specialmente se “interpretata dal basso”, per la soluzione diretta di controversie in sede giurisdizionale, o per l’interpretazione e al limite l’invalidazione della legge ordinaria. Ed è quella per cui la stessa legge ordinaria assume tradizionalmente un carattere tendenzialmente strumentale rispetto ai fini dell’autorità politica, secondo un modello diverso da quello occidentale della rule of law6. La soluzione ai possibili conflitti interpretativi è data dalla stessa Basic Law: l’articolo 143 della Basic Law di Macao e il simile articolo 158 della Basic Law di Hong Kong prescrivono chiaramente il dovere delle corti supreme delle Sar, ogni qualvolta debbano risolvere una questione controversa che abbia attinenza con una delle aree in cui è presente un interesse nazionale che travalica l’ambito locale della Sar (vedi gli articoli da 13 a 19 della Basic Law), di chiedere in via pregiudiziale al Comitato Permanente dell’Assemblea Nazionale del Popolo quale sia l’interpretazione corretta della Basic Law. Questo significa, in sostanza, che le questioni importanti per la nazione vengono decise a Pechino, e non nella Sar; e significa anche che la decisione è di natura politica e non giuridica, poiché anche a Pechino la decisione non è presa da un giudice ma dall’organo legislativo – nella sua composizione a più forte caratterizzazione
One Country, Two Systems / 83 politica – secondo un principio molto tipico della tradizione giuridica socialista, che con i menzionati articoli 143 e 158 delle Basic Law è stato sovrapposto ai sistemi delle due Sar. Un principio che vede il giudice per quanto possibile mero applicatore di norme, e l’interpretazione giuridica come opera creativa pari alla stessa legislazione; e quindi riservata all’organo legislativo. Si tratta di una applicazione rigida della separazione tra le due funzioni, che è abbastanza tipica dei paesi socialisti o ex-socialisti7. È una distinzione teorica forse non sempre facile da applicare sul campo; ma ne è chiaro il senso generale, di una minore o minima libertà interpretativa lasciata al giudice da parte del legislatore. Dopo gli handover vi sono state sino ad oggi quattro interpretazioni della Basic Law di Hong Kong, prodotte dal Comitato Permanente del’Assemblea Nazionale del Popolo; nessuna per la Basic Law di Macao. Nel primo caso, del 1999, le corti di Hong Kong avevano deciso, in conformità ai principi del common law, che il figlio minore di una madre cinese della mainland munita di permesso di residenza nella Sar di Hong Kong, avesse automaticamente diritto a risiedere nella regione con la madre. Questa decisione era contraria alla policy cinese sull’emigrazione dalla mainland verso le Sar, ed era pure contraria all’orientamento del governo di Hong Kong, che temeva l’ingresso di un eccessivo numero di persone dalla mainland. La materia dell’immigrazione tra mainland e Sar è tra quelle di interesse e nazionale e competenza del governo centrale, attenendo ai rapporti tra la Sar e la mainland (articoli 13 e 17 e 19 della Basic Law); ragione per cui il governo centrale e quello della Sar si aspettavano che la corte suprema di Hong Kong chiedesse a Pechino un’interpretazione pregiudiziale della Basic Law che bilanciasse gli interessi in gioco, tra politica dell’immigrazione e diritti fondamentali di libertà, residenza, rapporti familiare, di cui al capitolo terzo della Basic Law. Tra polemiche e pressioni politiche, la corte di ultima istanza ha invece affermato il principio di common law, ritenendo che comunque la Basic Law fosse chiara alla luce dei principi del common law (e tutto sommato di ogni diritto occidentale) e che dunque non vi fosse necessità alcuna di interpretazione, e quindi di interrogare Pechino in merito alla questione, decidendo per l’esistenza di un diritto del minore ad essere ammesso nella Sar8. La decisione secondo i canoni del common law sarebbe poi diventata vincolante e parte del diritto di Hong Kong se non avesse provveduto il governo di Hong Kong a chiedere alla corte di fornire un anomalo “chiarimento pubblico” – ottenendolo – sul fatto che una eventuale interpretazione di Pechino sarebbe stata vincolante per il futuro9; e chiedendo poi al Comitato Permanente, con mossa non prevista nella Basic Law (ma neppure esclusa), quale fosse l’interpretazione
Quattro casi di interpretazione da ricordare
DIRITTO autentica della Basic Law per situazioni analoghe. La risposta del Comitato Permanente è stata conforme alla policy di Pechino sulla questione, e ha costretto la Court of Final Appeal di Hong Kong ad applicare la posizione di Pechino quale norma legislativa applicabile a qualunque caso successivo10. Altre due interpretazioni della Basic Law sono seguite negli anni 2004 e 2005. Quella del 2004, in relazione alla previsione, contenuta nelle norme transitorie della Basic Law, di un “graduale” percorso che porti infine al suffragio universale per l’elezione del Chief Executive (art. 45 Basic Law) nominato da un comitato elettorale; la “gradualità” del percorso determinata “in the light of the actual situation in the Hong Kong Special Administrative Region and in accordance with the principle of gradual and orderly progress” (art. 45). L’annesso I della Basic Law indica il modo di elezione al 1997, secondo un modello in cui i “grandi elettori” del Chief Executive sono eletti nell’ambito di consituencies funzionali legate all’economia, alle professioni, agli enti amministrativi territoriali e alle formazioni sociali e politiche ecc.; e indica nell’elezione successiva a quella del 2007 il momento del possibile cambiamento del sistema elettorale. Il governo nazionale e quello della Sar erano per una lettura che ritardasse per quanto possibile il suffragio universale, mentre una parte assai attiva dell’opinione pubblica premeva per avere elezioni a suffragio universale alla elezione del Chief Executive immediatamente successiva a quella del 2007. Il Comitato Permanente è intervenuto d’autorità nel dibattito producendo l’interpretazione, non sollecitata da alcuna autorità della Sar, con cui è stata sottolineata l’esigenza di “gradualità”, negato che fosse giunto il momento della riforma elettorale in senso universalista, e quindi rinviata in conseguenza l’attuazione del suffragio universale a un tempo futuro ancora non determinato. La terza interpretazione, del 2005, si è avuta su richiesta del governo della Sar, in relazione alla durata del mandato del Chief Executive subentrato prima della fine del mandato del precedente capo del governo e a causa delle premature dimissioni di quest’ultimo. Dopo le dimissioni di Tung Chee-hwa nel 2005, a quanto sembra caduto politicamente in disgrazia con Pechino nel terzo anno del suo secondo mandato quinquennale, l’interpretazione di Pechino ha limitato il mandato del successore Donald Tsang ai residui due anni del termine originario del suo predecessore – verosimilmente per verificarne l’affidabilità prima di conferire un mandato pieno come è accaduto poi nel 2007. Entrambe le questioni risolte nel 2004 e 2005 erano politicamente delicatissime, evidentemente; e in entrambi i casi ad attivarsi e chiedere l’interpretazione è stato ancora il Governo (verosimilmente
One Country, Two Systems / 85 su sollecitazione pechinese), anziché la corte di ultima istanza. Si è preferito insomma evitare che le questioni, squisitamente politiche, potessero giungere avanti alle corti della Sar – col rischio di altre crisi costituzionali a seguito dell’applicazione dei principi di common law a questioni di interesse nazionale, dotate una dimensione politica sicuramente prevalente rispetto a quella meramente giuridica. Il quarto caso è del 2011, conosciuto come the Congo case, ha avuto una vasta eco mediatica; è l’unico caso di interpretazione, sinora, che ha visto attuato il meccanismo di cui all’art. 158 della Basic Law, con la decisione interpretativa richiesta in via pregiudiziale al Comitato Permanente dalla Court of Final Appeal, ai fini della decisione di un giudizio. Un vulture fund11 nordamericano, acquirente di debiti della Repubblica Democratica del Congo, ha tentato di realizzarli soddisfacendosi su fondi localizzati presso una banca di Hong Kong e destinati dal governo cinese alla cooperazione economica con il Congo. Ottenuto il blocco dei fondi dal giudice di primo grado, confermato anche dalla corte d’appello, per circa 103 milioni di dollari americani, due teorie giuridiche si sono contrapposte: quella della parte creditrice che vedeva in essi un comune credito congolese di diritto privato, e dunque attaccabile dal creditore della Repubblica africana, che non poteva avvalersi della propria immunità sovrana dalla giurisdizione della corte; e quella della Repubblica Democratica del Congo, anche sostenuta, in una lettera alla Corte del Governo centrale cinese e nell’intervento in giudizio svolto dal Segretario per la Giustizia di Hong Kong, in nome del pubblico interesse, per cui si trattava invece di fondi inerenti l’attività sovrana sia della Repubblica Popolare Cinese che di quella Democratica del Congo, e dunque esclusi dalla giurisdizione delle corti e dalla ordinaria sequestrabilità e pignorabilità di diritto privato. Il governo cinese ovviamente sosteneva questa seconda tesi, conformemente alla destinazione impressa ai fondi nell’ambito della sua politica generale di cooperazione, ma anche in conformità alla sua tradizionale visione amplissima delle attività sovrane dello Stato. Gli articoli 13 e 19 della Basic Law limitano l’autonomia della regione e la giurisdizione del suo sistema giudiziario, escludendola, tra l’altro, nelle materie degli “atti di Stato”, ossia le attività sovrane, come difesa e affari esteri, riservati alla sfera di azione del governo nazionale. Questa volta, a differenza del caso Ng Ka Ling di dieci anni prima e senza causare una crisi politico-istituzionale come nel caso precedente, nel giugno 2011 la Court of Final Appeal ha provvisoriamente revocato il blocco delle risorse cinesi destinate alla Repubblica Democratica del Congo, già pronunciandosi provvisoriamente a favore della posizione cinese, e ha rimesso la questione all’interpretazione del Comitato Permanente. Il quale Comitato nell’agosto 2011 ha deciso nel senso
Due teorie giuridiche contrapposte
DIRITTO inteso dal governo cinese e provvisoriamente inteso anche dalla Court of Final Appeal, interpretando le attività di cooperazione economica del governo centrale come attività sovrane nel campo degli affari esteri, sottratte perciò alla giurisdizione delle corti di Hong Kong; accogliendo quindi un concetto ampio di “immunità sovrana” che ha conseguente vanificato, per mezzo di una pronunzia di carenza di giurisdizione, l’azione di recupero del credito svolta dal fondo nordamericano avanti alle corti di Hong Kong, a carico dei fondi cinesi destinati alla cooperazione12. La sovrapposizione di un principio giuridico cinese al sistema di common law può dirsi avvenuta e stabilizzata, quanto alla legittimazione e modalità di interpretazione vincolante della legge suprema della Sar, che ormai è pacifico possa essere richiesta non solo dalla corte più alta della Sar, ma anche dal governo o persino prodotta ad impulso dello stesso Comitato Permanente, sostanzialmente discrezionalmente. E anche, nel merito del Congo case, facendo passare una visione estesa, assai socialista, dell’immunità sovrana di fronte alle corti in materia di cooperazione economica. Questi principi di origine socialista sono ora parte del sistema di Hong Kong; il secondo anche, tecnicamente, del common law di Hong Kong – attraverso il meccanismo dello stare decisis, ossia della vincolatività del precedente giudiziale. La vicenda dimostra che i meccanismi del common law potrebbero non essere in sé incompatibili con contenuti sostanziali non caratterizzati dai principi del liberalismo, o addirittura socialisti. L’esperimento cinese di sovrapposizione e ibridazione continua; probabilmente avremo in futuro altre occasioni di verificare come le frizioni tra le due tradizioni a confronto vengono risolte, e se il prodotto risultante sarà conforme all’una o all’altra, o sarà un ibrido tra le due. Hong Kong e Macao: differenze significative Viene a questo punto da chiedersi, legittimamente, come mai non vi siano casi di interpretazione della Basic Law di Macao. La risposta ha a che vedere con la diversità giuridica, politica, economica e sociale tra i due territori. In un caso abbastanza analogo al caso Ng Ka Lim13, che ha condotto alla prima interpretazione della Basic Law di Hong Kong dopo l’handover, i tribunali di Macao hanno semplicemente accolto nella loro sentenza il principio cinese – contrario anche ai principi del sistema portoghese, in cui i vincoli familiari hanno rilevanza superiore rispetto alle leggi che regolamentano i flussi migratori. Il sistema giuridico di tradizione continentale di Macao ha reso questa interpretazione possibile, perché non vincolata da precedenti decisioni dei tribunali di Macao, né dai principi del diritto di eredità
One Country, Two Systems / 87 portoghese. In assenza di vincolatività del precedente, le corti sono libere di interpretare la legge in ogni singolo caso; e a Macao lo fanno generalmente prestando molta attenzione alla policy del governo. Si aggiunga il fatto che il sistema giuridico e l’ordinamento giudiziario di Macao, pur non conoscendo il principio anglosassone della vincolatività del precedente, prevedono comunque dei meccanismi per l’uniformazione della giurisprudenza e l’introduzione di orientamenti nuovi su questioni particolarmente importanti o controverse, specie in materia penale, secondo meccanismi che permettono attraverso l’iniziativa del Pubblico Ministero anche l’ingresso dell’orientamento del governo nel processo decisionale14. E si consideri anche, infine, che la cultura giuridica dei magistrati è quella di funzionari pubblici, come è nella tradizione continentale oltre che cinese, a fronte dell’estrazione dei giudici di common law, tradizionalmente provenienti dalle file della legal profession. Sul fronte politico, una emblematica vicenda in cui si evidenzia la differenza tra le due Sar è quella della sicurezza nazionale, che in base agli articoli 23 delle due Basic Law deve è regolata all’interno delle Sar dalla legislazione locale. La questione è politicamente “sensibile” a Hong Kong, dove sin dall’handover vi è un acceso dibattito sull’opportunità di legiferare al riguardo, con una parte dell’opinione pubblica e dei politici locali preoccupati per le possibili restrizioni alle libertà civili che potrebbero derivare da una legge sulla sicurezza approvata da un “LegCo” (Legislative Council, l’assemblea legislativa della Sar) formato in maggioranza da politici sempre più sensibili alle sollecitazioni di Pechino. Un disegno di legge presentato nel 2002 è stato alla fine ritirato per le controversie e le vaste manifestazioni pubbliche di dissenso generate; a tutt’oggi la regione non ha una legge in materia15. A Macao, al contrario, una legge sulla sicurezza nazionale è stata approvata nel 2009; anche con qualche curioso incidente alla frontiera tra Macao e Hong Kong16. La nuova legge di Macao ha comportato il pubblico elogio della Sar, da parte di Hu Jintao17 – un “parlare a nuora perché suocera intenda”, certo assai chiaro per il pubblico di Hong Kong – nel discorso in occasione del decennale dell’handover di Macao. Macao in questo ambito può essere vista come un primo banco di prova, un precedente18, per un tipo di legge che prima o poi dovrebbe/potrebbe essere prodotta anche nell’altra Sar, più grande, e più refrattaria al riguardo19. Vi è poi una indubbia maggior debolezza economica (e quindi anche politica) di Macao, di fronte alla mainland, a fronte della ben più forte posizione di Hong Kong, dotata di una economia avanzata di cui anche la mainland beneficia, e di una “massa critica” assai superiore, che certo conferisce all’ex-colonia inglese una maggiore capacità di resistenza destinata a durare ancora qualche tempo –
La legge sulla sicurezza nazionale è regolata diversamente nelle due Sar
DIRITTO nonostante la politica del governo centrale di forte promozione di città prospetticamente alternative a Hong Kong come grandi centri economico-finanziari (Shanghai, Shenzhen). Macao è, in confronto ad Hong Kong, entità politica depotenziata, con una economia locale di piccolo respiro e una economia molto più consistente legata al gioco d’azzardo e alle grandi imprese nel campo del turismo, che vale, secondo alcune stime, circa i due terzi del locale Pil e da cui il governo trae attraverso l’imposizione fiscale gran parte delle sue risorse, ma che viene di fatto gestita fuori da Macao; in maniera crescente in Cina (che controllando i flussi turistici dalla mainland di fatto può decidere di far prosperare o strangolare l’economia della Sar); e soprattutto ad Hong Kong, nella cui lingua e con il cui diritto vengono confezionate le operazioni commerciali più importanti e in cui vengono decise o arbitrate le relative controversie. Negli stessi casinò di Macao, del resto, viene accettata la valuta di Hong Kong ma non quella locale: vi è di fatto una moneta locale per l’economia locale e una economia di dimensioni superiori di fatto operante offshore, in un certo senso. Vi è anche una certa tendenza della pratica a importare a Macao elementi di diritto di Hong Kong, specie in ambito economico e commerciale; e vengono anche recentemente riportati casi di impiego della lingua inglese nei tribunali della regione – in cui portoghese e cinese sono le lingue ufficiali, ma con l’inglese di fatto assai più diffuso del portoghese anche nelle attività pubbliche20. A chi scrive è capitato attorno al 2003 di vedersi chiedere dalla Facoltà di Business dell’Università di Macao di costruire il programma di diritto commerciale per gli studenti di primo e secondo anno sulla base di manuali nordamericani di business law, anziché sul diritto e sul codice di commercio di Macao, di tradizione portoghese. Dal punto di vista sociale, infine, va evidenziata la maggiore vicinanza della società di Macao a quella della mainland, rispetto a quella di Hong Kong; quest’ultima città è certo, rispetto a Macao, da sempre molto più cosmopolita: una autentica world city, con una forte economia, maggiori contatti con il mondo globale, un industria dell’informazione e dei mass media molto più forti e autorevoli di quelli di Macao. E, e dal punto di vista più strettamente giuridico, Hong Kong dispone di una comunità professionale più vasta e autorevole, in buona parte ancora molto attaccata alle sue tradizioni di common law21. Altre vie di penetrazione del modello cinese nelle Sar Oltre all’interpretazione della Basic Law, vi sono anche altre modalità di sovrapposizione di principi e modelli giuridici cinesi sui sistemi delle due Sar. Un esempio interessante è dato dall’ambito amministrativo, in cui senza necessità di provvedimenti legislativi o interpretativi è possibile
One Country, Two Systems / 89 e facile per i governi delle Sar assumere orientamenti conformi alle policy di Pechino, nelle materie in cui possa esservi un interesse sovraregionale. In materia di immigrazione, ad esempio, il governo di Macao conforma la sua attività anche a istruzioni scritte provenienti dal governo centrale22, bypassando il livello, e la necessità, delle norme locali di fonte legislativa. Ma è ovvio che tali orientamenti possano essere assunti anche senza necessità di alcun input provvedimentale formalizzato, proveniente dalla mainland; come è del resto nelle cose, sol che si pensi che il Chief Executive di ciascuna Sar, pur eletto localmente, è nominato dal governo centrale, cui risponde (art. 15 Basic Law). Un altro esempio attiene alla formazione dei professionisti legali, con un problema di attualità conseguito alla nascita in anni recenti, a Macao, di una università che offre corsi di laurea in diritto sulla base di un curriculum principalmente basato sul diritto della mainland. Questi laureati accedono alla funzione pubblica nella Sar, in posizioni riservate ai possessori di laurea in diritto e sino a quel momento riservate ai laureati in diritto di Macao o portoghesi. Vi è stata una certa pressione del governo per far ammettere all’albo questi laureati, possessori di una laurea emessa comunque da una Università di Macao, anche al locale albo degli avvocati. Il foro di Macao, forse l’ultima entità a Macao avente rilievo pubblico ancora in buona parte e a prevalente influenza portoghese, si è opposto abbastanza compatto a tali richieste. I laureati di quella facoltà hanno così scoperto di dover frequentare un corso annuale sul diritto di Macao e di dover superare alla fine del corso un esame di ammissione al tirocino forense. Un candidato tra quelli ha proposto una azione avanti al tribunale competente per vedersi riconoscere il diritto all’ammissione, e ha dovuto farlo per mezzo di un difensore assegnatogli d’ufficio, posto che nessun avvocato di Macao ha voluto assumerne la difesa. Il giudizio è ancora pendente. Frattanto, la soluzione raggiunta è stata quella di rendere l’esame di ammissione al tirocinio forense obbligatorio per tutti23. Un ulteriore esempio è dato dai meccanismi di risoluzione delle controversie nell’ambito dei Cepa (Closer Economic Partnership Arrangement), accordi istituzionali conclusi nel 2003 e in vigore dal 1° gennaio 2004 tra la mainland e le due Sar che creano uno spazio comune per la circolazione di beni e servizi abbattendo dazi e costi legati all’attraversamento delle frontiere (dazi già quasi inesistenti anche prima dell’accordo). L’esigenza nasceva dall’accesso della Cina al Wto, che poteva far apparire applicabili le regole internazionali del Wto anche ai rapporti della mainland con le sue due Sar, che già avevano lo status di membri di quell’organizzazione. Le controversie tra la mainland e le Sar nell’ambito regolato dai Cepa vanno risolte, in base agli accordi istitutivi e ai protocolli
Modalità di sovrapposizione di modelli giuridici cinesi sui sistemi delle due Sar
DIRITTO operativi, sulla base di negoziati amichevoli e all’interno di uno steering committee bilaterale, paritario e che produce decisioni consensuali (art. 19 Cepa, e specialmente art. 19.5); non è prevista alcuna altra via, giurisdizionale o paragiurisdizionale o arbitrale, di risoluzione delle controversie. Il conflitto viene, per così dire, delegalizzato, e la sua soluzione diventa puramente politica. Viene così attuato, in un ambito importantissimo, un principio certamente distante dalle concezioni occidentali della rule of law e molto più vicino a concezioni e modelli non conflittuali, tipici della più antica tradizione cinese e anche di quella socialista. Conclusioni Il ritorno alla sovranità cinese di Hong Kong e Macao è caratterizzato dall’attuazione di un modello politico-istituzionale nuovo e originale, con conseguenti novità in ambito costituzionale, istituzionale e giuridico di straordinario interesse per il politologo, il giurista, lo studioso di cose cinesi. Tutto ciò avviene parallelamente ad una certa rilevabile convergenza socio-economica, che già sta generando prodotti istituzionali e giuridici ibridi, portanti il Dna delle diverse tradizioni incontratesi, ma figli dei tempi e proiettati verso il futuro della Cina e delle sue Sar. Le due Sar sono oggi dei laboratori politici, istituzionali e giuridici per lo sviluppo di modelli da esportare non solo dall’una all’altra regione, ma anche nella mainland; e, forse, anche un giorno a Taiwan, per cui il modello One country, two systems è stato pensato. Nessuno può oggi ragionevolmente prevederne gli approdi, ma è persino possibile ipotizzare che l’intera questione dell’immutabilità socio-economica delle due regioni sia già superata da tempo nel 20472049, allo scadere dei cinquanta anni di cui alle Joint Declarations; quando le due Sar potrebbero essere nei fatti due delle tante aree amministrative della Repubblica Popolare: dotate, sì, di proprie specifiche legislazioni e di istituzioni locali; caratterizzate, sì, da una qualche diversità socio-economica e istituzionale; ma forse non così “speciali” rispetto alle altre come lo sono invece oggi. Molto dipenderà anche, ovviamente, dall’evoluzione della vicenda di Taiwan. Quello che sin da oggi si può dire è che, da un punto di vista cinese, le due Sar non sono certo dei corpi estranei nel tessuto istituzionale della Repubblica Popolare. Sono invece un altro degli “esperimenti” o applicazioni – forse un po’ più “speciali” del solito – di un modello di governance generale che si avvale anche di strumenti di governo locale specifici e specializzati. Come lo sono anche, ad esempio, le Special Economic Zones – le cinque Sez di Shenzhen, Zhuhai, Hainan, Xiamen, Shentou – e le altre città e zone a regime speciale in cui sin dalla fine degli anni Settanta si è attuata l’economia di mercato poi estesa all’intero paese. O come lo sono anche le regioni, prefetture
One Country, Two Systems / 91 e contee caratterizzate dalle “Regional Ethnic Autonomies”, le c.d. Rea – Tibet e Xinjiang sono le più note – in cui alla forte presenza di minoranze fa riscontro la presenza di speciali regimi legali applicabili su base etnica. La rilevante complessità istituzionale dello Stato cinese è bilanciata dal ruolo direttivo, di supervisione e di coordinamento giocato dalle istituzioni centrali24, dai principi giuridici dello Stato e dal Partito comunista, che forniscono visione e indirizzo generale agli specifici “esperimenti” compiuti in questa o quella realtà locale del paese. È un modello di governance che ha permesso alla Repubblica Popolare Cinese di sperimentare con successo una transizione “estrema” – da paese povero e dominato dall’ideologia comunista più radicale a superpotenza globale25 – mantenendo un livello di stabilità sorprendente, considerando le dimensioni del paese e la rapidità delle trasformazioni in atto. ■
NOTE 1. Riprendo e aggiorno in questo scritto i contenuti di due mie presentazioni, una del 2009 a un seminario sull’ibridità giuridica organizzato dall’associazione Juris Diversitas e dall’Istituto Svizzero di Diritto Comparato (I. Castellucci, Chinese Law: a New Hibryd?, in E. Cashin-Ritaine - S.P. Donlan - M. Sychold (a cura di), Comparative law and hybrid legal traditions, Schultess, Ginevra-Losanna-Zurigo, 2010), e l’altra, del 2011, alla conferenza internazionale organizzata a Gerusalemme dalla Hebrew University e dalla World Society of Mixed Jurisdiction Jurists. 2. Riporto di seguito alcuni brani del testo della dichiarazione congiunta sino-britannica: “3. The Government of the People’s Republic of China declares that the basic policies of the People’s Republic of China regarding Hong Kong are as follows: (1) Upholding national unity and territorial integrity and taking account of the history of Hong Kong and its realities, the People’s Republic of China has decided to establish, in accordance with the provisions of Article 31 of the Constitution of the People’s Republic of China, a Hong Kong Special Administrative Region upon resuming the exercise of sovereignty over Hong Kong. (2) The Hong Kong Special Administrative Region will be directly under the authority of the Central People’s Government of the People’s Republic of China. The Hong Kong Special Administrative Region will enjoy a high degree of autonomy, except in foreign and defence affairs which are the responsibilities of the Central People’s Government. (3) The Hong Kong Special Administrative Region will be vested with executive, legislative and independent judicial power,
DIRITTO including that of final adjudication. The laws currently in force in Hong Kong will remain basically unchanged. (…) (5) The current social and economic systems in Hong Kong will remain unchanged, and so will the life-style. Rights and freedoms, including those of the person, of speech, of the press, of assembly, of association, of travel, of movement, of correspondence, of strike, of choice of occupation, of academic research and of religious belief will be ensured by law in the Hong Kong Special Administrative Region. Private property, ownership of enterprises, legitimate right of inheritance and foreign investment will be protected by law (...) (12) The above-stated basic policies of the People’s Republic of China regarding Hong Kong and the elaboration of them in Annex I to this Joint Declaration will be stipulated, in a Basic Law of the Hong Kong Special Administrative Region of the People’s Republic of China, by the National People’s Congress of the People’s Republic of China, and they will remain unchanged for 50 years”. La dichiarazione sino-portoghese è sostanzialmente di simile tenore. 3. Un punto della situazione abbastanza ampio e approfondito è dato dal J. Oliveira - P. Cardinal (a cura di), One Country, Two Systems, Three Legal Orders - Perspectives of Evolution - Essays on Macau’s Autonomy after the Resumption of Sovereignty by China, Springer, Berlino-Heidelberg, 2009; volume collettaneo frutto di un seminario tenutosi a Macao nel 2007, che a dispetto del sottotitolo tratta anche degli aspetti relativi ad Hong Kong, con numerosi contributi di noti studiosi della regione e non solo. 4. Anche gli articoli 5 delle due Basic Law prevedono che “[t]he socialist system and policies shall not be practised in the [Hong Kong/Macao] Special Administrative Region, and the previous capitalist system and way of life shall remain unchanged for 50 years”. 5. Vernon V. Palmer, Mixed Jurisdictions Worldwide - the Third Family, Cambridge University Press, Cambridge, 2002. V. Palmer è considerato uno dei massimi teorici dei sistemi misti; nel volume appena citato (Introduction, passim, e spec. 7-10), identifica i tre elementi comuni ai sistemi misti common law-civil law: nella compresenza quantitativamente significativa di elementi con chiara origine in entrambe le tradizioni giuridiche; nella sovrapposizione di una cornice istituzionale di common law – specie in materia di ruolo e sistema delle corti, di amministrazione della giustizia e sistema processuale – a una preesistente tradizione e presenza di norme sostanziali di diritto continentale; e nella soggettiva percezione degli operatori di quel sistema di trovarsi in un sistema “misto”. 6. R. Peerenboom, China’s Long March toward Rule of Law, Cambridge University Press, 2002; I. Castellucci, Rule of Law with Chinese Characteristics, in Annual Survey of International and Comparative Law, 13 (2007) pp. 35-92; v. anche J. Chen - Y. Li - J.M. Otto (a cura di), Implementation of Law in the People’s Republic of China, Kluwer International, l’AjaLondra-New York, 2002. 7. Il dato è stato rilevato ed evidenziato da E. Hondius nel suo General Report all’esito della disamina dei national reports forniti dai diversi relatori nazionali sul tema “Precedent and the Law”, in occasione della XVIII Conferenza della International Academy of Comparative Law, tenutasi ad Utrecht nel luglio 2006; atti in E. Hondius (a cura di), Precedent and the Law, Bruylant, Bruxelles, 2007. 8. Ng Ka Ling v. Director of Immigration (1999) 2 HKCFAR 4 [2], 29 gennaio 1999; anche in (1999) 1 HKLRD 315. 9. Ng Ka Ling v. Director of Immigration (1999) 26 febbraio 1999 HKC425. 10. Già ad esempio nel dicembre 1999: Lau Kong Yung v. Director of Immigration (1999) 3 HKLRD778. 11. Vengono così indicati nella prassi internazionale quei fondi di investimento che si occupano di acquistare a prezzi bassi o stracciati il debito di paesi in via di sviluppo, nella speranza poi di riuscire a realizzarli attaccando soprattutto crediti e beni, presenti o futuri, di quegli stessi paesi presso soggetti terzi (ad esempio, donazioni e risorse per la cooperazione provenienti da paesi diversi, agenzie di sviluppo ecc.). 12. Democratic Republic of the Congo & Ors. v FG Hemisphere Associates LLC (n. 2) (2011) 5 HKC395, decisione finale dell’ 8 settembre 2011, che riporta per esteso l’interpretazione data dal Comitato Permanente. 13. Tribunal de Segunda Instância, 13 luglio 2006, n. 82/2006. La decisione (in portoghese) è disponibile su www.court. gov.mo/pdf/TSI/TSI-A-82-2006-VP.pdf 14. I. Castellucci, rapporto nazionale Macao Special Administrative Region - China, in E. Hondius (a cura di), Precedent and the Law, cit., pp. 349-370. 15. Per una visione ampia del tema dell’art. 23 nella Sar di Hong Kong, v. Fu Hualing - C. Petersen - S. Young (a cura di), National security and fundamental rights. Hong Kong’s article 23 under scrutiny, Hong Kong University Press, 2005. 16. Ha avuto un qualche rilievo sui media locali il caso di un noto accademico di Hong Kong, con una chiara posizione
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pubblica contraria all’attuazione dell’art. 23, che recatosi a Macao per un evento accademico si è visto respingere alla frontiera. 17. Dal rapporto ufficiale Xinhua del 21 dicembre 2009 che ha riportato i termini del discorso di Hu: “First of all, it is imperative to have a full and correct understanding and implementation of the ‘one country, two systems’ principle, he said, noting that the key is to realize the most extensive unity under the banner of loving the motherland and loving Macao. Hu noted that ‘one country, two systems’ is a complete concept, with ‘one country’ closely linked with ‘two system’. On the one hand, the existing social and economic system and the way of life in Macao must be maintained, and on the other hand, the sovereignty, territorial integrity and security of the country must be safeguarded, and meanwhile, the socialist system practice in the main body of the country must be respected, the president noted. Hu said that it is imperative to safeguard the high degree of autonomy enjoyed by the Macao Sar and fully protect the master status of the Macao compatriots, but it is also imperative to respect the power endowed upon the central government by laws, and to firmly oppose any external forces in their interference in Macao’s affairs. Early this year, the legislation of Article 23 of the Basic Law of the Macao Sar passed smoothly, a move Hu said fully reflects the strong sense of responsibility of the Government, Legislative Assembly and people of all circles of the Macao Sar to safeguard national security and interests. ‘The move also provides a strong guarantee for Macao’s long-term stability’, said the president. ‘As long as the compatriots of Macao unite under the banner of loving the motherland and loving Macao, they will be able to lay a solid political foundation for Macao’s long-term prosperity and stability’, said Hu”. 18. Non c’è ancora una letteratura giuridica sulla legge di Macao del 2009; interessanti insights nel processo legislativo macaense vengono però da un rapporto sul disegno di legge, preparato per il governo della Sar durante i periodo di pubbliche consultazioni sulla legge stessa: J.A.F. Godinho, The Regulation of Article 23 of the Macau Basic Law, a commentary on the Draft Law on Public Security, SSRN-1303245-1.pdf. Secondo questo Autore, la legge di Macao è anche un segnale di moderazione verso la Sar di Hong Kong, essendo meno restrittiva del disegno di legge ivi accantonato nel 2003. 19. Ampio risalto è stato dato alla legge di Macao dai media di Hong Kong; v., ad esempio, l’articolo del giornalista V. England sulla pagina web della Bbc del 3 marzo 2009, dal titolo Macau law a “bad example” for Hong Kong. 20. Valga come esempio il rapporto sul disegno di legge sulla sicurezza, menzionato alla nota 13: ne è autore un portoghese, che nel rivolgersi al governo di Macao non ha utilizzato la sua lingua, che è anche lingua ufficiale della Sar, usando invece l’inglese. 21. Anche ad Hong Kong le cose stanno, comunque, cambiando: già nel 2001, in una sentenza emessa per il riconoscimento e l’esecuzione ad Hong Kong di una decisione taiwanese, la Court of Final Appeal di Hong Kong si è preoccupata di affermare con forza il principio One country, descrivendo il governo di Taiwan come “illegittimo” e “usurpatore” con toni molto sopra le righe, in un contesto in cui ciò non era certamente richiesto ai fini del riconoscimento della decisione taiwanese: Chen Li Hung & others v. Ting Lei Miao & others, 13-16 dicembre 1999 - 27 gennaio 2000, Court of Final Appeal, (2000) 3 HKCFAR 9; anche in (2000) WL 1056459 (CFA); anche in (2000) 1 HKLRD 252. 22. Esclarecimentos do Comité Permanente da Assembleia Popular Nacional sobre algumas questôes relativas à aplicação da Lei da Nacionalidade da Republica Popular da China na Região Administrativa Especial de Macau. È un documento politico-normativo espressamente richiamato dal governo di Macao nel suo successivo regolamento in materia di immigrazione emanato il 20 dicembre 1999, giorno successivo all’handover, che definisce lo status dei cittadini cinesi, il cui art. 14.2 recita: “Os cidadãos chineses (…) são aqueles que possuem a nacionalidade chinesa conforme a ‘Lei da Nacionalidade da República Popular da China’ e os ‘Esclarecimentos do Comité Permanente da Assembleia Popular Nacional sobre Algumas Questões relativas à Aplicação da Lei da Nacionalidade da República Popular da China na Região Administrativa Especial de Macau’”. 23. L’intera vicenda è considerata a Macao un argomento “sensibile”, e non vi sono pubblicazioni sull’argomento. Le informazioni riportate derivano da miei colloqui con professionisti locali. 24. V. Lok Wai Kin, The Relationship Between Central and Local Government Under the Unitary State System of China, in J.Oliveira - P.Cardinal (a cura di), One Country, Two Systems, Three Legal Orders, cit., pp. 527 e ss. 25. È un modello cui, in momenti di cautissima apertura, ha guardato anche la Corea del Nord – ove pure sono state create delle SEZ e delle SAR basate sul modello cinese.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali Tommaso Previato
The number of Chinese ethnic groups has changed several times over the years between the fall of the Qing Empire (1911), the foundation of the Republic of China (1912) and the establishment of the “new China”, in 1949 with the proclamation of the People’s Republic of China. Today there are 56 different ethnic groups being recognized. A first distinction can be made between the vast majority of Han Chinese, who constitutes more than 90% (roughly one billion and 100 millions) of the total population, and 55 other minority groups with their own cultural traits, distributed throughout the country according to the dynamics of ethnic community formation and its historical development, the interaction they had with their neighbors along the centuries and identification processes as well. A significant portion is represented by the Muslim communities, which although are united by a strong feeling of religious solidarity, however, show a very complex human geography and a large in-group diversification. The religious element, therefore, has a decisive importance in defining identity relationships for these groups that mostly inhabit north-western part of China. This study takes Chinese Muslims as an example to investigate on the national question, the difficulties implied in their process of integration along the China system, as well as the alternating cycles of interaction-clash in relations between ethnic minorities, here conceived as “margin”, and between them and the politicaladministrative “center”. It also aims, through a brief historical survey on the evolution of Islamic culture in China across the centuries, to provide a key to understanding the internal conflict experienced by such groups. Dottorando presso la School of Ethnology and Sociology della Minzu University di Pechino e l’Istituto italiano di Studi orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma
I
l numero dei gruppi etnici cinesi, è variato diverse volte nel corso degli anni che vanno dalla caduta dell’impero mancese dei Qing (1911), alla fondazione della prima repubblica (1912) fino all’istituzione della “nuova Cina”, avvenuta nel 1949 con la proclamazione
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 97 della Repubblica Popolare Cinese (Rpc). Oggi ne vengono riconosciuti in tutto 56, fra i quali si distingue una netta maggioranza di cinesi Han, che costituisce più del 90% della popolazione totale, e altri 55 gruppi minoritari. Ognuno di questi mostra tratti culturali propri e si distribuisce sul territorio nazionale risentendo delle particolarità inerenti alle dinamiche di formazione e sviluppo storico, dell’interazione avuta con i popoli vicini attraverso i secoli e dei rispettivi processi di identificazione. Tale specificità si esprime non solo in termini di quote di popolazione e nella loro frammentazione geografica ma anche e soprattutto nel grado di differenziazione interna al singolo gruppo, in rapporto agli altri e alla maggioranza Han. Solo nove di essi contano una popolazione che supera 5 milioni di membri1, e sono invece sette quelli che non raggiungono le 10mila unità2. Molti vivono nei centri urbani a stretto contatto con le genti Han, risultando per questo più o meno integrati nella mainstream society, altri invece si ritrovano esclusivamente nelle aree di confine apparendo ancora alquanto estranei ai benefici del miracoloso sviluppo cinese. Una porzione non irrilevante è poi rappresentata dalle comunità musulmane, che nonostante siano accomunate da un diffuso e intenso sentimento di solidarietà religiosa presentano tuttavia una geografia umana assai complessa, mostrandosi estremamente variegate al proprio interno e talvolta anche in antagonismo l’una con l’altra. La componente religiosa assume quindi una valenza determinante nel ridefinire i rapporti identitari fra questi gruppi che per la maggior parte popolano la Cina dell’area nord-occidentale. Il presente studio prende quest’ultimi come principale oggetto di indagine per riflettere sulla questione nazionale, le difficoltà insite nel loro processo di inserimento all’interno del contesto cinese, nonché l’alternarsi dei cicli d’incontro-scontro in seno ai rapporti fra minoranze etniche, qui concepite come “margine”, e tra esse e il “centro” politico-amministrativo. Si mira inoltre, attraverso una breve indagine storica dell’evoluzione del concetto di Islam in Cina, a fornire una chiave di lettura che consenta di comprendere il conflitto interno vissuto da tali gruppi. Le fasi storiche dello sviluppo islamico in Cina La presenza musulmana in Cina affonda le sue radici al tempo della dinastia Tang (618-907) e vanta oggi più di 1300 anni di storia3. Nell’epoca Song (960-1279), i musulmani allora noti come fanke (visitatori stranieri) provenienti principalmente dalla penisola arabica e dalla Persia in qualità di mercanti ed emissari, giunsero in Cina grazie all’apertura di nuove vie commerciali (Via delle Spezie) e all’infittirsi dei traffici marittimi4. La corte aveva a loro adibito apposite aree (note come fanfang) nei maggiori centri urbani lungo la costa con il fine di meglio regolamentarne la condotta, le pratiche sociali e l’attività economica. All’interno di ognuna di tali comunità veniva scelto
Componente religiosa e rapporti identitari tra le comunità musulmane
CULTURA E SOCIETÀ un fanzhang, ovvero un amministratore capo che si facesse carico di riscuotere abitualmente i tributi fra i suoi membri e di versarli al governo locale, fungeva anche da responsabile per gli affari religiosi e interveniva con funzione di intermediario qual’ora sopraggiungessero delle dispute. Queste aree protette, oltre che rappresentare un’unità amministrativa sotto la tutela e la supervisione dell’autorità imperiale locale, costituivano di fatto delle piccole comunità musulmane, ognuna con le proprie moschee e i propri luoghi di culto5. Nella successiva fase di espansione mongola in Centrasia e Asia minore, il mondo islamico venne scosso da grandi rivolgimenti sociali e trasformazioni politiche. In meno di mezzo secolo, Temujin il gran Khan (meglio conosciuto con il nome di Genghis Khan) e dopo di esso i suoi eredi, in una rapida successione di cruente campagne militari6 conquistò il regno di Khwarezmia (noto anche come Impero Corasmio), i territori a nord del Mar Caspio, la fascia di terra delimitata dal Mar Caspio ad ovest e il Mar nero a nord-est, in mano alle tribù turche Kipchak, i territori a sud del fiume Amu Darya, la zona nord occidentale di ciò che rappresenta oggi l’Iran e la totalità dell’Iraq. Questi sfolgoranti successi militari ridisegnarono i confini geografici dell’intero continente eurasiatico comportando lo spostamento di masse consistenti di popolazione e il trasferimento coatto di popoli dalle loro originarie sedi abitative. Fra di essi, la maggior parte abbracciava la fede islamica nelle sua duplice variante sunnita e sciita7. Costoro, che venivano ricordati come huihui8, andarono ad allargare le file delle truppe mongole tamachi e di altri eserciti affiliati, alla scorta dei quali raggiunsero la Cina occidentale ove, ultimate le battaglie si insediarono stabilmente dedicandosi al lavoro dei campi9 e trasmettendo gli insegnamenti di Mohammed10. Quel lasso di tempo della durata di circa 600 anni, che va dalla penetrazione islamica in suolo cinese (651 d.C.) fino all’ascesa della potenza mongola e la conseguente istituzione della dinastia Yuan (1271-1368), rappresenta il “periodo di gestazione” per l’Islam in Cina. Tale periodo è caratterizzato da una forte presenza musulmana straniera dedita ad attività di tipo commerciale e solo indirettamente coinvolta nell’opera di proselitismo. I cinesi professanti il credo islamico occupano in questa fase un numero marginale, sono per lo più donne date in sposa a ricchi mercanti, gendarmi e diplomatici arabi, persiani e centrasiatici. Le aree maggiormente interessate sono quelle della Cina costiera: Canton, Quanzhou, Yangzhou, Hangzhou, Shandong e tutta l’area nord orientale, solo in un secondo momento vennero raggiunte anche le zone dell’entroterra fra cui quelle più influenti furono Xi’an, Kaifeng e Luoyang. Con gli Yuan e il primo periodo Ming (1368-1644) ebbe invece inizio quella che viene definita la “fase d’espansione”, caratterizzata da una straordinaria velocità di propagazione che nonostante l’aspetto traumatico dell’eliminazione e della
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 99 deportazione forzata di oltre un milione di musulmani centrasiatici11 (almeno 60mila furono quelli prelevati dalla sola città di Samarkanda, e circa 100mila quelli impiegati nell’ultima delle tre grandi battaglie mosse contro il regno degli Xia occidentali)12, contribuì a gettare solide basi per la nascita delle prime comunità islamiche cinesi. Tale fase culminò nella tarda epoca Ming con il germinare di particolari forme sincretiche date dall’assimilazione di elementi tipici delle scuole confuciana e taoista. La dottrina assunse così caratteristiche più propriamente cinesi e dall’iterazione con queste due maggiori tradizioni sorsero le prime minoranze musulmane cinesi. Se la prima di queste due fasi era caratterizzata da un gran fermento commerciale al quale talvolta poteva accompagnarsi una forma pacifica di trasmissione del sapere religioso, con la seconda, in cui si assistette allo spostamento dell’asse degli scambi verso l’area nord occidentale del paese (Turkestan cinese, Gansu, Qinghai e Ningxia), la diffusione del credo avveniva entro le direttrici militari del nuovo grande impero delle steppe, al quale fece da supporto nei progetti di occupazione e conquista. L’apertura di un nuovo canale lungo le maggiori vie di comunicazione terrestri (Via della Seta) che collegavano la Cina al mondo islamico rispondeva esclusivamente a ragioni di natura politico-strategica e vide di conseguenza privilegiare l’aspetto bellico a scapito di quello meramente commerciale13. Le fonti scritte attestano infatti che già alla vigilia del tracollo dei Song meridionali (1127-1279), Genghis Khan quando dalle steppe del Centrasia iniziò a muovere verso oriente con il preciso intento di annichilire il regno degli Xia occidentali (1038-1227)14, aprirsi un varco lungo il Corridoio del Gansu e costringere la dinastia cinese regnante ad abdicare, oltre che arruolare mercenari, artiglieri e gruppi di soldati scelti, mobilitò un ragguardevole contingente di artigiani (maniscalchi, fabbri, pellettieri ecc.) da impiegare nei lavori di approvvigionamento degli eserciti per seguirli nei loro spostamenti e nelle loro sanguinarie battaglie. La parola sartha o sartaul che molti fanno derivare dal sanscrito – altri la fanno invece risalire al turco sart (nomade) – originariamente stava proprio ad indicare questi artigiani e commercianti centroasiatici che professavano la fede islamica e con i quali l’insieme dei popoli musulmani venne col tempo per l’essere identificato15. Il musulmano, per la sua straordinaria abilità manuale e maestria nell’arte del commercio, era quindi all’epoca sinonimo di mercante. Fu così che la cultura islamica, inizialmente con l’ampliarsi dei traffici commerciali e in seguito per mano dei mongoli che ne fecero abile strumento di dominazione16, penetrò nella Cina occidentale e si diffuse a poco a poco fra le genti del posto17. L’epoca Ming (1368-1644) segnò formalmente l’inizio del “periodo formativo” per l’Islam cinese, molte delle minoranze etniche musulmane presenti oggi in Cina nacquero proprio in quest’era. A
Tarda epoca Ming: le prime comunità musulmane cinesi
CULTURA E SOCIETÀ seguito delle progressive migrazioni dalle province nord occidentali verso le aree più interne dell’impero e con l’acquisizione di un legame più diretto con la terra a cui venne affiancandosi un rinnovato interesse per le attività commerciali, il ciclo di “sedentarizzazione” di molte famiglie musulmane potè dirsi completato. Come conseguenza emersero nuovi centri di diffusione del sapere: Nanchino e Suzhou per la regione a sud del Fiume Yangtze; Hezhou, Jinzhi e Xining per le province di Qinghai, Gansu e Ningxia; Changan per lo Shaanxi e l’intera Pianura Centrale; la provincia dello Yunnan rimase senza un fulcro specifico mentre lo Hebei vide nascere alcune piccole comunità nei sobborghi di Pechino18. La condizione diasporica – nel senso di lontananza dalla propria terra natia e memoria delle radici – che caratterizzava l’identità di tali gruppi nella fase precedente venne poco a poco attenuandosi19 in favore di un più marcato sentimento di comune appartenenza alla comunità dei fedeli. Siffatta unità di spirito si definì in reazione alle politiche assimilative adottate dall’iniziatore della dinastia Zhu Yuanzhang (1328-1398) e dai suoi successori, che non fecero altro che esacerbare i rapporti con la maggioranza Han, da una parte, e all’impossibilità di poter fare ritorno o intrattenere scambi diretti con il proprio paese d’origine, causata dall’imposizione di una linea di totale chiusura in campo diplomatico, dall’altra20. Ciononostante, sotto la pressione delle sempre più acute politiche discriminatorie e l’influenza del Sufismo che a partire dalla seconda metà del 16° secolo si fece sempre più evidente, anche la coesione interna venne a frantumarsi e le differenze di fazione esasperandosi21. Fu così che nacquero le tre maggiori confraternite islamiche (Qadim, Al-Ikhwan e Xidaotang22) e il sistema dei menhuan23, ordini religiosi organizzati in forma settaria caratterizzati dal culto dei santi fondatori e dalla totale fedeltà ai propri leader, nelle mani dei quali andò via via accumulandosi grande potere politico e militare. Fra i maggiori ordini, che talvolta si trovavano in lotta l’uno con l’altro, si annoverano Qadiriyya, Khufiyya, Jahriyya e Kubrawiyya, ognuno dei quali presenta un ragguardevole numero di congregazioni interne e sotto ordini (in tutto circa 40)24. Parallelamente fiorì una vasta produzione di opere tradotte direttamente dall’arabo e dal persiano antico (con grande probabilità anche da certi dialetti turchi) e dei primi testi scritti in lingua cinese, il che per le comunità in questione sembra marcare definitivamente il passaggio da uno status di residenti temporanei a membri tout court del Celeste Impero, del quale avevano acquisito cultura materiale, lingua e addirittura i cognomi alla maniera dei cinesi Han25. L’insieme di questi due fattori, che tradiscono poi un certo grado di acculturamento, è indice di quanto il “periodo formativo” per l’Islam in Cina stesse ormai raggiungendo piena maturazione, e di come esso si fosse ormai inesorabilmente incanalato entro i binari di uno sviluppo autonomo con proprie specificità.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 101 A seguito della riapertura dei porti avvenuta con i Qing (16441911) il 23° anno di regno dell’imperatore Kangxi (1684)26, affluirono in gran numero nuovi gruppi di musulmani dai paesi arabi mentre quelli già stabilmente stanziati sul territorio cominciarono a recarsi regolarmente in pellegrinaggio alla Mecca e ad altri luoghi sacri all’Islam riprendendo così i contatti con le comunità di fedeli all’estero. Per indebolire la crescente influenza esercitata da tali gruppi e da altre minoranze alla frontiera nord occidentale dell’impero, la corte Qing seppe far uso delle divergenze interne ai vari ordini che costituivano il sistema menhuan, specie fra coloro i quali si radicavano agli insegnamenti dell’ala conservatrice (laopai o laojiao) e quelli che invece si ispiravano ai principi riformisti dell’ala progressita (xinpai o xinjiao). L’inasprirsi delle divisioni fomentate dalla corte scatenò un continuo susseguirsi di agitazioni politiche e violente rivolte popolari in funzione anti-Qing che ebbero luogo a partire dal regno di Qianlong (1735-1796) per trascinarsi poi fino a quello di Guangxu (18751908)27. La repressione nel sangue di tali moti lasciò tracce profonde nella memoria storica dei musulmani cinesi e contribuì a plasmarne l’identità di popolo oppresso animato dal desiderio di ottenere riconoscimento in un contesto dominante, l’identità di una Cina dei “margini” definitasi in contrasto a quella del sistema “centro” burocratico e confuciano28. L’Islam oggi: fra nuove spinte identitarie e ricerca di unità nazionale Come avvenne per molte culture che accolsero gli insegnamenti del Profeta in tante altre parti del mondo, ad “Oriente” e ad “Occidente”, nelle varie epoche storiche, anche in Cina lo sviluppo della dottrina mostra particolarità e varianti locali. Come disse Joseph F. Fletcher “la storia dei musulmani in Cina non è una storia isolata da quella degli altri musulmani”29, presenta tratti comuni a tutto il mondo islamico30, ma pur nel richiamarsi ad esso in quanto ortodossia è stata capace di elaborare un’altro Islam con specificità che trovano espressione tanto nel mondo delle idee quanto in quello delle pratiche sociali, tanto nell’adeguamento alla geografia del territorio (nelle sue tre varianti desertico, montuoso e pianeggiante) quanto negli aspetti inerenti all’ecologia culturale (nel pluralismo dei soggetti e delle loro forme di sussistenza). Vediamo prima di tutto le tappe di quel tormentato processo storico che dai Qing portò l’Islam al suo formale riconoscimento, per poi passare ad analizzare in cosa consistono tali specificità. Quando l’Islam varcò il territorio cinese non era ancora stata impiegata una terminologia appropriata che lo definisse quale sistema culturale e di valori con una propria coerenza interna. Come si è visto, nelle epoche Tang e Song lo si indicava come dashifa, mentre con la dinastia mongola degli Yuan iniziarono ad entrare in uso i composti
Epoca Qing: nuovi gruppi musulmani dai paesi arabi
CULTURA E SOCIETÀ huihui e huihe31, ambiguamente indicanti la distribuzione geografica e gli attributi etnici di coloro che professavano il credo islamico piuttosto che i risvolti dottrinali del credo in se. I Ming gli dettero l’epiteto di huihui jiaomen o tianfangjiao32, e fino a quasi il tragico epilogo delle insurrezioni musulmane del tardo periodo Qing che misero a ferro e fuoco le regioni occidentali dell’Impero, si aveva ancora scarsa conoscenza del fenomeno. Per tutto il periodo repubblicano (1912-1949), si adottò invece l’appellativo di huijiao tutt’ora in uso nelle comunità cinesi d’oltremare in specie nella regione Sud-est asiatica, ovunque ci sia un’abbondante concentrazione di cinesi musulmani, e i suoi adepti venivano chiamati chantouhui (gli Hui dal turbante avvolto attorno al capo). Fu soltanto nel giugno del 1956 con la pubblicazione del “Comunicato sulle questioni inerenti alla designazione islamica” che gli venne data una denominazione più consona, e il concetto di Islam entrò estensivamente nel vocabolario cinese. In tale documento si sanciva: “L’Islam è una religione globale, e il termine Islam viene impiegato ampiamente a livello internazionale” di conseguenza “d’ora in poi non potrà più essere fatto uso del termine huijiao bensì solo di quello di Islam”33. A partire dal 1959 nella zona nord occidentale del paese vennero istituite le prime associazioni islamiche (yisilanjiao xiehui)34 che circa un ventennio più tardi vennero con l’essere estese a tutto il paese, ai livelli di contea, prefettura e municipalità35. Tuttavia durante il periodo della Rivoluzione Culturale, in specie nel triennio 1964-1966 in cui venne lanciato il movimento per l’educazione socialista (shejiao yundong), molte forme di credo, fra cui l’Islam in particolar modo, subirono aspre persecuzioni, al punto che in alcune aree si tentò l’esperimento dei cosiddetti “distretti atei”36, nei quali la gente veniva spinta a rinunciare al proprio credo, ad allevare maiali nonostante i severi divieti imposti dalla religione e a seguire altre pratiche contrarie all’etichetta islamica. Nell’immediato periodo postmaoista, la fine di tali eccessi portò alla formulazione di un nuovo progetto di legge “Politiche fondamentali e principali punti di vista sulla questione islamica nella Cina del periodo socialista” pubblicato nel marzo del 1982, nel quale si garantiva il diritto alla libertà di culto. Almeno un terzo delle moschee e degli altri luoghi di culto che erano stati distrutti o gravemente danneggiati durante la burrascosa parentesi rivoluzionaria, vennero riabilitati. Nell’aprile dello stesso anno in occasione della quinta Assemblea Nazionale del Popolo (Anp) tale disegno venne poi rettificato e inserito nella nuova carta costituzionale in cui venne riaffermato in maniera più programmatica il principio della libertà di credo (art. 36)37. L’Islam così come si presenta oggi in Cina risulta scisso al suo interno fra due grandi sistemi concettuali: il primo, rimasto più aperto alle influenze della tradizione filosofica cinese (confuciana e taoista), trova i propri fondamenti epistemologici e dottrinali nell’Han Kitab38.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 103 Rappresentato dal gruppo etnico degli Hui, è diffuso principalmente nei centri urbani della Cina orientale; il secondo, che abbraccia la via sufi più integralista si è consolidato attorno alla minoranza Uyghur e ai gruppi musulmani turcofoni39 della frontiera nord occidentale del paese, diffuso in specie nella regione autonoma dello Xinjiang40. Tale suddivisione oltre che contemplare diversità legate a forme di culto e correnti di pensiero, riflette anche la struttura socio-economica con cui sono ordinate le varie comunità, la loro geografia distributiva e l’aspetto territoriale. I gruppi che fanno del commercio la propria attività primaria, saranno così concentrati nelle medie e grandi città dell’area costiera e meridionale del paese; quelli che invece hanno mantenuto un legame più stretto con la terra, risulteranno maggiormente presenti nelle aree agro-pastorali delle province nord occidentali e praticheranno una forma mista di agricoltura integrata con la vendita di generi alimentari, vestiario, oggetti d’artigianato e accessori di vario genere41. Sebbene si parli di due sistemi distinti, ognuno con le proprie dinamiche di gruppo, un certo grado di solidarietà interna fra i membri, la condivisione di particolari norme e il relativo senso di appartenenza, essi hanno nel corso dei secoli sviluppato interdipendenze e insolite forme di dialogo. In questi ultimi anni, il dialogo sembra però aver ceduto il passo all’intolleranza, assumendo sempre più i tratti di una gretta coesistenza inter-etnica, che talvolta degenera in situazioni di tensione o in scontro aperto. Come ci fanno notare Fuller e Lipman: “gli Hui non frequentano le moschee Uyghur e viceversa. In realtà, mentre gli Hui (...) non trovano difficoltà a interagire con i cinesi Han di fede non islamica, i loro rapporti con gli Uyghur si definiscono nella segregazione per quartieri, nei pregiudizi personali e in un generale senso di sfiducia”42. L’insieme di queste contraddizioni, fatte di alleanze e inimicizie fra un sistema e l’altro, tra fazioni interne al singolo sistema, e da tutta quella serie di spinte antagonistiche che sembrano dividere la Cina del “centro” da quella dei “margini”43, è rappresentativa della condizione di disagio vissuta da tali gruppi: il loro ritrarsi entro i contorni di un’“identità ibrida” (l’essere musulmano e cinese al tempo stesso) con tutte le difficoltà che ciò possa implicare. Reinterpretando l’affermazione di Fletcher alla luce delle considerazioni fin qui esposte, intuiamo allora quanto l’Islam sia oggi, e in verità lo sia sempre stato, un concetto itinerante e fluido, non più appartenente agli insiemi “Oriente” o “Occidente” con i quali siamo soliti concettualizzare l’universo religioso e costruire i nostri modelli ideali di “civiltà”44: è il risultato di un processo d’accomodamento che seguendo i lineamenti della storia e della cultura dei popoli fra cui andava ad inserirsi lo ha portato a ricercare nuove soluzioni senza con ciò deviare obbligatoriamente dall’ortodossia. Tale appare pure in Cina sebbene risponda a dinamiche un po’ diverse, frutto di partico-
I due grandi sistemi concettuali dell’Islam in Cina: gli Hui a oriente, Uyghur a occidente
CULTURA E SOCIETÀ lari contingenze storiche e dell’intreccio di numerose influenze e tradizioni talvolta in conflitto. È corretto pertanto affermare che non c’è una sola Cina e un solo Islam, ma piuttosto diverse Cine, ognuna con il proprio Islam. Esaminiamo ora più da vicino cosa comporta l’essere musulmano in un contesto simile, il suo forte senso di appartenenza alla comunità e l’articolata diversità delle sue pratiche. L’Islam si presenta come fattore unificante per una gran fetta della popolazione – si vedano fra i più gli Hui, i Dongxiang, i Bonan (scritto anche Baoan), i Salar, gli Uyghur e i Kazakh, gruppi che nel complesso si definiscono di fede musulmana – ma al contempo mostra ricche sfaccettature interne che permettono di distinguere chiaramente gli uni dagli altri. Sebbene la storia di ognuno affondi le proprie radici in epoche diverse, così come esistano discrepanze quanto a tempi e modi attraverso cui essi fecero propria la dottrina islamica, questi gruppi sembrano tutti accomunati dal fatto che prima ancora di mettere piede in Cina o nel momento stesso in cui si costituirono in forma di gruppo etnico, già erano parte del Dar al-Islam (la “Casa dell’Islam”), e per gran parte di essi era poi possibile rintracciare almeno un antenato comune con le popolazioni centrasiatiche e dell’Asia Occidentale45. Le indagini storiche dimostrano quanto fu la vis religiosa a plasmare l’identità di questi gruppi e a guidarne il “processo formativo”. La coscienza di un’identità etnica condivisa passava infatti attraverso il filtro del credo, tale per cui l’essere musulmano era connaturato all’essere Hui46, Dongxiang, Bonan, Salar ecc47. Nella Cina premoderna e durante tutto il periodo repubblicano, non esistevano altri parametri che ne definivano la natura di gruppo con le proprie ricchezze e specificità storico-culturali. Possiamo di conseguenza sostenere che per tali gruppi la cultura religiosa è stata per molto tempo il solo contrassegno che permetteva di definire l’appartenenza all’etnia48. Il confine esistente fra questi due insiemi è in realtà sempre stato molto labile, tant’è vero che a detta degli stessi musulmani è operazione assai ardua poter distinguere chiaramente fra i due49. Ed è proprio in questo senso che diciamo esiste un fattore unificante, che accomuna pur nelle sue diverse declinazioni, i seguaci dell’Islam in Cina. La sua intrinseca complessità tuttavia non si esaurisce qui. Questi gruppi sembrano infatti condividere un’altra condizione: si definiscono come “margine”50, ovvero parte di quella rete di alleanze e inimicizie sorta dall’incontro con un organismo centralizzato che in passato si legittimava unicamente in virtù dell’appello alla morale confuciana e oggi, ispirandosi ai principi del materialismo storico di stampo marxiano, si proclama partito laico. Una volta trovatisi a convivere con tale “centro” hanno saputo dar vita a forme culturali ibride e “impure”, che hanno assorbito col tempo elementi propri della cultura cinese – riferendoci qui ancora una volta alla cultura materiale dei cinesi d’etnia Han – e non – indicando tutte quelle sotto culture originariamente non cinesi che in seguito a
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 105 ripetuti flussi migratori si insediarono sul territorio – strutturandone un’elegante sincretismo. Il “paradigma minzu” e le comunità musulmane in cifre Secondo la classificazione attualmente in uso nella Repubblica Popolare Cinese che ha fatto proprio il “paradigma minzu”51, si distinguono in tutto dieci gruppi etnici che potremmo racchiudere sotto la generica etichetta di “islamici”. Assumendo la lingua come parametro di riferimento, essi possono essere ripartiti nell’ordine seguente: nel ceppo delle lingue turciche sono inclusi Uyghur, Kazak, Tatar, Uzbek, Salar e Kirghiz; fra quelli che parlano il mongolo o sue varianti dialettali si distinguono Dongxiang e Bonan; parlanti di una variante del persiano sono invece i Tajik; in netta maggioranza, gli Hui che comunicano sostanzialmente in cinese mandarino o dialetti locali, anche se una buona parte di essi si esprime in Dai, tibetano o altre lingue “minori”. Nove fra i gruppi inseriti in quest’ordine, sebbene parlino correntemente il cinese, hanno mantenuto la propria lingua o il proprio sistema di scrittura rimanendo in tal modo fortemente radicati alle proprie tradizioni. Per contro, gli Hui, che da soli costituiscono circa la metà dei musulmani cinesi, rappresentano un fenomeno storico e culturale complesso con evidenti differenze, i cui membri meriterebbero di essere studiati separatamente, benché vengano solitamente raggruppati entro un’unica categoria. Eccezione fatta per questi ultimi che si distribuiscono un po’ dovunque all’interno dei confini nazionali e non (è il caso dei Dungan, ovvero Hui originari delle provincie di Gansu e Shaanxi che sul finire del XIX secolo per sfuggire ai conflitti etnici che stavano logorando la Cina occidentale migrarono verso ovest trovando rifugio in Russia e nelle attuali repubbliche di Kyrgyzstan e Kazakhstan)52, i restanti nove si trovano tutti nella regione nord occidentale del paese. Dall’analisi dei dati ufficiali contenuti nel 5° censimento generale del novembre 2000, la popolazione musulmana supererebbe complessivamente la quota di 20 milioni, anche se alcune stime non confutabili la farebbero ammontare fino a 30. Essa si trova maggiormente distribuita nelle cinque province della Cina nord occidentale, ovvero Xinjiang, Gansu, Qinghai, Ningxia e Shaanxi. Tra queste cinque province quella ad aver la più elevata concentrazione è lo Xinjiang, nel quale su un totale di 19.250.000 di abitanti, più della metà (59,39%) è costituita da minoranze etniche che per la maggior parte si proclamano di fede islamica53. Dei 20 milioni di popolazione totale, nove milioni circa sarebbero Hui, che costituiscono non solo la più numerosa ma anche la più antica fra le comunità musulmane che la Cina abbia mai avuto. Quest’ultimi si presentano oggi distribuiti in modo sparso su tutto il territorio nazionale, trovando tuttavia la maggiore concentrazione nella Regione Autonoma del Ningxia (17%) e nella
CULTURA E SOCIETÀ Provincia del Gansu (12%)54. Subito dopo i Manciù 55, rappresentano il gruppo etnico che, nonostante le remote origini arabe e persiane, più di ogni altro subì l’influenza dei cinesi Han56, a cui furono legati da matrimoni misti che con il tempo finirono per accelerare il processo di sinizzazione, sia sotto il profilo linguistico-culturale che fisico-somatico. Diversamente è stato per Salar, Dongxiang e Bonan, quasi esclusivamente insediati all’estremo nord occidentale della frontiera cinese presso le aree di Qinghai e Gansu, i quali al pari di Uyghur, Kazakh, Kirghiz e altri gruppi minori presenti nella regione dello Xinjiang, hanno saputo invece mantenere una forte identità culturale ed etnica, grazie anche alla funzione svolta dalla lingua, che risulta un fattore determinante di coesione, e alla vicinanza geografica con le comunità musulmane centrasiatiche delle cinque repubbliche ex-sovietiche. Lanciando poi un rapido sguardo al sistema produttivo e di sussistenza rispettivamente adottato da ognuno di essi riscontriamo quanto, alcuni giunti in terra sinica attraverso la Via della Seta e il dispiegarsi dei traffici marittimi e terrestri, ebbero per questo un passato segnato dal commercio che sembra quindi in parte spiegare la loro distribuzioTavola 1. Rapporto fra popolazione Han, minoranze etniche complessive e gruppi musulmani al 1° novembre 2000 Popolazione totale
Percentuale sul totale
Popolazione compl. Rpc (*)
1.265.830.000
100%
Han
1.159.400.000
91,59%
Minoranze etniche
106.430.000
8,41%
Gruppi musulmani sing.
20.320.600
1,61%
1.400.000.000
1.265.830.000
1.159.400.000
1.200.000.000 1.000.000.000 80.000.000 60.000.000 40.000.000 20.000.000 0
106.430.000 20.320.600 Minoranze etniche compl. 8,41%
Han 91,59%
Gruppi musulmani 1,61%
Popolazione totale 100%
(*) Indicativo degli abitanti di: 31 provincie; regioni autonome; municipalità soggette all’amministrazione diretta del governo centrale. Non comprensivo di: regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao; Taiwan; isole di Jinmen, Mazu e limitrofe della Provincia del Fujian.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 107 ne a macchia di leopardo. Altri invece rintracciando le proprie origini nella confederazione tribale dei popoli turchi centrasiatici oguz57, conducevano una vita dedita al nomadismo. Così ad esempio i Salar che di tale federazione furono un membro nobiliare, e seppur vennero poi con il “sedentarizzarsi” mantennero comunque una struttura sociale piramidale ordinata secondo il principio di consanguineità diretta con il capostipite del clan, principio che sembra essere caratteristica comune a tutte le comunità nomadiche centrasiatiche58. Altri ancora incorporarono elementi della tradizione rurale-agreste tipici della Pianura Centrale avvicinandosi inevitabilmente alla società Han, di cui fecero propria la cultura materiale e l’ordine sociale. Per quanto concerne infine l’organizzazione settaria del credo religioso, alcuni abbracciarono l’Islam più ortodosso richiamandosi al misticismo di stampo sufista con tutti i suoi sotto ordini, le sue innumerevoli filiazioni e confraternite. Altri praticarono una forma blanda di “islamismo” (alcuni la definirebbero addirittura “corrotta”)59 che, come abbiamo visto, presto acquisì componenti della norma confuciana e della dottrina taoista. La solidarietà religiosa fra i vari gruppi e la fedeltà di ognuno al proprio clan e ordine religioso (menhuan) sembra quindi assumere una valenza determinante nel definire i processi di identificazione in queste “società di frontiera”60. I musulmani cinesi, pur differenziandosi dai loro vicini di fede non islamica, e come abbiamo visto fin qui brevemente, anche l’uno dall’altro per forme di culto, sistema produttivo e struttura sociale,
Le diverse caratteristiche dei gruppi islamici: lingua, cultura, economia, commercio
Tavola 2. Popolazione musulmana presente in Cina al 1° novembre 2000 (*) Popolazione totale
Percentuale sul totale
Hui
9.816.800
0,78%
Uyghur
8.399.400
0,66%
Kazakh
1.250.500
0,10%
Dongxiang
513.800
0,04%
Kirghiz
160.800
0,01%
Salar
104.500
0,01%
Tajik
41.000
<0,01%
Bonan
16.500
<0,01%
Uzbek
12.400
<0,01%
Tatar
4.900
<0,01%
(*) Come per la tavola 1 e gli altri riferimenti sulle quote di popolazione, i dati statistici qui esposti sono in riferimento alle fonti governative cinesi per l’anno in questione così come figurano nel sito internet dell’Istituto Nazionale di Statistica Cinese (www.stats.gov.cn). Le cifre sulla composizione etnica sono state invece approssimate per difetto, le percentuali che ne derivano possono pertanto presentare alcune lievi discrepanze rispetto a quelle reperibili sui documenti ufficiali. Per un raffronto si rimanda a Yang Shengmin - Ding Hong (2004).
CULTURA E SOCIETÀ appaiono tuttavia accomunati da uno spiccato carattere sincretico e dall’accavallarsi di diverse forme di identità. È proprio per questa serie di motivi che la loro individuazione come categoria a sé stante si è sempre dimostrata assai problematica. Tale operazione per un verso comporta una loro rilocalizzazione entro la “cornice-Cina”, che non necessariamente si realizza lungo le direttrici di un “naturale” processo di sinizzazione o “volontario” adeguamento al contesto locale, come vuole spesso farci intendere la storiografia ufficiale; per l’altro implica, ci ricorda Pamela K. Crossley, riconoscere l’esistenza di più “frame culturali” che vennero col tempo a sovrapporsi alle intenzioni politiche dei Qing prima, della Cina repubblicana e comunista poi61. Ciò dimostra quanto la rigidità di categorie identitarie – siano esse di natura statuale o dettate dalle contingenze del contesto geopolitico, imposte dalla costruzione di modelli ideali di “civiltà” o dall’uso di certi discorsi egemonici sull’altro – non può essere assunta a criterio regolatore per descrivere la realtà etnologica, specie in un contesto di continuo cambiamento al quale si trova esposta la Cina contemporanea, con tutte le sue contraddizioni. La questione dei rapporti identitatari in seno alle comunità musulmane deve a maggior ragione essere considerata più come una questione processuale che un entità statica che non ammette fratture al suo interno ne ogni sorta di dialogo con l’altro. Conclusioni Lo studio qui proposto vuole suggerire un’analisi dei rapporti fra minoranze che tenga conto di questa serie di interdipendenze e fratture, in uno spazio culturalmente differenziato e “marginale” come può essere definito quello cui appartiene la Cina islamica. Esso concorre, per un verso, a formulare una valida alternativa al sistema unipolare così come viene percepito di per sé quello cinese ai nostri occhi e in parte anche a quelli degli stessi cinesi62, spianato di tutte le differenze che presenta al suo interno; per l’altro può consentirci di mettere in relazione più diretta l’Islam con le vicende geopolitiche attuali, al radicamento territoriale della dottrina e alla sua espansione in suolo cinese, fino al disagio vissuto da suddetti gruppi, inerente alla carente se non mancata integrazione e al conflitto interno alla questione identitaria. Ci chiediamo allora: fu davvero una soluzione d’accomodamento a scandire le fasi dello sviluppo storico dell’Islam consentendo una sua rilocalizzazione entro la “cornice-Cina”? Seppur una qualche sorta di accomodamento sia ravvisabile, essa a nostro avviso non necessariamente fu l’esito di un violento processo di sinizzazione, che è la conclusione alla quale potremmo essere erroneamente portati ad un analisi superficiale dei fatti. L’affermazione di Aziz Al-Azmeh “vi sono tanti Islam quante sono le situazioni che li sostengono”63, per quanto sacrilega possa suonare agli orecchi dei più intransigenti, sem-
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 109 bra aderire pienamente alle nostre supposizioni per ciò che è avvertito come un fenomeno problematico non solo in Cina ma dovunque ci sia una presenza musulmana consistente nel mondo. Essa ci suggerisce pertanto la simultaneità di due condizioni: quella dell’essere musulmano e cinese al tempo stesso. Conferma inoltre non solo quanto la religione sia in Cina, almeno per quelli che abbracciano la fede islamica, una semplice questione contestuale64 ma anche e soprattutto l’aspetto relazionale e discorsivo di tutte le forme di identità, reali o immaginarie, incernierate entro un principio di ordine religioso o di natura etnica-culturale. ■ Bibliografia In lingue occidentali: • A. Al-Azmeh, Islams and Modernities, London, Verso, 1993. • I. Attanné - Y. Courbage, Transitional Stages and Identity Boundaries: The Case of Ethnic Minorities in China, in Population and Environment, vol. 21, 2000 (3), pp. 257-280. • S.D. Blum - L.M. Jensen, China off center: Mapping the margin of the Middle Kingdom, Honolulu, University of Hawaii Press, 2002. • P.K. Crossley, A Traslucent Mirror: History and Identity in Qing Imperial Ideology, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1999. • E.L. Davis, Encyclopedia of contemporary Chinese culture, New York, Routledge, 2004. • S.R.K. Dyer, Karakunuz: An Early Settlement of the Chinese Muslims in Russia, in “Asian Folklore Studies”, vol. 51, 1992, pp. 243-279. • J.F. Fletcher, Studies on Chinese and Islamic Inner Asia, Aldershot, Valiorum, 1995. • G.E. Fuller - J.N. Lipman, Islam in Xinjiang, in S.F. Starr (a cura di), Xinjiang: China’s Muslims borderland, New York, M.E. Sharpe, 2004. • S. Kozin, La storia segreta dei Mongoli, Parma, Guanda Editore, 2009 (traduzione dal russo di Maria Olsùfieva). • O. Lattimore, Inner Asian Frontiers of China, New York, American Geographical Society, 1951. • J.N. Lipman, Familiar Strangers: A History of Muslims in North-west China, Seattle and London, University of Washington Press, 1998. • S. Murata, Chinese Gleams of Sufi Lights, New York, State University of New York Press, 2000. • Zvi Ben-Dor, The Dao of Muhammad: A cultural history of Muslims in late imperial China, Londra, Harvard University Press, 2005. In lingua cinese (secondo il pinyin per autore): •
额尔登泰、乌云达赍,《蒙古秘史》,呼和浩特:内蒙古人民出版社,1980
[Eerdengtai - Wuyundaji, Menggu mishi (La storia segreta dei mongoli), Huhehaote, Neimenggu Remnin Chubanshe, 1980].
CULTURA E SOCIETÀ • •
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La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 111
NOTE 1. Rispettivamente partendo dal più popoloso si contano Zhuang, Manciù, Hui, Miao, Uyghur, Tujia, Yi, mongoli e tibetani. 2. Menba, Ewenki, Dulong, Tatar, Hezhen, Gaoshan e Luoba. 3. Sebbene vengano fornite diverse interpretazioni a riguardo, la comunità accademica riconosce generalmente il 651 d.C. anno in cui il Celeste Impero avviò le prime relazioni diplomatiche con il Califfato arabo (dashi secondo le fonti dell’epoca) come la data ufficiale della comparsa dell’Islam in Cina. Il 25 agosto di quell’anno (corrispondente al secondo anno del regno Yongwei e, secondo il calendario islamico, al 31° anno dalla morte del Profeta) venne formalmente inviata un’ambasceria araba a Changan (attuale Xi’an, all’epoca capitale dell’impero) per far visita all’imperatore Gaozong e ringraziarlo di non aver ostacolato l’invasione araba della Persia con la spedizione di truppe cinesi nella zona. Sembra tuttavia che la penetrazione musulmana in terra sinica sia avvenuta già qualche decennio prima, durante il regno di Zhenguan (627-649). La Persia, che infatti all’epoca venne annessa al Califfato stesso (642), rappresentava uno dei maggiori partner commerciali per la Cina. Questi fatti trovano conferma anche nella storia islamica: Umar (634-644) succeduto ad Abu Bakr come secondo califfo, trovando la penisola arabica unita sotto la bandiera dell’Islam iniziò a fare i primi tentativi di espansione verso Persia, Siria, Babilonia ed Egitto. Il suo erede Uthman Ibn Affan (644-656), ne consolidò lo slancio iniziale e con la forza degli eserciti impose il credo islamico su tali territori. Si assume quindi che molti dei commercianti persiani giunti in Cina in quegli anni avessero già fatto proprio il credo islamico. Si rimanda a Ma Tong (1983), pp. 78-80, Ma Qicheng - Ding Hong (1999) pp. 120-121 per ulteriori approfondimenti sul tema. 4. Fra i generi maggiormente scambiati lungo queste rotte si annoverano: seta e porcellane cinesi da una parte; essenze ed erbe aromatiche, perle e gioielli arabi dall’altra. 5. Considerato quanto le dinastie Tang e Song incoraggiassero gli scambi commerciali e il ruolo che questa particolare classe di mercanti stranieri avesse nel trainare lo sviluppo economico nelle principali città portuali del paese, era cosa piuttosto comune fra queste genti trovare dimora stabile in Cina, il che comportava l’unione matrimoniale con donne Han, dal quale derivò una discendenza di nuovi sanguemisto professanti il credo islamico che la storiografia ricorda con l’epiteto di tusheng fanke (lett. visitatori stranieri naturalizzati), ossia i progenitori dei primi musulmani cinesi. Si veda Ma Qicheng - Ding Hong (1999), pp. 121-124 e La Bingde - Ma Wenhui (2009), pp. 78-79 sull’argomento. 6. Sono tre i maggiori momenti che scandirono l’ascesa mongola: 1219-1225, 1236-1242 e 1251-1260. Si rimanda a Ma Manli - Qie Pai (2009), pp. 51-60 per ulteriori approfondimenti. 7. Ma Tong (2000, pp. 30-31) ha scritto estensivamente sul tema portando esempi a sostegno di quanto all’interno delle armate mongole fossero presenti anche gruppi di sciiti provenienti da Pakistan, Afghanistan, Iran, Iraq e altre aree dell’Asia centro occidentale. 8. Il termine inizialmente venne coniato come semplice designazione geografica, principalmente in riferimento ai domini del regno musulmano di Khwarezmia. Venne poi con l’assumere una coloritura più etnico-culturale finendo per indicare la totalità dei popoli islamici. Nei testi dell’epoca gli huihui sono riposti entro la categoria dei semuren (lett. popoli di diversa origine, talvolta impropriamente tradotto in “gente dagli occhi colorati”), data dall’insieme delle varie tribù dell’Asia Centrale principalmente di ceppo iranico o turcico, professanti il credo islamico o cristiano nestoriano. All’interno della gerarchia sociale erano secondi soltanto alla nobiltà mongola, e rivestivano importanti cariche istituzionali nell’ambito della gestione politica ed economica. Per l’origine storica e le varie implicazioni del termine si rimanda a Ma Manli - Qie Pai (2009), pp. 83-88. Per quanto concerne invece la voce huihui si veda Ma Zhiyong (2004), pp. 35. 9. Nel 1273 ne venne infatti ordinato il trasferimento al lavoro civile, fu soltanto allora che molti di essi dallo status di funzionari al servizio dell’esercito passarono a quello di comuni contadini, e le postazioni di difesa popolate in prevalenza dalle truppe mongole vennero conseguentemente riadattate a terreni da destinare all’attività agricola. Si rimanda a Qin Yongzhang (2004), pp. 92 sull’argomento. 10. Furono in molti fra i membri delle elite mongole a convertirsi all’Islam. I casi forse più rappresentativi sono quelli di Mahmud Ghazan (1271-1304) che governò sulla Persia facendo dell’Islam sciita religione di stato per l’Il-khanato, e Tughlugh Timur (1347-1363) potente sovrano del khanato Chagatai, anch’egli convertitosi alla dottrina di Maometto, e imitato da 160 mila dei suoi uomini i quali, narra la leggenda, rinunciarono alle folte e lunghe treccie contrassegno
CULTURA E SOCIETÀ d’appartenenza alla classe dei guerrieri. Si veda Ma Manli - Qie Pai (2009), pp. 53-58, Ma Qicheng - Ding Hong (1999), pp. 150-151 e La Bingde - Ma Wenhui (2009), pp.87. 11. Ma Tong (2000), pp. 14. 12. Qin Yongzhang (2004), pp. 45 e 91. 13. In realtà l’inaugurazione di tale canale risale già a molti secoli prima, quando Zhang Qian venne inviato dall’imperatore Wudi (141 a.C. - 87 a.C.) degli Han occidentali (206 a.C. - 9 d.C.) in missione diplomatica presso le “terre occidentali” (note in cinese come xiyu diqu, corrispondente all’attuale provincia autonoma dello Xinjiang a includere parte della regione centrasiatica). Fino a quasi la tarda epoca Tang rappresentava il solo tramite in grado di favorire il dialogo interculturale e lo scambio commerciale. A seguito della ribellione di An Lushan (755-763) che sconvolse l’intera Cina settentrionale cadde quasi del tutto in disuso per essere riadoperata solo dai mongoli agli inizi del 13°secolo. La sua sorte fu indissolubilmente legata a quella della Via delle Spezie e agli itinerari commerciali oceanici. 14. Kozin (2009), pp. 200-221. 15. Sembrerebbe che i mongoli usassero il lemma per riferirsi ai popoli che abitavano la regione compresa fra l’attuale Afghanistan, i territori del regno di Khwarezmia a sud del Lago d’Aral e i fiumi Syr Darya e Amu Darya. Per un etimologia completa e ulteriori dettagli sul tema si veda Ma Zhiyong (2004), pp. 30-44, Yu Tianxiang (1984), pp. 36-37. 16. Gli Yuan si mostrarono molto tolleranti in materia religiosa. In specie nei confronti di Imam (jiaozhang) e altre figure cardine per la società musulmana, adottarono linee politiche che riconoscevano loro particolari privilegi, quali l’esenzione fiscale, la facoltà di comminare pene e sanzioni pecuniarie, riscuotere imposte sull’uso dei terreni, risolvere dispute legali ecc. Furono la prima dinastia regnante in tutta la storia della Cina a dare vita ad un appostito ufficio preposto alla gestione degli affari religiosi islamici (i famosi huihui hadisi). Si veda Ma Qicheng - Ding Hong (1999), pp. 129-130. 17. Si noti dunque il ruolo di collante che storicamente i mongoli ebbero per le genti sartha centrasiatiche. Kozin (2009), come sopra. 18. La Bingde - Ma Wenhui (2009), pp. 95-96. 19. Sull’argomento si veda Zvi Ben-Dor Benite (2005), pp. 17-18. 20. Si osservi a riguardo che per i musulmani particolarmente attenti a proteggere la purezza di credo, lingua e legge (shari’ah) da ingerenze esterne, le modalità attraverso cui vengono impartiti gli insegnamenti rappresentano da sempre un aspetto imprescindibile dell’educazione ortodossa e della ricerca della conoscenza. La chiusura con l’estero specie con quei paesi dell’area centrasiatica da cui tale conoscenza ebbe origine, andò così ad interrompere la trasmissione del sapere e lo scambio di personale qualificato (Imam e altri leader spirituali) con padronanza dell’etichetta islamica e dei testi sacri (rigorosamente scritti e divulgati in lingua parsi o arabo), privando così le comunità musulmane cinesi di figure autorevoli e accreditate dalle quali poter apprendere gli insegnamenti del Profeta. Ma Qicheng - Ding Hong (1999), pp. 142. 21. Le più accese furono quelle esistenti fra hanshu (lett. trattato in lingua cinese), che accettando la cultura Han si sforzarono di realizzare una sintesi fra l’etica confuciana e il pensiero di Maometto, e xijing (lett. aver familiarità con i testi sacri) che focalizzandosi sulle opere canoniche della tradizione islamica in arabo e parsi si mostravano al contrario particolarmente ostili ad ogni tipo di contaminazione. Ma Qicheng - Ding Hong (1999), pp. 143-144. 22. Quest’ultima è anche nota come hanxuepai (scuola islamica cinese) per la preminenza che assegna allo studio dei testi in lingua cinese e alla volontà di tenere aperto il dialogo con la tradizione confuciana Han. 23. Questo il termine con il quale è conosciuto il misticismo islamico nella Cina nord occidentale (per la precisione nelle province di Gansu, Qinghai e Ningxia). Al-tariqah in arabo e tarikat in turco (entrambi aventi il significato di “via”, “metodo” o “veicolo”), trova un equivalente nella provincia autonoma dello Xinjiang al concetto di ishan di incerta provenienza – alcuni sostengono sia un antica parola parsi altri invece affermano derivi dall’arabo irshad nell’accezione di “guida” o “maestro spirituale” – e all’estero con quello di sufi, mutuato dall’arabo (radice lessicale suf- con il significato di “lana”) e che in principio stava ad indicare la materia di cui erano intessuti i copricapo e gli umili indumenti dei primi asceti musulmani. Nonostante vengano date diverse interpretazioni, il concetto di fondo rimane sostanzialmente inalterato, si tratta di diverse diciture impiegate per riferirsi indiscriminatamente alla via mistica dell’Islam più ortodosso. Si veda www.islamopediaonline.org alla voce “Men Huan / Sufi”, e Davis (2004), pp. 401-405, per ulteriori approfondimenti sul tema.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 113 24. Questo tipo di struttura per confraternite, ordini e loro varie filiazioni viene ricordata in cinese con la locuzione san da jiaopai si da menhuan (le tre grandi scuole e i quattro menhuan). L’attività sociale e religiosa di ogni ordine si articola attorno alla tomba del patriarca fondatore (nota come gongbei in cinese, per traslitterazione dall’arabo qubbah) e rispondeva all’autorità dell’Imam, il quale fino alla riforma religiosa del 1958 disponeva in maniera totale della proprietà dell’ordine al quale era stato messo a capo secondo un principio di successione ereditaria (Davis 2004, pp. 401). Per un’analisi dettagliata di tale struttura, le peculiarità di ogni ordine e scuola, le rispettive aree di influenza, le genealogie dei patriarchi e le condizioni storiche di nascita e sviluppo di ognuna si rimanda a Ma Tong (1983) cap. 4. 25. Murata (2000), pp. 13-19 e Lipman (1998), pp. 29-44. Riguardo l’acquisizione dei cognomi Han, si noti che quelli impiegati dai cinesi musulmani, diversamente dai nomi di battesimo (in cinese jingming, densi di richiami e significati religiosi in quanto scrupolosamente scelti dai testi coranici) che non figurano mai come nomi ufficiali (guanming), non sono stati conservati nel corso dei secoli, per essi è infatti d’uso corrente il cinese. Fra i più comuni si annotano ma, han, yi e ding. 26. Ma Tong (1983), pp. 115. 27. La Bingde - Ma Wenhui (2009), pp. 102-105. 28. Si devono a Blum - Jensen (2002) l’uso dei concetti di “centro” e “margine”, che descrivono la Cina moderna e contemporanea come un complesso eterogeneo di sotto culture e formazioni sociali trovatisi a coesistere entro un programma di unità nazionale. 29. Fletcher (1995), p. XI-3. 30. Si allude all’osservanza di quanto prescritto dai cinque “pilastri dell’Islam” (altrimenti noti in cinese come wujian tianming o wugong libai) che riassumiamo qui brevemente: 1. nian (Shahadah) la lettura ad alta voce del testo sacro; 2. li (Salah) preghiera rituale eseguita cinque volte al giorno; 3. zhai (Sawn) digiuno durante il mese del Ramadan (9° mese secondo il calendario islamico); 4. ke (Zakat) donazione fatta ai compagni musulmani dei ceti meno abbienti per assisterli nell’impresa di diffondere la fede islamica nel mondo; 5. chao (Haji) pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita a seconda delle disponibilità economiche. 31. Per denotare esplicitamente la comunità dei fedeli si preferì tuttavia la parola mousuluman che approssima la pronuncia di “musulmano”. 32. La parola tianfang sta sempre a convenire l’insieme dei paesi arabi, mentre jiao significa “insegnamento” o “disciplina”. 33. Da “Zhongguo Yisilan Baike Quanshu” (1994), pp. 231. 34. Prime fra tutte furono le province autonome di Ningxia e Xinjiang. 35. Più di 300 quelle riconosciute al 1978. 36. Espressione resa in cinese con i composti wuzongjiaoxian o wuzongjiaoqu. 37. Riportiamo qui l’articolo per esteso: “I cittadini della Repubblica Popolare Cinese godono della libertà di religione e di credo. Nessun organo dello stato, organizzazione sociale o singolo individuo può costringere altri a credere o non credere in una data religione, non può discriminare fra cittadini professanti un dato credo e cittadini non professanti tale credo. Lo Stato tutela le regolari attività religiose. Nessuno potrà servirsi della religione per danneggiare l’ordine pubblico, compromettere la salute pubblica o interferire con il sistema educativo statale. Le istituzioni religiose e gli affari religiosi non devono essere soggetti ad alcun controllo da parte di forze straniere”. Il testo integrale della costituzione è consultabile on-line al sito dell’Ufficio degli Affari dei cinesi d’oltremare del Consiglio di Stato (Overseas Chinese Affairs Office of the State Council): www.gqb.gov.cn/node2/node3/node5/node9/userobject7ai1273.html. 38. Il titolo dell’opera è dato dall’unione di due parole: Han significa “cinese”, mentre Kitab è il termine arabo per “libro”. Come lascia intendere da se il titolo, si tratta di una collezione di scritti in cinese, arabo e persiano antico redatta da un nutrito gruppo di intellettuali d’epoca Qing (inizi del 18° secolo), è il frutto dell’inteso lavoro di traduzione e rielaborazione del canone islamico nel tentativo di ritrovare una sintesi fra Islam e cultura sapienziale cinese. Si consulti Zvi Ben-Dor (2005), pp. 115-235 per un’analisi storica di tale network e del ruolo che ebbe nel mantenere viva l’identità musulmana in Cina. 39. Si veda la terza sezione del presente articolo per una categorizzazione di tali gruppi. 40. Abbiamo voluto qui ispirarci alla suddivisione operata da Ma Qicheng - Ding Hong (1999, pp. 119-120), pur ritenendo altrettanto valida quella proposta da Lipman (2004, pp. 92), che pur non parlando espressamente di sistemi si esprime nei termini di “musulmani cinesi del nord ovest” e “musulmani cinesi dell’est”, riconoscendo ad ognuno dei
CULTURA E SOCIETÀ due gruppi specifici tratti distintivi. Si veda anche il riferimento all’opera “Chūgoku Musurimu to sōzoku soshiki” (China’s Muslims and the lineage system)” di Nakada Yoshinobu in Zvi Ben-Dor (2004), pp. 66 per ulteriori raffronti. 41. Ma Tong (2000), pp. 10-11. 42. Fuller - Lipman (2004), pp. 332. 43. Qui nella duplice accezione geografica e sociale. 44. Sull’argomento si è dedicato il sociologo Roberto Gritti di cui si consiglia “Oriente/Occidente: mappe cognitive”, in R. Gritti - M. Bruno - P. Laurano (a cura di), Oltre l’Orientalismo e l’Occidentalismo: La rappresentazione dell’Altro nello spazio euro-mediterraneo, Milano. Guerini e Associati, 2009 pp. 23-53. 45. Ma Tong (2000), pp. 5. 46. Si presti attenzione al fatto che nelle fonti antecedenti al 20° secolo, il termine hui non assumeva lo stesso significato che gli viene assegnato oggi. Per tutto il periodo Ming-Qing e repubblicano costituì una categoria standard che stava ad indicare la generica appartenenza al gruppo dei musulmani cinesi. Fino alla prima repubblica, pertanto, se “un cinese si fosse convertito all’Islam sarebbe divenuto uno Hui, ovvero un musulmano. Ma oggi (...) tale persona figurerebbe come un Han che crede nell’Islam” (Lipman 1998, pp. XXIII). Alla luce di queste osservazioni, saremo dunque portati a distinguere fra Hui in senso ampio (dato dalla totalità dei musulmani cinesi), e Hui in senso stretto (gruppo minoritario musulmano di etnia Hui). La ragione di ciò sta nell’introduzione del concetto di minzu, una nuova categoria non più basata sul credo religioso. Si rimanda alle note 48 e 51 per chiarimenti su origine e significati della parola. 47. Assumendo il termine hui nella prima accezione di cui sopra, tali gruppi verrebbero allora con l’essere nominati rispettivamente “Dongxianghui, Baoanhui, Salarhui ecc”. voci con le quali ricorrono per l’appunto nei testi d’epoca tardo imperiale. 48. Si pensi che dopo l’islamizzazione del IX secolo avvenuta nel Turkestan cinese, al tempo noto ancora con il nome di xiyu (domini occidentali), e sino all’epoca moderna, forti di una fratellanza musulmana che andava ben oltre i confini imperiali, i criteri assunti per riconoscere un’etnia erano prettamente di matrice religiosa, tutt’al più che si distingueva semplicemente fra genti musulmane e non. Con l’instaurazione della Rpc e le politiche di minzu shibie (differenziazione etnica) dei primi anni Cinquanta, si introdussero altri standard che sotto la spinta dell’esempio staliniano iniziarono a prendere in considerazione la lingua (la famiglia dei turco-altaici per esempio), i tratti storici e psicologici, quelli legati alla vita socio-economica (nomade, seminomade ecc.) e alla distribuzione territoriale. 49. A comprova di ciò, si noti come alla domanda “A quale gruppo etnico appartieni?” capiti talvolta di sentirsi rispondere “Sono Dongxiang ma di fede Hui” oppure “Sono Salarhui”. Ciò rispecchia non solo quanto il concetto di hui sia stato e sia tutt’ora difficilmente categorizzabile, ma anche e soprattutto quanto per la stragrande maggioranza dei musulmani cinesi, l’essere musulmano in se travalichi i semplici confini religiosi per divenire un tutt’uno con i principi di appartenenza etnica e sociale. 50. Qui nella duplice accezione geografica e sociale. 51. Così almeno direbbe Jonathan N. Lipman (1998, pp. XX), il quale prende le distanze da tutte quelle categorizzazioni che assumono il credo religioso come criterio per la definizione di un’etnia. La nozione di minzu, che può assumere i significati di gruppo etnico, nazione o popolo a seconda dei casi, venne per la prima volta concettualizzata sul finire del 19° secolo dopo essere stata mutuata dal lessico giapponese o probabilmente dalla parola das volk di origine tedesca. Con l’affermarsi delle politiche razziali dell’ex Unione Sovietica che esercitarono una grande influenza sul modello cinese di quegli anni, il termine si trasformò in un mero strumento classificatorio al servizio della nuova burocrazia comunista che consapevole delle difficoltà insite nel lavoro di edificazione di uno Stato-nazione moderno, dette da subito forte impulso agli studi sulle etnie cinesi, contribuendo così a dare riconoscimento alle culture minoritarie. 52. I Dungan, sebbene non vengano generalmente inclusi nella “famiglia” delle 55 minoranze etniche cinesi, risultano Hui a tutti gli effetti. Per approfondimenti S.R.K. Dyer (1992). 53. Dati reperibili presso il sito internet dell’Istituto Nazionale di Statistica Cinese (National Bureau of Statistics of China). 54. Attanné - Courbage (2000), pp. 266. 55. Si attribuisce ai due studiosi di cui alla nota precedente (2000, pp. 262) anche il merito di aver ordinato le principali minoranze etniche per grado di sinizzazione. Prima fra tutte spicca appunto quella mancese, in ultima posizione si collocano invece i Kirghiz e le altre comunità musulmane turcofone.
La presenza musulmana in Cina: dinamiche storiche e problematiche attuali / 115 56. Non per niente vennero anche ricordati con il termine “Hanhui”. 57. Scritto anche Oghuz e detta anche dei “turchi dell’ovest” per distinguerli da quelli orientali insediatesi ad est del Mar Caspio. La parola è composta da ogh che significa tribù, e dal suffisso plurale -uz, entrambi derivanti dal turco antico. L’etimologia del termine rimanda quindi al concetto di “comunità”. Sebbene formalmente i clan che la componevano – in tutto 21 così almeno ci illustra Muhammad Al-Kashgari (2002, vol. 1, pp. 62-64) – fossero amalgamati sotto l’etichetta dell’Islam che ne divenne fondamentale principio di appartenenza, erano spesso in lotta l’un l’altro e non si presentavano affatto coesi a formare una comunità in senso proprio. 58. Nel caso dei Salar tale principio assume un ordine che, andando per gradi dal più piccolo al più grande, distingue fra le seguenti unità: famiglia, agni (piccola comunità a base famigliare per discendenza patrilineare), kumsan (naturale evoluzione dell’agni, data dall’inclusione nel clan di non consanguinei e il progressivo allontanamento del grado di parentela), agil (contrada), kand (villaggio). Sull’argomento si rimanda a Li Xinghua (2009), pp. 65-66. 59. Si veda Nakada Yoshinobu in Zvi Ben-Dor (2004), p. 66. 60. Si deve a Owen Lattimore (1951, pp. 511-529) la coniazione del termine, che descrive lo spazio geografico e sociale in cui i pastori della steppa entrarono in contatto con i coltivatori cinesi dell’entroterra, ognuno con i propri rispettivi stili di vita e le proprie forme di sussistenza. 61. Crossley (1999), pp. 11-14. 62. Si allude qui non tanto alle minoranze e al loro essere, per un certo verso, relegate ai margini della vita sociale, ma anche e soprattutto a buona parte dei cinesi che popolano i grandi centri urbani più esposti alla prassi etno-politica che rafforza i confini etnici e dà le differenze culturali per ascritte. 63. Al-Azmeh (1993), p. 1. 64. Questi poi i presupposti teorici della letteratura multiculturale che concepisce la religione, prendendo a prestito una metafora fatta da Gerd Baumann, più come un “sestante” che orienta l’azione sociale piuttosto che un “bagaglio culturale” ben confezionato e contrassegnato, che ci si porta appresso nella migrazione per essere poi spacchettato ritrovandone uguale il contenuto una volta arrivati a destinazione. Applicandolo al caso delle minoranze musulmane, che guarda caso per la maggior parte sono sorte proprio in seguito a spostamenti migratori e hanno dovuto poi fare i conti con un contesto ospitante (quello della Cina imperiale) che stentò a dargli pieno riconoscimento, il paragone sembra essere piuttosto calzante. Per approfondimenti sulla teoria multiculturalista si consulti G. Baumann, L’enigma multiculturale. Stati, etnie, religioni, Bologna, Il Mulino 2003.
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) Maria Jaschok
The main factors which have contributed to the enduring longevity of female ahong-led women’s own mosques in predominantly, but not exclusively so, Hui Muslim communities in central China, lie in the historical needs of a besieged Chinese Muslim diaspora for women’s active participation in a collective project of Islamic revival and Muslim survival. Developments over time led from learned women’s ad hoc roles as religious instructors of girls and women, guided by fathers and husbands, to the institutionalisation of female leadership in the early 20th century in both teaching and ritual guidance. From the earliest beginnings, the active role of women was controversial and, as on-going internal dissension in the Chinese Muslim Sunni community over the concept of bid’a (principle of innovation in Islam) demonstrates, women’s public visibility in organized Islam remains divisive. The author asks how women-led Islamic institutions could last into the current century. It is argued that female ahong as the most evolved expression of women’s role in organized Islam in China exist because their role is embedded in the physical presence of women’s own spaces as vital conditions of the exercise of female authority. This continued legitimacy of Muslim women’s own traditions of worship, education and congregation is in turn indebted to both a growing assertion of a Chinese Muslim identity within the umma as well as to support by the Communist Party/State, conferring authority by legal and administrative means. Direttore dell’International Gender Studies Centre e ricercatrice al Lady Margaret Hall, University of Oxford
I
Se un’ahong è come la luce di una lampada, le credenti sono come le ombre che la circondano. (Yao Ahong, Kaifeng, Cina)
n questa citazione Yao Ahong1 (predicatrice musulmana), l’attuale responsabile della moschea delle donne più anticamente documentata della Cina, quella di Kaifeng nello Henan, parla del ruolo dell’ahong donna in quanto radicata nella relazione simbiotica
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 117 con le fedeli che praticano il culto nella sua moschea2. Come spiega lei stessa, l’ahong è la luce (dell’Islam) attorniata dalle credenti che, come l’ombra che circonda una lampada accesa, la proteggono da tutte le avversità3. La tesi di questo saggio è che l’autorità religiosa di un’ahong donna si fonda su una rete di relazioni sociali che con il passare del tempo si sono saldate nella mente delle donne con le preziose tradizioni costitutive dell’unicità delle loro istituzioni religiose e sociali. Ed effettivamente l’antico termine di fang, che indica una congregazione musulmana, colloca la moschea nel cuore spaziale e simbolico dell’identità comunitaria. Ciò rende impossibile parlare della storia della leadership femminile nell’Islam cinese a prescindere dal contesto dell’Islam nel suo complesso e dalle istituzioni di cui l’ahong donna è responsabile; queste ultime sono infatti il prodotto simbioticamente connesso delle innovazioni storiche tese a preservare dall’estinzione La storia della la religione islamica e la cultura musulmana in Cina. La continuità leadership femminile della posizione della donna nell’Islam è dunque fondata sulle interrenell’Islam cinese lazioni dinamiche tra il fang, costituito di ahong donne, lo shetou, cioè il consiglio democratico di gestione della moschea che si occupa delle questioni pratiche, e le normali fedeli. Se l’origine della leadership femminile nelle tradizioni sunnite cinesi può essere ricondotta alla grave crisi affrontata dalla popolazione musulmana che l’influente storico dell’Islam Bai Shouyi4 chiama “tempo dell’avversità”, la sua continuità e conseguente autorità riconosciuta, seppur talvolta contestata, discende da un insieme di fattori. Alcuni di questi hanno a che vedere con la creatività dei progetti culturali nati per salvare l’Islam cinese: a donne scelte e affidabili venivano assegnate responsabilità attentamente definite riguardanti l’iniziazione religiosa e rituale delle altre donne. Altri sono legati alle opportunità che le donne hanno saputo cogliere all’interno degli spazi loro assegnati. In questo percorso delle moschee delle donne da “riparo simbolico”5 allo status di duli, cioè indipendenti o autosufficienti, le donne hanno sviluppato tradizioni e convenzioni che hanno veicolato i loro ideali, aspirazioni, desideri nonché l’affermazione dei diritti propri di tutte le donne. In questo processo fluido tra necessità dell’innovazione e timore dell’aberrazione, il fondamentale concetto di bid’ah ha rappresentato sia una fonte di limitazioni, imposte e poi metabolizzate dalla cultura materiale delle moschee delle donne dove l’autorità delle leader è radicata, sia un qualcosa di modellato dalla forza della volontà e dell’assertività con cui le donne stesse hanno espresso la propria propositività, valutazione e giudizio critico. Al pari di quelli nel resto del mondo, gli studiosi e gli ahong musulmani cinesi hanno opinioni diverse sul ruolo dell’innovazione successivamente agli inizi dell’Islam e sulle ambiguità del rapporto tra iniziativa individuale e dottrina canonica6. Le donne musulmane che rivestono
CULTURA E SOCIETÀ ruoli di leadership in Cina, d’altro canto, sottolineano la loro lunga storia di risultati religiosi ed educativi a sostegno e giustificazione perfettamente attuale delle qingzhen nüsi (moschee delle donne) come hao bidaerti (innovazione lodevole). Le istituzioni rette dalle donne, sostengono, hanno dato prova di essere indispensabili alla sopravvivenza e al rinnovamento dell’Islam7. Fonti di autorità: dal “yicong” (dipendenza della donna dalla famiglia del marito) alla custodia della “luce” Il dibattito sulla terminologia stessa impiegata per legittimare o delegittimare lo status delle leader donna testimonia la storia tutt’altro che lineare dell’autorità religiosa femminile. Questa storia, tuttora in corso, riflette tanto le diverse tradizioni all’interno dell’Islam cinese quanto le differenze locali nella capacità delle donne di esercitare l’autorità nelle istituzioni religiose8. Ci occupiamo qui di pratiche e istituzioni che si sono affermate principalmente, se non esclusivamente, nella tradizione sunnita gedimu dei musulmani Hui nella Cina centrale: la moschea guidata da un’ahong donna è un elemento caratteristico dello zhongyuan diqu9 e non è assolutamente rappresentativa di altri contesti. E anche qui il titolo di ahong è contestato, soggetto a continui scontri interpretativi in cui entrano in gioco fattori storici, religiosi, politici, locali e, inevitabilmente, patriarcali. Prima di tutto, ahong è un termine generico che si riferisce a fedeli che occupano posizioni di autorità e che presiedono regolarmente agli affari religiosi della moschea cui sono assegnati. Le loro funzioni possono variare a seconda delle mansioni concordate, delle necessità del fang e delle qualità di preparazione e leadership della specifica persona. Queste mansioni possono andare dall’istruzione religiosa e dalla formazione specifica di futuro personale religioso, alla direzione di funzioni collettive, riti e cerimonie, alla pronuncia di sermoni e alla condivisione delle funzioni amministrative e rappresentative connesse alla moschea. Nei tempi moderni, il titolo di ahong equivale, come si è detto, a quello di imam e rappresenta un livello gerarchico formale e uno status contrattuale preciso in rapporto con una moschea o altra istituzione islamica. La controversia sull’attribuzione del titolo alle donne e sull’autorità di quelle tra loro che lo detengono è intimamente connessa all’interpretazione di genere del valore della donna e del suo ruolo nella sopravvivenza della religione in Cina10. Nel XVI e XVII secolo i musulmani cinesi si trovarono di fronte all’imperativo urgente di riformare l’educazione islamica e di divulgare il sapere religioso al di fuori della moschea e nelle case musulmane11. Questo progetto culturale senza precedenti, portato avanti da studiosi, fedeli e insegnanti, offriva alle donne l’opportunità di acquisire maggiori conoscenze religiose e di diventare a loro volta formatrici. Data la segregazione tra i sessi imposta tanto dalla morale
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 119 confuciana della società cinese ospite quanto dai precetti islamici, le donne più colte e devote vennero incaricate di sostituire gli uomini nel ruolo di insegnanti per le donne e le ragazze. Le figlie o le mogli degli ahong (imam), dette shiniang, divennero così le antenate delle successive generazioni di ahong donne. L’emergere di una precisa professione femminile di leader religioso nella Cina centrale tra fine Settecento e inizio Ottocento annunciò quella che doveva diventare una figura unica nell’Islam organizzato cinese. La formazione e l’ordinazione di ahong donne va collegata alla trasformazione dell’istruzione e del culto delle donne da un’istruzione ad hoc a un sapere religioso istituzionalizzato culminante nella creazione di nüxue (madrassa femminili) e di multifunzionali qingzhen nüsi (moschee delle donne). Con l’aumentare della complessità delle istituzioni femminili lo stesso avvenne per i compiti delle donne che ne erano a capo e questo a sua volte ne accrebbe status e autorità. A fine Ottocento le ahong donne cominciarono a risiedere nelle nüsi, dove erano responsabili degli aspetti religiosi della vita della moschea. Fu soltanto all’inizio del XX secolo, quando alcune ahong si avventurarono al di fuori dei suoi cancelli, che cominciarono a essere accusate di comportamenti trasgressivi e incompatibili con l’Islam, come nel caso, di cui si dirà in seguito, di Yang Huizhen Ahong. La maggior parte delle ahong donne proveniva da famiglie di religiosi e abbiamo qualche seppur esigua attestazione che da questo gruppo di donne già nel Seicento era emerso un certo numero di erudite. Queste junshi occupavano un posto di rispetto tra gli studiosi musulmani anche prima che venisse creato un sistema di istruzione delle donne12. In periodi successivi le ahong donne potevano scoprire la propria vocazione studiando in una moschea delle donne ma a tutt’oggi la maggioranza perpetua una tradizione familiare di insegnamento religioso. Per esempio, sei delle sette ahong contemporanee a capo delle moschee delle donne indipendenti studiate da Zhu negli anni Novanta erano state seguite da membri della famiglia nello studio dei testi base dell’Islam prescritti per le donne fin dalla tenera infanzia13. Una volta padrona dei libri arabi e persiani assegnati alle donne, la studentessa, chiamata hailifan, viene ordinata ahong con una specifica cerimonia chiamata chuanyi guazhang (indossare l’abito e innalzare la bandiera). In alcune aree della Cina musulmana status e funzioni delle ahong donne sono paragonabili a quelli delle controparti maschili; tuttavia la reputazione, il grado di autorità e l’influenza della singola ahong dipendono anche dal gioco tra le sua qualità individuali di leader e la capacità di venire a patti con le tradizioni di segregazione di genere proprie tanto della cultura locale che di quella islamica. Il titolo stesso di ahong, benché frequentemente assegnato a donne nelle comunità Hui, con conseguente tacito riconoscimento dell’aspirazione
L’emergere della peculiare professione femminile di leader religioso islamico tra Settecento e Ottocento: madrasse e moschee femminili
CULTURA E SOCIETÀ femminile alla parità di status nella sfera religiosa, a volte può essere loro negato e sostituito da quello di jiaozhang (persona che insegna a livello avanzato), shiniang o shimu (appellativo di rispetto riservato a una parente donna di un insegnante o ahong maschio), jiaoyuan (insegnante di Islam) o hailifan (studente di Islam). Nelle comunità musulmane in cui le istituzioni religiose femminili indipendenti non sono mai riuscite ad affermarsi oppure hanno avuto vita breve, il titolo di ahong è raramente o mai assegnato a una donna14. Le ahong delle comunità Hui della Cina centrale risiedono se possibile nella loro moschea, dove si occupano degli affari e dell’istruzione religiosa, della formazione delle hailifan (che studiano per diventare ahong) e della guida delle donne del fang in generale. Tengono woer’ci (sermoni), presiedono ai fondamentali rituali familiari quali la benedizione della casa, il lavacro dei cadaveri e la benedizione dei neonati. Le loro mansioni dipendono in gran parte dalla natura della congregazione, dalle capacità personali e dalla reputazione dell’ahong all’interno della comunità e anche dalla situazione economica del fang. Tradizionalmente le ahong donna non celebrano matrimoni e funerali ma alcuni membri della giovane generazione stanno lentamente introducendo cambiamenti in proposito. Le loro maggiori responsabilità – ci ha detto la rispettata Du Ahong della moschea delle donne di Zhengzhou – riguardano l’educazione etica, compresa l’educazione delle spose (pietra angolare di una vera vita familiare islamica), la generale formazione religiosa e morale dei fedeli, la formazione delle future generazioni di ahong e i sermoni dello zhuma, il venerdì. Si tratta di sermoni basati su testi tratti dal Corano e riguardanti la responsabilità delle donne nel far crescere una famiglia musulmana, assicurando così la continuità della fede di tutti i musulmani in un mondo secolarizzato. Spesso si consulta una ahong rispettata per avere un consiglio in caso di difficoltà familiari e conflitti intergenerazionali o coniugali. Di fatto negli insediamenti o comunità a maggioranza musulmana dove non esiste una fulian (organizzazione delle donne), il ruolo di una ahong che gode del rispetto generale può andare ben oltre quello di insegnante e responsabile del culto. Mentre l’ahong si occupa di tutti gli aspetti delle cose religiose, il comitato democratico di gestione della moschea, composto di donne anziane e rispettate elette dalla comunità, si occupa dell’amministrazione. Le donne hanno il diritto di prendere decisioni sulle questioni che riguardano la loro moschea, consultandosi con gli uomini qualora lo ritengano necessario. Una ahong può anche invitare la sua controparte maschile a celebrare riti che esulano dalle proprie funzioni e autorità. La condizione di autonomia di cui godono alcune moschee delle donne ha prodotto situazioni in cui le interpretazioni personali dei doveri della donna da parte di una ahong possono riflettere una con-
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 121 cezione strettamente patriarcale del suo rapporto con il marito e la società, o al contrario dimostrare una mentalità indipendente, come nel caso di Du Ahong che – come vedremo in seguito – ha frequentemente respinto le distorsioni culturali e “feudali” dell’Islam. Le prescrizioni riguardanti la salute e l’igiene in generale, e in particolare durante il ciclo mestruale, la gravidanza e il parto, rivelano una profonda capacità di proteggere la salute delle donne15. Oltre alle molteplici funzioni di insegnante, consigliera e guida della preghiera e del culto, la ahong rappresenta gli interessi della sua comunità all’interno degli organismi politici. Le più importanti tra loro e tra le amministratrici possono essere elette agli uffici locali dell’associazione islamica nonché al Congresso del popolo. Nella loro analisi femminista dei “leader trasformativi” Aruna Rao e David Kelleher sottolineano come questi vedano le organizzazioni che dirigono come “sistemi viventi imprevedibili composti di singole persone” e sostengono che questo genere di leader sono “aperti a vedere il mondo come costituito principalmente di relazioni”, a concepire il potere come “relazionale e illimitato” e a credere nel suo potenziale di “trasformazione dei rapporti e in ultima analisi delle istituzioni e organizzazioni umane”16. Molte ahong influenti sono particolarmente stimate per la loro comprensione dei rapporti umani, che supera in qualche modo la meticolosa attenzione delle loro controparti maschili alla severa disciplina della vita religiosa e alla gestione della congregazione che fa capo alla loro moschea. Le minori dimensioni delle moschee delle donne e la familiarità dei rapporti tra le donne della congregazione e tra esse e l’ahong esprimono relazioni più aperte, egualitarie e orizzontali di quanto non avvenga nella maggioranza delle moschee maschili. Le donne prediligono l’atmosfera raccolta e accogliente che le fa sentire “a casa” (xiang jia) e rappresenta un’oasi di sollievo dalle pressioni domestiche. La nüsi e la sua cultura materiale: la moschea delle donne “proprio come a casa propria” In questo paragrafo ci chiediamo in che modo le concezioni storiche del bid’ah in quanto applicate allo spazio assegnato alle donne abbiano contribuito alla definizione dell’architettura interna ed esterna delle moschee delle donne, nonché delle loro tradizioni religiose e materiali. È importante qui tener presente l’affermazione di Pierre Bourdieu secondo cui “tutti gli aspetti della cultura, alta o bassa che sia, partecipano a un processo di legittimazione delle strutture di potere che nello stesso tempo le rende invisibili”17. Se possediamo poco in termini di fonti scritte per comprendere il dibattito iniziale all’interno della comunità degli imam e degli studiosi musulmani a proposito delle potenziali alterazioni alle leggi rituali, la
Funzioni, ruoli, influenze e poteri delle Ahong
CULTURA E SOCIETÀ storia (per quanto riusciamo a ricostruirla) e la cultura materiale delle moschee delle donne ci forniscono invece alcuni indizi. Le moschee della Cina centrale mostrano varie influenze cinesi e arabe. Dal punto di vista storico l’architettura delle più antiche moschee degli uomini, costruite sotto le dinastie Tang (618-907) e Song (960-1279), riflette una marcata influenza araba mentre quelle successive manifestano un crescente adattamento al circostante ambiente non musulmano18. Essendo posteriori, le moschee delle donne presentano quasi tutte un esterno in stile cinese, spesso indistinguibile dalle sale degli antenati di tradizione confuciana, e solo l’interno riflette un’estetica ispirata allo stile arabo. Questo tipico dualismo estetico è riscontrabile nella più antica moschea delle donne di cui possediamo tracce documentali, quella di Wangjia Hutong a Kaifeng, che risale al regno Jiaqing (1796-1820). L’aspetto umile in confronto a quello delle moschee maschili riflette anche le più limitate risorse economiche di cui dispongono le Architettura, spazi, donne, dato che una moschea ha la sua principale fonte di finanziaarredi, calligrafie delle mento nelle donazioni dei fedeli. La maggior parte delle moschee delle moschee delle donne donne è costruita all’interno del complesso di una moschea maschile o adiacente a esso. La collocazione spaziale è decisiva in quanto solo quelle situate al di fuori sono in grado di svilupparsi in maniera indipendente19. Inoltre non sono dotate di minareto e non c’è nessuno che inviti alla preghiera in quanto la preghiera collettiva non è considerata parte dei doveri religiosi delle donne; queste si possono recare alla moschea solo quando lo permettono le mansioni domestiche, che hanno sempre la precedenza. Soltanto le ahong dotate di una mentalità più indipendente hanno istituito una severa disciplina di preghiera collettiva con la quale intendono dimostrare il pari diritto delle donne a ottenere la redenzione. L’influenza locale sullo stile architettonico è evidente nella diffusa struttura a siheyuan delle moschee delle donne, che presentano tipicamente un’architettura composita con vari edifici disposti attorno a un cortile interno, in cui sono disposti piante e fiori in vaso nonché, quando sopravvissute ai periodi di persecuzione religiosa, le stele in pietra commemoranti gli eventi rilevanti della storia della moschea. Il cortile offre uno spazio per i rapporti informali e anche per le grandi celebrazioni nelle occasioni importanti, come il giorno di Fatima. Il centro spirituale è la sala della preghiera, generalmente molto spoglia. Solo lo yaodian (la nicchia per la preghiera che indica la direzione della Mecca) è decorato da calligrafie arabe. È molto raro che una moschea delle donne possa competere con quelle degli uomini quanto a ornamentazione e decorazione degli ambienti interni. Inoltre, poiché le ahong donna non sono tenute a dare alla congregazione il woer’ci, il sermone dopo la preghiera del venerdì, queste sale di preghiera non presentano lo xuanyutai, la piattaforma soprelevata
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 123 dalla quale ci si rivolge all’assemblea dei fedeli, che caratterizza invece quelle degli uomini. Le ahong che hanno deciso di tenere il sermone, lo fanno a stretto contatto con le fedeli, sedute di fronte a loro. La maggior pare delle moschee dispone di stanze dedicate alla formazione religiosa e tutte hanno una shuifang (stanza delle abluzioni). Se la semplicità degli interni testimonia le entrate relativamente modeste delle congregazioni femminili, le fedeli si fanno un punto d’onore di mantenerli pulitissimi anche nei contesti più tetri e polverosi. La purezza dello spirito e della cultura religiosa di una moschea, cioè il suo rango, si esprime infatti nello stato irreprensibile degli edifici e del cortile interno. L’ordine esteriore riflette anche l’autorevolezza dell’ahong in carica. Il suo keting (quartiere privato/sala di ricevimento) è il centro sociale di una moschea delle donne. Qui si fa visita all’ahong, la si consulta sulle questioni familiari, si comunicano nascite e decessi o semplicemente si scambiano due parole mentre si va a fare la spesa. La segregazione di genere nel confucianesimo e i precetti islamici Come è possibile che in un contesto di segregazione di genere – in cui, oltre che coi tabù islamici sulla frequentazione tra uomini e donne che non siano della famiglia, devono fare i conti anche con la pervasiva concezione Han della vita domestica come paradigmatica per la donna rispettabile – le donne musulmane abbiano raggiunto in ambito religioso posizioni di leadership difficilmente riscontrabili al di fuori di esso? Come sono sopravvissute e si sono sostenute vicendevolmente? Quali fonti autorevoli le hanno sostenute in questo e quali invece le hanno limitate? Storicamente i sistemi normativi del patriarcato confuciano e di quello islamico hanno assegnato a donne e uomini doveri e responsabilità diversi, rispettivamente nella sfera dello nei e del wai (interna ed esterna/pubblica). I concetti, centrali nella morale confuciana, di side (comportamento virtuoso, linguaggio, contegno e occupazione adeguati) e di sancong (dipendenza dal padre, marito, figlio), insieme a quello di wucai (ignoranza femminile delle cose del mondo), sono stati rielaborati dagli eruditi Hui sotto le dinastie Ming e Qing nel XVI e XVII secolo a formare il paradigma della donna musulmana come xianshu qiancheng (buona e virtuosa, raffinata e pia). Questa fusione di morale confuciana, convenzioni locali e percetti islamici si è quindi cristallizzata in un idealizzato codice di condotta musulmana esemplificato dalla sottomissione al marito, lo yicong, come simbolo della prontezza della donna a sottomettersi al comando di Allah20. Tuttavia le virtù private e familiari possono essere benvenute anche nella sfera pubblica, quando il bene collettivo lo richieda. In tal caso le tradizioni patriarcali possono andare a vantaggio anziché a detrimento del coinvolgimento muliebre negli affari pubblici21, enfatizzando maggiormente la parentela rispetto al genere. Si potrebbe
CULTURA E SOCIETÀ infatti sostenere che le espressioni legate alla consanguineità abitualmente utilizzate fino a oggi per designare le insegnanti e ahong donne facciano riferimento alla natura familiare (in entrambe le accezioni del termine), e quindi non minacciosa, delle loro mansioni, anche se svolte fuori casa. Come sottolinea il critico post-coloniale Mervat Hatem22, vi sono ambiguità e ambivalenze nell’atteggiamento verso le donne di una società minacciata che le rivaluta nella misura in cui sono necessarie al superamento della crisi. Quando la popolazione musulmana cinese si trovò di fronte alla minaccia dell’assimilazione o addirittura dell’estinzione, le donne vennero chiamate a dare il proprio contributo al recupero di una vita familiare autenticamente musulmana nella funzione di prime educatrici. Tuttavia questo ruolo essenziale, esteso anche all’insegnamento alle donne al di fuori della dimora familiare, era sottoposto a rigide regole che limitavano la mobilità delle donne nonché lo spettro delle attività educative che potevano svolgere23. Le donne che erano sufficientemente colte e della giusta estrazione e avevano un mentore maschio che le guidasse (spesso il padre o il marito) venivano a rappresentare, in quanto formatrici di donne e bambini, “il potere dei senza potere”24. L’innovazione “lodevole” per la salvezza della fede islamica e dell’eredità musulmana Durante un viaggio in Cina, la studiosa musulmana americana Ingrid Mattson si recò per la preghiera in una moschea delle donne25. In seguito scrisse un illuminante articolo, ispirato proprio a quella visita, sulla contestata nozione di leadership femminile nell’Islam. In questo articolo si chiede come sia giustificabile la presenza di nü ahong (termine da lei tradotto come imam donne) nel contesto dell’Islam sunnita praticato dalla maggioranza dei musulmani cinesi. La posizione ufficiale della minoranza sunnita Hanafi non prevede la preghiera collettiva per le donne. Mattson si chiede: “Come dobbiamo spiegarci il fenomeno delle moschee delle donne in Cina? Che significa essere imam di una moschea (delle donne) se non si guida la preghiera della congregazione? Le moschee delle donne in Cina sono una strana deviazione o un utile modello per importanti istituzioni islamiche [in altri Paesi]?”26. Secondo Mattson, nel contesto dell’Islam tradizionale queste moschee non sarebbero considerate fuori posto. L’Islam – afferma – incoraggia l’adattabilità e la flessibilità; la forma deve discendere dalla funzione a servizio dei bisogni della comunità locale. A sostegno di questa tesi fa riferimento alle fonti citate da diverse autorità islamiche riguardo allo svolgimento dei riti e delle preghiere collettive così come è previsto nella sunnah e nella hadith. L’affermazione del Profeta sull’atto dell’adorare, citata spesso dagli imam soprattutto prima dei
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 125 sermoni, recita così: “Il miglior discorso è il libro di Dio, la miglior guida quella di Maometto, le cose peggiori sono quelle più recenti, ogni innovazione [bid’ah] è un errore”. A proposito di “innovazione” hadith, Mattson cita l’erudito medievale Imam al-Nawawi: In questo [hadith], [per innovazione] si intende la maggior parte delle innovazioni… Gli studiosi distinguono cinque categorie di innovazione: obbligatoria, lodevole, proibita, reprensibile, permessa. Tra le [innovazioni] obbligatorie vi sono le prove dei teologi contro eretici e innovatori e cose del genere. Tra quelle lodevoli, scrivere libri di conoscenza [religiosa], costruire madrasas [scuole religiose], ribat [ritiri religiosi] e altre cose27.
Mattson fa notare come l’adattabilità delle congregazioni musulmane ai bisogni locali dipenda da chi classifica un’innovazione come “lodevole” o “reprensibile” e a quali condizioni. Le modalità con cui fautori o oppositori di un dato sviluppo interpretano una determinata hadith, esaltano o ignorano una fonte per legittimare la propria posizione sono molto variabili. Chi si oppone alle donne ahong e all’esistenza di istituzioni formative e di preghiera al femminile difendendo la posizione della minoranza Hanafi ostile a tutte queste realtà ignora – nota sempre Mattson – le hadith in cui esse sono invece “raccomandate” o mandub (atti meritori dal punto di vista religioso), hadith citate invece dai sostenitori della capacità delle donne di guidare i riti e le preghiere collettive. Se questo concetto viene applicato alle ahong cinesi, la natura profondamente “contestuale” e “relazionale” della loro leadership fa La leadership sì che in risposta a specifici bisogni esse assumano ulteriori funzioni religiosa contestuale e che svilupperanno forme e caratteristiche locali. Tradizionalmente le relazionale delle Ahong donne ricevevano un’istruzione religiosa ad hoc nelle case private di studiosi e ahong maschi. Anche se avevano luogo all’interno della sfera familiare, si trattava pur sempre di contatti “reprensibili” tra esse e insegnanti non consanguinei, contatti condannati come immorali tanto dai musulmani che dai cinesi Han. I documenti ci dicono che per risolvere questo problema i docenti maschi, che avevano comunque insegnato da dietro una tenda, vennero sostituiti da donne in possesso della cultura necessaria e questo costituì la base per sviluppi successivi28, che possono essere visti come totalmente conformi alle prescrizioni rituali della sunnah. Che si tratti di trasmissione della fede, istruzione religiosa o di donne che guidano la preghiera, il ruolo più attivo assunto dalle donne rappresenta, secondo Mattson, lo spirito di adattamento così evidente nella hadith. Ma si può dire che i cambiamenti che hanno avuto luogo nel corso della storia delle nüsi denotino una consapevolezza da parte delle donne stesse del proprio ruolo all’interno della religione organizzata e più in generale della società cinese? La capacità delle donne di pla-
CULTURA E SOCIETÀ smare la loro esistenza in armonia con le proprie aspirazioni è dipesa sempre e ovunque dalle risorse disponibili. La richiesta di pari diritti e maggiore accesso alle risorse economiche e politiche da parte delle ahong donna ha ricevuto notevole impulso dai decreti del Consiglio di Stato cinese sulla registrazione obbligatoria dei siti religiosi legittimi (1994). Il conferimento di uno status legale ha significato per le donna leader riconoscimento della loro indipendenza e dell’eguaglianza con le istituzioni maschili e ha inoltre consentito alle moschee delle donne di condurre progetti educative ufficiali e di sostenersi con attività generatrici di reddito. Le politiche dello Stato cinese hanno involontariamente prodotto uno spostamento nella “geografia morale” delle donne devote, incrementando il loro spazio di legittimazione e la loro mobilità sociale in maniera tale che ci si può aspettare influiscano anche sulla loro esperienza e soggettività30. Nel suo studio sulla “moschea delle donne” di Gabiley nel nord della Somalia Abdi Ismail Samatar osserva come la semplice presenza di tale anomalo edificio contribuisca a minare i presupposti normativi alla base della marginalizzazione delle donne musulmane nella preghiera e nella leadership religiosa31. Un esempio delle circostanze storico-politiche di tale ampliamento dell’autorità femminile ci viene dalle biografie di due donne leader influenti e trasformative. Le loro storie testimoniano il gioco dinamico di iniziativa e condizionamenti ambientali nel creare opportunità di affermazione per le donne. Leadership femminile autorevole, ruolo dello Stato e politiche di eguaglianza tra i sessi Grazie alla storia delle loro moschee a guida femminile le donne musulmane Hui in Cina hanno alle spalle una lunga genealogia di modelli cui ispirarsi. I criteri che definiscono l’hao ahong (la buona ahong) si sono affinati nella cultura partecipativa delle moschee delle donne, dove i processi decisionali collettivi incoraggiano un dibattito vivace e una valutazione franca delle azioni del leader. A partire dal 1958, quando lo Stato cinese dispose l’istituzione degli shetou, i comitati di gestione delle moschee democraticamente eletti, affinché contribuissero alla cura degli aspetti pratici della loro vita, la natura partecipativa dell’organizzazione interna delle moschee stesse si è estesa a tutti gli aspetti della loro gestione, compresa la scelta dei leader, come vedremo in seguito. Quando un’ahong è individuata come candidata ad assumere la guida di una moschea, viene invitata a visitarla e a incontrare il comitato di gestione; se approvata, viene incaricata per un periodo determinato, solitamente della durata di tre anni. Se soddisfatti, lo shetou e le donne che frequentano la moschea le propongono un prolungamento del contratto. Se non lo sono, l’ahong viene dimessa e ha inizio un nuovo processo di selezione. In questa fase hanno luogo
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 127 dibattiti allargati e prolungati tra i membri del fang sulle qualità e capacità dell’ahong, quali cultura, devozione disinteressata, rispetto per le altre donne e disponibilità a lavorare insieme al fang a compiti piccoli e grandi. Un’ahong non deve “darsi delle arie” e deve svolgere tutte le funzioni a lei assegnate con zelo e senza lamentarsi. La purezza di spirito (jiebai, o più colloquialmente ganjing), che alcuni fedeli definiscono come “non mettere denaro in tasca propria”, ha un posto importante nei dibattiti sulla condotta ideale di un’ahong32. La purezza delle parole e della condotta di un’ahong è vividamente illustrata da storie sul cattivo uso del denaro e su una destinazione mondana delle nieti (elemosine). Non c’è dunque da stupirsi se una delle leader donne più conosciute e rispettate, Du Lao Ahong della moschea delle donne Zhengzhou Beidajie dica di sé che non ha mai chi nietie (letteralmente, che non si è mai “mangiata le elemosine”). Nel corso delle nostre ricerche sulla storia delle moschee delle donne siamo venuti a conoscenza della storia di un’ahong, Yang Huizhen, Le storie esemplari il cui ricordo era ancora vivo nella sua comunità molti anni dopo la di due Ahong Yang morte. Ci è stata raccontata con grande rispetto per la sua compasHuizhen e Du Shuzhen sione, per il suo altruismo e coraggio nel difendere deboli e sfollati durante gli anni della guerra civile in Cina. Mentre era in vita tuttavia proprio queste caratteristiche erano considerate segno di trasgressione dei limiti della condotta appropriata per una donna responsabile di una moschea delle donne. Benché possedesse qualità non diverse da quelle riconosciute oggi a Du Ahong, come vedremo in seguito, la sua autorità dipendeva dagli esperti religiosi e dai burocrati maschi dei circoli islamici in cui operava e la cui concezione della funzione delle donne era limitata. La popolarità di Yang Huizhen tra i normali fedeli non fu sufficiente a permetterle di mantenere il suo incarico e non erano disponibili altre fonti di autorità. Biografie per “un’archeologia delle donne” Yang Huizhen Ahong (ca. 1913-1989), Ahong, insegnante, attivista sociale Di nazionalità Huizu, Yang Huizhen32 era nata in una famiglia benestante a Zhoukou nella provincia dello Henan. Nulla nella sua provenienza familiare lasciava presagire la strada che avrebbe intrapreso. Benché tanto il luogo di nascita, Zhoukou, conosciuta come la “piccola Mecca”, quanto Kaifeng, dove trascorse i primi anni di vita coniugale, avessero entrambi una tradizione di moschee delle donne, la sua vita familiare le avrebbe reso difficile frequentarle per il culto. Sappiamo che leggeva e scriveva il cinese, cosa non comune per quel tempo e quel luogo, e che intraprese lo studio dell’Islam quando la famiglia, rovinata dalla dipendenza del padre dall’oppio, si trasferì a Shanghai. Suo insegnante fu un famoso ahong uomo e lei era ben preparata per il ruolo di responsabile della nüxue (madrassa femminile), quando nel 1942 venne invitata dai locali vertici musulmani (formati
CULTURA E SOCIETÀ da uomini) a guidare la preghiera della comunità femminile di Jiaxing, vicino a Shanghai. Secondo tutte le fonti, Yang Huizhen godeva del rispetto della comunità per le sue capacità, la sua cultura e la sua pietà. Tutto sembrava procedere bene finché non si fece carico di questioni che la portarono fuori dal recinto della moschea, fuori dalla comunità musulmana di Jiaxing. La compassione per i profughi bisognosi di riparo e assistenza durante la guerra civile tra forze comuniste e nazionaliste (tra il 1945 e il 1949) la spinse a creare un centro di accoglienza e una scuola e ad aiutarli a trovare un lavoro. Questo attivo coinvolgimento nelle questioni sociali non solo violava i principi stabiliti dalle autorità islamiche per la condotta di un’ahong donna, ma esulava anche dagli standard sociali dell’epoca. Gli stessi leader della moschea degli uomini che l’avevano nominata, adesso accusavano Yang Huizhen di trascurare il proprio dovere e, spalleggiati dall’Associazione islamica cinese, rescissero il suo contratto. Tra le accuse rivoltele c’era quella di aver ignorato l’autorità dell’Associazione islamica, di aver preso decisioni in violazione delle sue norme e di aver bussato “ovunque” per ottenere donazioni a beneficio dei rifugiati di cui si occupava. Yang Huizhen non si fece intimidire né dall’espulsione dalla moschea né dagli attacchi pubblici contro di lei e continuò instancabilmente la sua ricerca di fondi per sostenere i profughi, i disoccupati e gli orfani. La sua fama si diffuse e alla fine i suoi detrattori si convinsero a riammetterla nell’organizzazione musulmana locale e a sostenere le sue opere di bene. Si dice che grazie a lei i musulmani di Jiaxing acquisirono la reputazione favorevole di benefattori dei poveri, appannaggio in precedenza dei cristiani e dei buddisti. Il Dizionario biografico delle donne cinesi 1912-2000 afferma che: la posizione di Yang Huizhen nella sua comunità religiosa trasse vantaggio dal diritto acquisito delle donne all’istruzione islamica e alla formazione professionale ma la sua carriera dimostra anche la severa punizione comminata alle donne che osavano pensare e agire al di fuori dei limiti imposti da una società patriarcale33.
Du Shuzhen Lao Ahong (1924) Du Shuzhen Lao Ahong della moschea delle donne Zhengzhou Beidajie è fiera delle generazioni di donne che l’hanno preceduta con una tradizione di pietà, religiosità informata, passione per l’insegnamento e sforzo instancabile per elevare la condizione delle donne in tutte le sfere della società. Du Ahong, oggi alle soglie della novantina, è ancora responsabile degli affari religiosi della moschea delle donne di Zhengzhou. L’epoca in cui è vissuta è diversa rispetto a quella di Yang Ahong, più limitata e irregimentata sotto il Partito/Stato di quanto non sia mai avvenuto sotto il governo nazionalista. E tuttavia Du
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 129 Ahong è stata in grado di combattere più efficacemente la mentalità patriarcale grazie ai diritti politici garantiti a tutte le donne dalla Costituzione del 1949 nonché alla legislazione progressista varata dalla Repubblica popolare cinese e applicata anche in ambito religioso soprattutto grazie all’impegno delle donne stesse. Ora è l’eguaglianza di diritti e di trattamento la leva del loro potere di contrattazione con le controparti maschili e le istituzioni da esse dominate. In tale processo le ahong non hanno abbandonato il concetto di “purezza”, che giustifica lo status relativamente più umile delle istituzioni di cui sono a capo in confronto a quelle maschili. Tutte le entrate e le donazioni alla moschea vanno infatti a finanziare il suo sviluppo e le sue iniziative benefiche. Questa lezione – racconta Du Ahong – le è stata trasmessa da una e da un ahong (del lao pai di cui lei stessa fa parte e dello yihewani pai)34 di cui non ha mai dimenticato l’insegnamento. La sua condotta incarna gli elevati standard morali che rendono i membri della sua congregazione orgogliosi di appartenervi. Il rispetto di cui gode è accresciuto dall’indomita condanna dei valori commerciali di cui avverte l’infiltrarsi nella cultura delle moschee nonché dalla sua fermezza nel sostenere che le donne devono essere in grado di assumersi la responsabilità degli spazi della propria congregazione e della propria preghiera, luoghi che hanno espresso per molte generazioni la fede e il coraggio delle donne anche in tempi di persecuzione religiosa. Genere, leadership e spazi nei diversi contesti musulmani cinesi La funzione storica di uno spazio religioso riservato esclusivamente alle donne era quella di ripararle dallo sguardo pubblico (cioè maschile) grazie alla protezione fornita da tendaggi, mura e cancelli. Il paradigma di femminilità musulmano-cinese enunciato nel Cinque e Seicento dagli influenti studiosi Hui Wang Daiyu, Ma Zhi e Liu Zhi identificava la preservazione della jiebai (purezza) delle donne con quella dell’Islam, giustificando in tal modo la segregazione di genere con argomenti religiosi e culturali35. Ma nel corso dei secoli le più capaci ahong hanno reinvestito nella tradizionale nozione di purezza come dipendenza attribuendole significati nuovi legati alla forza della spiritualità e della devozione delle donne e trasformando così la tradizionale segregazione di genere nell’occupazione da parte delle donne di un proprio spazio di preghiera e di culto. L’originale modello di leadership collettiva presente nelle moschee delle donne – ahong, comitato delle anziane e anche comuni fedeli – è una risposta innovativa e creativa tanto alla crisi storica dell’Islam in Cina quanto agli interventi del Partito/Stato comunista e alla sua politica sulle questioni religiose e di genere. Storicamente gli spazi di formazione e di culto riservati alle donne sotto la guida di donne possono essere considerati un’eredità delle strategie indigene per la salva-
Luoghi e spazi per la preghiera e la fede delle donne
CULTURA E SOCIETÀ guardia e la perpetuazione della fede islamica e della pratica musulmana. Questi luoghi in cui le donne sono state segregate in ossequio alla proibizione confuciana e islamica di mescolarsi agli uomini e alle limitazioni imposte da queste culture alla loro condotta nei luoghi pubblici si sono trasformati con il tempo dando luogo a una serie di tradizioni che sono diventate centrali nella fede religiosa e nella vita delle donne, quali il sistema e il corpus letterario della jingtang jiaoyu (istruzione religiosa ricevuta in moschea) e la ricchezza della cultura a trasmissione orale dei jingge (canti religiosi). A seguito delle sfide provenienti dall’ortodossia islamica nazionale e internazionale e della crescente influenza dell’Islam salafita e wahhabita dopo l’apertura della Cina al Medio Oriente, il più restrittivo modello di autorità maschile dell’Islam arabo è entrato in tensione con le tradizioni di autorità femminile istituzionalizzata proprie di quello cinese. È da notare che il Partito/Stato comunista si è rivelato un utile alleato con un’influenza stabilizzatrice sulla ricerca dell’indipendenza istituzionale. La registrazione obbligatoria dei siti religiosi ha rafforzato la posizione delle ahong donna in termini di status sociale, riconoscimento legale, diritti e risorse economiche. La legittimazione politica e la partecipazione agli organismi pubblici hanno aumentato il loro potere contrattuale nella competizione con le adiacenti moschee maschili per le risorse e le iniziative generatrici di reddito. Inoltre le ahong non hanno esitato a sfruttare la tanto decantata “liberazione delle donne” operata dal Partito comunista, sostenendo con successo che il dettato costituzionale e legale del Paese è applicabile anche nella sfera religiosa36. All’inizio di questo elaborato ho sostenuto che l’autorità di un’ahong donna è intimamente connessa alle relazioni sociali che ne determinano il grado di influenza dentro e fuori le mura della moschea e le garantiscono il rinnovo dell’incarico se si valuta che l’intero fang femminile tragga vantaggio dall’averla come guida. Nell’attuale dibattito tra gli ahong maschi e i comuni musulmani (uomini e donne) sulla sostenibilità e l’ortodossia delle qingzhen nüsi come luoghi di culto indipendenti emergono interpretazioni contrastanti della bid’ah, per cui alcuni sostengono che questa istituzione unica e significativa continua a rispondere bene ai bisogni in evoluzione delle donne mentre altri ritengono sia giunto il momento di cancellare una “pratica non islamica”. Dalle interviste con i musulmani locali emerge come anche laddove la continuità delle tradizioni femminili autonome viene difesa ciò non è esente da ambiguità. Si può riscontrare infatti sia un benigno riconoscimento patriarcale delle donne come spiritualmente “bisognose” per cui sono necessari una guida e un sostegno specifici al loro genere, sia di un approccio “moderno” al loro diritto di avere spazi propri e una propria leadership nonché una posizione di uguaglianza nella società musulmana e secolare�. Due punti di vista rappresentativi di queste posizioni contrastanti sono quelli dell’ahong
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 131 maschio di mezza età Jin Fengyuan e quello di Ma Zhenhua, manager tecnica in pensione che frequenta una moschea delle donne guidata da una ahong molto rispettata. Il primo sostiene che il Corano prescrive un’adeguata divisione del lavoro su base sessuale in tutte le sfere dell’esistenza e che le moschee delle donne cinesi sono un importante simbolo di tale segregazione: Perciò l’esistenza delle moschee delle donne ha un suo fondamento nel costume e questo genere di base sociale non può essere cambiata. Ecco perché le moschee delle donne devono continuare a esistere, anzi devono svilupparsi ulteriormente.
Al contrario Ma Zhenhua guarda alle moschee a guida femminile con un senso di orgoglio per l’uguaglianza raggiunta: Poiché ritengo che le donne musulmane non siano assolutamente un’appendice degli uomini, esse devono avere i propri diritti, capacità e indipendenza; dopotutto le moschee delle donne sono per loro una sorta di espressione di indipendenza [corsivo aggiunto].
Quando le parti contendenti fanno appello alla storia, alla cultura e alla religione pro o contro “un’istituzione musulmana cinese femminile”, le diverse interpretazioni sono radicate in valori e problemi contemporanei. Genere, appartenenza politica, interessi economici, identità etnica e nazionale sono tutti fattori che hanno il loro peso in questo dibattito, il cui esito, compreso il futuro delle ahong donna all’interno dell’Islam organizzato cinese, rimane incerto. Tuttavia finché le donne musulmane difenderanno con passione e convinzione un’istituzione che dà loro consolazione spirituale e identità sociale, la rete di interdipendenze su cui essa si basa – e che, per riprendere da Yao Ahong la metafora della luce dell’Islam e dell’ombra protettrice che la circonda, connette la ahong, le anziane e le normali fedeli – non verrà facilmente spezzata. ■ Bibliografia • Bai S., Zhongguo Yisilanshi Cungao [Saggi sulla storia dell’Islam in Cina], Yinchuan, Ningxia Renmin Chubanshe, 1983. • Dillon M., China’s Muslim Hui Community: Migration, Settlement, and Sects, Londra, Curzon Press, 1999. • Esposito J., The Straight Path, New York, Oxford University Press, 1991. • Freeman A., Moral Geographies and Women’s Freedom: Rethinking Freedom Discourse in the Moroccan Context, in F. Ghazi-Walid - C. Nagel (a cura di), Geographies of Muslim Women: Gender, Religion, and Space, New York, The Guilford Press, 2005. • Gladney D., Muslim Chinese: Ethnic Nationalism in the People’s Republic, Cambridge, MA, Harvard University Press, 1991.
Diritti, capacità, indipendenza delle donne musulmane
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NOTE 1. Il titolo di ahong, parola che deriva dal persiano akhund, è usato nelle comunità musulmane Hui della Cina central per rivolgersi alle autorità religiose, che siano uomini o donne. In entrambi i casi può essere considerate equivalente a quello di imam, ma spesso, per motive legati al genere, alle interpretazioni locali dell’Islam, all’educazione e alle tradizioni storiche, vi è molta ambiguità e talvolta ostilità esplicita nell’utilizzarlo per le seconde. Per certi versi ahong è anche diventato un titolo genericamente conferito a tutti coloro che insegnano, amministrano o presiedono alle cose religiose in una moschea. Tuttavia alcune delle donne di mentalità più aperta fanno leva su di esso per affermare la nan-nü pingdeng, cioè l’uguaglianza di genere, nella sfera religiosa. 2. Questo lavoro si concentra quasi esclusivamente sui musulmani Hui e sulle tradizioni sunnite (tradizionaliste e riformiste, gedimu e yihewani pai). La nazione Hui è la più numerosa delle dieci minoranze etniche che costituiscono la popolazione musulmana cinese (stimata tra i 18 e i 25 milioni di persone in tutto il territorio del Paese). Stimare il numero di moschee delle donne è un compito arduo e tuttora in corso a causa della tradizionale invisibilità, del fatto che sono spesso incorporate a istituzioni maschili e dei criteri per la registrazione dei siti religiosi. Nelle comunità musulmane della Cina centrale sono però almeno un sesto dei luoghi di culto a disposizione degli uomini. La città di Zhengzhou ne possiede undici con una tendenza crescente a crearne di completamente indipendenti, contrariamente a quanto
CULTURA E SOCIETÀ avviene nel sud dove le moschee delle donne sono in diminuzione. A Pechino, dove nel 1958 erano diciotto, oggi ne rimane una sola. A Shanghai ne è stata riaperta una nel 1996. Nel nord est il numero è stabile; nel nordovest c’è una preferenza per le scuole al posto delle moschee; nel sudovest c’è soltanto una moschea delle donne completamente indipendente, quella di Kaiyuan. 3. Si veda Progetto Wemc, Dfid, Yao Ahong, Film Documentary on Kaifeng Women’s Mosque in Henan, Women’s Mosque, A Space for Women: Visiting Wangjia Hutong Women’s Mosque in Kaifeng, DVD prodotto dal Dipartimento britannico per lo Sviluppo internazionale, settembre 2008-giugno 2009. 4. Bai Shouyi, Zhongguo Yisilanshi Cungao [Saggi sulla storia dell’Islam in Cina], Yinchuan, Ningxia Renmin Chubanshe, 1983. 5. Papanek, Purdah. 6. Esposito, The Straight Path; Goldziher, Introduction to Islamic Theology and Law; Mernissi, Women’s Rebellion. 7. Le ahong donna evitano di partecipare al complesso dibattito sulla definizione e la collocazione del concetto di bid’ah nella giurisprudenza islamica e puntano piuttosto a valorizzare la lunga storia del loro contributo alla sopravvivenza dell’Islam e sul diritto all’uguaglianza di genere in quanto cittadine cinesi. 8. I musulmani cinesi vivono sia in comunità o insediamenti esclusivamente islamici, sia in situazioni dove rappresentano la maggioranza della popolazione o ancora in contesti minoritari (si veda Gladney, Muslim Chinese). La proporzione sull’insieme della popolazione determina il ruolo della moschea e il rapporto tra le donne e una determinata moschea. Laddove al comunità musulmana è abbastanza ampia da poter sostenere luoghi di culto separate per uomini e donne, quella delle donne diventa il centro delle loro attività religiose. Laddove la comunità dispone di una sola moschea, vi praticano e studiano tanto gli uomini che le donne con formule diverse: alle donne può essere assegnata una sala di preghiera (libaidian) e una stanza delle abluzioni separate (shuifang) all’interno del complesso della moschea ma tutti i fedeli utilizzano la stessa entrata principale; in altri casi le donne hanno una stanza delle abluzioni ma pregano nella stessa sala degli uomini in un’area loro riservata e separate da uno schermo o tendaggio. In altre zone le donne pregano in casa ma si recano alla moschea in determinate feste o memorie (per esempio il giorno di Fatima) ma rimangono nelle aree periferiche. Tra i musulmani Uyghur delle regioni occidentali del Paese, è loro vietato l’accesso al perimetro della moschea. La severità con cui questa proibizione viene applicata va dal tabù assoluto a eccezioni in giorni o feste particolari in cui è loro permesso prendere parte alle attività collettive della moschea. 9. La Zhongyuan diqu (Cina central) comprende le province dello Henan, Shanxi, Hebei e Shandong; è qui che le moschee delle donne sono più numerose. 10. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques. 11. Ibidem. 12. Ibidem, p. 83. 13. Ibidem, p. 165. 14. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques; “Muslim Communities in China,” pp. 123-128. 15. Conversazioni con Du Ahong, nella moschea delle donne di Beidajie a Zhengzhou nello Henan nel settembre 2008. 16. Rao - Kelleher, Leadership for social transformation, p. 77. 17. Pierre Bourdieu, citato in Stanbury - Raguin, “Introduction”, p. 4. 18. Dillon, China’s Muslims; Israeli, Muslims in China. 19. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques. 20. Ibidem, pp. 46-56. 21. Thompson, Female Leadership. 22. Hatem, Post-Islamist and Post-Nationalist Feminist Discourses. 23. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques, p. 9. 24. Václav Havel, citato da Thompson, Female Leadership, p. 555. 25. Tutti i riferimenti sono al numero delle pagine dell’articolo di Mattson nella versione del sito web dello Hartford Seminary. 26. Mattson, Can a Woman be an Imam?, p. 13. 27. Citato da Mattson, Can a Woman be an Imam?, p. 14.
Fonti di autorità: le “Ahong” donna e le “Qingzhen Nüsi” (moschee delle donne) / 135 28. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques. 29. Riguardo al concetto di “geografie morali”, Amy Freeman dice con un riferimento al lavoro della geografa femminista Doreen Massey: “Gli spazi sono catalogati come moralmente corretti o scorretti in base alle attività che si sa (o si crede di sapere) essi ospitino e alla reputazione delle persone che li occupano. L’esistenza di queste geografie morali incide sulla mobilità delle donne e sulle conseguenze di una trasgressione dei codici morali dominanti” (Freeman, Moral Geographies, p. 148). 30. Nel suo Social Transformation, Abdi Ismail Samatar presenta erroneamente la moschea delle donne di Gabiley nella Somalia del nord come la prima costruita dalle donne per le donne (p. 242). L’edificio ha una parete in comune con la moschea maschile e durante il culto vie aperta una porta mascherata da tendaggi che ne mette in comunicazione la sala della preghiera con l’adiacente moschea degli uomini affinché le donne possano sentire le parole dell’imam durante il culto. Esse hanno un’insegnante donna che opera congiuntamente a un collega uomo. Si tratta dunque di una situazione in qualche modo diversa dalle moschee delle donne indipendenti della Cina centrale che svolgono tutte le attività religiose separatamente da quelle maschili (benché ciò non impedisca i contatti con gli ahong maschi ben disposti che vengono anche invitati a partecipare alle feste e alle celebrazioni speciali che segnano la vita rituale delle moschee delle donne; al contrario il numero di ospiti, maschie femmine, è un segno della loro reputazione presso la comunità!). 31. Conversazioni con l’ahong e lo shetou della moschea delle donne di Wangjia Hutong a Kaifeng nel settembre 2008 e nel maggio 2009. 32. Jaschok - Jingjun, Yang Huizhen, p. 618. 33. Lao pai si riferisce alla più antica tradizione islamica cinese, la gedimu, che è accusata dai mussulamni riformisti di eccessivi compromessi con le tradizioni culturali locali, di essere troppo “inculturata”; tra i suoi numerosi detrattori vi sono i membri dello yihewani pai, movimento riformatore nato nell’Ottocento e spstenitore di un Islam più “puro” (Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques). 34. Jaschok - Jingjun, History of Women’s Mosques, pp. 46-56. 35. Casi in cui delle ahong donne si sono difese con successo da (locali) incursioni patriarcali nei loro diritti sono illustrati in Jaschok - Jingjun, Women, Religion and Space (Routledge, in corso di pubblicazione). 36. Interviste condotte da Shui Lulu nel 2006 (nel distretto musulmano Hui di Zhengzhou Guangchang), sulla base di un questionario formulato da Jaschok e Shui che proponeva domande approfondite, rivolte in questo caso a sei donne e sei uomini di diversa età, classe sociale, livello professionale e di istruzione e fede religiosa. I nomi degli intervistati sono stati cambiati per preservarne l’anonimato.
Ebrei in Cina: la sfida della diversità Pier Francesco Fumagalli
Since the VII century, in Tang dynasty, Jews, Christians and Muslims had contacts with China; later in Song, Yuan and Ming dynasties various sources – imperial Chronicles, epigraphs, literary reports by Marco Polo and Matteo Ricci, etc. – refer to Jewish presence in China. Kaifeng, from the 12th until the mid of the 19th century, was the main centre with a Jewish community. During the 20th century Jews from Russian area settled in Northern Harbin (Heilongjiang), whilst Jews from the South Iraq since the mid of the 19th century were actively involved in trade in Shanghai, which became a safe place for European Jews escaping from the Shoah, the Nazi persecution during World War II. Most of those Jews later moved to Israel after 1948. Contemporary relations among Jews and Chinese are inspired and encouraged by a great number of groups, associations or academic centres flourishing in Chinese universities, in Shanghai, Nanjing and Jinan among others. If Chinese Jews will deserve the status of “minority” among the Chinese national groups is still an open question. Dottore ordinario, Viceprefetto della Biblioteca Ambrosiana e direttore della Classe di studi sull’Estremo Oriente dell’Accademia Ambrosiana di Milano
L’
Asia con le sue millenarie culture si affaccia assai presto all’orizzonte della “Mezzaluna fertile” del Vicino e Medio Oriente, se non altro perché da oltre venti secoli i percorsi della “Via della Seta” s’intrecciano a Damasco con le carovane dirette alle metropoli di Alessandria, Costantinopoli e Baghdad. Alle desertiche vie di terra centro-asiatiche, rese più percorribili dopo l’addomesticamento del cammello, facevano da contrappunto le vie navali meridionali, tutte convergenti – dalla Persia o dall’India – verso la prospera Cina. Nelle lingue semitiche la Cina è chiamata Sîn in ebraico, ma questo termine nella Bibbia (Isaia 49, 12) in realtà non indica la Cina storica, bensì una località dell’Egitto, di cui gli antichi apprezzavano l’elevatissima cultura; analogamente in arabo un Hadīth di Maometto collega in modo generico la sapienza con la Cina, considerata sublime sorgente di fede e scienza: “Ricercherò la scienza e la fede, fossero pure in Tsīn”. Le vicende dell’incontro tra l’antichissima civiltà cinese, caratterizzata dalle “tre dottrine” confuciana, taoista e buddhista, e quella
Ebrei in Cina: la sfida della diversità / 137 mediterranea di impronta monoteistica, costituiscono tappe tra le più interessanti nella storia del pensiero e della religiosità umana. Prime presenze ebraiche in Cina I primi contatti fra cinesi, ebrei, cristiani, musulmani e manichei risalgono almeno ai secoli VII-VIII, quando l’imperatore Taizong (626-649) dei Tang estese il suo dominio a occidente verso il Xinjiang e il Tibet. In cerca di alleanze contro gli arabi giunse nella capitale Chang’an il principe persiano Firuz nel 638, lo stesso anno in cui i cristiani siri orientali, all’epoca detti “nestoriani”, ricevevano l’autorizzazione a stabilirsi nella metropoli cinese1; pochi anni dopo anche l’imperatore bizantino Costante II nel 643 inviava in Cina un’ambasceria dalla Siria. L’ingresso dell’Islam in Asia centrale, preceduto da un’ambasceria nel 651, ebbe invece inizio nel 751, dopo la sconfitta inflitta dagli arabi ai cinesi al fiume Talas. In tale nuovo contesto internazionale, notizie sugli ebrei in Cina compaiono nello stesso periodo, come documentano alcuni testi: una lettera scritta in giudeo-persiano, datata al 718, indirizzata a un ebreo del Tabaristan, in Persia2, e un frammento liturgico scoperto a Dunhuang (Gansu) nelle Grotte di Mogao, nel quale compare in ebraico il nome di Israele3. Ebrei erano insediati anche nei porti, lungo gli itinerari marittimi che passando per l’India univano la Cina con l’Occidente, e il cronista arabo Abū Zaid riferisce del massacro di ebrei, cristiani e musulmani nell’877-878 a Khanfu (Canton). Gli annali imperiali cinesi di epoca Yuan (Yuan Shi) tra il 1277 e il 1354 trattano diverse volte di ebrei in materie di commercio, matrimoni, servizio militare o tassazioni, mentre le cronache dei missionari francescani e di Marco Polo nel secolo XIII confermano questi dati sulla diffusione di comunità ebraiche in numerose città e porti della Cina: ne troviamo testimonianze a Beijing (Pechino), Canton, Hangzhou, Nanjing, Ningxia, Quanzhou (Zaitun), Shanghai, Yangzhou, Xi’an4. La presenza di nuclei ebraici era spesso parallela a insediamenti islamici, accomunati dalla condivisione di molte regole alimentari, e le comunità potevano essere indicate con il medesimo termine Zhēn qīng (“Vera Purezza”); gli ebrei venivano chiamati anche “Hui Hui dal berretto blu”, per distinguerli dai musulmani della medesima minoranza etnica, ma dal tradizionale berretto bianco. Gli ebrei di Kaifeng La scarsità di conoscenze dirette sulle estreme regioni orientali dell’Asia durerà in occidente fino a quando Matteo Ricci tra il 1583 e il 1610 da Pechino comincerà a far conoscere in Europa la sua testimonianza diretta sull’Impero di Mezzo o Zhong Guo. Dobbiamo a Ricci anche la cronaca del primo incontro tra un europeo e un ebreo cinese, il giovane candidato agli esami imperiali Ai Tian (Amedeo).
CULTURA E SOCIETÀ
La progressiva assimilazione della tradizione ebraica nella cultura cinese
Questi gli fece visita in Pechino nel giugno del 1605 suscitando il curioso equivoco per cui entrambi – il gesuita e il confuciano – credettero per un momento di trovarsi davanti a un proprio correligionario. Ricci nei suoi Commentari e nelle Lettere narra che giunse da Kaifeng a Pechino “un Giudeo di natione e di Professione”, di fattezze non proprio cinesi, il quale avendo letto qualcosa a proposito dei missionari-scienziati occidentali che vivevano nella capitale, ritenendo “che noi non eravamo della legge dei Saraceni, come moltissimi che stanno nella Cina, né adoravamo altra Cosa che il Re del Cielo, si persuase che eravamo della sua legge Mosaica, ed entrò nella casa dei Padri con molta allegrezza, dicendo esser della nostra legge”5. Questa straordinaria esperienza portò Ricci a contatto con l’antichissima comunità ebraica di Kaifeng, le cui origini sembrano risalire almeno al secolo X6. La città, importante centro della provincia del Henan, era stata sede imperiale per brevi periodi sotto i Liang Posteriori (907-923) e sotto i Jin Posteriori (936-947), poi fu capitale della Cina agli inizi della dinastia settentrionale dei Song (960-1126), e una prima sinagoga (qingzhenshi) vi era stata eretta nel 1163 da mercanti probabilmente giunti dall’Iran7. La comunità ebraica che vi abitava aveva affrontato perciò molto tempo prima di Ricci il problema dell’inculturazione, riconoscendo che confucianesimo e giudaismo si accordano su punti essenziali mentre divergono su quelli secondari8. Nel medesimo tempo soffriva gravi rischi di assimilazione, anche a causa dell’assenza di riferimenti alla tradizione sia talmudica sia maimonidea, due pilastri della cultura ebraica mediorientale e occidentale. Nell’epoca di maggior floridezza questa comunità aveva una splendida sinagoga, senza dubbio la maggiore dell’Asia orientale, ancora fiorente nel secolo XVI, che finirà purtroppo distrutta dall’allagamento all’epoca delle rivolte contro i Ming a metà del Seicento, quando iniziò il declino non solo della vita ebraica a Kaifeng, ma dell’intera città. Le famiglie ebraiche più influenti recavano i cognomi (xing) Ai, Chao, Kao, Li, Shi, che stanno ancor oggi a indicare la discendenza ebraica dei membri di tali famiglie. Venuta meno a metà dell’Ottocento la presenza di un rabbino e cessate le attività comunitarie, nei primi decenni del Novecento la comunità era già ritenuta praticamente estinta anche se circa cinquecento cinesi si dichiaravano ancora ebrei; i loro manoscritti vennero acquistati da missionari americani o italiani e alcuni di questi sono attualmente custoditi nelle biblioteche di Cambridge, Oxford, Londra e Dallas, mentre nel 1980 si dava notizia dell’unico ebreo cinese ancora residente a Taiwan, Shih Hung-mok (o Samuel Stupa Shih)9. I. Eber, attenta studiosa degli ebrei cinesi, attribuisce un effetto determinante sulla loro assimilazione all’influsso della millenaria cultura cinese, che sovrastando l’identità ebraica faceva percepire l’ebraismo non più come una religione universalista,
Ebrei in Cina: la sfida della diversità / 139 ma come “una religione sincretica e settaria”10. Altri fattori concomitanti che spingevano verso una totale integrazione, attenuando la consapevolezza di una specifica identità ebraica, furono l’isolamento da altri centri ebraici, e i rapporti sempre più stretti con l’ambiente musulmano circostante. Comunità ebraiche straniere in Cina nel Novecento Mentre l’ebraismo cinese stava inesorabilmente declinando, le condizioni storiche mondiali andavano creando in Cina una situazione di multicolonialismo internazionale a partire dalle Guerre dell’Oppio a metà del secolo XIX. In questo periodo di grandi cambiamenti politici, sociali e culturali, una serie complessa di fattori favorevoli portava anche all’arrivo di ebrei stranieri di varia provenienza: nella Cina settentrionale in rapporto con l’immigrazione russa, a Hong Kong collegati con la presenza coloniale britannica, a Shanghai con lo sviluppo del commercio e delle manifatture internazionali. Al nord Harbin, oggi capoluogo della provincia del Heilongjiang, accolse per diversi decenni, tra il 1903 e il 1962, alcune decine di migliaia di ebrei dall’ex impero zarista, e lo stesso Trumpeldor, uno dei pionieri del sionismo, vi passò alcuni mesi dopo la prigionia giapponese nel 1905 prima di passare in Palestina; dal 1920 un flusso migratorio di aliyà verso la Palestina sottoposta al Mandato britannico unì Harbin a Gerusalemme11. La locale sinagoga, oggi rinnovata e riaperta al pubblico il 13 giugno 2005, è la maggiore dell’estremo oriente, mentre l’Accademia di Scienze Sociali della provincia ospita un Centro di studi ebraici. Nel sud i rapporti internazionali favorirono un costante flusso ebraico, in particolare a Shanghai e Hong Kong12. Il centro di Shanghai, destinato a uno sviluppo eccezionale nel contesto dell’economia cinese moderna e contemporanea, accolse famiglie ebraiche come gli Ezra, i Hardoon, i Kadoorie e i Sassoon, e nel corso della Seconda Guerra Mondiale divenne rifugio e ponte verso la Palestina per circa 15.000 ebrei europei in fuga dalla Shoà13. La cultura ebraica a Shanghai conobbe una stagione lunga e florida, e nel 1920 fu costruita la sinagoga Ohel Rachel, ora proprietà del Ministero dell’educazione di Shanghai e divenuta Museo di storia dell’ebraismo14; la celebrazione di riti religiosi vi è concessa occasionalmente, come nella primavera del 2008 per il matrimonio ebraico della figlia del presidente della comunità, Maurice Ohana. Verso nuovi rapporti sino-ebraici Tra il 1920 e il 1953 poco più di una decina di studiosi cinesi, tra cui spiccano Chen Yuan e Pan Guangdan, iniziarono a svolgere un ruolo pionieristico con le loro pubblicazioni, aprendo nuove piste di ricerca e creando un rinnovato interesse verso gli ebrei in Cina15. Ma la vera svolta si ebbe nel 1983, anno in cui lo studio di Pan Guangdan
CULTURA E SOCIETÀ
Dallo studio del passato ebraico in Cina alla collaborazione scientifica e culturale
venne pubblicato postumo dopo trent’anni di attesa16, segnando un cambiamento di direzione negli studi e nell’atteggiamento cinese verso gli ebrei, che caratterizzò il decennio successivo. In breve tempo si passò dallo studio rivolto solo al passato degli ebrei in Cina, a studi e ricerche in generale sugli ebrei e sulle correnti dell’ebraismo contemporaneo specialmente in Cina, in Israele e in America17. Nel volgere di pochi anni in Cina nascono decine di Istituti e Centri di studio sull’ebraismo, a partire dalla Jewish Historical Society di Hong Kong fondata nel 1984; l’anno seguente è istituito in California il “Sino-Judaic Institute”, editore del Bollettino Points East, e nel 1988 il Center of Jewish Studies di Shanghai (CJSS), che collabora con le università di Gerusalemme e Tel Aviv e pubblica la collana CJSS Jewish & Israeli Studies Series all’interno dell’Accademia di Scienze sociali di Shanghai18. Nel 1990 si apriva a Pechino un Ufficio di collegamento con l’Accademia israeliana di Scienze e Arti e, dopo che nel gennaio del 1992 vennero stabilite relazioni diplomatiche israelo-cinesi, il seguente mese di aprile si tenne a Pechino il primo colloquio sino-ebraico organizzato dal Centro cinese di scambi culturali internazionali e dal Congresso mondiale ebraico; frutto di questa collaborazione sarà, nel 1993, l’edizione dell’Encyclopaedia Judaica in cinese19. Nel 1994 venne fondato nell’università Shandong di Jinan l’Istituto di cultura ebraica, divenuto nel 2003 犹太教与跨宗教研究中心 - Center for Judaic and Inter-religious Studies, molto attivo nell’organizzazione di convegni internazionali e nella pubblicazione di riviste e monografie20. Presso l’università di Nanchino dal 2006 è attivo il “Glazer Center for Jewish Studies”, che promuove studi su sionismo, ebraismo riformato, letteratura ebraica, ebraismo americano e filosofia. Un primo seminario di studi su Israele in Cina ha avuto luogo nel luglio del 2009 presso le università di Pechino e di Jinan, e nel medesimo tempo all’università di Nanchino si teneva una seminario internazionale su “Educazione e Olocausto”, organizzato dai due Istituti di studi ebraici delle università di Nanchino e di Zhengzhou. La vice presidente di quest’ultima università, Zhang Qianhong, fondatrice e direttore di questo Istituto di studi ebraici nel Henan, riassumendo i punti principali dell’attitudine cinese contemporanea verso gli ebrei, ha sottolineato il notevole progresso degli studi accademici compiuti negli ultimi decenni, e i possibili rischi di pregiudizi negativi da ambo le parti21. Prospettive e questioni aperte I maggiori progressi riguardo all’ebraismo in Cina si segnalano a livello accademico, ma anche a livello di divulgazione sia alta che popolare si sono compiuti notevoli passi in avanti. In un volume pubblicato in occasione del 50° anniversario dell’Accademia delle Scienze di Shanghai (1958) e del 20° anniversario del Centro di studi ebraici
Ebrei in Cina: la sfida della diversità / 141 di Shanghai (1988), Pan Guang passa in rassegna gli studi ebraici nel trentennio 1977-2007, in particolare nelle aree di storia, religione, filosofia, letteratura, Stato d’Israele, esaminando poi tematiche specifiche riguardanti archeologia e medio evo, sionismo, ebraismo americano, Shoà, antisemitismo, sionismo cristiano in America22. Più recentemente Roman Malek – con Thoraval, Eber, Leslie e altri – propone di considerare l’ebraismo in Cina, per quanto rappresentato da pochissimi ebrei, come un modello cruciale per comprendere la condizione di minoranza etnico-nazionale (minzu) nel suo rapporto con le espressioni della cultura e della religiosità23. In generale, ci si può chiedere come religioni “straniere” quali islam, buddhismo, cristianesimo, ebraismo, manicheismo, zoroastrismo e simili, si “trapiantano” nella cultura cinese. Considerazioni sull’attitudine cinese contemporanea verso le religioni, e in particolare verso l’ebraismo in Cina, sono esposte da J. Paper, che è contrario all’eventualità di concedere status di “minoranza” agli ebrei cinesi24, a differenza del rabbino capo d’Israele Shlomo Amar il quale, in visita a Shanghai nel 2006, invitava la Cina a riconoscere all’ebraismo uno statuto ufficiale, accanto alle cinque religioni già riconosciute dalla Costituzione: buddhismo, cattolicesimo, cristianesimo, islam, taoismo. A livello sociale si può rilevare un sempre maggiore interesse verso ciò che riguarda gli ebrei e Israele, con numerosi articoli su giornali e riviste; può capitare anche di incontrare in Israele gruppi di giovani cinesi residenti più o meno stabilmente, che si dedicano allo studio dell’ebraico moderno e della religione ebraica. Xu Xin e Ling Jiyao, nelle Prefazioni all’edizione cinese dell’Encyclopaedia Judaica, si erano sforzati di sottolineare sia la continuità storica e le affinità culturali che uniscono cinesi ed ebrei – nonostante gli scarsi rapporti intercorsi nei quaranta secoli di storia passata – sia le differenze culturali principali25. Sullo sfondo della continuità e dell’universalità che caratterizzano entrambe le civiltà, Ling Jiyao coglieva nella cultura ebraica le notevoli differenze riguardanti la dimensione religiosa monoteista – comune a cristianesimo e islam – diversamente dall’accento cinese posto sulle “Tre Dimensioni” (三才) del mondo: Terra, Cielo e Uomo, ma infine accomunati da un impegno etico simile. Allargando la riflessione storica con l’inclusione dei livelli filosofico, sociale, etico e religioso, possiamo cogliere la convergenza dell’etica ebraica e confuciana nella regola aurea “non fare all’altro ciò che non vuoi l’altro faccia a te”, formula scelta sia da Hillel sia da Confucio quando sono richiesti di presentare nel più breve modo possibile il nucleo del loro insegnamento26. In questa più ampia prospettiva, meritano particolare attenzione i programmi volti a approfondire i rapporti tra confucianesimo e grandi religioni del mondo: nel settembre 2010 si è tenuto a Qufu (Shandong) il primo Nishan Forum internazionale su “Confucianesimo e cristianesimo”, e altri sono an-
Cinesi ed ebrei: affinità culturali, differenze religiose, comune impegno etico
CULTURA E SOCIETÀ nunciati nei prossimi anni su analoghi confronti con ebraismo, buddhismo e islam. Non si tratta solo di analisi storico-comparative, ma di veri e propri dialoghi interattivi che potranno offrire nuovi contributi sia scientifici sia spirituali, per un fecondo incontro tra espressioni dell’umana ricerca di armonia tra società e religione, ragione e fede. Una “via cinese” nell’area dei diritti umani e in particolare della libertà religiosa sembra delinearsi e consolidarsi sempre più anche grazie a questi colloqui, ai quali il pensiero e l’esperienza d’Israele offrono un proprio singolare contributo. ■
NOTE 1. Cfr. M. Nicolini-Zani, La via radiosa per l’oriente. I testi e la storia del primo incontro del cristianesimo con il mondo culturale e religioso cinese (secoli 7-9), Qiqajon, Comunità di Bose, 2006. 2. Cfr. M. Pollack, Mandarins, Jews and missionaries, The Jewish experience in the Chinese empire the Jewish Publication Society of America, 1980; 2a ed., 1983, p. 260. Giustamente il Pollack fa notare che non è possibile interpretare il testo di Isaia 49, 12 come riferentesi alla Cina (Sinîm). Una presenza di ebrei in Cina prima dei Song è attestata anche da vari cronisti arabi: ibn Khurdadhibh, Abu Zaid, al-Mas’udi. Cf. anche N. Perront, Etre juif en Chine. L’histoire extraodinaire des communautés de Kaifeng et de Shanghai, Albin Michel, Parigi, 1998; D.D. Leslie, Jews and Judaism in traditional China. A Comprehensive Bibliography, Monumenta Serica 44, Steyler, Nettetal 1998; J, Goldstein (ed.), The Jews of China, vol. 2, New York-Londra, Scarpe, 2000; J. Goichman, Juden in China, Berlino, LIT, 2007. 3. Cfr. M. Pollack, Mandarins, cit., p. 261 e riproduzione alla p. 263, illustrazione n. 29, linea 11: “Yisra’el ‘ammèkha”. 4. Cfr. M. Pollack, Mandarins, cit., pp. 65-66; riferimenti ad ebrei presso Marco Polo, Il Milione, ed. a cura di Luigi Foscolo Benedetto, Olschki, Firenze 1928, pp. 70, 196; P.F. Fumagalli, Aspetti dell’incontro tra Italia e Cina in epoca Yuan (12711368) - 意大利与中国在元代 (1271-1368) 的相遇, in L’incontro fra l’Italia e la Cina: il contributo italiano alla sinologia, V Simposio internazionale di sinologia dell’università Fu Jen, 23-24 novembre 2007, A. Tulli - Z. Wesolowski (a cura di), Taipei, Fu Jen Daxue Chubanshe, 2009, pp. 655-698. 5. Cfr. M. Ricci, Della entrata della Compagnia di Gesù e Cristianità nella Cina, ed. a cura di M. Del Gatto, Prefazione di F. Mignini, Quodlibet, Macerata 2000, p. 463; cfr. anche M. Ricci, Opere storiche, a cura di P. Tacchi Venturi, Vol. II, Le lettere dalla Cina (1580-1610), con Appendice di documenti inediti, Macerata 1913, pp. 290-291 (a p. C. Acquaviva, 26 luglio 1605). 6. Sull’argomento in genere si veda D.D. Leslie, Jews and Judaism in Traditional China, A Comprehensive Bibliography, Monumenta Serica Monograph Series, XLIV, Sankt Augustin, Nettetal, 1998; Jews in China. From Kaifeng… to Shanghai, in Monumenta Serica Monograph Series, XLVI, Sankt Augustin, Nettetal, 2000. 7. D.D. Leslie, Kaifeng Jews. Integration, Assimilation and Survival of Minorities in China: The Case of the Kaifeng Jews, in Monumenta Serica Monograph Series, XLVI, cit., p. 50; sugli influssi persiani e yemeniti nella liturgia ebraica di Kaifeng, cfr. Z. Werblowski, ‘Al Yehudê Kaifeng, Motza’am we-nosah tefillatam, in “Pe’amim, Studies in Oriental Jewry”, 78 (5759 [1999]), pp. 44-60. 8. Xu Xin, On the Religious Life of the Kaifeng Jewish Community in the 15th-17th Centuries, in Monumenta Serica Monograph Series, XLVI, cit., p. 142.
Ebrei in Cina: la sfida della diversità / 143 9. M. Pollack, Mandarins, Jews and missionaries, cit., pp. 267-273; Pollak riferisce che il vescovo della Canadian Church of England, William Charles White, compì una prima visita a Kaifeng nel 1897, quindi fu consacrato vescovo del Henan nel 1907, e acquistò un manoscritto con alcuni oggetti sinagogali, poi esposti al Museo Reale dell’Ontario; sempre a lui nel 1912 vennero affidate le due steli risalenti al 1489/1512 e al 1679, documenti fondamentali per ricostruire la vita della comunità ebraica. 10. I. Eber, Chinese and Jews. Encounters between cultures, Londra-Portland, OR-Mitchell, 2008, p. 35. 11. 曲伟、李述笑,“犹太人在哈尔滨” Qu Wei - Li Shuxia (a cura di), The Jews in Harbin, Beijing, Social Sciences Documentation Publishing House, 2003. 12. Su Hong Kong cfr. C.B. Plüss, The social history of the Jews of Hong Kong (Occasional paper, 1), Hong Kong, The Jewish Historical Society of Hong Kong, 1999. 13. Cfr. A. Freyeisen, Shanghai und die Politik des Dritten Reiches, Würzburg, Königshausen & Neumannm 2000. 14. M.J. Meyer, From the rivers of Babylon to the Whangpoo. A Century of Sephardi Jewish life in Shanghai, Lanham-New York-Londra, University Press of America, 2003; Directory & Guide to Jewish Shanghai, The Jewish Community of Shanghai, 5761/2001. 15. S. Shapiro, Jews in old China. Studies by Chinese scholars, New York, Hippocrene Books, 1984, presenta in inglese le 13 principali opere di questi studiosi cinesi. 16. 潘光旦, “中国境内犹太人的若干历史问题” [Pan Guangdan, Questioni storiche sugli ebrei in Cina], Beijing, Università di Pechino, 1983. 17. Pan Guang, The Development of Jewish and Israel studies in China, “The Harry Truman Research Institute for the Advancement of Peace. Occasional Papers”, n. 2, The Hebrew University of Jerusalem, Spring 1992; P.F. Fumagalli, Ebrei e studi ebraici in Cina. Note per una bibliografia, in Asiatica Ambrosiana, vol. 3, a cura di Kuniko Tanaka, Milano-Roma, Biblioteca Ambrosiana-Bulzoni, 2011. 18. Cfr. 王雷泉,刘仲宇,葛壮, “二十世纪中国社会科学。宗教学卷” [Wang Zhong Quan, Liu Zhuang Yu, Ge Zhuang, Le scienze sociali in Cina nel secolo XX. Le religioni], Shanghai, Shanghai renmin chubanshe, 2005, pp. 435-458, dove si dà una panoramica completa su questi numerosi centri e istituti di ricerca in Cina. 19. 徐新,凌继尧 [Xu Xin, Ling Jiyao] (a cura di), “犹太百科全书”( – אקיאדוי הידפולקיצנאEncyclopaedia Judaica), Shanghai, Shanghai renmin chubanshe, 1993. 20. Cfr. 傅有德, “犹太哲学史” [Fu Youde, Storia della filosofia ebraica], Beijing, Zhongguo Renmin daxue chubanshe, voll. 2, 2008; il Centro pubblica la rivista “犹太研究/ Jewish Studies”. 21. Zhang Qianhong, Some thoughts on the enhancement of the Sino-Judaic relationship, in “Points East” 25, 1 (marzo 2010), pp. 1. 6-8. 22. 潘光, “犹太研究在中国 ——— 三十年回顾:1978/2008” [Pan Guang, Ricerche ebraiche in Cina: uno sguardo retrospettivo sul trentennio 1978-2008], Shanghai, Ed. Accademia di scienze sociali, 2008 (CJSS Center of Jewish Studies Shanghai, Jewish and Israeli Studies Series, II). 23. Cfr. R. Malek, “Marginal religion” - Remarks on Judaism in the context of the history of Chinese religions, in R.D. Findesein - G.C. Isay - A. Katz-Goer - Y. Pines - L. Yariv-Laor (a cura di), At home in many worlds. Reading, writing and translating from Chinese and Jewish cultures. Essays in honour of Irene Eber, Wiesbaden, Harrassowitz (Veröffentlichungen des Ostasiens-Instituts der Ruhr-Universität Bochum, 56), 2009, pp. 81-101. Sulle minoranze etniche e nazionali in genere in Cina cfr. J.S. Olson, An ethnohistorical dictionary of China, Westport CN, Greenwood Press, 1998; F. Grenot-Wang, La mosaïque des minorités. Chine du Sud, Parigi, Les Indes savantes, 2005. Cfr. anche M. Avrum Ehrlich (a cura di), The Jewish-Chinese nexus. A meeting of civilisations, University of Shandong, 2008. 24. J. Paper, Chinese policies regarding religion and Chinese Judaism, in “Points East” 24, 1 (marzo 2009), pp. 1. 6-8. 25. V. nota 19. 26. R.E. Allison, Six arguments for the primacy of the prescriptive formulation of the Golden Rule in the Jewish and Chinese Confucian ethical traditions, in P. Kupfer (a cura di), Youtai - Presence and perception of Jews and Judaism in China, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2008, pp. 289-307.
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale This article aims at sorting, classifying and commenting the studies that have been done over the last hundred years by Chinese and foreign scholars on the Tu/Mongour ethnic group, in order to provide readily available materials and a clear review for future research on the topic. The academic studies on the Tu/ Mongour have achieved major advances in the last few years but have raised a series of issues that need further attention. For example, due to the lack of documental evidence, written records and archaeological finds, up to now a great debate still exists in the academic community about Tu/Mongour’s ethnic origin. The essay focuses on the problem of cultural heritage, the protection of ethnic culture and other related issues, such as sustainable development in areas inhabited by ethnic minorities and how to create better conditions for a comfortable level of living standard. Qi Jinyu
Dottore in Antropologia è professore associato presso l’Istituto di Etnologia e Sociologia della Minzu University di Pechino
I
Tu hanno vissuto per generazioni nella parte nord-orientale dell’altopiano del Qinghai-Tibet, ai piedi del monte Qilian, nella parte sud-orientale e nel bacino del fiume Giallo, del fiume Huangshui, del fiume Datong e del fiume Tao. I Tu sono una piccola minoranza etnica della Cina: secondo le statistiche nel 1980 contavano una popolazione di 130.000 unità, nel 1990 in tutto il paese vi erano 192.568 Tu. Lingua e distribuzione della popolazione Tu I Tu vivono principalmente nella provincia del Qinghai e sono una delle cinque minoranze etniche autoctone del Qinghai. Nel Qinghai vivono in tutto 163.600 Tu, che costituiscono l’85,4% dell’intera popolazione Tu e il 3,65% della popolazione del Qinghai. I Tu del Qinghai sono divisi soprattutto fra la contea autonoma Tu di Huzhu, la contea autonoma Hui e Tu di Datong, la contea autonoma Hui e Tu di Minhe, la contea di Tongren e la contea di Letu nella prefettura autonoma tibetana di Huangnan; il resto vive sparso nelle altre zone della provincia1. I Tu vivono anche nella provincia del Gansu, con
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 145 una popolazione totale di 21.239 persone, divise principalmente fra la contea autonoma tibetana di Tianzhu, la contea autonoma Sunan Yugur, la contea di Yongdeng nella città di Lanzhou, la contea autonoma Jishishan Bonan, Dongxiang e Salar nella prefettura autonoma di Linxia Hui, la contea di Zhuoni nella prefettura autonoma tibetana di Gannan, di cui l’80% vive nelle contee di Tianzhu e Yongdeng, tra i fiumi Datong e Zhuanglang. Secondo una statistica del 2000 la popolazione Tu ha già raggiunto 241.198 persone di cui il 9,7%, circa 23.298 persone, vivono distribuite e sparse nelle altre province cinesi, al di fuori dalle province del Qinghai e Gansu2. I Tu hanno una loro lingua che appartiene alle lingue uralo-altaiche. La lingua Tu contemporanea si divide in tre grandi dialetti: Huzhu, Minhe e Tongren. Il dialetto Huzhu viene parlato nel Qinghai a Huzhu, Datong, Letu e nel Gansu a Tianzhu; quello Minhe nel Qinghai a Minhe e nel Gansu a Jishishan; la lingua Tu cosiddetta “Wutun” (area di Sizhaizi) che si parla nella contea di Tongren nel Qinghai appartiene al dialetto Tongren. I Tu di Zhuoni nel Gansu, comunemente chiamati “Tu di Shaowa”, che per ragioni storiche sono stati a lungo isolati e circondati dalla cultura tibetana, parlano un dialetto del sottogruppo tibetano appartenente alla famiglia sinotibetana e tibeto-birmana, molto simile al tibetano locale; oltre al tibetano parlano anche il cinese. Anche i Tu che vivono negli altri luoghi parlano sia tibetano che cinese. I Tu storicamente non hanno una tradizione scritta nella loro lingua, generalmente usano il tibetano o il cinese. Nel 1979 è stato creato un sistema di scrittura Tu, mettendo fine all’epoca in cui i Tu non avevano scrittura; oggi la nuova scrittura Tu viene promossa nella zona che utilizza il dialetto Huzhu. Lo scopo di questo lavoro è classificare e analizzare gli studi che sono stati fatti sui Tu negli ultimi cento anni da studiosi cinesi e stranieri, per fornire alla futura ricerca sui Tu una chiara e semplice recensione della letteratura. Storia e cronache locali delle ricerche sui Tu Rilevanza storica delle ricerche sui Tu L’apparizione dei Tu nel panorama storico avviene fra le dinastie Yuan e Ming. In alcune cronache della “Storia degli Yuan”, nei documenti ufficiali delle dinastie Ming e Qing, nelle biografie private e nelle relative cronache locali si trova solo materiale relativo a personaggi famosi di etnia Tu o alla loro situazione sociale. Nei documenti ufficiali quali gli “Annali dei Ming”, “Annali dei Qing”, “Storia dei Ming” e “Storia dei Qing” ecc. si trovano dati su eventi storici e biografie dei Tu. I documenti citati hanno un enorme valore storico per la ricerca sui Tu. In secondo luogo, anche alcune cronache locali hanno un alto valore storico, per esempio gli “Annali Jiajing Hezhou” di Wu Zhenzhuan (epoca Ming), “Cronache della
CULTURA E SOCIETÀ
Reperti, documenti e fonti storiche relative ai Tu in cinese e tibetano
zona di confine di Qin” di Liang Fen, “Nuova cronaca del governo di Xining” e “Continuazione della cronaca del governo di Xining” (compilazione dinastica del regno dell’imperatore Guangxu dei Qing, riveduta durante il periodo della Repubblica di Cina), “Breve storia del Gansu, Ningxia e Qinghai” ecc. Alcune delle cronache locali che contengono dati sui Tu sono: “Cronaca del Qinghai”, “Cronaca locale del Qinghai” e “Enciclopedia dei grandi Qing - Oirat” di Kang Fuzuan, “Cronaca ufficiale di Xunhua” compilata da Gong Jinghan e corretta da Li Benyuan, “Quattro volumi di cronaca delle frontiere occidentali” di Qi Shiyun, “Cronaca della contea di Datong”di Liu Yunxin, “Cronaca di Xining” di Su Xi (epoca Qing), “Cronaca completa di Bonian” di Li Tianxiang e Liang Jingdai (epoca Qing), “Cronaca ufficiale di Taozhou” di Zhang Yandu (epoca Qing), “Storia del buddismo mongolo e tibetano” del monaco Miao Zhou (epoca repubblicana) ecc. Tra questi gli “Annali Jiajing Hezhou”e le “Cronache della zona di confine di Qin” per l’antichità del testo e la particolarità dei dettagli hanno un valore storico molto alto e raro. La “Cronaca di Xunhua” di Gong Jinghan ha un altissimo valore per la ricerca sui Tu “Wutun” di Tongren. Poi vi sono anche alcuni resoconti di viaggio, investigazioni sui costumi locali e genealogie familiari che hanno un valore di riferimento molto alto: “Storia delle famiglie Min e Li” compilata in quattordici anni durante il regno dell’imperatore Shunzhi dei Qing (archivi Cunmin), “Storia completa della famiglia Qi a est del fiume Huang” e “Storia della famiglia Xing” iniziate nei tre anni di regno dell’imperatore Guangxu e continuate nei trenta anni della Repubblica Cinese, “Storia della famiglia Lu” di Ping Fan ecc. Oltre a ciò vi sono alcune iscrizioni dissotterrate e conservate molto bene che per l’alto valore storico hanno attirato l’attenzione degli studiosi. Per esempio la “Stele della via degli spiriti di Liying” del periodo Hongzhi dell’imperatore Ming Xiaozong, l’“Epitaffio di Qi Bingzhong” e il ”Memoriale di Wang Ting” dell’epoca di Ming Wanli conservato nel villaggio di Nianduhu nella contea di Tongren ecc. Tra questi il “Memoriale di Wang Ting” è particolarmente prezioso essendo un documento e monumento storico importantissimo per la storia dei Tu “Wutun” di Tongren. Oltre al materiale e alle fonti storiche in cinese citate sopra, anche tra il materiale storico in lingua tibetana vi sono alcune documentazioni relative ai Tu, per esempio la “Collezione di Buddha” e il “Calendario buddista” di Zhang Jia III, “Storia delle scuole religiose” (1801), “Cronache del Monastero di Tar” e “ Cronache del Monastero Youning” di Tuguan Luosang Queji Nima III, “L’origine della religione” e “Storia del desiderabile albero di gemme” di Songbu III.
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 147 I progressi delle ricerche sui Tu in epoca moderna La ricerca moderna sui Tu inizia alla fine del diciannovesimo secolo. All’inizio si tratta di studi sull’origine etnica e sui dialetti dei Tu fatti da studiosi stranieri. Lo studioso russo G.N. Potanin nel 1885 si recò nella città di Guanting della odierna contea di Minhe per raccogliere testimonianze sui dialetti Tu di Sanchuan, che poi inserì nel secondo volume del suo libro “La zona di confine tra Tangut, Tibet e la Mongolia centrale” (1982). Tra il 1891 e il 1892, l’americano W.W. Rockhiee viaggiò nei territori dei Tu e raccolse materiale sui dialetti. Lo studioso russo S.M. Shirokogorov nel libro “L’organizzazione sociale dei Tungusi” (1924) ha indicato come vi siano molte somiglianze fra Tu e Mancesi, proponendo i Donghu come antenati dei Tu. I belgi A. de Smedt e A. Mostaert ritenevano che i Tu fossero di etnia mongola sulla base di prove linguistiche3. Nel 1906 Filchner e Tafel in una ricerca del Monastero di Tar affermarono che “I Tu sono discendenti dei Tuyuhun e degli Xia occidentali (shat’o Hsi Hsia)”. Il Belga P.L. Schram scrisse un libro intitolato “Il matrimonio dei Tu del Gansu”. Il nome in cinese del sacerdote belga è Kang Guotai. Dal 1911 al 1922 durante il periodo di missione a Xining si interessò ai Tu e oltre al lavoro di missionario si dedicò alla ricerca sul sistema dei Tu. Nel 1932 la Chiesa cattolica di Hujiahui a Shanghai pubblicò “Il matrimonio dei Tu del Gansu”; in seguito pubblicò a Filadelfia negli Stati Uniti l’opera in tre volumi “L’etnia Tu della frontiera del Gansu” che comprendeva “Società, storia e origine dell’etnia Tu” (1954), “Vita religiosa dei Tu” (1957), “La genealogia dei Tu” (1961)4. Il sacerdote svedese Dominik Schroder visse in un’area Tu dal 1946 al 1949 e approfondì gli studi sulla loro religione. La sua ricerca si focalizzò maggiormente sugli individui che sulla comunità e approfondì quanto fatto da Schram. Negli anni Sessanta, lo scritto “Tibeto-Monghia” dello studioso ungherese A. Rova-Tas approfondì l’influenza della lingua e cultura tibetana sui Tu. Lo studioso giapponese Kakudo Masayoshi fece studi sulla lingua dei Tu utilizzando materiale in lingua tedesca, francese, inglese e cinese e la sua prolifica opera comprende testi quali “I dialetti inferiori della lingua Tu (sotto-dialetti)” (1987), “Il suffisso -ngge nella lingua Tu” (1989), “La libera alternanza del dialetto Tu” (1990), “L’ortografia della lingua Tu” (1991), “La diffusione della leggenda del pitone tra le etnie mongole del Gansu e Qinghai” (1990),“La cerimonia matrimoniale dei Tu”, ecc.5 La ricerca cinese sui Tu in epoca moderna e contemporanea è costituita soprattutto dalle inchieste e dai documenti ufficiali degli anni Venti e Trenta nel periodo repubblicano. I documenti ufficiali sono soprattutto quelli conservati negli archivi della provincia del Qinghai, come i registri politici, quelli sulle imposte fondiarie, sul fisco e sulla popolazione. Inoltre negli archivi dell’“Ufficio per la sistemazione del materiale storico moderno” della città di Nanchino sono conservati
CULTURA E SOCIETÀ
Evoluzione del territorio, categorie etniche, religione e cultura, clima e paesaggio
commenti e osservazioni relativi al crollo del sistema dei tusi all’inizio degli anni Trenta6. In questo periodo vi è anche del materiale sulla storia e società dei Tu ottenuto da ricerche sul campo effettuate nella parte nord-occidentale della Cina che, essendo di un periodo più recente, sono più affidabili e fedeli rappresentano un punto di riferimento. Per esempio “Indagine sui costumi sociali e sulle condizioni naturali di Minhe” (1932) contiene informazioni dettagliate su evoluzione del territorio, categorie etniche, matrimonio e religione, clima e paesaggio, usi e costumi, luoghi di interesse e questioni politiche della contea di Minhe. Altri esempi sono la pubblicazione a Minzhenting nel Qinghai di libri quali “Il Qinghai più vicino” (1933), “Studio sul Nord-Ovest. Il Qinghai” di Ma Hetian (1932), “Sondaggio sui Tu della contea di Huzhu” di Meng Xiyuan (1934), “Diario di viaggio nel Qinghai” di Zhuang Xueben (1936) e “Appunti di viaggio a Ninghai” di Zhou Xiwu ecc. Inoltre una serie di materiali pubblicati tra il 1926 e il 1932 quali “Sondaggio su costumi e ambiente nella contea di Huzhu”, “Sondaggio su costumi e ambiente nella contea di Minhe”, “Sondaggio su costumi e natura nella contea di Datong”, “Lineamenti di costumi e natura della contea di Ledu”, “Lineamenti di costumi e natura della contea di Tongren” ecc. contengono molte informazioni sulla società, storia, religione e cultura dei Tu. Origine etnica e differenzazione dei Tu In epoca moderna e contemporanea, oltre agli archivi ufficiali e alle ricerche sociologiche di cui sopra, vi è un ampio dibattito in Cina sull’origine etnica dei Tu; tuttavia i risultati a cui giunge la comunità cinese e quella straniera sono molto differenti. Riguardo all’origine storica dei Tu, vi sono cinque versioni fondamentali: la teoria Tuyuhun, quella dei Tartari Bianchi di Yinshan, dei Mongoli e Horpa, dei Turchi Shatuo e degli Zubu. Il dibattito sull’origine dei Tu avviene anche fra esperti appartenenti a questa stessa etnia. 1. Teoria Tuyuhun. Questa versione è apparsa per la prima volta nel 1929 in un articolo intitolato “Panoramica di tutte le etnie del Qinghai” sulla “Rivista mongolo-tibetana”. Zhang Qiyun dice nell’articolo “Il popolo di Shanchuan nel Qinghai” (1935) che i Tuyuhun “hanno lasciato la loro eredità agli abitanti del Qinghai, diventando uno dei componenti del popolo Tu”. Gli articoli di Chen Jisheng “Storia dei Tu del Gansu e del Qinghai” (1941) e “I Tu del Qinghai come discendenti dei Tuyuhun” (1945) sollevano la questione della discendenza dei Tu dai Tuyuhun da un punto di vista storico e prima di questo anche alcuni studiosi stranieri erano giunti alla conclusione della discendenza dei Tu dai Mongoli e dai Donghu da un punto di vista linguistico. Wei Huilin in “Il matrimonio e il sistema delle parentele dei Tu del Qinghai” (1947) mostra la relazione fra Tu e Tuyuhun
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 149 dal punto di vista del folklore. Nel 1958 un gruppo di ricerca sulla storia e la società delle minoranze etniche del Qinghai prova la relazione fra Tu e Tuyuhun sul piano della cultura e dei costumi. Gu Jiegang in “Esplorazione delle antiche minoranze della Cina occidentale attraverso i libri antichi – la minoranza Qiang” (1980) indica che i Tu si chiamano con vari nomi tra cui Tuhujia, Tuyu, Tuhujituhun, Tuihun e, sulla base di questi nomi, prova le relazioni reciproche tra Tu e Tuyuhun. Alla fine degli anni Settanta Mi Yizhi negli articoli “Studio sull’origine dei Tu” (1981) e “Nuovo studio sull’origine dei Tu” (1982), attraverso la controversa genealogia del tusi Li, analizza e studia le relazioni fra Tu e Tuyuhun e in base ai relativi dati storici fa una verifica sulla teoria Tuyuhun sottolineando che, quando la dinastia Yuan sconfisse gli Xia occidentali, l’elite dei Tuyuhun ricoprì molte cariche locali con l’identità di “Tartari bianchi”, le loro tribù si installarono lungo tutto il bacino Hehuang e ne occuparono il territorio fino alla fine degli Yuan, quando separarono le loro strade da quelle dei Mongoli, cambiarono bandiera e vennero registrati nei libri dell’inizio della dinastia Ming come “Tu della prefettura di Xining”. Anche il “Profilo della contea autonoma Tu di Huzhu” (1983) e il “Profilo della contea autonoma Tu e Hui di Minhe” (1986) della serie “Profilo dei luoghi autonomi delle minoranze etniche in Cina” sposano la teoria Tuyuhun. “Studio sul lignaggio del tusi Dongbofuli dei Tu di Minhe” (1981) di Xing Cunwen, “Horpa e Tu” (1982) di Li Wenshi,“Origine dei Tu” (1983) e “Ragionamenti e metodi per scrivere ‘La Storia dei Tu’” (1997) di Lü Jianfu, “L’origine dei Tu a partire dai loro costumi e letteratura orale” (1983) di Ma Guangxing, “Opinione sull’origine dei costumi funerari dei Tu” (1985) di Qu Qingshan, “I Tu di Shaowa” (1995) di Yang Shihong, “Storia delle relazioni fra etnie nel Qinghai” (2001) di Xie Zuo ecc., tutti questi testi discutono dell’origine dei Tu e Tuyuhun da differenti punti di vista: della stirpe genealogica, degli usi e costumi, delle cerimonie funebri, delle relazioni fra etnie ecc. Anche “Storia dei Tuyuhun” (1985) e “Opinione sulle problematiche relative all’origine dei Tu” (1983) discutono dell’origine storica dei Tuyuhun. L’etnologo Tu Lü Jianfu nel libro “Storia dei Tu” (2003) crede che “i Tu sono discendenti degli antichi Xianbei; nel processo di migrazione durante il periodo delle dinastie Wei e Jin del Nord e del Sud si sono divisi per poi ricompattarsi”. Un dipinto che raffigura vivamente la storia evolutiva dai Tuyuhun ai Tu dal III-IV secolo d.C. fino ai tempi della Repubblica di Cina prova pienamente l’origine comune di Tuyuhun e Tu. 2. Teoria mongola. Considera soprattutto dal punto di vista linguistico la vicinanza fra lingua Tu e lingua mongola, a cui si aggiunge il fatto che i Tu di Huzhu, Datong e altre zone si riferiscono a sé stessi
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I principali indicatori dell’origine mongola dei Tu
chiamandosi “Mongour”, “Mongoli Chagan”, il che fa dedurre che i Tu siano discendenti dei mongoli. Questa teoria è stata formulata per prima dai sacerdoti belgi A. de Smedt e A. Mostaert. Zhang Deshan in “Distribuzione etnica nel Qinghai” (1935) ritiene che: “Le radici dei Tu del Qinghai sono riassumibili all’interno dell’etnia mongola. Numericamente parlando, non sono stati minimamente assimilati dai cinesi ma 30-40.000 persone rappresentano l’1% dell’intera popolazione della provincia. Politicamente parlando non hanno avuto molto potere e il grado di assimilazione ai cinesi Han è stato più profondo rispetto agli altri Mongoli e Tibetani, essendo stato risparmiato solo il potere ereditario dei tusi”. Zhuang Xueben in “Diario di viaggio nel Qinghai” (1936) partendo dall’analisi di caratteristiche linguistiche e fisiche e dalla distribuzione geografica giunge alla conclusione che i Tu sono parte dei Mongoli. Anche Guo Weiping e Zhu Gongliang concordano con la teoria dell’origine mongola. L’“Introduzione storica alle etnie del Nord-Ovest” (1980) di Xue Wenbo, “Nuova teoria sulle origini dei Tu. La lotta storica dei Tu” (1982) di Tao Ke Ta Hu, “Riflessione su una serie di questioni sull’origine dei Tu” (2004) di Li Shenghu sono tre testi che forniscono punti di vista alternativi alla tesi che i Tu discendano dai Tuyuhun incentrata sui caratteri iniziali “Tu” di Tuzi e Tuyuhun e forniscono nove motivi per cui i Tu discenderebbero dai Mongoli. Anche il libro “Storia generale del Qinghai” redatto da Cui Yonghong, Zhang Dezu e Du Changxun sostiene la teoria mongola. Qin Yongzhang in “Storia multietnica del Gansu, Qinghai e Ningxia” (2005) partendo dall’analisi di documenti storici in cinese, la denominazione etnica dei Tu, lingua, materiale storico in tibetano, altro materiale sui Tu e abbigliamento, cibo, religione ecc. crede che i Mongoli che durante la dinastia Yuan entrarono a poco a poco nell’area del Gansu e del Qinghai costituiscono i principali antenati dei Tu di oggi. Li Keyu nei suoi scritti “I Tartari Bianchi e i Mongoli Chagan. L’origine etnica dei Tu” (1982), “Analisi del nome etnico dei Tu” (1985), “L’origine dei Tu/Mongour” (1993), “Collezione di discussioni sugli Horpa” (1998), “Diradare la nebbia sull’origine dei Tu” (2000), “Analisi delle componenti dell’etnia Tu” (2004) analizzando e studiando la loro storia, lingua, denominazione, distribuzione della popolazione, storie e leggende arriva a concordare con la teoria mongola sulla loro origine. 3. Teoria dei Turchi Shatuo. “I Tu del Qinghai” (1933) di Le Tian, “Genealogia dei discendenti di Li Keyong” (1941) di Wei Juxian, “Lignaggio del tusi Li” (1942) di Chen Bingyuan, “Lignaggio dei tusi del Qinghai” (1948) di Tong Xiuqing sono tutti libri che, sulla base dell’albero genealogico del tusi Li, sostengono l’origine dei Tu dai Turchi Shatuo.
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 151 4. Teoria dell’origine molteplice. Ma Hetian in “Studio sul NordOvest, il Qinghai” (1932) sostiene che “tutte le popolazioni sotto la giurisdizione dei tusi erano chiamate popolo Tu. La tradizione vuole che siano discendenti dei Tuyuhun. In realtà la loro lingua, religione, usi e costumi non sono diversi da quelli Han, Hui, Mongoli o Tibetani e durante le dinastie Yuan, Ming e Qing mobilitano le folle ad unirsi a loro, proteggono i confini e lo Stato è una baronia”. Anche Ma Xiyuan in “Sondaggio sui Tu della contea di Huzhu” (1934) e Wu Jun in “Qinghai” (1947) hanno un’opinione simile a quella di Ma Hetian. Zhang Deshan in “Distribuzione etnica nel Qinghai” (1933) crede che “i Tu sono l’integrazione di Mongoli, Shatuo e Tuyuhun”. 5. Chen Yushu nel suo “Il problema dell’origine dei Tu” (1962) crede che Horpa e Huer siano i principali antenati dei Tu, di cui fanno parte gli Unni, i Tuhun, i Khitan, i Mongoli ecc. e fra questi soprattutto gli Unni Pu (cioè di Zubu dell’epoca Liao e Jin) e i Mongoli. Ricerche sul sistema politico, socio-economico e culturale dei Tu I Tu hanno iniziato ad apparire sulla scena storica come entità etnica alla fine della dinastia Yuan e all’inizio di quella Ming; da allora le cronache su di loro sono aumentate progressivamente, quindi analizzeremo il loro sistema politico e socio-economico in ordine cronologico partendo dai Ming, Qing, la Repubblica cinese e la nuova Cina fino ad arrivare ad oggi. Sistema politico Dalla fine degli Yuan fino all’inizio dei Qing la popolazione dei Tu è stata piuttosto numerosa e il territorio da loro abitato vasto. Secondo quanto riportato da Liang Fen in “Cronache della zona di confine di Qin”, “La zona di Xizhuankou è la sede del tusi di Xi occidentale; i Tu che vivono sotto la giurisdizione dei due tusi di Qi orientale e occidentale sono un centinaio di migliaia. Shangchuankou di ‘Minhe’ è la sede del tusi della famiglia Li. I membri dell’elite dei Tu sono una decina di migliaia”. L’area abitata dai Tu di Tongren si chiamava anticamente “Wutun”. Quello che viene comunemente detto “Wutun” in realtà non è un solo villaggio ma sono cinque villaggi distribuiti verso nord lungo le due rive del fiume Longwu, nel territorio della città di Longwu che si trova nella contea di Tongren. Da sud verso nord sulla sponda occidentale del fiume troviamo i villaggi di Nianduhu, Guomari e Gasari (appartenenti al villaggio di Nianduhu); sulla sponda orientale ci sono Wutun (della contea di Longwu) e Baoanxia (della contea di Baoan). Secondo le cronache locali, durante le dinastie Ming e Qing erano chiamati “Situn” (i quattro villaggi) o “Sizhaizi” (i quattro villaggi fortificati); nella “Stele di Wang Tingyi” (ora conservata nel
CULTURA E SOCIETÀ
Le tre giurisdizioni parallele: locale, dei Tusi, dei monasteri
villaggio di Nianduhu) del ventottesimo anno dell’imperatore Wanli dei Ming sono chiamati “i quattro villaggi fortificati di Ji, Wu, Tuo, Li”; nel volume “Cronache di Xunhua” di Gong Jinghan del periodo dell’imperatore Qianlong sono chiamati i “quattro villaggi fortificati di Baoan”. Durante la dinastia Yuan, i Tu occupano la zona a nord del Fiume Giallo che appartiene alla provincia del Gansu. Gli Yuan concedono al capo dei Tu delle cariche pubbliche perché unifichi la sua gente. All’inizio della dinastia Ming iniziano già a formare villaggi, a realizzare colonie militari, a fissare i confini dei loro domini nel territorio di Hehuang. Le guarnigioni nella zona di Hehuang sono sempre state un punto strategico, quello che poi diventerà successivamente nella storia uno dei luoghi di lunghe battaglie tra le dinastie delle pianure centrali e i Qiang, i Tuyuhun, i Tubo, i Tangut, i Gusiluo. I Ming per continuare a governare sui territori del Nord-Ovest, ne fecero un punto focale della loro gestione inviando funzionari itineranti a proteggerli e comandarli. All’inizio dell’epoca Ming, i presidi delle guarnigioni erano un sistema di controllo che integrava amministrazione e esercito. Il sistema di governo dei Ming su quella che oggi è la zona di Hehuang era basato sull’invio di funzionari governativi e principi feudali. Nel settimo anno dell’imperatore Hongwu i Ming, per creare una rete con tutti i gruppi etnici al fine di proteggere i propri territori contrastando insieme gli Yuan e per gestire la nobiltà mongola che a nord metteva continuamente a repentaglio la propria sicurezza, non poterono far altro che avviare una politica di pacificazione con i capi delle minoranze etniche del Nord-Ovest. A quel tempo si poteva comandare un territorio solo concedendo parte del proprio potere ad altri. Proprio in una circostanza del genere si creò la situazione politica per cui i Ming all’inizio della loro dinastia fondarono molti avamposti di frontiera affidandone la guida a molti tusi7. All’inizio della dinastia Qing, questi tusi si avvicinarono anche ai Qing che confermarono le loro cariche. Nei territori dei Tu vi sono tre giurisdizioni parallele: la giurisdizione locale amministrata da funzionari itineranti; la giurisdizione dei tusi (i sedici tusi di Xining sono nell’area dei Tu) e infine la giurisdizione del sistema teocratico dei monasteri. A riguardo vi sono cronache storiche come “Cronache della zona di confine di Qin”, “Nuova cronaca del governo di Xining”, “Continuazione della cronaca del governo di Xining”, “Cronaca di Xunhua”, “Genealogia della famiglia Huang Dong Qi”, “Genealogia della famiglia Li di Minhe nel Qinghai” ecc. Riguardo al sistema politico dei primi Tu, le ricerche si focalizzano sul sistema feudale, le sedi, le aree amministrative, le genealogie come “I Tu del Qinghai” (1934) di Li Xiaosu, “Genealogia dei discendenti di Li Keyong” (1941) di Wei Juxian, “Lignaggio dei tusi Li” (1942)
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 153 di Chen Bingyuan, “Lignaggio dei tusi del Qinghai” (1948) di Tong Xiuqing ecc. Nel periodo della Nuova Cina (1949-1966), al fine di diffondere i principi e le politiche comuniste alle numerose minoranze etniche, unire i ceti alti delle minoranze, accompagnare il processo di democrazia etnica, acquisire esperienza e capire le esigenze delle minoranze, il Governo centrale del Popolo dal 1950 al 1952 invia quattro delegazioni per visitare tutte le minoranze etniche del paese, a cui partecipano anche alcuni studiosi di origine etnica come Fei Xiaotong, Cen Jiawu, Shi Lianzhu e altri. In questo periodo i due lavori più importanti da svolgere sono l’identificazione e l’indagine storico-sociologica delle minoranze. Sulla base di un vasto lavoro di ricerca Chen Yongling nel suo “Evoluzione politica dei Tu del Qinghai” (1955) elabora e spiega il sistema dei tusi, il sistema dei monasteri e le relazioni con le dinastie cinesi. Altri testi sono: “Breve storia dei Tu”e “Riassunto della storia del Qinghai” (dal 1959 al 1961), “Il sistema dei tusi del Qinghai” (1980) e “Introduzione alla storia etnica del Qinghai” (1987) di Mi Yizhi, “Studio sul lignaggio del tusi Dongbofuli dei Tu di Minhe” (1981), “Storia dei Tu” (1982) e “Indagine storico-sociologica sui Tu del Qinghai” (1985) di Xing Cunwen, “I tusi del Qinghai e del Gansu” (1983) di Zhang Lingxuan, “Tracciabilità dei Tu del Gansu e Qinghai” (1983) e “Genealogia dei Tu di Amdo” (1988) di Wang Jiguang, “Il sistema dei Tu” (1985) di Han Yingmei, “Funzione storica dei tusi nei territori Tu delle dinastie Ming e Qing” (1985) di Qin Yong, “Prefettura autonoma Tu di Huzhu” (1983) e “Prefettura autonoma Tu e Hui di Minhe” (1986), “Motivi della lunga esistenza del sistema dei tusi” (1992) e “Attività militari dei tusi in epoca Ming e Qing” (1995) di Qin Yongzhang, “Gli antichi Tu (prima raccolta)” (1995) dell’Ufficio etnico-religioso della contea di Huzhu, “Il sistema dei tusi del Nord-Ovest” (1999) di Gao Shirong, “Influenza del sistema dei tusi del Qinghai” (2004) di Dan Feifei, “Analisi dei cambiamenti negli usi e costumi dei Tu. L’esempio di Dazhuang a Huzhu” (2005) di E. Chongrong ecc. Gli studi elencati sopra in una certa misura ampliano la prospettiva di ricerca rendendola più approfondita e dettagliata fino a fornire in alcuni casi punti di vista illuminanti. Sistema socio-economico La ricerca sul sistema socio-economico dei Tu inizia ad essere avviata dopo la costituzione della Nuova Cina. Prima la ricerca si era focalizzata principalmente sul sistema politico e sulle origini mentre la ricerca socio-economica era debole e in ritardo. Song Shuhua e Wang Liangzhi insieme scrissero il libro “La vita economica dei Tu del Qinghai” (1955)8 che rappresenta la prima trattazione completa che descrive in maniera dettagliata l’agricoltura, l’artigianato, il commercio, le produzioni, le relazioni fra proprietari terrieri e fattori, la
CULTURA E SOCIETÀ vita del popolo delle contee di Minhe e Huzh. Anche altri scritti contengono dati relativi alla situazione socio-economica e produttiva, quali: “Breve cronaca storica dei Tu” (1963), “Breve storia dei Tu”, “La prefettura autonoma Tu di Huzhu”, “La prefettura autonoma Tu e Hui di Minhe”, “Rapporto sui Tu di Tongren” (1983) di Mi Yizhi, “Lo sviluppo economico dei Tu in epoca Ming e Qing” (1989) di Qin Yongzhang, “Studio globale sulle strategie di sviluppo economico ed etnico della prefettura autonoma Tu di Huzhu” (1992) di Di Songtian e Hu Xianlai, “Indagine sulla zona pilota di rivoluzione economica ed etnica di Minhe” (1992) di Zhu Gongjia e Lü Junwei, “La vita economica rurale dei Tu di Huzhu” (1994) di Xi Yuanlin, “Le preoccupazioni delle aree dei Tu. I racconti delle persone che vengono dai villaggi di Huzhu e Datong” (1994) di Wu Chengyi, “Sviluppo dell’economia di mercato e cambiamento del concetto di prodotto nel villaggio Tu di Sanchuan a Minhe” (1996) di Lü Jianzhong, “Interazione economica” (2004) di Ma Shouping.
Dall’antico sciamanesimo al buddismo tibetano: credenze e tradizioni
Religione, cultura e costumi dei Tu Una volta nei territori Tu si credeva allo sciamanesimo e ancora oggi nella zona di Huzhu è diffusa a livello popolare un’attività di stregoneria chiamata biang biang che è un residuo dell’antico sciamanesimo. Le credenze popolari dei Tu sono molteplici, e in alcuni casi misteriose, come il buddismo, il taoismo, lo sciamanesimo, il bön ecc. In seguito quando il buddismo tibetano iniziò a diffondersi nel bacino dello Hehuang, il popolo dei Tu si convertì in massa al buddismo tibetano dei Gelugpa (lamaismo), chiamati anche “Berretti gialli”. 1. Religione. Prima della costituzione della Nuova Cina, i dati storici sulla religione dei Tu erano presenti sia nelle fonti storiche che nelle cronache locali. Per esempio “Scritti su Buddha”, “Tavola storica annuale del buddismo” di Zhang Jia III, “Storia delle sette buddiste” (1801) di Tuguan Luosang Queji Nima III, “Cronache del Monastero di Tar”, “Cronache del Monastero di Youning”, “L’origine del buddhismo” di Songbu III, “Storia del desiderabile albero di gemme”, “Cronaca del Qinghai” di Kang Fuzuan (Qing), “Cronaca locale del Qinghai”, “Nuova cronaca di Xining”, “Continuazione della cronaca di Xining”, con una introduzione al numero di monaci di tutti i monasteri distribuiti nelle varie contee. Il secondo volume dell’opera in tre volumi “I Mongour della frontiera del Gansu” del sacerdote belga Schram, dal titolo “La vita religiosa dei Tu” (1957), si può dire che sia l’inizio della ricerca sulla religione dei Tu in età moderna. Oltre a questo anche altri testi analizzano da vari punti di vista le credenze popolari, la religione, il buddismo, i nomi dei monaci e dei monasteri dei Tu: Han Rulin “Il Monastero di Youning e i suoi monaci” (1943), Gruppo di ricer-
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 155 ca dell’Istituto Etnico Centrale “Il Monastero di Youning” (1954) e “Le credenze popolari dei Tu del Qinghai” (1955), Xi Yuanlin “I Tu e il Monastero di Youning” (1984), Lu Jianfu “Lo sciamanesimo dei Tu” (1985), Peng Shulin “La luce del Buddha e la cultura dei Tu” (1990), Fang Jianchang “La tigre bianca nei territori Tu” (1990), Qin Yongzhang “Discussione sul sistema Ang Suo” (1993) e “Governo teocratico nei territori Tu di Huzhu” (1994), Kang Jingfu “Diffusione e sviluppo del buddismo tibetano tra i Tu e gli Yugu” (1996), Fan Yumei “Credenze religiose dei Tu” (1997), Li Zhonglin e Li Min “Buddismo tibetano e costumi religiosi dei Tu” (1998), Li Wei “Elementi sciamanici contenuti nei miti dei Tu” (2000), Xu Changju “Il culto del sole fra i Tu” (2004), Yang Wei e Yang De “Il culto Tu di Shenjian”. 2. Il matrimonio e le usanze funebri. Il testo “Il matrimonio dei Tu del Gansu” (1932) del sacerdote belga Schram è il più esauriente fra i primi testi di antropologia. Altri testi: Wei Huilin “Il matrimonio e il sistema delle parentele dei Tu del Qinghai” (1946), Yang Kun “Il matrimonio dei Tu del Gansu” (1943), Ye Fuyun “Endogamia dei Tu ed effetto genetico sui discendenti” (1995), Zhang Chengzhi “Gli usi matrimoniali dei Tu e il loro impatto sociale” (2000), He Feng “Studio sulle usanze funebri dei Tu” (1997), He Jifang “Sistema matrimoniale dei Tu di Minhe”, Fei Xiaotong “Prefazione alla traduzione di ‘Il matrimonio dei Tu del Gansu’” (2002), Lu Xia “Le parole ‘pianto’ e ‘insulto’ nei canti e danze matrimoniali. Costumi matrimoniali dei Tu” (2003), Guo Dehui “Il matrimonio e i canti nuziali dei Tu” (2004), Xu Xiufu “La cerimonia matrimoniale dei Tu di Sanchuan” (2004), Qi Guifang “Implicazioni culturali dei costumi matrimoniali dei Tu di Datong” (2005) ecc. Tutti questi testi approfondiscono i significati simbolici delle cerimonie. 3. Lingua e scrittura. La ricerca sulla lingua dei Tu inizia negli anni Venti con il primo studio completo redatto dai due sacerdoti belgi A. de Smedt e A. Mostaert; dal 1929 al 1945 hanno pubblicato “Fonetica”, “Dizionario della lingua Tu”, “Grammatica” che confermano l’appartenenza della lingua Tu alla famiglia uralo-altaica a partire dalla fonetica, dal lessico e dalla grammatica. Stesso risultato anche secondo “La lingua dei Tu” (1964) e “Linguaggio Tu” (1981) dello studioso Junast. Negli anni Sessanta e Settanta due studiosi sovietici proseguirono lo studio sulla lingua Tu fatto negli anni Cinquanta in Cina, pubblicando a Mosca “La lingua Mongour”. Negli anni Ottanta la ricerca diventa sempre più approfondita con la pubblicazione dei seguenti testi: Junast “Lingua e dialetti Tu”, Qing Geertai “Materiale narrativo dei Tu”, Sun Zhu “Dizionario della lingua Tu/Mongour”, Hasibateer “ Lessico Tu”, “Lessico Tu-Cinese” a cura della contea di Huzhu, Li Keyu “Dizionario Tu-Cinese” (1999). Inoltre vengono
CULTURA E SOCIETÀ pubblicati molti articoli, come Chen Naixiong “La lingua Wutun”, Li Jinglin “Discussione sulla lingua dei Tu” (1992), Xi Yuanlin “Lingua Wutun di Tongren” e “La lingua Tu di Tongren. Indagine sulla lingua di Nianduhu” (1993), Yang Shihong “La lingua dei Tu Shaowa”, Hua Kan “Prestiti tibetani nella lingua Tu” (1994), Jia Xiru “Somiglianze e differenze nella psicologia culturale dei Tu e dei Mongoli partendo da un confronto linguistico” (1998), Jian Zandao “Affinità fra la parlata di Tianshu e la lingua Tu” (1999). Oltre a ciò il processo di creazione della scrittura Tu è andato di pari passo con il cambiamento e lo sviluppo della Nuova Cina. Negli Lingua, scrittura, storia anni Cinquanta sulla base di un sondaggio è stata rilasciata una bozza sociologica, cultura del “Piano per la scrittura Tu”. Nel dicembre del 1986 l’Ufficio genee arte rale del governo del Qinghai ha diffuso un documento presentato dal governo della contea di Huzhu dal titolo “Resoconto del primo simposio sulla scrittura Tu della contea autonoma di Huzhu” [86] n. 234, il primo documento pilota di prova della scrittura Tu. Nel dicembre 1987 si è tenuto a Pechino un Convegno sulla scrittura Tu. 4. Letteratura. Nel Qinghai sono stati pubblicati: “Letteratura popolare etnica del Qinghai” (1963), “Li Youlou “Storie popolari dei Tu” (1985) e “Guran Nasibule. Le poesie narrative mitologiche dei Tu” (1993), Cai Xilin “Letteratura popolare dei Tu” (1990), Ma Guangxing “La letteratura dei Tu” (1992), Xi Yuanlin “Racconti popolari dei Tu e dei Salar” (1992), “Ricerca sui Tu” (1994-1995), la traduzione di Li Keyu “Gesar dei Tu” (1994)9. 5. Storia sociologica. Song Tingsheng “La stele di Wang Tingyi come fonte testuale dell’origine dei Tu di Tongren” (1983), Mi Yizhi “Rapporto sui Tu di Tongren. La storia dei quattro villaggi fortificati (Wutun)” (1983), Hu Jun “Studi sui Tu visti negli Stati Uniti” (1992), Tie Jinyuan “La burocrazia del tusi di Qi occidentale e la sua eredità culturale” (1999), Liu Chengming “Analisi della situazione demografica dei Tu” (1999), Xing Cunwen “Rapporto sul tusi di Xing” (2002), Li Zhanzhong “La regina dei Tuyuhun. Il rompicapo della tomba della principessa Honghua” (2003), Cheng Qijun “Studio su quanto sepolto sotto il regno dei Tuyuhun. Chiarimenti sull’appartenenza culturale delle tombe di Dulangu” (2003). 6. Cultura e arte. Qin Yongzhang “La festa ‘Nadun’ dei Tu di Minhe” (1991), “La danza ‘Wutu’ dei Tu di Tongren” (2000), Ma Zhanshan “La musica dei Tu” (1993), Zhao Weifeng “Caratteristiche musicali e tipi di canti popolari dei Tu” (1994), Dong Siyuan e Zhang Qiyuan “Canti tradizionali dei Tu” (1994), Lu Xia “Qualità estetiche della letteratura popolare dei Tu” (1994), Xing Quancheng “Epica Gesar dei Tu” (1999), Hu Fang “Classificazione e significato dei miti dei Tu”
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 157 (1999), Wang Guoming “La particolarità delle espressioni linguistiche di Gesar” (2003), Gao Bingzhong “I Tu che vivono nello spazio culturale” (2002), “Vedere il processo di ricostruzione culturale dei Tu attraverso illustrazioni” (2003), Dong Siyuan “Piatti ricamati. L’arte del ricamo dei Tu” (2003), Xie Dechun “Laibao: la danza Nuo dei Tu di Sanchuan” (2003), Ma Guangzing “La cultura Tu” (1994), Sanjirenqian “La rana d’oro e i primi totem. L’antica cultura dei Tu” (2004), Cai Xiuqing “Il valore folklorico delle ballate dei Tu” (2004), Cao Yali “Tutela e sviluppo dell’arte e della cultura dei Tu del Qinghai” (2004), Xing Haiyan “Le caratteristiche e le funzioni della cultura popolare dei Tu viste attraverso i suoi canti cerimoniali” (2005). Studi sui Tu Attraverso la revisione e un dettagliato riordino delle ricerche sui Tu degli ultimi cento anni si scopre che vi sono dei punti di vista comuni fra gli studiosi. Naturalmente negli ultimi anni anche le ricerche hanno mostrato mano a mano nuove tendenze e caratteristiche: si è passati da una ricerca uniforme a una ricerca molteplice e multidirezionale; il contenuto delle ricerche si arricchisce rispetto ai temi monotoni del passato; la diversità e l’integrazione dei metodi di ricerca e delle teorie; multidimensionalità, diversità e molteplicità dei campi di ricerca; gruppi di ricerca multidisciplinari attingono a una pluralità di fonti; l’orientamento della ricerca interdisciplinare mostra una tendenza a spostarsi dal centro verso le periferie. 1. Le aree e i temi di ricerca hanno mostrato una tendenza a svilupparsi da un carattere monotono e uniforme a uno molteplice e multidirezionale negli ultimi cento anni di letteratura di ricerca sui Tu. Agli inizi le ricerche del russo Potanin, di S. M. Shirokogorov e dei belgi A. de Stedt, A. Mostaert, Schram si concentravano sulla storia, la famiglia, la società, le relazioni genealogiche. Arrivati al ventesimo secolo, il sacerdote svedese Dominik Schroder dal 1946 al 1949 fa ricerche sulla religione dei Tu, privilegiando un punto di vista individuale e non collettivo, approfondendo ulteriormente il lavoro di Schram. Nel 1960 il saggio “Tibeto-Monghia” dello studioso ungherese A. Rova-Tas approfondisce l’influenza della lingua e cultura tibetana sui Tu. Le ricerche degli studiosi stranieri degli inizi si concentravano di più sulla lingua, famiglia, matrimonio, storia e religione. Quelle degli studiosi cinesi di più sull’origine storica, religione, matrimonio, lingua e sistema politico. Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese molti etnologi, sociologi, linguisti e storici raccolgono una vasta messe di dati attraverso numerose inchieste su larga scala effettuate sulla storia e la società delle minoranze etniche. Dagli anni Ottanta la ricerca sui Tu ha vissuto una fase di completa rivitalizzazione. Dal 2004 le aree di ricerca si sono ampliate e sviluppate in nuove direzioni come la mitologia, le leggende,
CULTURA E SOCIETÀ la storia orale, le arti e i mestieri (il ricamo, l’arte Regong come i dipinti Tangka, l’argilla e il legno), l’economia e lo sviluppo della comunità.
Le nuove direzioni degli studi e della ricerca sulla popolazione Tu
2. Diversità e integrazione dei metodi di ricerca e delle teorie. Nella ricerca degli ultimi cento anni sui Tu si vede una tendenza alla molteplicità e alla integrazione dei metodi e delle teorie di ricerca. Si nota un miglioramento e arricchimento delle teorie e un aggiornamento e nuove applicazioni integrate dei metodi di ricerca. Le prime ricerche avevano enfatizzato troppo lo studio storico e l’indagine linguistica, le teorie erano limitate a un’area troppo ristretta. Dagli anni Ottanta il mondo accademico ha iniziato ad allargare i confini teorici e ne sono un esempio il relativismo culturale, la teoria della comunicazione, la teoria dell’identità moderna, la teoria del ruolo, lo strutturalismo ecc. Appaiono usi combinati di metodi di ricerca multidisciplinari, come la ricerca integrata interdisciplinare, i gruppi di ricerca collaborativa ecc. Metodi di ricerca qualitativa e quantitativa come la statistica e l’analisi di regressione vengono utilizzati nello studio della popolazione Tu e della sua distribuzione, della struttura sociale e dei cambiamenti culturali. Vi è una evoluzione dalla concentrazione sulla ricerca dei materiali storici all’ermeneutica, allo studio sul campo, alla combinazione di elementi dinamici e statici ecc. 3. Multidimensionalità, diversità e molteplicità dei campi di ricerca. La ricerca mostra anche nuovi elementi di multidimensionalità, molteplicità e diversità. Da una ricerca che in passato poneva enfasi solo sulla storia, cultura, religione, famiglia, ora inizia ad esserci una consapevole attenzione all’arte, economia, usi e costumi, educazione e società, ecoturismo, studi sulle donne ecc. Seguendo il graduale ampliamento dei campi di ricerca, anche l’attenzione degli studiosi e l’oggetto delle ricerche si aprono a un approccio vario e multidimensionale. 4. Gruppi di ricerca multidisciplinari che attingono a una pluralità di fonti. Anche i gruppi di ricerca accademica sono in continua crescita ed espansione. La ricerca iniziale era opera soprattutto di studiosi stranieri e intellettuali cinesi, quali Gu Jiegang, Chen Huilin, Chen Jisheng, Ma Xiyuan ecc. Ma a partire dagli anni Novanta la principale novità è costituita dal fatto che la ricerca viene portata avanti soprattutto da intellettuali della stessa etnia Tu. La partecipazione attiva degli intellettuali dell’etnia in una certa misura riflette l’improvvisa crescita della coscienza e di sentimenti etnici, mentre la ricerca accademica riflette come si integrino i concetti antropologici di “visione di sé” e “visione dell’altro” in una ricerca etnica ed etica. Altra caratteristica evidente è l’evoluzione verso un approccio multidisciplinare.
Mongour Tu: storia della società e indagine culturale / 159 5. L’orientamento della ricerca interdisciplinare è quello di spostarsi dal centro verso la periferia. Negli ultimi venti anni i temi della ricerca e i campi di studio hanno mostrato una tendenza ad andare dal centro verso l’esterno. Dall’iniziale attenzione verso la storia, la religione, la società e la politica etnica, gradualmente il centro di attenzione si è spostato prendendo in considerazione la cultura popolare e i sentimenti di massa, ovvero la cultura cosiddetta di base ha iniziato a suscitare sempre più interesse. Le ricerche si focalizzano sempre di più su temi inerenti la vita quotidiana delle persone comuni e i gruppi più vulnerabili della comunità, come la riduzione della povertà nelle campagne dei Tu, il sistema di supporto alla scuola dell’obbligo, la reale situazione religiosa, l’abbandono della scuola da parte di donne e bambini, la protezione e trasmissione del patrimonio culturale popolare. ■
NOTE 1. Censimento demografico del Qinghai nel 1990 [Z] (Primo volume), Edizioni Statistiche Cinesi, 1992. 2. Dati del censimento demografico del 2000 effettuato dall’Ufficio Nazionale di Statistica Cinese. 3. I sacerdoti belgi A. de Smedt e A. Mostaert negli anni Venti fecero una ricerca nei territori di Shatangchuan a Huzhu, dal titolo La lingua mongola e il dialetto Mongour del Gansu occidentale [M] diviso in tre parti: - “Fonetica” [M] ([J ] 1929, (24); 1930, (25); 1931, (26) ), - “Grammatica” [M] (stampato a Pechino nel 1945), - “Dizionario” [Z] (pubblicato nel 1933 dalla Università Fu Jen di Pechino). 4. Padre Schram (belga), traduzione di Fei Xiaotong e Wang Tonghui, Il matrimonio dei Tu del Gansu [M], Liaoning, Edizioni Educazione del Liaoning, 1998, 12. 5. Kakudo Masayoshi in Giappone ha pubblicato: Saggi dell’Università di Lingue di Osaka [C], Rivista dell’Università di Lingue di Osaka [J], Il Giappone e la Mongolia [C], Vento del nord [J] ecc. 6. Mi Yizhi, Introduzione alla storia etnica del Qinghai, Xining, Edizioni del Popolo del Qinghai, 1987, 108. 7. Gao Shirong, Studio sul sistema dei tusi del Nord-Ovest [M], Edizioni Etniche, Pechino, 1999. 8. Bollettino di studi etnici cinesi [J], 1955, (3). 9. Gesar dei Tu [M], traduzione di Li Keyu, studioso di etnia Tu, del libro di poesie Gesar Akelong [M] sull’eroe popolare dei Tu raccolte negli anni Quaranta dal tedesco Schlode a Huzhu, pubblicato nel 1994 da Edizioni del Popolo del Qinghai.
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan Zhang Xi
Prof. Zhang Xi deals with the “Derge culture”, the Centro di ricerca sulle minoranze complex cultural heritage based on the livelihood of etniche cinesi, Istituto di etnologia traditional farming, and which consists of Tibetan e sociologia, Istituto di Antropologia della Minzu University di Pechino medication, Tibetan woodblock printing art, traditional Tibetan plays, and Tanka production. The natural environment across both sides of the Jinsha River does not allow the expansion of farming of livestock and agriculture. Analogous limitations concern the expansion of industry as well, except for some craft industry. Therefore it seems quite reasonable to support tourism for local economic development. At the same time the author stresses the importance of preserving and developing the Derge culture, using “active” methods. The first goal should be restoring the traditional streets and buildings, and further developing, as well as preserving, the traditional industry. One should also enhance the interactions and cooperation between local districts. Simple and “inactive” exhibitions are not enough to show the magnificent and delicate Derge culture. Thus, beside the support from the administration, the contribution of the Tibetan peoples’ perspectives is necessary.
L
a contea di Dege fa parte della prefettura autonoma di Ganzi che si trova nella parte nord-occidentale della provincia del Sichuan, situata tra la catena montuosa a sud dell’altopiano Qinghai-Tibet e il fiume Jinsha. La contea di Dege confina a est con la contea di Ganzi (Garze), a ovest con la contea di Jiangda (vJang mdav) della Provincia Autonoma del Tibet, a sud con la contea di Baiyu (dPal yul) e a nord con la contea di Shiqu (Ser shul). L’ambiente naturale di quest’area geografica è imponente e spettacolare: oltre a praterie, montagne innevate e foreste ci sono anche splendidi laghi. Nel territorio di Dege il punto più elevato sul livello del mare è il monte Queer (Khro la), alto 6168 metri, mentre il punto più basso si trova a 2980 metri di altitudine. Le attività produttive più importanti sono l’allevamento di animali e l’agricoltura su piccola scala, ma entrambe sono rimaste a livello di settore produttivo primario, non essendo mai
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 161 riuscite ad evolversi in un’industria di trasformazione. Se si esclude l’industria elettrica e l’artigianato, sul territorio non vi sono altre attività industriali, di conseguenza le entrate fiscali della contea sono basse. All’inizio degli anni Ottanta era una delle contee più povere del Sichuan; nel 2009 le entrate fiscali ammontavano ancora a soli 316 milioni di yuan. La posizione geografica di Dege all’interno della Cina
“Derge”, “Dege” e “cultura Derge” Dege in inglese si trascrive Derge, secondo la pronuncia tibetana. Invece le prime apparizioni di Dege in caratteri cinesi sono comunemente fatte risalire alla dinastia Yuan. All’inizio della dinastia, Yuan Phagpa (Phagspa), capo spirituale della prima generazione della setta buddista Sakya (Saskya pa), passando per Dege, selezionò Gatön Sonam Rinchen (bSod nams rin chen) della ventinovesima generazione della famiglia Dege e lo nominò “Dottore dalle quattro virtù e dai dieci elementi”. Le “quattro virtù” (De) sono: legge, prosperità, passione e risolutezza; i “dieci elementi” (Ge) sono: l’erba, la terra, la pietra, l’acqua e il legno, che, in linea con le differenze di classe sociale presenti all’interno della società tibetana, vengono divisi in due parti, una superiore e una inferiore, costituendo in tutto dieci elementi. Quindi Dege rappresenta l’abbreviazione dell’appellativo riferito a Gatön Sonam Rinchen, “Dottore Yuan dalle quattro virtù e dieci elementi”. In seguito, in quella che è oggi l’area tibetana della contea di Jiangda nella zona di Changdu (Chamdo) sulla sponda occidentale del fiume Jinsha, Rinchen fondò il primo nucleo del potere politico della famiglia Dege, il “Governo di Sama”, che ottenne il riconoscimento dalla dinastia Yuan come “Miriarchia militare e civile di Yisima’ergan”.
CULTURA E SOCIETÀ Da allora, da abbreviazione dell’appellativo di Gatön Sonam Rinchen “Dege” è passato ad indicare il nome dei territori sotto la giurisdizione del governo di Sama, confinati alla sponda occidentale del fiume Jinsha. La posizione geografica di Dege all’interno della provincia del Sichuan
Nel periodo antecedente il XV secolo, il trentaquattresimo discendente della famiglia Dege, Sonam Zangpo (bSod nams bzang po) della zona di Deqin trasferì la residenza verso nord; in seguito il suo secondo figlio Tashi Sengge (bKra shis seng ge) recuperò la zona del bacino centrale del fiume Sequ (gSer chu), oggi un territorio di circa 40 kmq nell’area di Dege, e vi si trasferì di nuovo; la famiglia Dege iniziò ad avere influenza politica anche in questo territorio. In seguito, quella che oggi è la contea di Dege divenne il centro politico della famiglia Dege. All’inizio della dinastia Qing l’influenza della famiglia Dege si espanse ulteriormente e la zona su cui esercitava la sua giurisdizione si allargò fino a 100.000 kmq. Jampa Puntsog (Byams pa phun tshogs) della settima generazione dei capi locali (detti tusi) ottenne la carica ereditaria di “capo spirituale” dal governo della dinastia Qing e istituì un governo “politico e religioso insieme”. In quest’epoca il territorio sotto la giurisdizione del tusi di Dege includeva Shiqu, Dege, Baiyu, Tongpu, Jiangda e Dengke (lasciata alla fine dei Qing) e ne faceva il sovrano della zona più grande ad est dell’altopiano Qinghai-Tibet. All’inizio della dinastia Qing, Dege si trova sui libri di storia scritto in caratteri cinesi come Die’ergai, De’ergetui e De’ergete; alla fine della dinastia Qing si suppone che lo “Stato della cultura Derge” ammini-
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 163 strasse l’area di Shiqu, Dege, Baiyu, Tongpu e Jiangda. I due caratteri che compongono l’espressione “cultura Derge” in cinese hanno un forte connotato etnocentrico dell’etnia cinese Han, in quanto il loro significato rimanda alla redenzione dei tibetani attraverso la virtù, ovvero a quella che può essere definita la naturalizzazione dei tibetani. Dopo la fine della dinastia Qing, il governo di Beiyang nei primi anni della Repubblica Cinese per la prima volta utilizzò i caratteri “Dege”; allo stesso tempo Dege era diventata una contea e il termine Dege indicava una zona geografica più piccola rispetto a quella che indicava Derge nella lingua tibetana. Da ciò si può vedere come la parola Dege in caratteri cinesi all’inizio indichi solo il titolo di Gatön Sonam Rinchen mentre giunti ai primordi della Repubblica Cinese diventa il nome di una contea iniziando ad indicare una regione amministrativa. Tuttavia in tibetano “Derge” da un lato indicava la storia politica della famiglia Dege, dall’altro rappresentava anche i territori sotto la giurisdizione di tale famiglia. Quindi Derge e Dege non esprimono lo stesso concetto geografico. Perfino oggi i confini geografici di Derge includono Shiqu, Dege, Baiyu e Jiangda e, oltre a quelli che nascono nella contea di Dege, anche i tibetani che nascono nella contea di Shiqu, Baiyu o Jiangda spesso si riferiscono a se stessi come “Derge”. A causa di queste ragioni storiche è necessario fare le dovute distinzioni fra Dege e Derge prima di iniziare la discussione. In questo articolo si utilizza l’espressione “cultura Derge” indicando non l’attuale contea che ha come capoluogo la città di Gengqing (dGon chen) ma un’area territoriale più estesa in cui in un certo ambiente naturale si sono formate tecniche e mezzi di sostentamento comuni a tutti gli abitanti e in cui è stata coltivata una cultura unica che ha stretti legami col territorio. La cultura Derge è formata dalla cultura religiosa e materiale di questo territorio. Da una prospettiva storica, l’area che ha fornito supporto alla costruzione e allo sviluppo della Stamperia di Sutra di Dege (Derge Parkhang) include anche luoghi come Shiqu, Baiyu e Jiangda. Per cui anche dal punto di vista della protezione e preservazione futura è necessario mantenere una stretta relazione con i luoghi citati sopra. Sviluppo di Dege e apertura al turismo negli ultimi anni Da un punto di vista dei mezzi di sostentamento che l’universalità del genere umano ha creato e sviluppato, lo sviluppo dell’area di Dege abbraccia un periodo storico molto lungo. Tuttavia a causa della scarsità di fonti è molto difficile conoscere bene e in dettaglio la situazione del passato. Strettamente parlando, quando in questo articolo si parla di “apertura e sviluppo” non si intende il senso limitato utilizzato oggigiorno, bensì il supporto allo sviluppo di ogni aspetto delle attività per il sostentamento del genere umano e le implicazioni che permettono di migliorare la qualità della vita.
La cultura Derge e il suo contesto territoriale
CULTURA E SOCIETÀ Sviluppo nel periodo dei tusi Lo sviluppo dell’area di Dege è inseparabile dall’esistenza del governo dei tusi. Sebbene la famiglia dei tusi di Dege possa essere fatta risalire all’epoca del regno del Tibet, secondo le cronache storiche cinesi è durante l’epoca Yuan che sale alla ribalta sulla scena politica, come “Governo di Sama” alla fine dei Ming e l’inizio dei Qing la sua zona di influenza diventa più estesa e il suo potere sempre più forte. In seguito ottiene dalla dinastia Qing i privilegi politici legati alla carica ereditaria di capo spirituale. Per un lungo periodo di tempo non diviene oggetto della politica Ming e Qing della “burocratizzazione dei funzionari locali” e il sistema dei tusi rimane in vigore fino al 1959. In questo periodo si possono vedere le prime attività di sviluppo già nella precoce istituzione dei tusi nell’area di Dege, nelle istituzioni politiche e religiose fondate dal Buddha vivente, nei sistemi di amministrazione e nei testi quali “I sedici principi politici” e “I dieci principi religiosi”. È solo grazie a questo iniziale sviluppo che fu possibile fornire una base materiale affinché fiorisse la cultura. In questo periodo anche la medicina fa enormi passi avanti: nel 790 d.C. già vi sono testimonianze di attività mediche in quest’area secondo il classico della medicina tibetana “I quattro tantra medici” (in tibetano: rGyud-bzhi). Inoltre viene terminata la costruzione della Stamperia di Sutra; anche le tecniche di fabbricazione della carta, di incisione e di stampa ricevono notevole impulso. Siccome sia i prodotti in carta e inchiostro che le incisioni su blocchi di legno erano utilizzate per la stampa dei classici religiosi della Stamperia, si creò un sistema organizzativo e di sviluppo complesso e interconnesso. In più la circolazione delle stampe dei testi religiosi fu di fondamentale importanza per la creazione di reti culturali. Sul piano artistico l’opera tibetana originata dalla danza sacra “Cham” (Chamo) iniziò ad arricchire la vita mondana di monaci e laici. Sviluppo negli anni Cinquanta Dopo l’epoca Qing la contea di Dege nell’area di Derge finisce sotto la giurisdizione dell’esercito tibetano fino al 1932 quando ritorna alla regione amministrativa speciale di Xikang riprendendo di nuovo il nome di Dege. Durante l’epoca delle dinastie e il periodo della Repubblica di Cina nella città centrale della contea è istituita un’autorità solo simbolica mentre il tusi ha ancora grande potere; il governo nazionale dunque non esercita alcun potere politico non avendo la gestione diretta dell’area. Nel 1949 il governo nazionale si ritira a Taiwan e viene fondata la nuova Cina socialista. Nell’agosto del 1951, nella maggior parte dell’area del Kham tibetano, eccetto che nella contea di Sertar, viene istituito un nuovo governo popolare. Nel 1955 anche Sertar entra nella giurisdizione del governo popolare e a questo punto tutta la regione del Kham è parte del sistema amministrativo
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 165 della nuova Cina. In questo periodo viene promosso principalmente lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamento. Grazie alla bonifica di nuove terre, all’utilizzo di strumenti agricoli in ferro, alla costruzione di strutture per l’irrigazione, al rilascio di prestiti a basso interesse, al miglioramento della varietà di colture e via dicendo, la produzione alimentare della prefettura di Ganzi aumenta da 56.380 tonnellate nel 1950 a 86.475 tonnellate nel 1955. Inoltre vi è un aumento dell’attività veterinaria nella pastorizia e la creazione di un centro commerciale per favorire gli scambi. Vengono costruite un certo numero di scuole e ospedali. La cosa più sorprendente è la costruzione di strade: nel 1954 viene completata l’“Autostrada Sichuan-Tibet” da Chengdu fino a Lhasa. Questi cambiamenti da un lato aumentano la produttività delle industrie del territorio e migliorano il livello di vita, dall’altro rappresentano una strategia per rafforzare il controllo amministrativo sul territorio da parte del governo centrale. Dopo il 1959 nell’area tibetana viene introdotta la riforma agraria e il potere politico del tusi nell’area di Derge alla fine crolla. Dopo l’abolizione della proprietà privata della terra, ad un gran numero di pastori e contadini vengono assegnati pascoli e terreni agricoli, la produttività aumenta e anche la vita quotidiana migliora sostanzialmente. Negli anni Sessanta con l’istituzione dell’“Ufficio dell’industria forestale del Sichuan occidentale” si avvia per esigenze edilizie un programma di deforestazione su grande scala nelle aree delle minoranze etniche del Sichuan (prefettura autonoma di Liangshan Yi, prefetture tibetane di Qiang Aba e di Ganzi) e ne divengono oggetto anche le foreste della contea di Dege. Tuttavia siccome il progetto di sviluppo delle risorse viene gestito dello Stato centrale, i cittadini delle minoranze etniche che vivono nelle zone forestali non ne traggono nessun beneficio. Al contrario ora è evidente che l’aumento delle calamità naturali causato dalla distruzione dell’ambiente naturale ha minato la stabilità dei benefici a lungo termine che i residenti del luogo si aspettavano. Sviluppo dopo il 1978 Come è noto dopo gli anni Cinquanta i movimenti politici in Cina si susseguono uno dopo l’altro. Sebbene l’impatto sulle aree abitate dalle minoranze etniche sia stato inferiore rispetto ad altre aree, esse non sono comunque state risparmiate. Alla fine della Rivoluzione Culturale nel 1976 la contea di Dege non aveva nessun vero piano di sviluppo. Con la politica di riforma e apertura del 1978 si riattiva lo sviluppo dell’area di Derge; oltre all’agricoltura e all’allevamento anche l’industria, l’educazione, la costruzione di strade ricevono notevole impulso. Nello stesso anno viene soppressa la contea di Dengke e la zona amministrativa di Dege viene ampliata aggiungendo due aree e otto comuni. Nel 1978 viene costruito l’ospedale tibetano. Nel lu-
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Gli anni Ottanta e il rallentamento nello sviluppo della contea di Dege
glio del 1980 la Stamperia di Sutra di Dege (Derge Parkhang) diviene un’importante centro per la protezione culturale della provincia del Sichuan. Nel 1987 viene anche aperto l’Istituto di Letteratura Medica Tibetana affiliato all’ospedale. Sebbene dopo il 1978 si possa dire che l’area culturale di Derge, che comprende la contea di Dege, sia notevolmente migliorata sia quanto a produzione industriale che a infrastrutture, tuttavia, a causa delle squilibrio nello sviluppo generale della Cina, persiste una differenza fra le zone costiere e quelle interne e la parte interna delle zone interne è ancor meno sviluppata. Parlando del Sichuan, il centro più sviluppato è la pianura di Chengdu ma non vi è abbastanza attenzione allo sviluppo delle aree circostanti, in particolare quelle abitate dalle minoranze etniche. Anche la contea di Dege, centro della cultura Derge, è situata in una zona periferica del Sichuan e il suo sviluppo è ancora più lento; oltre che a livello finanziario e tecnologico, sono piuttosto arretrati anche per quanto riguarda il sostegno ai talenti autoctoni. Fino alla fine degli anni Ottanta le politiche amministrative a livello provinciale e distrettuale mancavano di strategie di sviluppo realmente operative. Nella parte orientale della prefettura autonoma tibetana di Ganzi si avvia autonomamente uno sviluppo turistico che fa di Kangding, del monte Gongga1 (Minya Konka) e della valle di Hailuogou2 mete turistiche per il Sichuan e l’intera Cina. Negli anni Novanta vi è una svolta: nel novembre del 1996 la Stamperia di Sutra di Dege viene nominata centro per la protezione culturale a livello nazionale. Con il supporto finanziario governativo la Stamperia termina il primo restauro. Nel 1997 la contea di Dege viene nominata dal Consiglio di Stato cinese “Contea del commercio delle minoranze etniche”, diventando ufficialmente uno snodo importante nella circolazione delle merci tra la parte tibetana del Sichuan e la Regione Autonoma del Tibet. Nel 2000 si inizia a costruire l’Hotel Que’ershan che viene finito e inizia a ricevere i turisti all’inizio della primavera del 2002. Queste attività di sviluppo dell’area culturale di Derge e della contea di Dege e la loro dimensione non sono per niente confrontabili con l’economia del Sichuan e le zone costiere. Inoltre la maggior parte delle attività di sviluppo ebbe luogo nelle contee e città centrali ma non riuscì a penetrare nei comuni, villaggi e abitati lontani dal centro; in altre parole questo sviluppo non portò sostanziali benefici alla maggior parte degli abitanti della contea che vivevano di allevamento e agricoltura. Nel 1998 il Consiglio di Stato ha iniziato a mettere in pratica il divieto di disboscamento delle foreste attraverso la realizzazione del “Progetto di protezione naturale delle foreste”; alla fine degli anni Novanta è stata rafforzata la politica che promuove la restituzione delle terre agricole alle foreste e grazie a questo l’allevamento e l’agricoltura hanno iniziato ad essere ridimensionate. Arrivati al XXI
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 167 secolo gli indicatori socio-economici della contea di Dege mostrano che, pur trovandosi all’interno della prefettura autonoma di Ganzi, presenta un livello di sviluppo medio. Sviluppo del turismo a Dege Addentrandosi negli anni Novanta la politica di sviluppo viene ulteriormente sostenuta: la Provincia Autonoma del Tibet e le altre aree tibetane iniziano a svilupparsi verso l’esterno, l’aumento dei turisti stranieri diventa evidente e, in linea col miglioramento della situazione economica cinese, aumentano anche i turisti cinesi. Anche le agenzie turistiche cinesi una dopo l’altra iniziano ad interessarsi allo sviluppo del turismo lungo l’asse nord-sud Sichuan-Tibet. Anche il governo della contea di Dege, situata in una posizione particolarmente favorevole, inizia a prestare attenzione al turismo. Dal 1998, anno in cui è entrato in vigore il divieto totale di deforestazione, la contea di Dege, la cui economia, in assenza di attività industriali, si basa solo su allevamento e agricoltura, sta affrontando gravi difficoltà finanziarie e quindi lo sviluppo del turismo è stato visto come un percorso di sviluppo sostenibile. Il successo dello sviluppo turistico nelle zone delle minoranze etniche della prefettura autonoma tibetana di Diqing nello Yunnan e nella prefettura autonoma tibetana Qiang di Aba ha avuto un impatto positivo sulla contea di Dege e sulla prefettura autonoma tibetana di Ganzi. Nel 1999 Ganzi ha promulgato il “Metodo provvisorio per la gestione dell’industria turistica nella prefettura di Ganzi” iniziando un tentativo di regolamentazione legislativa dello sviluppo turistico. In seguito ha preparato il “Piano di sviluppo generale del turismo nella prefettura di Ganzi” che interessa 18 contee tra cui anche quella di Dege. Risorse turistiche di Dege Tra le risorse culturali di Dege ci sono patrimoni culturali materiali quali la Stamperia dei Sutra, il Tempio del Re Gesar, il Monastero di Babang, l’ospedale tibetano ecc. Tra i patrimoni culturali immateriali ci sono i trattati di medicina tibetana, i metodi di produzione della carta tibetana, la cultura buddista, l’opera tibetana di Dege, l’epica di Gesar, le competenze artigianali ecc. Il paesaggio naturale, le praterie, le montagne innevate, la flora e la fauna costituiscono le risorse naturali. A ciò si aggiungono le risorse sociali quali gli usi e i costumi, il cibo, i vestiti, le abitazioni e i mezzi di trasporto, l’arte popolare e le risorse produttive quali l’allevamento e l’agricoltura tradizionali. Negli anni Novanta l’Ufficio del Turismo Culturale della contea di Dege ha raggruppato le risorse turistiche del territorio in 13 siti e si è preparato a promuovere lo sviluppo turistico. Nel 2001 l’Unesco ha nominato il 2002 Anno internazionale del Re Gesar. La contea di Dege ha rapidamente colto l’opportunità e il
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La decisione dell’Unesco e le nuove tendenze del turismo nella contea di Dege
24 agosto 2002 ha eretto una statua in bronzo di Gesar nella prateria di Axu, da un lato per celebrare il personaggio, dall’altro sperando anche di attrarre un maggiore numero di turisti. Nel maggio 2004 il governo popolare del Sichuan ha annunciato che tutte le zone dell’intera provincia sono aperte agli stranieri. Pertanto i turisti stranieri in viaggio per Dege sono notevolmente aumentati: in un’indagine effettuata per due settimane durante la primavera del 2002 sono stati osservati solo 4 turisti stranieri provenienti dal Giappone e dagli Stati Uniti; ma lo stesso sondaggio ripetuto nell’agosto del 2004 ha visto una comitiva di 8 persone proveniente dalla Francia e una di 12 persone dagli Stati Uniti. Il turismo interno è anche aumentato ma non su larga scala. Tra i turisti che arrivano a Dege i più numerosi sono quelli che giungono in Tibet e a Ganzi in pellegrinaggio religioso. In base alle informazioni ufficiali della contea di Dege, nel 2004 durante tutto l’anno sono stati accolti 54.942 turisti (numero di entrate) per un introito economico pari a 33.807.000 yuan. Nel 2003 la contea ha istituito un apposito Ufficio del Turismo evidenziando un atteggiamento positivo nei confronti di questa attività; anche la maggior parte dei residenti sono impazienti che lo sviluppo del turismo porti loro maggiori benefici. Si può dire che nel 2001 la decisione dell’Unesco ha fatto emergere nuove tendenze nello sviluppo turistico di Dege. Nel 2002 il governo popolare di Dege ha stabilito un piano di attrazione di capitali stranieri per “lo sviluppo integrato del circuito turistico della contea di Dege” per un totale di 10.730.000 yuan. Una delle priorità è un piano di sviluppo della medicina e farmacologia tibetana. Il punto centrale dello “sviluppo integrato del circuito turistico della contea di Dege” è costituito dalla Stamperia dei Sutra, circondata a nord dal Monastero di Zhuqing, dalla prateria di Axu, dal Tempio del Re Gesar e dai siti che congiungono con la parte orientale, quali il lago di Xinlu (Yilhun Lhatso), la città di Manigange (Ma ni gar mgo), il monte Queer e a sud il Monastero di Babang (dPal spungs). I turisti vengono ospitati nelle nuove strutture costruite presso il Tempio del Re Gesar, il lago Xinlu e il monte Queer (Khro la). Considerevole attenzione è stata data al “piano di sviluppo integrato della zona turistica del Tempio del Re Gesar” e al “piano di sviluppo integrato della zona turistica del lago Xinlu”, anche se questi piani non sono ancora stati resi effettivi e dopo di essi, eccetto la segnalazione come “Patrimonio dell’umanità” nel 2008, non sono state proposte altre idee di sviluppo. Nonostante l’entusiasmo, all’inizio del XXI secolo le più alte autorità di Dege dovranno essere molto più realistiche. Nel nono (19962000), decimo (2001-2005) e undicesimo (2006-2010) piano quinquennale della provincia del Sichuan lo sviluppo turistico della prefettura di Ganzi si concentra sul monte Gongga e sulla valle di Hailuogou. Per questo il piano di sviluppo turistico della contea di Dege mol-
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 169 to difficilmente otterrà il sostegno finanziario a livello nazionale o provinciale. Nella pianificazione del governo di Ganzi, oltre all’area attorno a Kangding, i punti da sviluppare sono Daocheng, Danba, Daofu, Luding e Xiangcheng. Nel novembre 2002 la Provincia Autonoma del Tibet, la Provincia del Sichuan e la Provincia dello Yunnan hanno deciso congiuntamente di creare la “Zona di eco-turismo di Shangri-La”, attraverso il rafforzamento della collaborazione delle tre province in materia di sviluppo turistico. La “Zona di eco-turismo di Shangri-la” comprende una parte del Tibet Orientale, del Sichuan sud-occidentale e dello Yunnan nord-occidentale dove vivono nove minoranze etniche, formata dall’area di Changdu (Chamdo) in Tibet, dalla prefettura autonoma tibetana di Diqing nello Yunnan, dalla prefettura autonoma di Bai Dali ecc. Anche la prefettura di Ganzi e la contea di Dege fanno parte di quest’area. Nel giugno 2003 il neonato Ufficio del Turismo di Dege ha stampato la Guida Turistica di Dege. Nell’aprile 2003 la contea di Dege e quella di Shiqu hanno iniziato un lavoro congiunto per far riconoscere la Stamperia dei Sutra e la cultura nomade tibetana di Shiqu come patrimoni culturali dell’umanità. Nel 2007 la Stamperia ha superato la selezione provinciale e continua strenuamente a lavorare per raggiungere l’obiettivo. Siti turistici della contea di Dege (la pronuncia dei siti è in cinese pinyin)
A. Tempio del Re Gesar - B. Monastero di Ezhi - C. Monastero di Zhuqing (rDzogs chen) - D. Stamperia dei Sutra - E. Monastero di Babang.
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Un patrimonio culturale collettivo che comprende buddismo, medicina tibetana, arte e tecniche della tradizione
Un concetto di sviluppo che preservi la cultura Dege aprendo al turismo Innanzitutto bisogna dare alla cultura Derge una posizione precisa. Nel 2001 il quotidiano cinese Guangming Daily utilizzò il termine “reliquia culturale vivente” per indicare la stampa su matrici di legno della Stamperia di Sutra. Nel 2002 lo studioso giapponese Nakanishi Junichi riconobbe la Stamperia come una “reliquia culturale vivente” da un punto di vista di conservazione della cultura. In effetti le matrici di legno, la tecnica di intaglio del legno, la raccolta delle piante di Stellera Chamaejasme, la produzione della carta e dell’inchiostro tradizionale sono tutte pietre miliari che sostengono la Stamperia di Sutra. La Stamperia di Dege non è solo un patrimonio culturale della città di Gengqing e della contea di Dege, un fossile culturale vivente ma dovrebbe essere anche un patrimonio culturale collettivo di una zona più ampia. Questa zona più ampia è costituita dall’area di Derge che al suo interno comprende anche la contea di Dege. Questo patrimonio culturale collettivo, oltre al buddismo e alla medicina tibetana, comprende anche l’arte, le tecniche e i mezzi di sostentamento tradizionali. In un certo senso si tratta di un circolo culturale unico all’interno della cultura tibetana delle sponde orientale e occidentale del fiume Jinsha. Nel 1992 lo studioso tibetano Genwang formulò la “Teoria sul centro culturale di Dege”: partendo dalla letteratura orale, dal buddismo tibetano, dalla politica dei tusi, dalla linguistica, dalla medicina tradizionale tibetana e via dicendo ha dimostrato le cause e le caratteristiche della formazione del centro culturale di Dege. La “cultura di Dege” a cui si riferisce Genwang in realtà è una “grande cultura di Dege” che va al di là del territorio geografico di Dege e corrisponde alla “cultura Derge” cosi com’è intesa in questo articolo. Da un punto di vista antropologico-culturale, Derge è la culla della cultura della parte orientale dell’altopiano Qinghai-Tibet e l’esistenza della Stamperia di Sutra ha una importantissima funzione di trasmissione culturale. Inoltre l’unicità dell’ambiente naturale e dei mezzi di sussistenza che hanno creato questa cultura sono tutte prove della teoria del centro culturale di Dege. Perciò la cultura Derge comprende la cultura collettiva di territori quali Shiqu, Dege, Baiyu, Jiangda ecc.; per proteggerla e svilupparla bisogna proteggere e sviluppare questa cultura collettiva. I problemi dello sviluppo turistico di Dege Negli studi recenti sulle problematiche del turismo spesso si sottolineano tre fattori esterni di sviluppo. Innanzitutto da un punto di vista esterno si richiede la diversità dei contenuti di viaggio. Soprattutto nei paesi avanzati dopo il turismo di massa, vi è stata un’evoluzione dal turismo basato semplicemente sulle attrazioni alla ricerca di un’esperienza di vita diversa, di un apprendimento di culture diverse, di una ricerca della pace interiore. Sebbene abbia una natura maestosa e spet-
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 171 tacolare e una lunga tradizione buddista tibetana, Dege è lontana dal possedere una varietà di contenuti turistici. Attualmente anche il turismo interno cinese sta superando la fase di massa, quindi le prospettive di sviluppo del turismo a Dege destano qualche preoccupazione. In secondo luogo per lo sviluppo del turismo è fondamentale il completamento del sistema di trasporto. L’autostrada Sichuan-Tibet, sebbene iniziata negli anni Cinquanta, è ancora in fase di completamento e il passaggio in alcune sezioni è ancora difficile. Nel maggio del 1996 sono iniziati i lavori per la costruzione del traforo del monte Erlang e sebbene sia stato completato nel 2001, solo nel 2004 è diventato percorribile. Nel 2002 è iniziata la costruzione di strade asfaltate in tutta la contea ma a causa dell’aumento del passaggio di camion pesanti le strade hanno subito gravi danni e non si può viaggiare in modo confortevole. Nel novembre del 2010 è iniziata la costruzione del traforo del monte Queer, il primo tunnel autostradale così lungo a 4.300 metri di altitudine, ma ci vorrà ancora del tempo prima che venga aperto. Ora da Chengdu per arrivare a Dege ci vogliono tre giorni quindi è necessario avere a disposizione almeno una settimana e questo costituisce una limitazione temporale3 al viaggio in queste zone. I turisti che non dispongono di una vacanza molto lunga difficilmente sceglieranno questa meta turistica. In terzo luogo un presupposto importante per lo sviluppo del turismo è l’aumento dei numeri a seguito della massificazione di questo fenomeno. Il rapido sviluppo economico della Cina dagli anni Novanta in poi ininterrottamente fino al nostro secolo ha fatto decollare anche il turismo interno cinese. Tuttavia non si può negare la realtà, ossia che il principio di base del turista di massa è un viaggio a basso costo, in un breve periodo di tempo e in un posto relativamente vicino. In più il turismo di massa può accelerare la differenziazione delle tendenze turistiche e se, sviluppando come prodotto turistico la cultura tibetana, si possa o no attrarre un maggior numero di turisti è un problema ancora tutto da verificare. Da un punto di vista intrinseco allo sviluppo del turismo la prima preoccupazione è l’entità del piano di promozione in dipendenza dal fatto che ci sia o meno un piano base di sviluppo sostenibile. Ma il pilastro della pianificazione turistica di Dege è l’amministrazione pubblica, che però finora non è riuscita a elaborare un solido piano di sviluppo. Quello del 2002 finora non è stato molto efficace perché troppo ambizioso e carente di strategie concrete mentre i regolamenti connessi erano da migliorare. Sebbene gradiscano lo sviluppo del turismo i cittadini di Dege credono che la realizzazione concreta sia dovere dell’amministrazione, venendo così meno al proprio ruolo attivo in quanto cittadini. In secondo luogo sono molto importanti sia le strutture materiali che gli elementi immateriali dell’accoglienza ai turisti. Bisogna fare di tutto per garantire la sicurezza e la salute durante il periodo di sog-
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Un circolo virtuoso che porti benefici alla popolazione locale, promuova l’autonomia e preservi la tradizione
giorno. Per realizzare queste condizioni la contea di Dege ha bisogno di un po’ di tempo. In terzo luogo vi è la problematica del processo di commercializzazione turistica della cultura etnica. Nel 2002 l’amministrazione della Stamperia di Sutra ha allestito un padiglione per le mostre di fianco al proprio ufficio. Ma non era opportuno utilizzare questo spazio. Da un sondaggio del 2004 spesso si vede come nei siti dove si intaglia il legno il maestro incisore e i suoi discepoli vendano illecitamente al turista le matrici di legno incise. Nell’agosto del 2004 il governo di Dege ha organizzato a Manigange il primo festival culturale dedicato a Gesar con il titolo “Incontrare la virtuosa Dege, entrare nelle storie dell’eroe, assaggiare la cultura Khampa”. Ha iniziato a creare un’immagine culturale di Dege, ad attirare turisti ma il risultato di un tale dispiego di persone e investimenti è stato appena quello di attrarre i funzionari provinciali, della prefettura e delle altre contee e alcuni mezzi di informazione senza raggiungere l’obiettivo prefissato. Dopo questa prima edizione il festival non è più continuato. Fino al 2011 non è più stato organizzato nessun evento, la contea ha solo partecipato come rappresentante ad alcune fiere: nel 2008 la Fiera del Turismo Internazionale, nel 2010 la Mostra del Patrimonio Culturale Immateriale della Cina e sempre nel 2010 la Fiera Occidentale. Per il futuro lo sviluppo turistico di Dege dovrebbe considerare come nucleo di attrazione la Stamperia, prevedere un ampio ventaglio di offerte nei programmi di viaggio, cogliere efficacemente la relazione fra il suo territorio e i turisti, dare importanza all’appropriatezza dell’offerta sul lungo termine. Inoltre si devono attentamente considerare fattori di svantaggio quali il trasporto sconveniente, la lontananza di oltre 1.000 km dalla grande città più vicina, Chengdu, l’elevata altitudine, la complessità della variazione climatica ecc. Perciò, in primo luogo, lo sviluppo del turismo dovrebbe poter innescare un circolo virtuoso4. In secondo luogo, lo sviluppo deve portare benefici alla popolazione locale. In altre parole deve migliorare la situazione di povertà dovuta ad un basso reddito. In terzo luogo non bisogna contare solo sull’assistenza finanziaria dello Stato, della provincia o della prefettura ma promuovere un piano di sviluppo autonomo su piccola scala. In quarto luogo in questo percorso di ricerca dei benefici economici bisogna proteggere e preservare la cultura e le tecniche tradizionali. Preservazione del patrimonio culturale collettivo di Dege La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale collettivo di Dege devono essere realizzate in un sistema condiviso insieme alle contee circostanti di Shiqu, Baiyu, Jiangda. Tuttavia ciò è difficile da raggiungere in breve tempo per la diversità dei territori amministrativi che si estendono lungo le due rive del fiume Jinsha, in particolare
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 173 per le relazioni fra Tibet e Sichuan. Una tutela e una valorizzazione che abbiamo un significato pratico possono essere realizzate per primi nella contea di Dege, centro della cultura Derge. Parlando della contea di Dege, la tutela degli edifici e delle strade che hanno come centro la Stamperia e il Monastero di Gengqing deve essere globale e a lungo termine. Per globalità si intende la molteplicità delle culture facenti parte del patrimonio culturale collettivo, quali l’incisione su tavole di legno, la produzione della carta e dell’inchiostro, la medicina tradizionale tibetana ecc. Il lungo termine dipende dallo sviluppo del turismo che richiede un certo processo temporale perché la consapevolezza di amministratori e residenti cresca di pari passo. In particolare in condizioni di difficoltà finanziarie e difficoltà ad attrarre investimenti esteri, un piano di sviluppo di ampia portata in breve tempo non è realistico. In un piano di sviluppo e di tutela globale a lungo termine il ruolo dell’amministrazione è particolarmente importante. Le capacità di guida degli amministratori sono senza dubbio essenziali e la continuità delle politiche attuate è altrettanto importante. Parlando del sistema amministrativo cinese, dove amministratori che ricoprono un’alta carica vengono spesso sostituiti influendo negativamente sulla stabilità delle politiche, è ancora più importante l’esistenza di politiche di tutela e sviluppo del patrimonio culturale che abbiano una continuità temporale. Le politiche e i regolamenti per la protezione, conservazione e sviluppo del patrimonio culturale sono stabiliti a livello amministrativo, quindi il ruolo del governo di Dege deve essere ulteriormente accresciuto. Nel 2000 all’interno del corpo di scritti commemorativi del cinquantenario della fondazione della prefettura di Ganzi, c’erano anche molte critiche franche all’amministrazione prefetturale e provinciale, per esempio per la mancanza di conoscenza di tale processo di sviluppo turistico che ha fatto perdere molte occasioni d’oro per lo sviluppo stesso5. Il concetto di conservazione dinamica del patrimonio culturale venne utilizzato in primo luogo per il patrimonio culturale industriale facendo in modo che i macchinari industriali fossero conservati in modo da permetterne lo spostamento. In seguito il concetto si è evoluto ed è stato applicato a tutto il patrimonio culturale, che viene utilizzato in modo flessibile, raggiungendo allo stesso tempo un duplice scopo di conservazione e sviluppo. Tenendo al centro il patrimonio culturale materiale, si sviluppa sia il patrimonio materiale che immateriale facendo in modo che i vari siti diventino una sola regione aperta al turismo ma al tempo stesso conservativa del suo patrimonio. Il patrimonio culturale collettivo di Derge per il suo contenuto profondo e l’ampia copertura geografica costituisce pienamente l’oggetto di una conservazione dinamica. Inoltre la conservazione dinamica è una forma radicata nel territorio geografico e i residenti posso-
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Il patrimonio culturale tradizionale è una risorsa turistica ma soprattutto ricchezza sociale del territorio
no essere direttamente coinvolti nella protezione e conservazione del patrimonio. Allo stesso tempo la conservazione dinamica può anche rafforzare il rapporto reciproco tra patrimonio e turisti contribuendo alla comprensione e al rispetto del patrimonio da parte di questi ultimi. A questo punto va sottolineato come rendere il patrimonio culturale tradizionale una risorsa turistica non è solo una ricchezza economica conseguente alla commercializzazione ma anche una ricchezza sociale che appartiene alla comunità regionale. Per questo il patrimonio dell’area di Dege ha anche un valore sociale, è un bene culturale non solo di proprietà del governo ma di proprietà di tutti i membri della società locale. Attraverso la conservazione e protezione di questi beni culturali i residenti dell’area approfondiscono la comprensione della propria storia e cultura e maturano l’orgoglio per la propria terra. Inoltre ci si può aspettare che il patrimonio tradizionale attraverso la conservazione dinamica inneschi la formazione e il rafforzamento di una rete culturale tibetana che includa il territorio tibetano di Changdu e la prefettura di Ganzi. Naturalmente per conservare dinamicamente, salvare e trasmettere le tecniche e le arti tradizionali è molto importante anche formare le persone che svolgano tali lavori nel futuro. La ripresa attraverso quanto detto sopra ha anche bisogno del sostegno delle politiche governative e ci si può aspettare che l’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo e la Conferenza Politica Consultiva di Dege svolgano un ruolo positivo a riguardo. Istituzione di un’area culturale speciale nella città di Gengqqing (dGon Chen) Nella valle alluvionale del fiume Oupulonggou6 c’è un distretto culturale tradizionale tibetano che comprende l’ospedale tibetano e ha come centro la Stamperia e il Monastero di Gengqing. In dettaglio la zona a sud e sud-est della libreria Xinhua lungo il canale Oupulonggou è stata pianificata come “distretto culturale”, le restanti aree sono il distretto urbano e il distretto amministrativo. I piani a lungo termine su 10, 20 o 50 anni stanno poco a poco spostando fuori dal centro le costruzioni in stile moderno quali scuole e uffici, sforzandosi di costruire al centro edifici completamente in stile tibetano tradizionale, recuperando quell’aspetto dei quartieri tradizionali andato perduto. Negli anni Settanta la città di Bologna per evitare lo svuotamento del nucleo urbano utilizzò i soldi per la costruzione di nuove aree urbane per rigenerare e restaurare le residenze in stile medievale del centro della città, col risultato di un graduale recupero del carattere storico della città e contemporaneamente un miglioramento delle funzioni della città. Dege può seguire lo stesso esempio. Sono sicuro che dopo un periodo di sforzi potrebbe recuperare quel forte carattere tradizionale tibetano. Dopo alcuni progressi sicuri portati dallo
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 175 sviluppo turistico bisognerebbe rivitalizzare il distretto culturale fino a considerare la creazione di una “zona culturale speciale” dove vi siano la Stamperia, l’ospedale tibetano e gli altri luoghi d’importanza culturale. Solo in questo modo è possibile evidenziare la Stamperia come patrimonio culturale nazionale e l’importante ruolo della teoria e pratica medica tibetana. In realtà al momento viene attirato un numero esiguo di turisti. Il governo dovrebbe dare la priorità ad alcune funzioni emettendo regolamenti sulla “zona culturale speciale”, per esempio per quanto rigurda la conservazione forestale sulle colline che circondano la Stamperia e il Monastero di Gengqing per avere un ambiente naturale migliore fino al rimboschimento, in particolare la rivitalizzazione della betulla per facilitare la produzione di inchiostro7. Ora la cosa più necessaria e più facile da promuovere è il lavoro di sviluppo e protezione del distretto culturale, una volta terminato questo naturalmente si irradierà e si estenderà allo sviluppo dei siti circostanti quali il Tempio del Re Gesar ecc. Il distretto culturale non è solo una meta turistica, è anche la base per conservare e trasmettere le arti, le tecniche e la cultura tradizionale. È anche il luogo di circolazione di arti, tecniche e cultura in seguito alla commercializzazione. Facendo pieno uso del suo carattere di contea dedita al commercio etnico, Dege può fare in modo che l’esterno entri in contatto con i prodotti del settore primario strettamente connessi alla cultura locale. Nei negozi del distretto culturale si deve il più possibile capire, grazie ai residenti del luogo, che non si tratta di protezionismo locale o nazionalismo ma di qualcosa a favore delle tradizioni culturali locali. A partire dal XXI secolo un gran numero di imprenditori cinesi è arrivato a Dege sia per migliorare la vita dei residenti locali che per rivitalizzare l’economia. Ma le caratteristiche tradizionali del distretto culturale tibetano sono i tratti fondamentali di questo distretto perciò bisogna conservare questo stile tradizionale. Dunque la concentrazione degli imprenditori cinesi nei distretti urbani deve essere analizzata e valutata in modo ragionevole. Possibilità di uno sviluppo endogeno sotto la guida dell’amministrazione I modelli di sviluppo regionale dell’industria turistica nel mondo si dividono a grandi linee in tre gruppi. Nel primo modello l’amministrazione regionale è il principale fautore dello sviluppo. Nel secondo lo sono i capitali privati esterni e quelli locali. Nel terzo modello è il terzo settore locale e i capitali privati esterni. Nel primo modello se il piano di sviluppo riesce a riflettere completamente la volontà dei residenti allora si può parlare di modello di sviluppo endogeno. Il secondo e il terzo modello rappresentano entrambi uno sviluppo esogeno. La comunità locale fornisce solo la fonte dello sviluppo ma la pianificazione, la realizzazione dei piani e l’operatività conseguente passano attraverso capitali, tecnologie, perfino personale esterno; i
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Il cambiamento endogeno è difficile se manca forza economica e manageriale
benefici maggiori dello sviluppo vanno all’esterno, la società locale si avvantaggia solo delle entrate fiscali e dell’occupazione di personale ma nel suo complesso non ne riceve altri benefici. Il principale organo amministrativo è il governo del popolo di Dege che non ha le necessarie risorse finanziarie e le capacità per operare uno sviluppo turistico su grande scala. Come descritto sopra, lo sviluppo turistico di Dege è inserito nel decimo, undicesimo e dodicesimo piano quinquennale di sviluppo provinciale o prefetturale. Siccome le regolamentazioni sono ancora inadeguate, le vie di comunicazione non convenienti, le strutture e i servizi al turismo non sufficienti, queste carenze sono debolezze fatali per lo sviluppo turistico e non permettono di attrarre grandi capitali esterni divenendo così oggetto di uno sviluppo esogeno. Eccetto le utenze di acqua e elettricità, i capitali privati a Dege sono di piccola entità e si concentrano quasi tutti nella ristorazione o in piccoli negozi. Inoltre questi capitali sono legati a una forza lavoro proveniente dall’esterno. I cittadini di Dege vorrebbero sviluppare e proteggere la loro cultura ma a causa della povertà della contea e della debole economia non si assumono grandi responsabilità, non contribuendo così alla nascita di uno sviluppo guidato dal privato. Non importa quanta “stimolazione e informazione indiretta” ci sia, se mancano la forza economica e esecutiva il cambiamento endogeno è difficile8. Per questo nella fase attuale non è possibile aspettarsi un’apertura guidata solo dal privato. In più la popolazione locale ha un urgente bisogno di migliorare la propria situazione economica e questo potrebbe creare tendenze di sola ricerca del profitto che non hanno niente a che vedere con la tutela e lo sviluppo di Dege ma che al contrario potrebbero essere dannose. Alla fine degli anni Ottanta dopo l’entrata in vigore della “Legge forestale”9 e della “Legge sulla protezione degli animali selvatici”10, il fatto che i ripetuti divieti nella prefettura di Ganzi, che include Dege, non impediscano episodi di disboscamento illegale e bracconaggio evidenzia come la ricerca del solo vantaggio possa recare serio danno all’ambiente; per questo è necessaria una forte guida amministrativa. Lo sviluppo di Dege deve essere portato avanti congiuntamente dall’amministrazione e dai cittadini. Il governo può fare pieno uso della sua forza nella raccolta fondi e nella promulgazione e attuazione dei regolamenti. La rinascita delle tecniche tradizionali A partire dagli anni Ottanta la Stamperia di Sutra per abbassare i costi del processo di stampa dei testi classici ha sostituito la carta e l’inchiostro tradizionali tibetani con prodotti industriali del Sichuan. Ma la stampa dei classici in realtà è fatta da sempre con carta e inchiostro tradizionali e oltre la produzione di carta tradizionale tibetana dal punto di vista tecnologico ed economico ha stretti rapporti con la popolazione locale11. Per questo nello sviluppo futuro innanzitutto biso-
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 177 gna almeno in una certa percentuale utilizzare carta e inchiostro tradizionali. L’incisione delle matrici di legno e la produzione della carta e dell’inchiostro vedono la partecipazione della popolazione locale, dalla raccolta delle materie prime ai diversi processi di produzione. In questo modo i redditi generati da queste attività favoriscono un miglioramento della situazione economica della popolazione autoctona. Ugualmente la rinascita delle tecniche tradizionali ha gettato le basi per la formazione del personale futuro: gli apprendisti per l’incisione del legno reclutati nel 2004 a Jiangda ora sono già in grado di lavorare in modo indipendente. Ma la cosa più importante nello sviluppo futuro è non dimenticare l’esistenza delle donne del territorio. La relazione tra produzione di carta tradizionale di Dege e il lavoro delle donne è molto stretta: dalle operazioni di rimozione della corteccia dalla materia prima, alla schiacciatura della polpa di cellulosa e alla produzione della carta, la forza lavoro è principalmente femminile. Sebbene questa divisione del lavoro sia dovuta a cause culturali12, tuttavia è anche un segno che le donne tibetane sono attive anche nelle aree produttive della società. Partecipando alla produzione della carta, in un periodo di tempo di poco più di un mese di lavoro, ogni giorno si può arrivare a guadagnare cento yuan: questo fornisce una certa base materiale per l’indipendenza economica delle donne. Pertanto la rinascita della cultura tradizionale facilita anche il miglioramento della posizione economica e sociale della donna. Inoltre in uno sviluppo futuro del turismo secondo una modalità di conservazione dinamica è importante che i turisti sperimentino personalmente alcuni semplici processi quali la produzione della carta, l’intaglio del legno ecc. Utilizzando la sala espositiva già costruita nel 2002, l’esperienza di intaglio di copie di matrici e quella di produzione della carta tibetana sono tutti progetti pratici sostenibili di sviluppo del turismo. Attraverso il contatto con le tecniche tradizionale tibetane i turisti partecipano a qualcosa di divertente ma allo stesso tempo approfondiscono anche la comprensione e si preoccupano per la cultura tibetana. Naturalmente allo stesso tempo dovrebbe essere avviata anche la vendita di souvenir che abbiano caratteristiche tradizionali. Tenendo conto della realtà della contea di Dege, la rinascita delle tecniche tradizionali non dovrebbe essere promossa con un piano su larga scala. In aprile del 2004 l’Ufficio per lo Sviluppo Economico e il Commercio della contea di Dege ha lanciato un piano di sviluppo dell’artigianato popolare da realizzarsi nelle quattro città di Gengqing, Maisu, Manigange, Axu e che prevedeva la costruzione a Gengqing di una fabbrica di trasformazione di 10.000 mq, con un investimento totale di 630 milioni di yuan che, dopo aver ricevuto i fondi, sarebbe stata completata nel 2006. Naturalmente a tutt’oggi non sono ancora arrivati i fondi. Si può dire che sviluppare manufatti tradizionali etnici
CULTURA E SOCIETÀ sia una direzione di sviluppo chiara ma un piano irrealistico ne ha bloccato la realizzazione.
Solo con lo sviluppo partecipativo si accorcia la distanza tra crescita economica e reali interessi dei residenti
Possibilità di un turismo partecipativo A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha iniziato a diffondersi e ad essere incoraggiato in tutto il mondo il concetto cardine dello sviluppo partecipativo; in ogni parte della terra e soprattutto nei paesi del terzo mondo ha avuto un’ampia gamma di applicazioni pratiche. All’inizio del XXI secolo, lo sviluppo partecipativo, sebbene ancora presente, ha subito delle limitazioni. Per essere efficace bisogna progredire molto rispetto alla sola attenzione alla crescita economica, all’aumento del Pil, alla ricerca su grande scala, che ignora gli interessi dei residenti nell’area e nega il loro sviluppo. Prima dello sviluppo partecipativo, tra tutte le attività pianificate e realizzate dal governo, agenzie o organizzazioni e le reali speranze dei residenti vi era una grande distanza e nella maggior parte dei casi i piani non erano adatti alla comunità locale. I progetti di sviluppo promossi unilateralmente da governi o da agenzie e organizzazioni creano danni alla vita quotidiana dei residenti e all’ambiente del territorio. Spesso portano cose negative quali la distruzione dell’ambiente naturale, sociale e della cultura tradizionale, un divario economico più grande e un aumento della popolazione povera. Il concetto di “partecipazione della popolazione locale” significa per lo meno trovare una modalità relativamente sostenibile dopo aver riflettuto sui problemi di cui sopra, anche se tra il concetto di “partecipazione della popolazione locale” e l’azione stessa c’è ancora molta distanza. Parlando di Dege, molti piani di sviluppo turistico e di altro tipo non trovano applicazione o efficacia e la causa ha a che fare con la popolazione o il territorio locale. Con il supporto delle tecnologie e dei fondi del governo e delle altre agenzie e con la volontà dei cittadini, si pianifica e si realizza uno sviluppo facendo conto su se stessi; sebbene luoghi diversi abbiano problemi diversi, proprio attraverso lo stretto rapporto coi cittadini e col territorio si riesce a ridurre al minimo la possibile distruzione quotidiana dell’ambiente, della società e della cultura locale. Inoltre i benefici ottenuti con lo sviluppo attraverso la volontà della popolazione locale vengono distribuiti a tutti i cittadini e si riescono a contenere i fenomeni di distribuzione iniqua che si possono verificare sul lungo termine. In questo senso d’ora in poi lo sviluppo turistico di Dege dovrebbe allinearsi a questo punto di vista del turismo partecipativo, in cui la progettazione e la realizzazione dei piani di sviluppo riflette la volontà dei cittadini, assorbendo positivamente le volontà dell’etnia tibetana e delle altre etnie quali residenti locali. Dalla “riforma democratica” del 1959 nella prefettura di Ganzi, le precedenti organizzazioni sociali e politiche sono state sostituite con organizzazioni amministrative dal basso13 per cui ogni comitato di città o villaggio ha la sua posizione
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 179 amministrativa ma proprio per questa eccessiva frantumazione non possono riflettere completamente la vera volontà di tutti i cittadini del territorio. Oltre a questo a Dege non vi sono altre organizzazioni locali quindi la modalità di partecipazione della popolazione forse non è uguale agli altri posti e bisogna fare affidamento sulla forza della fede religiosa; come in tutta la prefettura di Ganzi, la maggior parte dei residenti è di fede buddista, il monastero è anche il luogo di incontro tra fedeli e monaci, spesso le funzioni religiose hanno una grande influenza e sfruttare al massimo l’entusiasmo dei monasteri per lo sviluppo del turismo è fattibile e benefico. Conclusioni L’ambiente naturale del territorio di Dege ha limitato lo sviluppo su grande scala dell’allevamento; per quanto riguarda l’agricoltura, sebbene dagli anni Cinquanta abbia avuto inizio un processo di bonifica dei terreni agricoli, tuttavia persistono limiti al loro ampliamento. Nel 1998 con il rafforzamento della politica di restituzione delle terre agricole alle foreste, l’allevamento e l’agricoltura sono ancora su piccola scala e non si può sperare di stimolare l’economia regionale attraverso queste attività. Per quanto riguarda l’industria, eccetto l’artigianato, la miniera d’oro di Sebagou e il settore idroelettrico, non si può parlare di grande industria, per questo fondare lo sviluppo economico sul turismo è abbastanza naturale. Infatti negli anni Novanta in Cina i territori abitati dalle minoranze etniche hanno mostrato tutti questa tendenza di sviluppo; non pochi di essi hanno migliorato la loro economia, come per esempio i territori delle minoranze etniche dello Yunnan e la prefettura autonoma tibetana di Aba nel Sichuan. Però bisogna riconoscere la realtà del territorio di Dege dove ci sono molti fattori negativi, quali il trasporto difficoltoso e il clima variabile, che non permettono di raggiungere risultati sorprendenti. In più bisogna diffidare dei progetti di sviluppo su grande scala. Sono realmente fattibili solo quelli su piccola scala che da un lato hanno il supporto dell’amministrazione, dall’altra danno importanza allo sviluppo endogeno, alla tradizione e alla situazione attuale del territorio. L’unica politica efficace è quella a lungo termine che rifletta le intenzioni della popolazione locale, considerando nel loro complesso la varietà di condizioni odierne di Dege. La cultura Derge non è solo quella tipica della contea di Dege ma è un patrimonio culturale collettivo di natura ampia e complessa. Quindi la cooperazione di divisioni amministrative di più parti è la condizione necessaria dello sviluppo e solo così si può realizzare uno sviluppo e una conservazione che abbiano un vero senso. Parlando di cultura Derge si parla di architettura tradizionale tibetana, di cui sono esempi la Stamperia o il Monastero di Gengqing, ma anche delle varie scuole di buddismo tibetano e dei loro testi classici; sul piano delle
CULTURA E SOCIETÀ tecnologie tradizionali vi sono la medicina e la teoria medica tibetana, la produzione di carta e inchiostro, l’intaglio delle matrici di legno e la tecnica di stampa; sul piano artistico l’opera tradizionale tibetana e i dipinti Thangka; e per finire anche i mezzi di sostentamento tradizionali basati sull’allevamento sono parte della molteplicità della cultura Derge. Una modalità statica di presentazione singola delle varie risorse non permette di valorizzare appieno questa cultura meravigliosa, facendole perdere integrità. Come detto sopra, lo sviluppo del turismo futuro con un metodo di conservazione dinamica, che utilizzi forme di cultura materiale e immateriale, restaurando i quartieri tradizionali e sviluppando e conservando le produzioni tradizionali, attraverso la cooperazione reciproca e stretta tra i vari territori amministrativi deve essere la direzione dello sviluppo futuro e della tutela della cultura Derge. ■ Bibliografia • Gruppo Editori del Sichuan, Indagine sociale e storica sull’etnia tibetana della prefettura di Ganzi nel Sichuan, Accademia delle Scienze Sociali del Sichuan, 1985. • Ufficio culturale del Sichuan, Le nuvole di buon auspicio di Gongga, Edizioni Etniche del Sichuan, 1990. • Ufficio per la ricerca sulle politiche della Commissione Affari Etnici del Sichuan, Manuale sul lavoro etnico nel Sichuan, Edizioni Etniche del Sichuan, 1990. • Gruppo di ricerca sull’economia delle aree etniche del Sichuan, Studio sullo sviluppo delle aree tibetane del Sichuan, Edizioni Etniche del Sichuan, 1998. • Wu Shimin, Lettura delle politiche etniche in Cina, Edizioni Università Cinese delle Minoranze Etniche, 1998. • Gruppo di ricerca storica della Commissione del Partito Comunista della prefettura di Ganzi, Storia della rivoluzione democratica nella prefettura autonoma tibetana di Ganzi. • Commission Affari Etnici di Ganzi - Scuola Normale di Kangding, Nel Kham, Edizioni Etniche del Sichuan, 2000. • Gruppo di ricerca economica ed ecologica sulle aree etniche del Fiume Azzurro, Studio economico ed ecologico sulle aree etniche del Fiume Azzurro, Edizioni del Popolo del Sichuan, 2001. • 溝尾良隆 『観光を読むーー地域振興への提言』古今書院 1994年 • 足羽洋保 『観光資源論』中央経済社1997年 • 青柳まちこ編 『開発の文化人類学』 古今書院 2000年 • 国土交通省総合政策局観光部監修 観光まちづくり研究会編集 • 『新たな観光まちづくりの挑戦』 ぎょうせい2002年 • 吾郷秀雄 『参加型開発から自立支援型開発へ』 大学教育出版 2002年 • 都市観光でまちづくり編集委員会『都市観光でまちづくり』 学芸 出版社 2003年
La cultura Derge dei tibetani del Sichuan / 181
NOTE 1. Il monte Gongga è alto 7.556 metri, si trova fra Kangding, Jiulong e Luding ed è la cima più alta del Sichuan. Ai piedi del monte vi è una zona panoramica nazionale di 10.000 kmq. 2. Hailuogou è il nome di un ghiacciaio che si trova anch’esso all’interno della zona panoramica del monte Gongga; il ghiacciaio è lungo 6 km ed è il più basso sul livello del mare fra quelli alla stessa latitudine in Cina. 3. Rotta turistica da Chengdu per Dege: - D1. Chengdu - 139km - Tianquan - 162km - Luding - 67km - Kangding; - D2. Kangding - 40km - Xinduqiao - 221km - Daofu - 77km - Luhuo; - D3. Luhuo - 95km - Ganzi - 117km - Xinluhai - 115km - Dege. 4. Si è preferito usare qui il termine “circolo virtuoso” in quanto vi è la tendenza mondiale ad abusare del termine “sostenibile”. 5. Nel Kham, Edizioni Etniche del Sichuan, agosto 2000, pp.116-117. 6. L’Oupulonggo è un piccolo fiume che scorre da sud a nord dividendo la città di Gengqing in parte orientale e occidentale; alla fine converge nel fiume Sequ nella parte settentrionale della città. 7. L’inchiostro utilizzato per la stampa nella Stamperia di Sutra di Dege viene principalmente prodotto dal fumo di combustione della betulla. 8. Ito Abito ha utilizzato l’esempio della società giapponese spiegando che anche se non vi è l’intervento speciale della società esterna, una società fa affidamento sulle possibilità preesistenti di creare un cambiamento (“Antropologia dello sviluppo”, 2000, p.11). Tuttavia a Dege non è riuscito ad osservare tendenze endogene di cambiamento. 9. La “Legge forestale” è diventata effettiva il 1° gennaio 1985. 10. La “Legge sulla protezione degli animali selvatici” è diventata effettiva il 1° marzo 1989. 11. Nella produzione della carta tradizionale tibetana, la raccolta della Stellaria come materia prima spesso richiede la mobilitazione di tutti gli uomini e le donne dei paesi intorno alla Stamperia e solo così si garantisce sufficiente materiale e allo stesso tempo i cittadini dei villaggi ottengono una ricompensa in denaro o in natura che li aiuta con le spese della vita quotidiana. Naturalmente la trasformazione della materia prima e della polpa di cellulosa fino alla fase finale di fabbricazione e asciugatura della carta richiedono manodopera qualificata per cui la ricompensa è ancora più alta. 12. Nel territorio di Dege si crede che non sia virile per un uomo stare seduto a lungo occupandosi di una lavoro semplice. 13. Le organizzazioni amministrative dal basso, secondo un ordine cronologico sono le organizzazioni di mutuo soccorso, le cooperative, le comuni popolari e più tardi i comitati di villaggio.
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione Cristiana Turini
The aim of the proposed article is both to offer an outline Dottore di ricerca in Storia e civiltà of the land of the Naxi people and of Naxi ethnonym dell’Asia orientale e docente di question. Besides, it also investigates how the Naxi Lingua e traduzione cinese presso l’Università di Macerata people have gradually changed their culture in order to survive the encounter with modernity. It is showed how part of this process has consisted in the transformation of “dongba religion” in “dongba culture” which has taken place thanks to the active involvement of the dongba ritual specialists who have been shaping the Naxi religious heritage in a form that has turned to be acceptable to the Chinese political system and which has ensured the Naxi people a possibility to resist assimilation. The consequences of the development of tourism in the Lijiang area which started in 1994 are another aspect of the Naxi encounter with modernity, causing the commodification of the Naxi dongba culture, of thei landscape as well as a very deep transformation in Naxi society.
T
ra le etnie che abitano le regioni della Cina sud-occidentale, i Naxi (纳西) hanno suscitato un sorprendente interesse di studiosi cinesi e stranieri attraendo, in anni più recenti, anche l’attenzione di diversi giornalisti e documentaristi. Conosciuti in Occidente, inizialmente con il nome di Na-khi, soprattutto grazie al paziente e infaticabile lavoro di J.F. Rock1, i Naxi sono stati ufficialmente riconosciuti dal governo cinese nel 1954. Secondo i dati del Censimento della Popolazione della Repubblica Popolare Cinese, la loro popolazione ammontava nel 20002 a 308.839 persone, di cui 295.464 vivevano nello Yunnan, 8.725 nella provincia del Sichuan, 1.223 nel Tibet sud-orientale, e alcuni rimanenti piccoli gruppi sparsi nel resto del territorio cinese. La maggior concentrazione di Naxi si riscontra tutt’oggi nel distretto di Lijiang3, nello Yunnan nord-occidentale, dove ne sono stati censiti circa 188.000. La questione degli etnonimi Questa etnia rappresenta un emblematico caso di classificazione etnica interna fortemente contestata. La denominazione Naxi, infatti,
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 183 riconosciuta ufficialmente dal governo della Repubblica Popolare Cinese è stata molto discussa sin dalla sua istituzione. Gli studiosi cinesi hanno preferito, a livello non ufficiale, mantenere una differenziazione del gruppo in due “rami”: uno più numeroso, “occidentale”, con una popolazione di circa 260.000 rappresentanti, generalmente etichettato come “Naxi” e localizzato principalmente nel distretto di Lijiang e nelle aree adiacenti dei distretti di Zhongdian, Weixi, Lanping, Jianchuan, Heqing e Yongsheng; l’altro, più esiguo, comprendente circa 40.000 persone, “orientale”, al quale ci si riferisce come ai “Naxi di Yongning”, abitanti nei distretti di Ninglang e di Yongning (Yunnan) e in quelli di Muli, Yanyuan e Yanbian (Sichuan meridionale). Sono stati proprio questi ultimi a manifestare, sin dagli anni Cinquanta (quando ebbe inizio il progetto relativo all’identificazione delle minoranze), un categorico rifiuto rispetto alla denominazione “Naxi”, attribuitagli loro malgrado, rivendicando piuttosto uno status di autonomia attraverso l’impiego degli etnonimi “Naze” o “Mosuo”. Mentre il distretto autonomo di Lijiang rappresenta il centro della cultura Naxi, il fulcro politico-religioso dei Mosuo è localizzato tra il lago Lugu e la cittadina di Yongning. È interessante notare come, tanto nell’una quanto nell’altra località, i due gruppi abbiano la consuetudine di identificarsi come genti Na (Naxi a Lijiang e Na a Yongning)4, dove il significato di na5, peraltro molto dibattuto, può essere sia “nero” sia “grande”. Attualmente, quei rappresentanti del ramo orientale, che chiamano se stessi “Mosuo” e che vivono nel distretto di Ninglang, sono stati ufficialmente considerati come ramo dei Naxi occidentali, mentre quelli che vivono al confine tra Yunnan e Sichuan, ma nel territorio appartenente alla provincia del Sichuan, sono stati classificati come “Mongoli” (蒙族, Mengzu)6. Si tratta, comunque, di un’evoluzione estremamente recente, anche se le differenze tra le culture di queste due etnie iniziarono ad essere sottolineate a partire dal periodo della Prima Repubblica (1911-1949). Tra i Naxi e i Mosuo sussistono, effettivamente, stretti legami linguistici: parlano dialetti appartenenti alla stessa lingua della famiglia tibeto-birmana7 e questo elemento costituisce uno dei motivi fondamentali del fatto che siano stati classificati ufficialmente come un’unica “minoranza etnica”. Di certo, tuttavia, i Mosuo, che da tempo cercano un riconoscimento ufficiale che li distingua dai Naxi “occidentali”, numericamente e politicamente più consistenti, hanno tratti culturali ben diversi da questi ultimi. Innanzi tutto, l’organizzazione sociale Mosuo comprende sia una discendenza patrilineare sia una matrilineare e walking marriages8 (走婚, zouhun) con residenza duolocale, mentre l’organizzazione della parentela Naxi è basata sui principi della discendenza patrilineare e della residenza virilocale. Inoltre, i Mosuo sono stati tradizionalmente devoti del Buddhismo Geluk-pa,
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Identità etnica: un’accezione diversa per gli antropologi e per i rappresentanti governativi
mentre i Naxi “occidentali” non sono mai stati troppo condizionati da una devozione ad alcuna setta buddhista, benché il loro territorio sia stato disseminato in passato di monasteri Kharma-pa. Infine, se i Mosuo rifiutano l’identità Naxi, questi ultimi prendono le distanze dai Mosuo, definendoli “arretrati” e dai costumi sessuali promiscui. Molta della confusione sull’identità Naxi e Mosuo si è originata dal fatto che prima del 1949 sia le fonti cinesi9 sia gli studiosi occidentali si siano riferiti ai Naxi “occidentali” come ai “Mosuo” o “Moxie”. La decisione di cambiare il nome da Mosuo (Moxie, Mosha) in Naxi venne presa principalmente per andare incontro ai desideri dei gruppi, numericamente superiori e politicamente più influenti, dell’area di Lijiang, che si erano da molto tempo ascritti la denominazione di “Naxi”10. Il nome fu, dunque, sostituito, ma la categoria sottostante rimase la medesima. L’atto di definizione dei confini etnici e l’abilità nel fare in modo che determinate “etichette” siano ben fissate costituiscono importanti segni del potere dello Stato moderno. Ciò su cui è opportuno riflettere è che “l’identità etnica” possa significare spesso qualcosa di diverso per gli antropologi, il cui interesse è la comprensione della varietà dell’esperienza locale, e per i rappresentanti del governo, per i quali il progetto di classificazione delle etnie minoritarie ha implicato spesso una soppressione della coscienza locale. Il territorio abitato dai Naxi-Mosuo Il territorio abitato dai Naxi presenta caratteristiche geografiche piuttosto ostili ad un agevole insediamento umano: è costituito da elevate catene montuose, ultime propaggini dell’altopiano himalayano che, attraversata la regione tibetana, si snodano verso sud, parallelamente al corso dei tre fiumi Jinshajiang (tratto iniziale dello Yangzijiang), Mekong e Salween (o Nujiang). I rilievi di questa zona sono anche i più alti dell’intera provincia dello Yunnan, si ricordano il monte Meili (6.740 metri), il Taizi (6.054 metri), il monte Haba (5.396 metri) nel distretto di Zhongdian. La catena del monte Yulong (5.596 metri) rappresenta il principale complesso montuoso del territorio Naxi. Sono anche evidenti tracce di una precedente attività vulcanica, indicata da piccoli crateri sovrapposti al terreno calcareo dell’estremità meridionale della medesima catena. Stalattiti e stalagmiti sono visibili nelle numerose grotte dell’area11, che risulta inoltre disseminata di laghi, la cui esistenza dipende, però, dal grado di piovosità della stagione umida. Le profonde gole del Mekong e del Nujiang sono localizzate ad ovest dell’area abitata dai Naxi e dai Mosuo, mentre l’alto corso dello Yangzi segna, con la sua doppia ansa, l’ideale confine tra le due etnie, che vede i Mosuo concentrati soprattutto a sud-est dell’ansa settentrionale del fiume. Inoltre, dei grandi corsi d’acqua presenti nello Yunnan, solo il Mekong e il Fiume delle Perle collegano la provincia
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 185 al resto della Cina: gli altri scorrono tutti verso il Sud-Est asiatico. Il clima varia considerevolmente in relazione all’altitudine. Lijiang (il cui vero nome è Dayanzhen, 大研镇), che sorge a 2.400 metri, gode di un clima temperato: la stagione umida è in estate, quando il monsone soffia da ovest, quella secca in inverno12. Nonostante il carattere prevalentemente montuoso della regione, sono presenti anche fertili pianure alluvionali, localizzate tra i 2.000 e i 3.000 metri di altitudine, con un clima che, sebbene sia continentale, è piuttosto mite grazie alla latitudine subtropicale. Ciò ha permesso la coltivazione del riso nell’area di Lijiang e, in tempi più recenti, anche nella regione di Yongning. La zona del distretto di Dayanzhen13 è ben irrigata grazie alla presenza di diverse sorgenti montane, ma a nord il territorio si fa sempre più arido e montuoso e l’attività agricola è possibile solo nella piana di Dagu e in poche altre località in cui siano presenti corsi d’acqua la cui portata possa permettere l’irrigazione delle coltivazioni a terrazza. Alcune comunità hanno acquisito, con il passare del tempo, le tecniche necessarie alla raccolta e conservazione dell’acqua delle piogge monsoniche, grazie alle quali possono sopravvivere anche in zone particolarmente ostili14. Dove le condizioni climatiche lo permettono, il terreno è coltivato a frumento in inverno e a riso in primavera. Nel distretto di Lijiang vengono prodotti anche altri cereali importanti, quali il grano saraceno, il mais e l’avena, oltre a fagioli, piselli, cotone e canapa. Le rape sono utilizzate sia per il consumo umano che per il foraggiamento degli animali15. Ovini e bovini sono allevati per la produzione di latte, lana e carni, ma nella dieta dei Naxi sono presenti anche bufali, suini e animali da cortile. Lo yak è largamente impiegato per il dissodamento del terreno, oltre che per i derivati del latte e le carni. La caccia è molto diffusa ed è praticata con l’ausilio di trappole e di cani. Ogni villaggio ha, inoltre, le proprie arnie per la produzione di miele. L’austerità dell’aspetto orografico dell’area ha sempre rappresentato un grosso ostacolo per le vie di comunicazione. Le amministrazioni che si sono succedute nel corso degli anni hanno lentamente incrementato i collegamenti utilizzando le parti navigabili dei fiumi e sostituendo alle mulattiere strade più ampie che, tuttavia, spesso presentano ancora un fondo dissestato e disagevole, per cui molti villaggi tuttora non sono raggiungibili nella stagione umida a causa del fango, delle frane e delle voragini che si aprono lungo le vie di montagna. Nella provincia dello Yunnan sono presenti ventiquattro delle cinquantacinque etnie minoritarie ufficialmente censite dal governo di Pechino e abitano i due terzi della totalità territorio. Proprio a causa della particolare geografia umana della regione, tra le questioni amministrative che lo Stato fu costretto ad affrontare sin dai primi anni della fondazione della Repubblica, una delle più urgenti riguardava
Caratteristiche geografiche, climatiche e logistiche del territorio
CULTURA E SOCIETÀ l’atteggiamento da assumere nei riguardi delle etnie non-Han. Venne stabilito che ovunque queste ultime avessero rappresentato la maggioranza della popolazione di un distretto o ne avessero occupato la maggior parte del territorio, avrebbero goduto di un’autonomia locale. Il governo avrebbe, però, richiesto a taluni gruppi alcune riforme preventive: l’eliminazione della schiavitù presso i Jingpo e gli Yi, le riforme agrarie tra i Naxi, i Bai e i Dai, la scomparsa dei cacciatori di teste tra gli Wa. Venne istituito anche l’Istituto delle Minoranze a Kunming, al fine di formare nuovi quadri amministrativi tra la popolazione non-Han. Nel 1961, la riorganizzazione del territorio era stata completata e nel nord-ovest sarebbe stata mantenuta fino ai giorni nostri. Nella regione vennero istituiti i seguenti distretti autonomi: il Distretto Autonomo Yi di Ninglang (20 settembre 1956), il Distretto Autonomo Naxi di Lijiang (10 aprile 1961) e, in anni più recenti, il Distretto Autonomo Lisu di Weixi (13 ottobre 1985), il Distretto Autonomo Yi di Yangbi (1 novembre 1985)16. La religiosità dei Naxi di Lijiang: un mondo sincretico La sfera religiosa Naxi è sempre stata caratterizzata da un forte sincretismo culturale, determinato in gran misura dalla posizione di confine del territorio da essi abitato. All’antica fede dei pastori delle steppe che i Naxi portarono con sé migrando dal Tibet nord-orientale (attuale provincia del Qinghai), si vennero nel tempo a sovrapporre alcune credenze precipue di quel Bön che caratterizzò l’area tibetana prima dell’introduzione del Buddhismo. In essa, più tardi, sarebbero confluiti anche aspetti relativi al culto appartenenti al Bön inteso come dottrina codificata ed elementi caratteristici dell’induismo, del lamaismo e di alcune popolazioni dello Yunnan, in primo luogo Yi e Pumi17. Lo stesso Rock18, lavorando sui manoscritti pittografici Naxi, cominciò a considerare fondata la possibilità che alcune caratteristiche della religione Naxi e del Bön antico, noto anche come “religione popolare”19, potessero derivare da un sostrato sciamanico comune, costituitosi tra i pastori che avevano abitato l’area dell’attuale Qinghai. Attraverso la consultazione dei contributi di Evans-Wentz20, Laufer21, Tucci22 e Hoffmann23 egli riconobbe le origini tibetane o indiane di molti dei nomi di divinità da lui incontrati nell’opera di traduzione dei manoscritti rituali e, in alcuni casi, poté riconoscere interi rituali Naxi24 all’interno di tali tradizioni religiose. Le entità soprannaturali sono divise dai Naxi in divinità, demoni ed esseri non umani che abitano tra il Cielo e il mondo sotterraneo. Tra le divinità, si distinguono le divinità supreme, le divinità locali, spesso riconoscibili in divinità delle montagne, e i sacerdoti Naxi (dongba) divinizzati, tra cui spicca la figura di Dongbashiluo (东巴什罗), il leggendario fondatore della religione Naxi. Qui, ancora una volta, è
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 187 chiaramente percepibile l’influenza tibetana: Dongbashiluo altri non sarebbe se non il fondatore della religione Bön, Ston-pa-gshen-rabsmi-po. L’impossibilità dei Naxi di pronunciare le consonanti finali e la mancanza tra i suoni consonantici della loro lingua della “r”, che invece è presente in tibetano, avrebbe causato la trasformazione di gshen-rabs in shiluo25. L’aver individuato l’origine del termine dongba nel tibetano stonpa26, che significa “maestro, fondatore o promulgatore di una particolare dottrina”27, suggerisce, poi, la non appartenenza di questa figura di specialista rituale alla cultura originaria Naxi. In effetti, a conforto di tale supposizione basti ricordare come il dongba non risulti indispensabile per la celebrazione di una delle cerimonie Naxi più antiche, quella del Sacrificio al Cielo28, avente origine centrasiatica29. In questa prospettiva, il dongba sembrerebbe piuttosto il prodotto di un’interazione tra il bön-po tibetano e la figura di uno specialista rituale locale avente il proprio bagaglio cultuale e mitologico, parzialmente mantenuto fino all’epoca contemporanea. Molte indicazioni suggeriscono che il Bön sia stato anche il tramite primario attraverso cui i Naxi vennero a contatto con il Buddhismo lamaista. Nonostante l’adozione di diverse divinità buddhiste, questa dottrina venne da essi spogliata di gran parte dei suoi contenuti teologici, tanto che le pratiche religiose Naxi non si sono mai confrontate con i concetti di “illuminazione” e di “meditazione”, né l’idea di poter riscattare il proprio karma attraverso l’accumulazione di meriti, né la nozione delle “Tre Gemme” (costituite dal Buddha, dal dharma e dal sangha) traspaiono dai loro manoscritti rituali. All’orientamento determinato dalla concezione che questo mondo sia caratterizzato dalla sofferenza e dall’illusione, i Naxi hanno sostituito un’idea dell’esistenza in cui l’attività del dongba si concentrava essenzialmente sul conseguimento della buona salute, della prosperità, del buon raccolto, di un bestiame sano e forte e di una morte serena. Le profonde affinità che esistono anche tra gli elementi iconografici e gli strumenti rituali riconducibili sia alla cultura tibetana sia alla tradizione dongba testimoniano ulteriormente il passaggio di molte componenti da un mondo religioso all’altro. Tra i paraphernalia comuni si ricordano: le statuine di farina di orzo tostato, i due tamburi (quello grande e quello piccolo), le lampade, i cembali, il gong, i piatti, la conchiglia, le tavolette di legno30. Inoltre, le liturgie in entrambi i contesti si avvalevano di complesse forme musicali, di danze e di canti, allo scopo di invitare, supplicare e congedare le divinità o distruggere i demoni. I dongba e i bön-po indossavano persino lo stesso copricapo a cinque punte31. Dunque, a causa di estese interazioni culturali con le popolazioni vicine, elementi rituali Bön e buddhisti si sono sedimentati all’interno di un sistema indigeno fondato sulle pratiche sciamaniche, sul
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Il Dongba, lo specialista religioso Naxi: profilo e funzioni
culto di spiriti ancestrali e su una varietà di divinità rappresentanti in primis forze naturali. Le idee su cui questa tradizione si è costruita sono espresse con chiarezza in elaborate cerimonie32, i cui profili sono contenuti in un esteso corpus di manoscritti rituali redatti nella sola scrittura pittografica in uso ancora oggi e utilizzata dal principale specialista religioso Naxi, il dongba33. La capacità di leggere e redigere i manoscritti sacri è esclusiva di questo specialista rituale che, durante lo svolgimento delle attività cerimoniali, si dedica essenzialmente alla recitazione dei testi sacri. Di fatto i dongba detengono il monopolio della vita cerimoniale34 grazie alla loro conoscenza dei contenuti dei manoscritti e ciò spiega, almeno parzialmente, l’attenzione che prestano alla particolare tecnica di redazione dei testi i quali rappresentano a tutti gli effetti dei canovacci, in cui non è prevista l’annotazione di frasi complete, bensì solo l’annotazione di quei pittogrammi ritenuti indispensabili alla memoria del dongba per richiamare alla mente i particolari del testo nella forma in cui debba essere recitato. Per tale ragione, la corretta traduzione di un manoscritto rituale senza l’aiuto di un dongba è praticamente un’impresa impossibile. Poiché i dongba celebrano i rituali solo su richiesta di chi abbia necessità del loro intervento e poiché non costituiscono una classe religiosa a tempo pieno, nella vita quotidiana essi si dedicano alle attività legate all’economia del villaggio. Essi sono inoltre artisti e pazienti artigiani, che preparano con zelo di volta in volta tutti gli oggetti rituali necessari alla celebrazione della cerimonia, tra cui anche le rappresentazioni delle divinità del pantheon Naxi. La religione dongba e lo Stato socialista Sebbene la Costituzione della Repubblica Popolare Cinese formalmente garantisca ai propri cittadini la libertà di religione e il rispetto delle culture appartenenti alle etnie minoritarie, la storia recente è stata caratterizzata piuttosto dal continuo tentativo di scoraggiare e reprimere qualsiasi attività legata alla sfera della superstizione, della magia o della religione. Così, ad esempio, a Lijiang la Cerimonia dongba di Sacrificio al Cielo fu proibita negli anni 1951-1986 e le pratiche sciamaniche delle sainii continuarono ad avere luogo solo clandestinamente e nei villaggi più sperduti tra le montagne, dove tuttora se ne conservano rare e preziose testimonianze. Benché alcuni amministratori locali abbiano dimostrato di possedere una certa sensibilità rispetto a tali contenuti della Costituzione, comprendendo che il loro compito dovesse essere quello di interpretare le direttive del governo di Pechino nell’interesse delle culture periferiche, le riforme che hanno preso avvio a livello regionale hanno spesso avuto un carattere restrittivo nei confronti dei costumi locali, di quelli matrimoniali in particolare, e del controllo delle nascite. Anche le riforme introdotte
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 189 nell’ambito dell’educazione e dell’assistenza medica hanno comportato delle pesanti conseguenze sullo stile di vita Naxi35. È stato solo a partire dal 1979, dopo la parentesi di distruzione e violenza della Rivoluzione Culturale durante la quale le Guardie Rosse incendiarono per le strade di Lijiang anche un’enorme quantità di manoscritti rituali, che le autorità locali sono tornate ad occuparsi dei Naxi, attraverso uno studio sistematico della loro scrittura pittografica. Nel 1981 è stato istituito a Lijiang l’Istituto di Ricerca sulla Cultura Dongba, proprio al fine di salvare dall’oblio e tradurre in cinese i manoscritti più significativi. A questo scopo, era stata preventivamente indetta una conferenza, nel corso della quale erano stati intervistati circa cento dongba, tra i quali ne erano stati reclutati sette per la realizzazione del programma di ricerca, coordinato da sette specialisti cinesi. Dopo la scoperta, nel 1982, di un manoscritto inerente i diversi stili delle danze cerimoniali interpretate dagli operatori rituali, è stata organizzata una seconda conferenza, nel 1983, a cui hanno preso parte ottanta dongba, che hanno presentato le danze relative a tre cerimonie36. I primi risultati delle ricerche effettuate a Lijiang sono stati pubblicati nel 1985, in forma di vasta selezione di contributi curata da Guo Dalie e Yang Shiguang37. L’anno seguente, l’Istituto di Ricerca ha iniziato a far circolare le prime traduzioni in cinese dei manoscritti Naxi interpretati dai dongba coinvolti nel progetto e solo nel 1999 è iniziata la pubblicazione dell’opera monumentale 纳西东巴 古籍译注全集 (Collezione di Traduzioni Annotate degli Antichi Manoscritti Dongba dei Naxi, Naxi dongba guji yizhu quan ji), prodotto finale di più di dieci anni di impegno. Si tratta di cento volumi di traduzioni in cinese di manoscritti rituali dongba: un lavoro impagabile, di valore inestimabile per la conservazione di un patrimonio culturale che, nonostante ciò, con la scomparsa dell’ultimo importante dongba si trova ancora sull’orlo dell’oblio. Per evitare la morte della tradizione dongba, il medesimo Istituto da anni si dedica anche ad attività finalizzate alla trasmissione delle conoscenze rituali. Se, in passato, il sapere rituale veniva rigorosamente trasmesso dal dongba al proprio discepolo, spesso all’interno di una stessa famiglia, dalla fine degli anni Novanta è stato l’Istituto ad occuparsi della formazione di giovani dongba. Selezionati nei villaggi, sette giovani sono stati trasferiti a Lijiang dove, sotto l’egida dei più anziani, si sono dedicati allo studio dei manoscritti e dei pittogrammi. Diverse pratiche tradizionali continuano ad essere conservate tra i Naxi, ma altre sono state completamente modificate e alcune sono scomparse per sempre. A tal proposito, un’analisi più attenta rivela come l’Istituto di Ricerca sulla Cultura Dongba, con la sua attività di sistematizzazione dello studio dei manoscritti, abbia contribuito notevolmente al compimento del fenomeno di trasformazione della “religione dongba” in “cultura dongba”, tuttavia non senza una par-
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Estinta l’ultima generazione dei Dongba, i Naxi alla ricerca di una cultura Dongba
tecipazione attiva degli attori interessati. Proprio manipolando abilmente l’enfasi posta tradizionalmente dagli Han sulla scrittura (wenzi, 文字) come segno di cultura (wenhua, 文化) e di civiltà (wenming,文 明), i dongba hanno fatto sì che l’eredità religiosa Naxi si conservasse in una forma accettabile per il sistema cinese. L’aver associato questo operatore del sacro con la stesura dei manoscritti lo ha allontanato dal reame della superstizione, consentendone un ri-pensamento in termini di esperto della “cultura” Naxi, di un saggio e, favorendo, allo stesso tempo, la creazione di uno spazio che ha assicurato all’etnia un senso di consapevolezza e di rinascita culturale e, quindi, di possibile resistenza all’assimilazione. La trasformazione della religione dongba in cultura dongba è, dunque, un’invenzione di tradizione38, attraverso cui i Naxi, nella lotta per la sopravvivenza culturale, hanno tentato di ri-presentare la loro etnicità nell’angusto spazio concesso dal governo. Questo dimostra come forme di religione popolare possano adattarsi alle circostanze in trasformazione, reinterpretando e riorganizzando il proprio complesso di credenze e pratiche39. Ciò non ha potuto, comunque, evitare che nel 2003 si estinguesse l’ultima generazione di grandi dongba e che i giovani, allettati dalla nuova politica di apertura economica adottata dal governo centrale, iniziassero ad abbandonare i villaggi d’origine e a migrare verso i grandi centri cittadini, nel tentativo di fare fortuna. Probabilmente le riforme economiche della Cina di Deng Xiaoping, degli anni Ottanta e Novanta, hanno finito con il produrre una modernizzazione e una sinizzazione più profonde rispetto a quelle causate dalla politica socialista precedente40 e con il rendere ancora attuali le parole che nel 1952, J.F. Rock scriveva: “Ancora qualche anno e i libri naxi saranno indecifrabili e non importa quanti dizionari saranno disponibili, rimarranno dei libri chiusi: nessuna Stele di Rosetta potrà essere d’aiuto”41. Nel segno della modernità: lo sviluppo del turismo a Lijiang Lo sviluppo del turismo a Lijiang deve essere inserito nel più ampio contesto della politica di modernizzazione del paese adottata dal governo centrale la cui attuazione ha implicato, a partire dagli anni Ottanta, anche la costruzione delle prime infrastrutture turistiche su scala nazionale42 e un importante incremento del turismo straniero. In accordo con le direttive centrali, Lijiang è stata aperta al turismo internazionale nel 1986 e da allora è diventata ambita meta di visitatori, anche cinesi soprattutto dagli anni Novanta, quando un rapido aumento degli utili in diverse zone del paese ha permesso che si diffondessero nuove forme di consumo, tra cui proprio il viaggio di piacere. Qualsiasi prodotto potesse essere commercializzato, dall’artigianato43 al paesaggio, è diventato oggetto di consumo, persino le culture delle diverse etnie che vivono nel territorio di Lijiang si sono trasformate in risorse economiche44, tanto che nel 1994 il governo provinciale
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 191 dello Yunnan ha designato Lijiang città-chiave dell’espansione dello sviluppo turistico cinese. Coerentemente con questa tendenza, nel 1994 è stato inaugurato l’aeroporto di Lijiang45 e alla fine del 1996 risultavano ufficialmente registrate nella cittadina più di dieci jointventures e aziende a capitale straniero46. L’incremento del turismo ha subito un’ulteriore accelerazione dopo il 1997, anno in cui l’Unesco ha incluso Lijiang tra i siti Patrimonio Culturale dell’Umanità. L’immediata conseguenza di un simile fermento è stato un sorprendente sviluppo dell’edilizia alberghiera. I tre hotel e le rare pensioncine presenti a Lijiang nel 1993, nel 1998 hanno lasciato il posto a 24 grandi alberghi, tra cui alcuni a tre stelle e il primo hotel a cinque stelle della provincia dello Yunnan, e diverse decine di pensioni; nell’estate del 1999, si contavano in tutto ben 71 strutture di ricezione turistica, che potevano ospitare circa 13.500 visitatori e nei tre anni successivi il numero di nuovi posti letto crebbe al ritmo di 400 al mese47. All’esempio costituito dallo sviluppo degli alberghi si potrebbero aggiungere quelli dell’aumento di taxi, ristoranti, negozi e locali notturni. Naturalmente, un simile impatto della “modernità” sulla vita degli abitanti non poteva non implicare importanti conseguenze: aumento dei prezzi, riduzione degli spazi pubblici per la quotidianità degli abitanti di Lijiang, tensioni sociali tra gli imprenditori arrivati da fuori e i locali, tensioni tra gli appartenenti ad etnie diverse e mercificazione della cultura Naxi, solo per citare le più rilevanti. Così, ad esempio, la piazza principale della città vecchia che tradizionalmente è stata la sede del mercato locale è stata trasformata in una shopping arcade ad uso dei turisti, mentre i residenti sono costretti a camminare per circa un chilometro per poter raggiungere la nuova sede del mercato. Questo e altri disagi hanno spinto molti residenti a dare in affitto la propria abitazione ad imprese commerciali, in genere dirette da cinesi Han che provengono da altre zone del paese e pronti alla “corsa all’oro”, per traslocare nell’area periferica, dove si stanno moltiplicando i complessi residenziali sul modello occidentale a spese del terreno agricolo. Se diverse famiglie originarie del luogo stanno accumulando una quantità di denaro notevole sia grazie a questo tipo di ritorno economico, sia talvolta attraverso la diretta gestione di ristoranti e negozi, è altrettanto vero che l’incremento rapido della popolazione non indigena ha prodotto tra i locali la sensazione di trovarsi sul punto di “perdere” la propria cittadina e di essere “scippati” di potenzialità commerciali che naturalmente gli appartengono. A consolidare questa sensazione contribuisce anche la mercificazione della cultura Naxi, che ha visto la trasformazione di colorati costumi locali, arte popolare e feste in prodotti ad esclusivo consumo turistico. Così, per gratificare le aspettative dei visitatori, si confezionano rappresentazioni della “cultura dongba” ad hoc, ovvero rappresentazioni di una cultura il cui carattere d’invenzione, pur essendo ri-
Le conseguenze della modernità sulla vita e sulla cultura Naxi
CULTURA E SOCIETÀ conosciuto dalla comunità locale, non impedisce che venga percepita dal turista come autentica nella sua alterità. Naturalmente, il processo di forgiatura di un’autenticità commerciabile passa soprattutto attraverso il soddisfacimento delle aspettative nutrite dalla cultura dominante nei riguardi dell’etnicità Naxi. Lo Stato, non solo è arbitro delle relazioni che si instaurano tra produttori, venditori e consumatori del turismo etnico in Cina, ma, nel caso specifico, stabilisce anche quali aspetti della cultura Naxi siano suscettibili di rivalutazione e possano quindi essere promossi come “autentici”, ovvero come rappresentativi di tale minoranza. La promozione della differenza, dell’autenticità e dell’etnicità da parte del governo rappresenta ciò che l’interpretazione ufficiale di questa cultura minoritaria ritenga debba essere la stessa, ovvero costituisce la reinvenzione di un’identità culturale desiderabile. Tuttavia, l’élite Naxi negli anni più recenti ha partecipato attivamente a questo processo, agendo, oltre che per agevolare il “consumo” della propria cultura da parte degli Han e degli stranieri, anche per fare in modo che il dongba diventasse il luogo ideale in cui dibattere e riformulare la tradizione. I Naxi, plasmando con ostinazione le nuove immagini di se stessi, sono stati capaci di rendersi artefici delle loro modernità alternative48, seppur all’interno delle costrizioni e nel rispetto delle gerarchie del sistema cinese, resistendo, sul piano nazionale, all’assimilazione culturale, e non solo, da parte degli Han e sul piano mondiale, almeno per il momento, agli effetti più deleteri della globalizzazione. ■
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NOTE 1. Joseph Rock (1884-1962), botanico, visse in Cina dal 1922 al 1949. Nel corso dei suoi primi soggiorni a Lijiang, negli anni Venti, finalizzati alla raccolta di esemplari di alcune specie botaniche del monte Yulong, venne a contatto diretto con i Naxi e la loro cultura e ben presto i suoi interessi si orientarono verso l’antropologia. Durante i lunghi anni trascorsi a Lijiang, ebbe occasione di assistere a svariate cerimonie religiose Naxi, di cui non solo prese nota con dovizia di particolari, ma che documentò anche con materiale fotografico e con filmati. Si dedicò principalmente alla classificazione, all’analisi e alla decifrazione dei manoscritti compilati dagli specialisti rituali principali dell’etnia (i dongba) che costituiscono la fonte dei principi cosmologici delle antiche comunità Naxi. In questo paziente lavoro, fu assistito dalla collaborazione con diversi dongba, uno dei quali lavorò con lui dal 1930 al 1943 e l’ultimo dalla morte del primo fino al 1949. Purtroppo, molto del suo lavoro, ad eccezione delle foto, andò perduto nel 1944, quando i giapponesi affondarono la nave “Richard Hovey” nel Mar d’Arabia, sulla quale, causa forza maggiore, Rock era stato costretto ad imbarcare il suo materiale a Calcutta. Egli continuò a lavorare sui testi anche dopo l’espulsione dalla Cina e fino alla sua
CULTURA E SOCIETÀ morte. A lui si deve non solo il merito di aver posto le basi per uno studio sistematico della cultura religiosa Naxi, ma anche quello di aver salvato dall’oblio centinaia di manoscritti, raccogliendoli e traducendoli. Cfr. B. Sutton, In China’s Border Provinces. The Turbulent Career of Joseph Rock, Botanist-Explorer, New York, Hastings House, 1974, capp. 1, 3, 9. 2. I dati qui riportati – i valori del censimento del 2010 sono ancora in corso di elaborazione – sono stati tratti dal sito ufficiale dell’Ufficio Nazionale di Statistica della Repubblica Popolare Cinese: www.stats.gov.cn/tjsj/ndsj/ renkoupucha/2000pucha/html/t0201.htm, consultato il 28 febbraio 2011. 3. Conseguentemente all’ingente campagna di promozione del turismo in queste regioni, le denominazioni dei distretti di Lijiang e di Zhongdian, entrambi localizzati nello Yunnan, sono state recentemente cambiate in distretto di Yulong e di Shangrilà, rispettivamente. 4. Altri etnonimi sono: “Naru” nei distretti di Muli, Yanyuan e Yanbian della provincia del Sichuan; “Naheng” nei villaggi di Beijuba (distretto di Ninglang) e di Zhangzidan (distretto di Yongsheng) della provincia dello Yunnan. Sono anche chiamati “Na”, “Nazi”, “Naze”, “Naci” o “Nari” nei distretti di Yanyuan, Muli e Yanbian (Sichuan), in quelli di Lijiang, Yongsheng, Zhongdian, Weixi e Deqin (Yunnan) e nel distretto autonomo tibetano di Mangkang. Cfr. Hsu Elisabeth, “Introduction”, in M. Oppitz - E. Hsu (a cura di), Naxi and Moso Ethnography, Zurigo, Völkerkundemuseum Zürich, 1998, p. 17, nota 3. 5. Gli studiosi Naxi Fang Guoyu e He Zhiwu suggeriscono che il significato più probabile di na non sia “nero”, bensì “grande” (Fang Guoyu, He Zhiwu, Naxi xiangxing wenzi pu [Glossario dei pittogrammi Naxi], Yunnan renmin chubanshe [Casa editrice del popolo dello Yunnan], Kunming, 1981), in quanto il colore nero ha, nella mitologia Naxi, una connotazione negativa dal momento che rappresenta il male (cfr. Yang Fuquan, Dongbajing zhong de heibai guannian tantao [Indagini sulle nozioni di “nero” e di “bianco” nei manoscritti dongba], in Guo Dalie - Yang Shiguang, Dongba wenhua lun [Sulla cultura dongba], Casa editrice delle minoranze dello Yunnan, Kunming, 1993, pp. 470-481). Tuttavia la loro ipotesi è stata variamente confutata, si veda, ad esempio, Shi Zhuangang, The Mosuo: Sexual Union, Households Organization, Ethnicity and Gender in a Matrilinear Duolocal Society in Southwest China, Tesi di Dottorato in Antropologia, Stanford University, 1993, p. 18. 6. Non è casuale il fatto che il governo non abbia accettato “Mosuo” come etnonimo alternativo e abbia come tale approvato, invece, “Mongolo”. Quest’ultima denominazione è stata ormai formalmente riconosciuta e la sua applicazione ai Mosuo del Sichuan sud-occidentale ha ovviato alla necessità di istituire una nuova minoranza da includere nell’elenco ufficiale, evento che lo Stato ha permesso che si verificasse una sola volta dai primi anni Sessanta. Ironicamente, mentre essi sostengono di preferire che gli estranei si rivolgano a loro come ai “Mosuo”, e stanno cercando di ottenere con questo nome un riconoscimento d’identità distinta da quella dei Naxi, la maggior parte di quelli che vivono lungo le sponde del lago Lugu, dalla parte dello Yunnan, e nella regione di Yongning, di fatto utilizza, nella vita quotidiana, il nome “Naze” (o “Nari”) per identificarsi. Il motivo di una simile discrepanza è abbastanza chiaro: “Naze” è troppo simile a “Naxi” per sembrare una buona scelta, mentre “Mosuo” ha una lunga storia, alla quale gli eredi possono sperare di appellarsi per ottenere il tanto desiderato riconoscimento ufficiale. Cfr. C. McKhann, Naxi, Rerkua, Moso, Meng: Kinship, Politics and Ritual on the Yunnan-Sichuan Frontier, in M. Oppitz - E.Hsu (a cura di), op. cit., pp. 23-45. 7. Si tratta di una lingua classificata tra quelle appartenenti al ramo Lolo della famiglia tibeto-birmana, cfr. Ramsey R., The Languages of China, Princeton, Princeton University Press, 1987, pp. 267-270. 8. Per un approfondimento sull’argomento, si veda: C. Mathieu, Lost Kingdoms and Forgotten Tribes, Tesi di Dottorato in Antropologia, 1997, Australia Murdoch University; Cai Hua, Une société sans père ni mari. Les Nas de Chine, Parigi, Presses Universitaires de France, 1997. 9. I primi riferimenti a queste popolazioni compaiono nella letteratura han antica. Ad esempio, esse sono indicate in modo generico come Mosuo o Moxie (scritto anche 蘑些; il carattere 些, in base al Dizionario di Kangxi, si pronunciava suo) nel quarto libro del Man Shu (cfr. Fan Chuo, Man shu, Zhonghua shuju, Pechino, 1962, p. 96), di epoca Tang (618916), e come Mosha (摩沙) nel capitolo ventisette delle Sichuan Tongzhi [Cronache del Sichuan], del 1723. 10. Non bisogna dimenticare che, secondo gli studiosi, i Naxi e i Mosuo avrebbero avuto un’origine comune dai Qiang, i quali sarebbero migrati nello Yunnan settentrionale durante la dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.). Da questo momento in poi la loro presenza nell’universo culturale e politico cinese è attestata più assiduamente dalle fonti storiche ufficiali e, grazie a queste, si sa che tra le epoche Han e Tang (618-907) un cospicuo gruppo di Naxi migrò fino agli attuali distretti di Lijiang e Zhongdian. Questi gruppi, quindi, si divisero ulteriormente: il gruppo Naxi, più numeroso, si spo-
I Naxi di Lijiang tra modernità e tradizione / 197
stò ancora più a sud e ad ovest, mentre i Mosuo arretrarono. Per una trattazione esauriente delle teorie relative alla discendenza dei Naxi-Mosuo dai Qiang, si veda: C. McKhann, The Naxi and the Nationality Question, in S. Harrell (a cura di), Cultural Encounters on China’s Ethnic Frontier, Hong Kong, Hong Kong University Press, 1996, pp. 53-62. 11. Per un approfondimento relativo alla natura geologica del territorio abitato dai Naxi, si veda: J.F. Rock, The Life and Culture of the Na-khi Tribe of the China-Tibet Borderland, Wiesbaden, Franz Steiner Verlag GMBH, 1963, p. 14. 12. Cfr. A. Jackson, Na-khi Religion. An Analytical Appraisal of Na-khi Ritual Texts, L’Aia, Mouton, 1979, pp. 13-14. 13. Si tratta di un’area che si estende per 112 chilometri in larghezza e per 151 chilometri in lunghezza, cfr. J. Goodman, The Children of the Jade Dragon, Bangkok, Teak House Book, 1997, p. 14. 14. Cfr. A. Jackson, ibidem. 15. Per un approfondimento sulla produzione agricola di questa regione, si veda: A. Jackson, 1979, op. cit., p. 15. 16. I dati relativi all’istituzione di tali distretti sono stati tratti dalla seguente pubblicazione: AA.VV., Zhongguo minzu zhengce gailan [Lineamenti di politica relativa alle minoranze etniche cinesi], Pechino, Casa editrice del popolo, 1995, pp. 306-318. 17. Cfr. C. Sani, “I Na-khi e la tradizione sciamanica himalayana”, in R. Mastromattei - M. Nicoletti - D. Riboli - C. Sani, Tremore e potere, Milano, Franco Angeli, 1995, p. 200; C. McKhann, Fleshing Out The Bones: Kinship and Cosmology in Naqxi Religion, Tesi di Dottorato, Università di Chicago, Facoltà di Scienze Sociali, Dipartimento di Antropologia, 1992, pp. 2, 5. 18. J.F. Rock, The Story of the Flood in the Literature of the Moso (Na-khi), “Journal of the West China Border Research Society”, 7, 1935, p. 66. 19. G. Tucci, Le religioni del Tibet, Roma, Edizioni Mediterranee, 1995 [1976], p. 205. 20. W. Evans-Wentz, The Tibetan Book of the Dead, Oxford, Oxford University Press, 1927. 21. B. Laufer, Bird Divination among the Tibetans, “T’oung Pao”, 15, 1914, pp. 1-110. 22. G. Tucci, Tibetan Painted Scrolls, 3 voll., Roma, Is. Meo, 1949. 23. H. Hoffman, Quellen zur Geschichte der Tibetischen Bon-Religion, Mainz, Akademie der Wissenschaften, 1950, e Die Religionen Tibets. Bon und Lamaismus in ihrer geschichtlichen Entwicklung, Friburgo, Alber, 1956. 24. In proposito si veda anche J.F. Rock, The Na-khi Naga Cult and Related Ceremonies, Roma, Ismeo, 1952, pp. 1, 5, 8. 25. J.F. Rock, The Birth and Origin of Dto-mba Shi-lo, the Founder of the Mo-so Shamanism, According to Mo-so Manuscripts, “Artibus Asiae”, 7, 1937, p. 7. 26. Cfr. anche Jackson A., Mo-so Magical Texts, “The John Rylands Library Bulletin”, 48, 1965, p. 155. 27. Rock J., The Birth and Origin of Dto-mba Shi-lo..., cit., p. 7. 28. Cfr. C. McKhann, Fleshing Out The Bones, cit., p. 40. 29. Cfr. Sani C., op. cit., p. 234. 30. Ivi, pp. 211-215. 31. Anche i lama tibetani usano, in alcune delle loro funzioni religiose, la corona a cinque lobi. Cfr. R. de NebeskyWojkovitz, Oracles and Demons of Tibet, Taipei, Smc Publishing Inc., 2000 [1956], pp. 545-546. 32. Le cerimonie celebrate dai dongba sono legate, in parte, al “ciclo di produzione”. In questo caso si identificano soprattutto con i riti di fertilità, destinati alla propiziazione gli dèi della casa e dello spirito del seme umano, delle divinità protettrici del raccolto e degli animali. Altre cerimonie si configurano principalmente come riti di passaggio, appartengono al “ciclo della vita” e sono celebrate in occasione della nascita, del matrimonio, della malattia e della morte dell’individuo. Cfr. Jackson A., Na-khi Religion, cit., pp. 106-108. 33. I tre principali specialisti rituali Naxi sono il dongba (sacerdote), la sainii (sciamana) e il pha (divinatore), distinti in base a criteri funzionali. Cfr. C. McKhann, Fleshing Out the Bones, cit., p. 103. Per una classificazione dei dongba, si veda He Zhiwu - Guo Dalie, Dongbajiao de paixi he xianzhuang [Scuole e stato attuale della cultura dongba], in Dongba wenhua lunji [Raccolta di saggi sulla cultura dongba], Kunming, Casa editrice del popolo dello Yunnan, 1985, pp. 38-54. 34. Teoricamente, i dongba in passato potevano essere in grado di celebrare circa centotrenta differenti cerimonie, comprendenti un migliaio di rituali, ad ognuno dei quali corrispondeva un manoscritto (cfr. C. Sani, op. cit., p. 203). Tuttavia, nessun dongba riusciva ad acquisire, in genere, una conoscenza così ampia, di conseguenza, accadeva spesso che più dongba, specializzati in ruoli differenti, partecipassero alle cerimonie più impegnative, che potevano durare anche parecchi giorni.
CULTURA E SOCIETÀ 35. Cfr. S. Harrell (a cura di), op. cit., pp. 3-36; S. White, Medical Discourses, Naxi Identities and the State: Transformation in Socialist China, Tesi di Dottorato in Antropologia Medica, University of California, Berkeley, 1993, pp. 111-238. 36. Una copia delle relative videocassette realizzate in quell’occasione è stata acquistata dall’autrice presso l’Istituto di Ricerca sulla Cultura Dongba, durante il viaggio compiuto a Lijiang nel gennaio 1998 ed è stata depositata nella biblioteca del Dipartimento di Studi Storico-Religiosi della Facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza” di Roma. 37. Guo Dalie - Yang Shiguang (a cura di), Dongba wenhua lunji [Raccolta di saggi sulla cultura dongba], Kunming, Casa editrice del popolo dello Yunnan, 1985. 38. Hobsbawm ha indicato la “tradizione inventata” come “un insieme di pratiche, normalmente governato da norme accettate tacitamente o apertamente, e di natura simbolica o rituale, che tentano di inculcare taluni valori e norme relativi al comportamento mediante la ripetizione, il che automaticamente implica una continuità con il passato”. E. Hobsbawm - T. Ranger, The Inventions of Traditions, Cambridge, Cambridge University Press, 1983, p. 1. 39. Per una trattazione approfondita dell’argomento si veda: C. Turini, “Negoziazione dell’etnicità: autenticità, Stato e politiche del turismo tra i Naxi di Lijiang”, in Atti del Convegno “La Cina e l’altro” (Capri, 14-16 ottobre 2003), pp. 693709. 40. Cfr. S. Knödel, “Yongning Moso Kinship and Chinese State Power”, in M. Oppitz - E. Hsu (a cura di), op. cit., pp. 47-65. 41. J.F. Rock, The Na-khi Naga Cult, cit., Vol. I, p. 19. 42. Cfr. T.S. Oakes, Tourism and Modernity in China, Londra, Routledge, 1998, p. 47. 43. Per una trattazione generale riguardante il consumo di souvenirs e le loro trasformazioni nel sistema del mercato globale, cfr. M.A. Littrell, L.F. Anderson e P.J. Brown, What Makes a Craft Souvenir Authentic?, “Annals of Tourism Research”, XX, 1993, pp. 204-212; C.A. Popelka e M.A. Littrell, Influence of Tourism on Handcraft Evolution, “Annals of Tourism Research”, XVIII/III, 1991, pp. 397-406, 410; E. Cohen, Introduction: Investigating Tourist Arts, “Annals of Tourism Research”, XX, 1993, pp. 2-5; E. Cohen, The Etherogeneization of a Tourist Art, “Annals of Tourism Research”, XX, 1993a, pp. 150-156; D. Evans-Pritchard, Ancient Art in Modern Context, “Annals of Tourism Research”, XX, 1993, pp. 18-26; Hughes G., Authenticity in Tourism, “Annals of Tourism Research”, XXII/IV, 1995, pp. 783-784, 787-789, 795-798. 44. Per una trattazione in termini generali cfr. D.C. Gladney, Representing Nationality In China: Refiguring Majority/ Minority Identities, “Journal of Asian Studies”, LIII/I, 1994, pp. 97-98; S. Cheung, “Representation and Negotiation of Ge Identities in Southeast Guizhou”, in M.J. Brown (a cura di), Negotiating Ethnicities in China and Taiwan, Washington, University of Washington Press, 1995, pp. 242, 260-263; R.A. Litzinger, Other Chinas. The Yao and the Politics of National Belonging, Durham, Duke University Press, 2000, capp. 4 e 5 in part.; T.S. Oakes, op. cit., pp. 9-10. 45. Per un paio di anni la frequenza dei voli fu di tre-quattro a settimana, tutti da e per Kunming, nel 1999 si era già arrivati ad una frequenza di quattro-sei voli giornalieri da e per la stessa destinazione, due voli settimanali per Canton e uno per Pechino. Cfr. C. McKhann, The Good, the Bad and the Ugly: Observations on Tourism Development in Lijiang, China, in Tan Chee-Beng - Sidney C.H. Cheung - Yang Hui (a cura di), Tourism, Anthropology and China, Bangkok, White Lotus Press, 2001, pp. 147-166. 46. Cfr. H. Rees, Echoes of History-Naxi Music in Modern China, Oxford, Oxford University Press, 2000, p. 34. 47. Cfr. C. McKhann, The Good, the Bad and the Ugly, cit., pp. 150-151. 48. Cfr. R.A. Litzinger, op. cit., cap. 5 in part. ed epilogo; L. Schein, Minority Rules. The Miao and the Feminine in China’s Cultural Politics, Durham, Duke University Press, 2000, capp. 9 e 10 in part.; L. Schein, Gender and Internal Orientalism in China, “Modern China”, XXIII/I, 1997, p. 91.
Reinventando Shangri-La. La cultura tibetana nell’immaginario cinese contemporaneo Daniele Cologna
Incorporating the cultural heritage and identity of its Docente di Lingua e cultura cinese major ethnic minorities in a more overtly cross-cultural presso l’Università degli Studi definition of Chinese identity is a necessary gamble for dell’Insubria a Como. Socio fondatore dell’Agenzia the political leadership of the People’s Republic of di ricerca sociale Codici China. On one hand, it helps the successful marketing of its strategic policy aimed at opening up the country’s poor, underpopulated West to economic development, unlocking the huge potential of the domestic tourist market. On the other, it serves a key political purpose, as it allows the Cpc to uphold its commitment to a multiethnic, yet united Chinese nation, thus empowering the government to counter separatist claims through a more coherent cultural policy. But as it reinvents, or even fabricates, ethnic identity from the top, the Chinese government needs to address a growing awareness of its diverse cultural heritage prompted from below. The emblematic case of the renaming of a Tibetan district as Shangri-La is used to exemplify the hybridization of cultural imageries that is bringing Tibetan lore into the mainstream of China’s contemporary cultural makeup.
U
na lussuosa berlina tedesca è in sosta su una strada di montagna. A bordo una giovane coppia discute aspramente, mentre attorno a loro si stende un paesaggio d’alta quota deserto e di rara bellezza: specchi d’acqua purissima in cui si riflettono immense montagne e un cielo drammaticamente terso. I due sono chiaramente di estrazione metropolitana, portano occhiali scuri, abiti e taglio di capelli sono all’ultima moda, e la colonna sonora del loro viaggio è una versione sussurrata di La vie en rose. Ma la loro meta non è Cortina, Saint Moritz, Aspen o qualche altra celebre località di soggiorno montano preferita dalle élite contemporanee: la cristallina desolazione che fa da sfondo al loro litigio è nientemeno che il tetto del mondo, l’altopiano tibetano, che hanno raggiunto guidando per
CULTURA E SOCIETÀ ore, o forse giorni, dopo essersi lasciati alle spalle una delle moderne grandi città della Cina. I due in realtà sono ladri in fuga e il film è Tiānxià wúzéi 天下无贼 (“Un mondo senza ladri”), di Féng Xiǎogāng 冯小刚, forse il regista cinese di maggior successo commerciale degli ultimi dieci anni. Nel 2004 fece il pieno di incassi in Cina, sbaragliando anche l’agguerrita concorrenza hollywoodiana. La trama mescola commedia e dramma per sfociare in una sorta di racconto morale sulla necessità di proteggere l’innocenza in un mondo in cui prevale la disonestà. Il film, girato soprattutto nelle aree tibetane del Gansu, in particolare la prefettura di Gannan e il monastero di Labrang, deve molto del suo fascino visivo all’ambientazione tibetana, specialmente per la sua capacità di evocare “una certa purezza morale perduta” nella Cina egoista e cinica del nuovo secolo. Il grande successo di pubblico del film testimonia quanto il mito del Tibet come orizzonte perduto della spiritualità umana in un’epoca di disincanto e corruzione, archetipo solidamente radicatosi nel subconscio dell’Occidente fin dal primo Novecento, si sia ormai stabilmente insediato anche nella sensibilità cinese. Tuttavia, non si tratta di un semplice calco dell’esotismo orientalista: questo film rinvia anche a una dimensione tutta cinese di questo processo di ridefinizione del Tibet come “luogo sacro della purezza dell’anima” (纯净的心灵神圣的地方 chúnjìngde xīnlíng shénshèngde dìfang), in cui un ruolo non secondario è giocato dalla Politica di apertura allo sviluppo delle regioni occidentali (西部打开发政 策 Xībù dàkāifǎ zhèngcè), implementata dal governo cinese a partire dall’inizio degli anni Duemila. Incentrato sulla realizzazione di arditi progetti di potenziamento delle infrastrutture dei trasporti, dell’industria estrattiva e del terziario, il piano riserva al turismo di massa un ruolo trainante per lo sviluppo dell’economia locale. Nel film di Féng Xiǎogāng 冯小刚, la maggior parte dell’azione si svolge sul treno che collega l’altopiano del Qinghai-Gansu con il capoluogo della Regione Autonoma Tibetana, lungo una linea ferroviaria che nell’anno di uscita del film era al centro di uno dei progetti più ambiziosi della campagna per lo sviluppo delle regioni occidentali. Si tratta appunto del completamento della ferrovia Qinghai-Tibet (青藏铁路 Qīngzàng Tiělù; tib. མཚོ་བོད་ལྕགས་ལམ། mtsho bod lcags lam), il primo collegamento diretto su rotaia a raggiungere il Tibet. Ultimata nell’estate 2006, questa linea ferroviaria divenne subito un progetto-simbolo della Cina che si prepara alle Olimpiadi del 2008 – che non a caso prevede ebbero in Tibet la tappa più spettacolare del percorso della fiaccola olimpica, la cima del monte Everest o Chomolungma (珠穆朗玛峰 Zhūmùlǎngmǎ Fēng; tib. ཇོ་མོ་གླང་མ Jo mo glang ma) – ed è ancora oggi al centro di un’intensa campagna promozionale intesa a sviluppare il turismo cinese verso le aree tibetane. Ma come è stato possibile persuadere la media borghesia delle città più ricche del paese, l’unica componente della popolazione che
Reinventando Shangri-La / 201 può realmente permettersi il lusso di viaggiare al di fuori delle feste comandate, come il capodanno cinese, a recarsi in una regione tradizionalmente descritta come povera, desolata e potenzialmente ostile? Fino agli anni Novanta l’immaginario riferito al Tibet prevalente tra i cinesi Han era quella di una terra selvaggia, economicamente arretrata (落后 luòhòu, “arretrato”, era di certo l’aggettivo più usato in riferimento delle regioni tibetane in quegli anni), culturalmente “barbara”1: di certo non la migliore premessa per lo sviluppo turistico dell’area. Il trekking d’alta quota fino a dieci anni fa era appannaggio pressoché esclusivo di turisti occidentali, perlopiù backpacker in cerca d’avventura, il cui immaginario tibetano si nutre di una vasta panoplia di riferimenti più o meno mistificanti, che dall’esotismo spirituale dei teosofi ottocenteschi passa per l’utopismo già proto-postmoderno di James Hilton, l’infatuazione beatnik e hippie per le religioni orientali, la sensibilità per le culture minoritarie dell’alpinismo iconoclasta ed eco-consapevole degli anni Ottanta, le velleità antropologiche del turismo-avventura degli anni Novanta, per arrivare all’impegno religioso e politico associato al buddhismo lamaista dei movimenti filo-tibetani (con la militanza-simbolo di Richard Gere). Il turismo di massa cinese, affrancatosi solo da poco dalla sua connotazione di pellegrinaggio politico (il turismo “rosso” degli anni Settanta e Ottanta, alla scoperta dei luoghi sacri della Rivoluzione, della Lunga Marcia e della guerra anti-giapponese), si era inizialmente diretto verso luoghi ameni: le spiagge di Beidaihe e di Sanya, le montagne sacre e i monti famosi per i loro paesaggi “di rupi e d’acque”, le città-giardino del Jiangnan con i loro laghi e canali. Ma già negli anni Novanta nascono iniziative a livello locale che preludono a una possibilità di ottenere finanziamenti governativi sostanziosi per rilanciare aree fino a quel momento considerate periferiche e remote, a partire dal Sudovest della Cina: le terre di matrice culturale tibetana (o sino-tibetana, quando coinvolgono minoranze come i Naxi e gli Yi) del Sichuan e dello Yunnan. Lo Yunnan in particolare ha fatto da modello di sviluppo, dove l’idea portante è stata quella di attingere agli elementi di attrazione che ne facevano un magnete di turismo internazionale fin dai primi anni novanta per ridefinire poli turistici esotici ma “con caratteristiche cinesi”, in grado cioè di attirare il turismo interno. Una scommessa oggi decisamente vinta, se si pensa che nel 2007 i turisti stranieri nella regione erano 4,6 milioni contro un’impressionante dato di 89,9 milioni di turisti cinesi (dati dell’Ufficio Statistico Nazionale Cinese, citati in Watts, 2010, p. 14, nota 9). Nel medesimo anno nella Regione Autonoma Tibetana le presenze rilevate nei primi sette mesi dell’anno erano rispettivamente 206.923 per i turisti dall’estero e 2.504.023 per quelli interni: in entrambi i casi il turismo internazionale è ormai meno del 10% del turismo interno (dati ufficiali della Regione Auto-
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Lo sviluppo di uno dei grandi progetti strategici di modernizzazione nazionale
noma Tibetana al luglio 2007, ultimi dati pubblicati2). E non basta: l’offerta di turismo di “avventura” e di turismo di gruppo in stile Great Outdoors oggi è sempre più mirata a una clientela di backpacker cinesi “d’Oltremare”, inclusi i pacchetti “lusso” per clienti facoltosi provenienti da Hong Kong, Taiwan e dai luoghi della diaspora cinese nel mondo. Il viaggio in Tibet è diventato uno status symbol diffuso perfino tra i cinesi immigrati in Italia3. Luoghi simbolo del “modello Yunnan” furono innanzitutto le antiche città di Dali e, soprattutto, di Lijiang, un antico borgo Naxi che è stato possibile preservare e ristrutturare (pesantemente) dopo il terremoto che lo colpì nel 1996. Il governo cinese riuscì a ottenere fondi dalla Banca Mondiale per la ricostruzione e il restauro in stile tradizionale della città, approfittandone nel contempo per potenziare le infrastrutture di accesso e di ricezione turistica. Nel 1997 Lijiang ottenne dall’Unesco lo status di sito patrimonio dell’umanità, e la collaborazione del governo centrale (o meglio, del Pcc) con le autorità locali per la promozione del turismo interno verso quest’area del paese si iscrisse presto in una più ampia cornice di sviluppo della Cina del Sudovest, dove avrebbe ricoperto un vero e proprio ruolo di “testa di ponte” turistica4. Come si è detto, questa cornice la fornisce, a partire dal suo lancio ufficiale nel 2000, la Politica per l’apertura allo sviluppo delle regioni occidentali, nota anche con la traduzione ufficiale inglese di Western Development Plan o con l’epiteto giornalistico anglosassone di Go West Campaign. È uno dei diversi grandi progetti strategici di modernizzazione nazionale di cui è ritenuto fautore originale il nume tutelare dell’epoca delle riforme, Deng Xiaoping. L’effettiva definizione delle sue linee guida sarà tuttavia realizzata e implementata dal Consiglio di Stato cinese nel 2000, sotto la guida dell’allora premier Zhu Rongji. Il piano, che si pone l’ambizioso obiettivo di ridurre la forbice nel prodotto interno lordo, sia in termini assoluti sia procapite, tra la ricca Cina costiera e le vaste ma economicamente arretrate regioni occidentali del paese5, si articola in tre fasi distinte sull’arco di mezzo secolo (!): un dato che da solo rende l’idea di cosa si intenda in Cina per “programmazione strategica”. La prima fase, conclusasi nel 2010, ha raggiunto l’obiettivo di stabilire una base per lo sviluppo successivo: secondo dati pubblicati dall’agenzia Nuova Cina nel luglio 20106, il prodotto interno lordo delle regioni occidentali è quadruplicato (dai 1.670 miliardi di renminbi del 2000 ai 6.690 miliardi del 2009). Tuttavia, il divario tra il prodotto interno lordo delle regioni occidentali e quello delle regioni costiere resta elevato e le significative misure volte ad attrarre investimenti infrastrutturali nelle aree depresse dell’Ovest (incentivi fiscali rilevanti e disponibilità di fondi per imponenti progetti di sviluppo locale) tuttora non bastano a temperare tale trend. La seconda fase, dal 2010 al 2030, di sviluppo accelerato a partire dalle fondamenta poste nel corso del primo decennio di progettazione
Reinventando Shangri-La / 203 strategica, intende capitalizzare gli esiti della prima fase per ottenere in tempi rapidi livelli più alti di industrializzazione, urbanizzazione, preservazione ambientale e sviluppo della specializzazione nel settore dei servizi7. La terza fase, dal 2031 al 2050, di promozione generale della modernizzazione dell’area a tutti i livelli, dovrebbe infine permettere un’armonizzazione dello sviluppo socioeconomico tra l’Ovest e il resto del paese, con una progressiva convergenza dei suoi principali indicatori. La strategia generale verte chiaramente sullo sviluppo infrastrutturale e la messa a valore delle risorse ambientali di queste immensa estensione di territorio, ma è chiaro che uno dei suoi snodi chiave, tanto per la valorizzazione turistica, quanto per un’accresciuta capacità d’attrazione che i territori in questione dovrebbero esercitare sulla popolazione cinese per dare impulso a movimenti demografici atti a favorire un certo riequilibrio demografico, è di carattere socio-culturale. Si sta infatti parlando di aree che sono prevalentemente abitate da minoranze etniche (少数民族 shǎoshù mínzú, “etnie minoritarie”), e il “riequilibrio” in questione non potrà che portarvi in massima parte nuovi residenti di etnia Han: una mossa gravida di conseguenze in contesti già segnati da contese di carattere identitario. Esistono frange (o quantomeno diffuse sensibilità, non sempre apertamente manifeste) autonomiste e indipendentiste in seno ad ognuna delle principali regioni autonome. Il caso tibetano e uighuro sono ben noti, ma anche tra i mongoli della Mongolia Interna e gli Zhuang del Guanxi vi sono segnali di allarme di fronte all’espansione Han. Per il comitato governativo che presiede all’implementazione del piano vi è dunque un’acuta percezione dell’importanza di un accurato lavoro di propaganda culturale, che possa attingere a fenomeni culturali già in atto per promuovere la percezione di una ibridazione culturale nel segno della comune appartenenza a uno stato multi-nazionale. In altre parole: occorre dare forti segnali di attenzione per le specificità dei diversi retaggi culturali, accentuandone però tutti quegli elementi trasversali che possono comporre il mosaico di un retaggio condiviso. Uno degli effetti inattesi di questa sensibilità “necessaria” è la riscoperta e rivalutazione del sincretismo religioso, nonché del valore che può assumere, in questo panorama di più intensa interazione degli Han con le altre etnie del paese, un immaginario identitario positivo, per quanto esotizzante, edulcorato e storicamente indeterminato, riferito alle culture “cinesi”8 sì, ma nel contempo “non-Han”, perché non univocamente riconducibili all’espressione culturale propria di tale etnia9. Questa ritrovata sensibilità per le radici culturali non è in realtà un fenomeno recente: il cosiddetto “primitivismo cinese” o “passione per le radici” (寻根热 xúngēn rè) fu un movimento letterario e artistico di primo piano già negli anni Ottanta10, con importanti influenze sulla produzione culturale dei decenni successivi, i cui autori
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La rinascita del buddismo lamaista non è solo un fenomeno di moda
più rappresentativi (Acheng, Jia Pingwa, Wang Anyi, Han Shaogong, Tashi Dawa, Mo Yan ecc.) hanno intessuto nelle loro opere di narrativa riferimenti alle tradizioni spirituali confuciana, taoista e buddista, oppure a culture regionali minoritarie e al loro folklore, spesso con un fitto lavoro preparatorio di ricerca filosofica ed etnografica. La trasposizione filmografica di molti romanzi e racconti riconducibili a questa corrente artistica ha riscosso notevole successo in Cina, ma ancor di più all’estero: forse un’indicazione della facilità con cui l’attenzione per l’autenticità dei riferimenti culturali, tanto cara agli autori, si presti poi a una reificazione degli stessi in chiave esotica ed estetizzante. Se ne percepisce l’eco anche in molta letteratura e filmografia contemporanea: nel 2011, per esempio, il prestigioso premio Shi Nai’an per la letteratura è andato a un autore, 宁肯 Nìng Kěn, che può essere considerato un esponente “postmoderno” di questa corrente, per il suo romanzo Cielo - Tibet (天•藏 Tiān - Zàng). Ambientato a Lhasa, il romanzo mescola inquietudini filosofiche (il dibattito tra uno dei personaggi del libro, un francese convertito al buddismo che si è insediato in un piccolo tempio lamaista in Tibet, e il proprio padre, filosofo scettico, è il cuore del romanzo) e sentimentali (una complessa e paradossale relazione amorosa venata di masochismo e aneliti di purezza spirituale), con il cristallino paesaggio tibetano a fare da sfondo. L’importanza della filosofia e della pratica buddista per lo sviluppo narrativo del romanzo riflette una rinascita del buddismo lamaista che non è solo fenomeno di moda. Da oltre vent’anni il lamaismo vive una fioritura senza precedenti nella storia della Rpc, tanto che diversi studiosi ravvisano nel complesso panorama religioso della Cina contemporanea una vitalità crescente di forme ibride di buddismo sino-tibetano, forse influenzate dall’opera missionaria di lama tibetani nella Cina repubblicana11 prerivoluzionaria e poi riscoperte da devoti vecchi e nuovi negli anni successivi alla Rivoluzione Culturale. Questi sviluppi non sono certo avvenuti all’insaputa del Pcc, anzi: a partire da metà anni Novanta la cura dedicata al ripristino e al restauro dei luoghi sacri e dei templi lamaisti – specie quelli che potevano essere considerati non del tutto allineati con la corrente religiosa e politica del Dalai Lama12 – è divenuta corollario indispensabile della valorizzazione turistica di molti di tali siti. La sintesi più emblematica e potente di questo nuovo immaginario in grado di amalgamare sia la tensione tra rappresentazioni identitarie egemoniche e minoritarie, che il recupero o la reinvenzione di tradizioni culturali e religiose antiche, con la nostalgia, tipica della condizione postmoderna, per la purezza e l’innocenza perdute, la natura inviolata e la “vita semplice”, è certamente l’appropriazione e la trasposizione nel mondo reale, in un luogo fisico e culturalmente già denso di riferimenti religiosi e immaginifici complessi13, del mito di Shangri-La. Un mito tutto occidentale, immortalato dal romanzo Orizzonte perduto
Reinventando Shangri-La / 205 di James Hilton (1933) e poi reso a tal punto famoso dal film che nel 1937 ne trasse il regista americano Frank Capra, da configurarsi come riferimento stabile della fascinazione dell’Occidente moderno e postmoderno per la cultura tibetana e quella “orientale” in genere14. Attingendo a un già cospicuo patrimonio di proiezioni fantastiche sul Tibet come luogo d’elevazione spirituale e di segreta saggezza, in gran parte di matrice teosofica e occultista, e ispirato probabilmente dalle affascinanti relazioni sull’idilliaco ambiente naturale e umano delle regioni tibetane dello Yunnan e del Sichuan (il Kham, tib. ཁམས khams) che il botanico americano di origine austriaca Joseph Rock pubblicò sul National Geographic Magazine negli anni Venti e Trenta15, Hilton diede corpo alla leggenda dei lama iniziati a una saggezza universale (un amalgama umanista di buddismo e cristianesimo: il Gran Lama è in realtà un cappuccino francese). Utopia celata al mondo in un monastero in cui vige un’armonia perfetta e dove le persone non invecchiano, in un ambiente naturale intatto e di grande bellezza, nel rigetto della violenza e volgarità del mondo moderno, non poteva non suscitare un forte appeal nei tormentati anni Trenta del Novecento. Nel film di Capra, il monastero del Gran Lama ha però l’aspetto di un raffinato hotel in stile art decó: si tratta chiaramente di una fantasia “orientalista” eurocentrica, con venature razziste e coloniali appena dissimulate da una generica ammirazione per “la saggezza orientale”. I lama, infatti, sono guidati da un europeo cristiano, ascoltano Mozart e possiedono “tutte le annate del Times fino a pochi anni fa”. Libro e film si possono anche leggere come un’allegoria del turismo di lusso in luoghi esotici, tanto popolare presso le élite occidentali nel periodo tra le due guerre, e forse è proprio questo elemento – che certamente deve qualcosa all’eccentrica figura di Joseph Rock, che perfino durante le sue lunghe spedizioni attraverso le foreste di rododendri giganti del Kham non si privava mai della sua vasca da bagno portatile e del piacere di una tavola ben apparecchiata, con tanto di argenteria – ad essersi prestato così bene alla cooptazione di questo immaginario a finalità di promozione turistica16. Tuttavia, il mito occidentale di Shangri-La è anche qualcosa di più dell’utopismo esotista ed etnocentrico che sottende all’opera di Hilton. Presenta infatti una stratigrafia semiotica assai complessa: lo strato della finzione letteraria e cinematografica poggia su strati intermedi, anch’essi di matrice europea, come l’antroposofia e l’occultismo, che però a loro volta fanno riferimento a un’eco indiana (Agarttha o Agarthi?)17 di un mito del Kalachakra-tantra tibetano (Shambhala), a sua volta modellato su un substrato più profondo, quello del regno mistico di Olmolungring sacro al Bön, l’antica religione del Tibet prebuddista. E anche lo strato di Hilton-Capra conoscerà ulteriori rielaborazioni: come si è detto, i movimenti di critica o di rigetto della modernità degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta del Novecento ne tempereranno l’eurocentri-
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Lijiang protagonista della scommessa per il rilancio economico basato su turismo internazionale e interno
smo, vi aggiungeranno la prospettiva estatica della psichedelia, un più profondo interesse per la pratica buddista e più pronunciate sensibilità ambientaliste, per arrivare infine agli anni Novanta e Duemila, che apporteranno al mito inusitate sinergie tra escapismo New Age, proselitismo lamaista e adesione militante alla causa dell’indipendenza/ autonomia tibetana. Ma senz’altro l’aggiunta più sorprendente a questa straordinaria pastiche sarebbe stata la decisione, da parte del Consiglio di Stato, con l’avallo del Partito comunista cinese, di accogliere le istanze presentate fin dal 1998 dalle autorità locali della Prefettura Autonoma Tibetana di Diqing (迪庆藏族自治州 Díqìng Zàngzú Zìzhìzhōu; tib. བདེ་ཆེན་བོད་རིགས་རང་སྐྱོང་ཁུལ་ Bde-chen Bod-rigs rang-skyong khul): il 17 dicembre 2001 il distretto autonomo tibetano di Zhongdian (cin. 中甸 Zhōngdiàn, “pascoli centrali”18; che per i tibetani è però il distretto di Gyalthang, tib. རྒྱལ་ཐང་རྫོང་ rgyal thang rdzong, dal nome della cittadina capoluogo di distretto, in cinese 建塘镇 Jiàntáng zhèn ) potè così finalmente mutare il proprio nome in “distretto di Shangri-La” (香格里拉县 Xiānggélǐlā xiàn)19 Il 1998 si rivelò un anno cruciale per il territorio montano dello Yunnan al confine con Sichuan e Regione Autonoma Tibetana, dove si collocano sia l’antica città di Lijiang che Zhongdian/Shangri-La. In quell’anno infatti, a seguito di un rapporto ufficiale che mise in relazione le drammatiche alluvioni del bacino del fiume Yangzi nel Sichuan con la deforestazione selvaggia e la conseguente erosione del suolo a monte, lungo i ripidissimi fianchi delle gole dell’alto corso del fiume Yangzi, ormai incapaci di trattenere le copiose precipitazioni delle periodiche piogge monsoniche, il governo centrale si persuase a vietare del tutto lo sfruttamento forestale nella regione. Per la Prefettura Autonoma di Diqing, questa misura comportò la perdita improvvisa della principale fonte di reddito per il territorio: urgeva dunque trovare risorse alternative. Al turismo, in particolare, ci stavano pensando da tempo, fin da quando il terremoto di Lijiang diede a quella cittadina la possibilità di ricollocarsi strategicamente non solo sul mercato turistico internazionale, ma anche e soprattutto su quello interno. A Lijiang, protagonista di questa scommessa vinta – puntare sull’identità tradizionale e sull’attrattiva dell’immaginario che è possibile associarvi – sono stati diversi operatori e imprenditori culturali e politici locali, ma nessuno ha avuto più peso di 烜科 Xuān Kē, un dinamico musicista di origine tibetana, oggi ultraottantenne. Educato da missionari prima della rivoluzione, poi internato in campi di rieducazione per ventun’anni dopo la rivoluzione, Xuan parla correntemente l’inglese, cosa che gli ha permesso di leggere i libri di Joseph Rock e Peter Goullart20 che narrano della bellezza idilliaca di Lijiang, e poi il romanzo di Hilton, tanto da convincersi che fosse proprio la vallata di Lijiang descritta da Rock a ispirare l’Eden tibetano senza tempo di Orizzonte perduto. Già prima del terremoto, Xuan usava i suoi rife-
Reinventando Shangri-La / 207 rimenti letterari, la sua conoscenza della cultura Naxi e tibetana e il suo talento organizzativo per promuovere la sua celebre orchestra di musica tradizionale Naxi, i cui membri sono quasi tutti ottuagenari, una delle principali attrazioni culturali della Lijiang pre-terremoto, quando i visitatori erano quasi tutti stranieri. Le sue idee finirono per influenzare anche i quadri locali del Pcc, ma nacquero subito dispute accese su quale dovesse essere l’area che potesse meglio corrispondere alla Shangri-La del romanzo, senza preoccuparsi troppo del fatto che si trattasse di una finzione letteraria. Nella vicina Zhongdian, si cominciò a studiare la plausibilità dell’attribuzione a tale distretto di questa “titolarità” fin dal 1996, quando le autorità locali cominciarono a organizzare convegni di esperti (linguisti, storici, religiosi, ecc.) per mettere in piedi una candidatura documentata e convincente. È evidente che la disputa aveva smaccate motivazioni economiche, e dopo il 1998 la Prefettura di Diqing doveva assolutamente inventarsi qualcosa di nuovo e di efficace per reggere il confronto con la vicina e ben più famosa Lijiang. La scelta di valorizzare il proprio retaggio tibetano (Lijiang è in fin dei conti una città Naxi, con una lingua e una cultura proprie e diverse da quelle tibetane) trovò evidentemente un’eco favorevole a Pechino, dove si stava già pensando a quali strategie propagandistiche (leggi: di marketing turistico) impiegare per il rilancio del turismo interno sull’altopiano tibetano. Progetti che comprendessero anche il recupero e il restauro di luoghi sacri, monasteri e centri urbani tibetani avrebbero infatti espresso il valore aggiunto di testimoniare la sincerità della Cina del nuovo corso nell’implementazione delle politiche di tutela e promozione delle minoranze, elemento propagandistico cruciale della campagna per lo sviluppo dell’Ovest, dove le tensioni etniche, e in particolare quella tibetano-cinese, hanno da tempo vasta risonanza all’estero e di conseguenza impattano anche sulle relazioni internazionali della Rpc. Per quale motivo dunque il Pcc, sia a livello locale che centrale, ha avallato quest’utopia esotizzante, il cui etnocentrismo è così smaccatamente “coloniale” nella reificazione dell’altro da sé? Jonathan Watts, nel suo recente libro di denuncia dedicato al dissesto ambientale in Cina21, è lapidario in proposito: “la risposta è un misto di vacuità etica, apertura culturale, pragmatismo politico e dinamismo economico – una combinazione che si è rivelata un disastro per i valori tradizionali e per l’ambiente”. L’impegno esplicito per la difesa dell’identità culturale tradizionale nei luoghi abitati da minoranze etniche non solo si presta a quel “consumo di massa dell’altro” che nella programmazione turistica cinese prende ormai il nome di 民族旅游 mīnzú lǚyóu, o “turismo etnico”, ma implica anche che l’altro venga in certa misura “addomesticato”, reso appetibile e desiderabile dal turista urbano (di etnia Han)22: nel caso specifico di Zhongdian/Shangri-La, il risultato è un’identità nuova, sino-tibetana, che i cinesi non etnicamente tibe-
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Shangri-La esempio di apertura di nuovi spazi per la cultura tibetana
tani possono percepire come elemento in qualche misura attinente, o perfino essenziale, della propria identità. Anche se quello descritto è un caso piuttosto estremo, è di questi processi che si nutre l’incorporazione dei retaggi culturali minoritari nel mainstream della cultura cinese contemporanea. I suoi effetti pop sono certamente legati a forme di consumo e di mercificazione (le location tibetane nei film di cassetta, l’inclusione di elementi tibetani nella moda – rosari buddisti, abbigliamento casual con motivi ornamentali o scritte tibetane – e nella musica giovanili, ecc.), e la rappresentazione della “autenticità etnica” nei luoghi simbolo dell’identità tibetana fornisce spesso esempi di kitsch estremo, tali da renderne gli abitanti comparse di un parco a tema della tibetanità. Ma in modo sottile e imprevedibile, questi etnorami contemporanei stimolano realmente un recupero di saperi, pratiche, e identità che rischiavano di scomparire senza traccia, schiacciate non soltanto dalla realtà concreta della modernizzazione dell’Ovest tibetano, ma anche dalla granitica retorica, di ascendenza in pari misura imperiale e stalinista, delle minoranze “primitive e arretrate”, anacronistici relitti di società schiavistiche e feudali sconfitte dal socialismo. Hillmann e Kolås concordano nel ravvedere nell’esempio della Shangri-La cinese l’apertura di un nuovo spazio di ribalta per la cultura tibetana, che proprio in quanto nuovo oggetto di desiderio riacquista senso e potenza. Nell’estate del 2011, uno dei principali settimanali illustrati cinesi23 ha dedicato ben cinquanta (!) pagine di reportage speciale, fitto di accurate annotazioni storico-etnografiche, alla prefettura di Ngari, una delle zone più remote e affascinanti del Tibet, sede dell’antico regno di Guge, studiato da Giuseppe Tucci nel 1935. Fu peraltro lo stesso Tucci a proporre il misterioso regno di Shangshung (tib. ཞང་ཞུང་ zhang zhung, cin. 象雄 Xiàngxióng), nelle terre alte a Nord di Ngari e ad Ovest del Monte Kailash, come la sede della mitica Olmolungring della tradizione Bön (tib. བོན bon), quella “terra nascosta” (tib. སྦའས་ཡུལ་ sbas yul) ricettacolo della saggezza suprema che funse da modello per il mito di Shambhala nella dottrina del Kalachakra-tantra, una delle fondamenta gnoseologiche del buddismo lamaista tibetano. È un esempio significativo del peso crescente che nella società cinese di oggi va acquistando la nostalgia per una “cinesità” fatta non soltanto di progresso economico e retorica nazionale, ma in grado di aprirsi a una meditazione più profonda sulla diversità culturale di cui il retaggio cinese si è nutrito in passato, e sulla necessità di un suo recupero non solo sotto forma di merce. È possibile che questo processo si riveli meno asimmetrico e pilotato (o pilotabile) di quanto la dirigenza cinese avesse originariamente auspicato, e che le culture minoritarie possano prendersi spazi inusitati, e perfino sottilmente sovversivi, nell’inconscio collettivo cinese. ■
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NOTE 1. Interessante per esempio la spiegazione che adduce Tiley Chodag, autore di una guida storico-culturale al Tibet promossa dal governo cinese nel 1988, nell’introduzione (il testo è tratto dalla traduzione inglese a cura di W. Tailing): “However, over these years, I have been thinking of writing a book specifically introducing the land and the people of Tibet. It is that I have come across a kind of misunderstanding of Tibet among friends at home and abroad. Many
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people think it an out-of-the-place barren land isolated from the outside world and us Tibetans savagery and barbarous [sic]. As a Tibetan myself, I cannot ignore such misunderstanding and thus the desire of writing a book about Tibet became stronger and stronger.”. Cfr. Chodag T., Tibet. The Land and the People, Beijing, New World Press, 1988; vedi anche Dung-dkar B.P., The Merging of Religious and Secular Rule in Tibet, Beijing, Foreign Languages Press, 1991. 2. Cfr. il sito web ufficiale: www.xzta.gov.cn. Sorge il sospetto che l’arresto della pubblicazione dei dati relativi al turismo in Tibet dopo il luglio 2007 non sia casuale: a partire dalla vigilia delle Olimpiadi, e in concomitanza con l’accrescersi delle polemiche suscitate dalla ferrovia del Qingzang, i dati sul turismo cinese nelle aree tibetane sembrano essere ormai considerati “dati sensibili”. 3. Nell’inverno 2010, in occasione di una delle cene che periodicamente allestiscono le associazioni d’imprenditori cinesi di Milano, un giovane imprenditore cinese di successo (import-export di tessuti da tappezzeria) monopolizzò l’attenzione della tavolata raccontando la sua avventura tibetana dell’estate prima, che aveva coinvolto cinque dei suoi più importanti soci in affari in due settimane di trekking lungo le vie carovaniere “del tè e dei cavalli” (茶马古道 chámǎ gǔdào) che dal Sichuan salgono verso l’altopiano tibetano, per culminare in un weekend all-inclusive in uno dei più lussuosi alberghi di Lhasa. 4. In una recente intervista riportata dall’edizione online in lingua inglese del Quotidiano del Popolo, Wang Junzheng, il segretario generale del Pcc di Lijiang testimonia l’importanza della pianificazione di medio e lungo periodo per lo sviluppo del turismo nella città, a conferma di quanto l’esperienza locale si inquadri in una prospettiva generale di sviluppo decisa a livello politico: “Lijiang, as a city with dozens of indigenous ethnic groups, rich national culture and natural resources, will firmly seize the historic opportunity brought about by the Western Development Plan and the plan to construct Yunnan province into a ‘bridgehead’ of China’s opening up toward southwestern regions to enhance the depth of openness, improve the level of openness, make efforts to promote the in-depth development of Lijiang’s openness, promote the transformation of economic development mode as well as to constantly enhance the vitality and power of social and economic development” (cfr. Ma J., Thoughts on the development of Lijiang City, “People’s Daily Online”, 8 ottobre 2010, http://english.peopledaily.com.cn/90001/90780/91345/7159313.html). 5. Il piano interviene su 17 diverse ripartizioni territoriali: sei regioni o “province” (Gansu, Guizhou, Qinghai, Shaanxi, Sichuan eYunnan), cinque regioni autonome (Guangxi, Mongolia Interna, Ningxia, Tibet, and Xinjiang) e una municipalità soggette al controllo diretto del governo (Chongqing). Queste ripartizioni comprendono un’area pari al 71,4% del territorio della Rpc, ma ospitano solo il 28,8% della sua popolazione (dato riferito al 2002) e producono soltanto il 19,9% del Pil (dato riferito al 2009). 6. Mu X., China’s western region development plan a dual strategy, “Xinhuanet English News”, 8 luglio 2010, http://news.xinhuanet.com/english2010/china/2010-07/08/c_13390789.htm. 7. Per una disamina generale del Piano, cfr. Goodman D.S.G. (a cura di), China’s Campaign to ‘Open up the West’. National, Provincial and Local Perspectives, “The China Quarterly Special Issues”, n. 5, Cambridge, Cambridge U. P., 2004. 8. Ovvero sussunte ormai nella corale, obbligatoria appartenenza alla comunità di destino che la moderna Repubblica Popolare Cinese vuole essere per i suoi cittadini (intesi come “persone della Cina”, 中国人). 9. Concetto peraltro doppiamente ambiguo, perché risente tanto dei limiti ermeneutici e normativi intrinseci della categoria stessa di “etnia”, quanto della difficoltà di delineare con chiarezza quali elementi del retaggio culturale cinese possano essere univocamente ascritti a un soggetto identitario storicamente e culturalmente determinato, mutevole nel tempo e nello spazio, e infine poco incline a delimitazione fenotipica come quello evocato dall’etichetta “Han”. 10. Cfr. H.Y. He, “寻根热 xúngēn rè”, in Dictionary of the Political Thought of the People’s Republic of China, Armonk, New York-Londra, M.E. Sharpe, pp. 591-582. 11. Cfr. in proposito i recenti saggi di E.Bianchi e A. Rinaldo, Cina e Tibet: Wutaishan come luogo di incontro, in P. De Troia (a cura di), La Cina e il mondo. Atti dell’XI Convegno dell’Associazione Italiana Studi Cinesi, Roma, 22-24 febbraio 2007, Roma, Università di Roma La Sapienza, pp. 359-369; e E. Bianchi, The ‘Chinese lama’ Nenghai (1886-1967). Doctrinal Tradition and Teaching Strategies of a Gelukpa Master in Republican China, in M. Kapstein (a cura di), Buddhism Between Tibet and China, Somerville, MA, Wisdom Publications, pp. 295-346. 12. L’affascinante reportage di Raimondo Bultrini sulle divisioni interne al clero tibetano in Cina e in esilio (R. Bultrini, Il demone e il Dalai Lama, Baldini Castoldi Dalai, 2008) indica proprio in alcune zone del Kham (a Chatreng, nei pressi di Litang) una delle roccaforti della corrente interna alla scuola Gelugpa che si oppone al Dalai Lama in seguito alla sua
CULTURA E SOCIETÀ messa al bando del culto del demone protettore Dorje Shugden. Questa corrente è tenuta in grande considerazione dal Pcc e gode dell’appoggio nemmeno troppo velato del governo cinese, che prodiga sovvenzioni ai suoi monasteri. 13. Å. Kolås, Tourism and the Making of Place in Shangri-La, in “Tourism Geographies”, vol. 6, n. 3, pp. 262-278, agosto 2004. 14. Per una rassegna ampia e dettagliata degli ingredienti fondativi del mito di Shangri-La e delle sue riverberazioni nella cultura occidentale degli ultimi 150 anni si veda M. Brauen, Traumwelt Tibet: Westliche Trugbilder, Bern, Verlag Peter Haupt, 2000; trad. ing. Dreamworld Tibet - Western Illusions, Trumbull, CT, Weatherhill, 2004. Sull’impatto del mito di Shangri-La e delle sue complesse fonti mitopoietiche (i resoconti di viaggio dei primi visitatori europei in Tibet, le fantasie teosofiche sulla sapienza iniziatica dell’Asia, le mitografie Bön e Vajrayana sui luoghi sacri nascosti e su Shambhala, l’occultismo razzista e la sua influenza sul nazismo ecc.) sugli studi tibetani in Occidente e sulle rappresentazioni culturali ivi prevalenti della religione lamaista e della “questione tibetana”, cfr. T. Dodin - H. Räther (a cura di), Imagining Tibet. Perceptions, Projections, and Fantasies, Somerville, MA, Wisdom Publications, 2001; D.S. Lopez Jr., Prisoners of Shangri-La. Tibetan Buddhism and the West, Chicago-Londra, University of Chicago Press, 1998; O. Schell, Virtual Tibet. Searching for Shangri-La from the Himalayas to Hollywood, New York, Henry Holt and Company, 2000. 15. Rock scrisse una decina di articoli per il National Geographic Magazine, spesso corredati da splendide fotografie. È probabile che gli articoli che più colpirono Hilton furono i due pubblicati nel 1930: J. Rock, Seeking the Mountains of Mystery: An Expedition on the China-Tibet Frontier to the Unexplored Amnyi Machen range, One of Whole Peaks Rivals Everest, “National Geographic Magazine”, vol. 57, pp. 131-185; e Glories of the Minya Konka: Magnificent Snow Peaks of the China-Tibetan Border are Photographed at Close Range by a National Geographic Society Expedition, “National Geographic Magazine”, vol. 58, pp. 385-437. Vedi anche J. Goodman, Joseph F. Rock and His Shangri-La, Hong Kong, Caravan Press, 2006. 16. Lo compresero bene gli imprenditori – cinesi di Singapore, attivi fin dal 1971 – che nel 1992 fondarono a Hong Kong il più grande gruppo alberghiero di lusso dell’Asia, cui diedero il nome di Shangri-La (www.shangri-la.com). 17. La città del Re del Mondo secondo gli occultisti francesi di fine Ottocento (cfr. R. Guénon, Le Roi du Monde, Parigi, Gallimard, 1958; trad. it. Il Re del Mondo, Milano, Adelphi, 1977), la cui prima menzione ricorre in un’opera di Louis Jacolliot (1837-1890), magistrato a Chandernagor – oggi Chandannagar – ex colonia francese nel Bengala indiano con persuaso dell’origine indiana di tutte le principali istituzioni europee. Nel suo Les Fils de Dieu, del 1873, Jacolliot raccolse la traduzione di testi sacri e di leggende, compresa quella di “Asgartha”, la “città del sole” sede di sovrani temporali e spirituali che governavano sulle terre indiane prima dell’invasione degli Arii. Di una fantomatica Agarttha parlerà anche il controverso insegnante di sanscrito dell’occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre, e dopo di lui altri improbabili personaggi assai popolari nei circoli dell’esoterismo in gran voga nell’Europa del primo Novecento, come il Ferdinand Ossendowski autore di Bestie, Uomini e Dei. È possibile che la leggenda di Asgartha-Agarttha-Agarthi ecc. non sia soltanto un invenzione letteraria di eccentrici francesi frastornati dalla Belle Époque, ma una narrazione corrotta del mito di Shambhala, la cui diffusione nel Bengala da parte di sadhu che avessero fatto il pellegrinaggio al monte Kailash non è del tutto implausibile. 18. Esistono però etimologie alternative: gli “esperti” locali chiamati a redigere un rapporto che certificasse sul piano filologico e storico la liceità dell’identificazione di Zhongdian come “l’unica vera Shangri-La” hanno suggerito che il nome facesse originariamente riferimento a caratteri diversi: 忠殿 Zhōngdiàn, ovvero “fedele al palazzo”, a suggello della sottomissione delle locali popolazioni tibetane agli invasori Naxi, che in epoca Ming avevano il compito di governare l’area per conto dell’imperatore cinese (Cfr. B. Hillman, Paradise Under Construction: Minorities, Myths and Modernity in Northwest Yunnan, “Asian Ethnicity”, vol. 4, n. 2, 2003, p.177-178). 19. Per una ricostruzione minuziosa della genesi del mito di Shangri-La e della sua appropriazione in chiave turisticocommerciale cfr. G. Novati, Il mito di Shangri-La in Cina e i paradossi della riappropriazione cinese dell’esotismo orientalista europeo, tesi di laurea in Scienze della mediazione interlinguistica e interculturale, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi dell’Insubria, 2009. 20. P. Goullart, Forgotten Kingdom, Londra, 1957, John Murray. 21. J. Watts, When a Billion Chinese Jump. Voices from the Frontline of Climate Change, New York, Faber&Faber, 2010, p. 13. 22. Cfr. Hillman, op. cit., 179-181. 23. D. Jia (贾冬婷 Jiǎ Dōngtíng), “阿里秘境. 寻找西部西藏的跨喜马拉雅时代 Ālǐ mì jìng. Xúnzhǎo Xībù Xīzàng de kuà xǐmǎlāyǎ shídài” (“Il paesaggio segreto di Ngari. Sulle tracce dell’epoca himalayana del Tibet orientale”), 三联生活周 刊 Sānlián Shēnghuó Zhōukān, n. 36/2011, pp. 46-104.
OSSERVATORIO Mondo Cinese
Storia di un imprenditore uiguro Thomas Rosenthal Responsabile Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina e Professore a contratto di Storia e Geoeconomia, Università Cattolica di Milano
Alberto Rossi Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina
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i raccontiamo una storia semplice quanto controversa che a seconda dei punti di vista può dare adito a differenti interpretazioni. La narrativa delle comunità uigura e cinese risultano infatti molto diverse, già a partire dal nome del protagonista: Ekrem Eysayup per gli uiguri, Aikelamu Aishayoufu per i cinesi1. Nel 2003 Eysayup è amministratore delegato della Xinjiang Hops, una delle maggiori società produttrici di birra in Cina – è il ventiduesimo imprenditore privato più ricco della Cina, a seguito di una clamorosa ascesa che pare inarrestabile. Tra i ventidue, però, lui ha una peculiarità. Eyasayup è uiguro, nato in una famiglia musulmana della Regione Autonoma dello Xinjiang Uighur, estremo nord-ovest della Repubblica Popolare. Paracadutista nell’esercito alla fine degli anni Settanta, nel 1980 inizia a lavorare a Ili, negli uffici locali della People’s Bank of China. Un anno dopo, si iscrive allo Xinjiang College of Finance and Economics. Dopo essersi laureato, nel 1983 torna alla People’s Bank of China, dove col tempo scala le gerarchie e arriva ad ottenere prestigiosi incarichi di direzione. Dopo oltre dieci anni nel settore pubblico, Eysayup lascia la Banca centrale e nel luglio del 1996
acquista il 70% delle azioni della Xinjiang Hengyu Development Co. Ltd, per 7 milioni di yuan Rmb. È la grande svolta della sua carriera. La mossa successiva è l’acquisto di 1,82 milioni di azioni – per un valore totale di 2 milioni di yuan Rmb – della Xinjiang Hops, compagnia statale produttrice di luppolo, una delle maggiori imprese di una provincia famosa per le sue birre, di cui il luppolo è uno degli ingredienti principali. Eysayup, in quel momento settimo azionista della Xinjiang Hops, ne diviene vicepresidente. Appena un anno dopo, l’imprenditore uiguro riesce nell’impresa di piazzare alla Borsa di Shanghai 30 milioni di azioni della società, a 4,05 yuan Rmb ciascuna. In un momento storico in cui la Cina sta diventando il secondo produttore al mondo di birra e il terzo mercato del luppolo, la Xinjiang Hops diventa in pochissimo tempo il principale fornitore di luppolo e la maggiore impresa produttrice di birra nel Paese. Eysayup sta per giungere all’apice del successo, e inizia a diversificare le sue attività. Si lancia così nel mercato immobiliare e acquista nel 1997 a Urumqui il complesso di Yinhe Plaza, ancora da completare e di proprietà statale, per 28 milioni di yuan Rmb. Non molto tempo dopo, lo rivenderà per più del doppio del prezzo d’acquisto. Nel
Storia di un imprenditore uiguro / 215 frattempo, acquisisce il pacchetto di maggioranza dell’Yinsheng Real Estate Group, e nel 1999 arriva a controllare anche la Xinjiang Hengyuan Investment, maggiore azionista della Xinjiang Hops, la società produttrice di birra. Eysayup non si ferma, acquisisce altre imprese e si lancia in altri mercati: succhi di frutta e biotecnologie. Nel 2002, la Xinjiang Hops si fonde con Xinjiang Beer Group, arrivando a produrre 150.000 tonnellate di birra al mese. Come illustrato alla tavola 1, la società vola anche in borsa: tra il 2002 e il 2003, in un anno rallentamento delle crescita economica, le azioni crescono di oltre il 20%, e nel frattempo, con 351 milioni di dollari di capitale, l’imprenditore uiguro è ormai il ventiduesimo imprenditore privato più ricco della Cina, e ha raggiunto questo livello in modo molto rapido, quanto il suo futuro declino. Le spericolate manovre finanziarie di Eysayup, che hanno portato le azioni della sua società alle stelle insieme al suo patrimonio personale, si interrompono bruscamente nel settembre 2003. Eysayup sembra intuire i rischi ed è lui stesso ad anticipare i tempi dello scoppio della bolla che aveva contribuito a gonfiare. Nel settembre 2003, l’imprenditore uiguro riesce a vendere la sua lussuosa villa di Shanghai a metà del prezzo d’acquisto, a svuotare i suoi conti correnti bancari e a pagare l’affitto dei suoi uffici. Un mese dopo, in seguito ad un’ultima apparizione il 26 ottobre in seno al Consiglio d’amministrazione della società, Ekrem Eysayup sparisce. Scompare, dissolto nel nulla, come
disperso, lasciando dietro di sé un vaso di pandora che, una volta scoperchiato, fa luce sulla terribile verità di conti e cifre. L’imprenditore a capo di Xinjiang Hops fa perdere le sue tracce lasciandosi alle spalle passività per 1,94 miliardi di yuan Rmb contro 600 milioni in attività e 1,44 miliardi di debiti garantiti, circa il doppio di quanto dichiarato nel proprio bilancio. Risultano particolarmente esposte banche quali China Construction Bank, Industrial and Commercial Bank of China, China Communication Bank e Urumqi City Commercial Bank, che avevano garantito prestiti significativi alla società con azioni della stessa garantite quale collaterale. Al momento della sparizione, tramite la Xinjiang Hengyuan Investment Co., Eysayup detiene 97,9 milioni di azioni, corrispondenti a circa il 26,2% del capitale sociale. Oltre che presidente e amministratore delegato del gruppo, Eysayup è dunque il principale azionista della società. Le autorità governative locali, consapevoli della sensibilità politica ed economica della vicenda, rispondono prima cercando di coprire, poi minimizzando l’accaduto e infine, ma solo in seguito, accusando in maniera diretta l’imprenditore uiguro. Come illustra il grafico, la vicenda ha un impatto disastroso su Xinjiang Hops. Le azioni della società, che ad ottobre 2003 valgono 16,7 yuan Rmb, crollano nel gennaio 2004 a poco più di 3 yuan Rmb. Nei mesi successivi all’esplosione dello scandalo, corti locali e nazio-
OSSERVATORIO nali dispongono il congelamento degli asset facenti capo a Eysayup e alla società, che per un periodo prolungato ha interrotto addirittura la produzione. Nei primi sei mesi del 2004 la società registra una perdita di 16,83 milioni di yuan Rmb contro profitti netti di oltre 12 milioni nel primo semestre del 2003. Xinjiang Hops diviene così target di uno dei suoi principali concor-
renti domestici, Sichuan Bluesword Group, produttore di birra partecipato dal colosso del settore Carlsberg, che già nel maggio del 2004 si garantisce, attraverso un accordo di amministrazione fiduciaria mediato dal Governo della Regione autonoma dello Xinjiang, il controllo del 55% delle azioni. Nonostante la difficile posizione finanziaria della società, vengono
Profilo della società Xinjiang Hops Co. Ltd. è un’azienda fondata ad Urumqi nel 1993 e quotata alla Borsa di Shanghai che produce birre sotto il marchio Musu, germe di grano e prodotti a base di frutta e verdura. Tra le bevande a base di frutta e verdura produce salsa di pomodoro, succo di carote concentrato e succo di mela concentrato. La società sviluppa attività anche nel settore dello sviluppo e della vendita immobiliare soprattutto a livello residenziale nella città di Urumqi capoluogo della Provincia dello Xinjiang. Inoltre, l’azienda è attiva nella distribuzione di materiali da costruzione, prodotti chimici e ferrosi.
Tavola 1. Quotazione del titolo Xinjiang Hops alla Borsa di Shanghai, 2000-2011 18 16 14 12 10 8 6 4 2
Fonte: Bloomberg.
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Storia di un imprenditore uiguro / 217 valutati solidi i fondamentali economici e positive le possibilità di sinergie tra le parti. Alla fine di giugno del 2005, Carlsberg dichiara l’acquisto del 46% di Xinjiang Hops tramite la sua partecipata Xinjiang Brewing Investment Co., in cui Bluesword Group detiene il 51% del capitale e Carlsberg il 49%, rendendo così Xinjiang Brewing Investment il principale azionista. Il grafico mostra l’andamento molto positivo del titolo Xinjiang Hops nei mesi precedenti l’annuncio dell’acquisizione (primo semestre 2004) dopo il crollo repentino del prezzo delle azioni nell’ultimo trimestre del 2003, dovuto allo scandalo scoppiato e alla fuga di Eysayup. Il grafico illustra anche la sorprendente crescita del prezzo delle azioni Xinjaing Hops fino all’autunno 2003, risultato da un lato della sensibilità imprenditoriale dell’allora amministratore delegato uiguro, ma dall’altro anche della manipolazione del prezzo delle azioni sostenuto grazie ai 27 prestiti garantiti ottenuti da banche e altre imprese e in gran parte non dichiarati. Nonostante il titolo abbia risentito della crisi, a partire dall’ultimo trimestre del 2008 gli ultimi dati dimostrano un andamento sostanzialmente anticiclico rispetto all’attuale crisi finanziaria globale. E il nostro imprenditore? La narrativa uigura sostiene che Ekrem Ey-
sayup sia stato vittima di un complotto, poiché vicino agli interessi dei nazionalisti uiguri. La narrativa cinese ovviamente sostiene il contrario, dipingendo Eysayup come il classico tycoon corrotto e spregiudicato, che si è arricchito illegalmente per poi andare incontro alla propria rovina. Di fatto, le notizie sul suo destino sono poche e frammentarie, al di là di speculazioni prive di fondamento relative alle sue apparizioni, talvolta negli Stati Uniti, dove si sarebbe ricongiunto con la famiglia, altre volte in Canada o in Medio Oriente. L’unica cosa certa è che la sua fortuna è ormai un ricordo lontano. D’altronde, si sa, le birre al luppolo sono le più amare. ■ Bibliografia
• Bloomberg database. • O’Neill M., Hops Chief carefully plotted exit, “South China Morning Post”, 20 novembre 2003. • Vicziany M. - Guibin Zhang, The rise of the private sector in Xinjiang (Western China): Han and Uyghur entrepreneurship, 1° agosto 2004, Monash Asia Institute, Monash Univeristy • Zanng Wenxiang e Alon I., Biographical Dictionary of New Chinese Entrepreneurs and Business Leaders, Edward Elgar, Cheltenham (UK), 2009. • Sito Carlsberg: www.carlsberggroup.com.
NOTE 1. Per motivi di omogeneità del testo e senza intento di sostenere una o l’altra narrativa, attenendoci esclusivamente ai fatti abbiamo, deciso di utilizzare uno dei due nomi di qui in avanti.
Mondo Cinese
L’OPINIONE
Intervista / Dong Yunhu Rita Fatiguso
Dong Yunhu è Viceministro dello State Council Information Office. Nato nel 1962 a Xianju, nella provincia dello Zhejiang, vanta una brillante carriera nell’ambito della comunicazione con una specializzazione sui diritti umani, in particolare quelli delle minoranze. Dong compie i primi passi, dal 1986 al 1997, come vicedirettore dell’Istituto sul marxismo-leninismo intitolato a Mao Zedong dell’Accademia cinese delle Scienze sociali, un trampolino di lancio verso il segretariato generale della Società cinese per lo Studio dei diritti umani. Nel 2009 è vicedirettore del Comitato centrale dell’International Communication Office. Dong Yunhu ha giocato un ruolo di primo piano nel secondo summit italo-tibetano che si è svolto a Roma nel 2009. Giornalista, Il Sole 24 Ore
Carismatico dal polso di ferro, abile negoziatore, docente coltissimo. Fa specie sentire citare con convinzione la celeberrima massima di Immanuel Kant su “la morale che è in me, il cielo stellato sopra di me”. Massimo esperto cinese di diritti umani, con incarichi importanti nei vertici della Repubblica popolare cinese, Dong Yunhu parla da viceministro dello State Council Information Office e in questa intervista sottolinea che il Tibet è la Cina e che, quindi, il Tibet non può tornare indietro. L’augurio, che torna a più riprese nelle sue parole, è che il Dalai Lama rinunci definitivamente a ogni ipotesi separatista che minerebbe la coesione del paese. Viceministro Dong Yunhu, il vice governatore del Tibet, Duo Tuo, parlando in occasione di un incontro ufficiale nella sede del Governo di Lhasa, capitale del
Tibet, ha definito il Dalai Lama una minaccia alla stabilità del Tibet. Il Dalai Lama per alcune forze occidentali è uno strumento per danneggiare la Cina. Qual è il suo punto di vista? Il governo cinese, intanto, dà molta importanza alla conservazione delle tradizioni e della cultura tibetane. Il Dalai Lama e il suo gruppo, invece, con il sostegno di alcuni politici occidentali, sono molto abili nel fare della propaganda separatista contro la Cina. Anche facendo leva sul fattore culturale tibetano, una delle minoranze più ricche di storia di tutta la Cina. Basta visitare i monasteri, assistere all’incessante kora, il pellegrinaggio intorno a quello di Jokhang, avvertire l’atmosfera delle sale del Potala, l’antica residenza dei Dalai Lama, ammirare gli affreschi, la musica. Tutto questo è una ricchezza.
Intervista / Dong Yunhu / 221 Lhasa è tappezzata di manifesti celebrativi del 60° anniversario della liberazione pacifica del Tibet, che nel 1951 fu annesso alla Cina. Per il governo tibetano in esilio, quello è stato l’inizio della fine dell’autonomia culturale locale. Per la Cina è stata invece la svolta che ha permesso alla regione di uscire da un’arretratezza economica e sociale paragonabile al medioevo europeo. La “pacifica liberazione” del Tibet, l’annessione del territorio alla Cina del 1951 ha invece portato “uno sviluppo economico e sociale” a un’area più arretrata del Medioevo europeo, dove il 5% della popolazione deteneva la totalità delle risorse, com’è noto. Citando sempre Duo Tuo: “La stabilità è fonte di felicità”. È così? Certamente. Oggi, sia il governo centrale sia quello tibetano hanno le capacità per garantire la stabilità della regione. Per questo non c’è alcuna possibilità che il Tibet torni indietro. Tutti ci auguriamo che il Dalai Lama rinunci alla speranza di separare il Tibet dalla Cina. Il Dalai Lama sostiene di aver ceduto i poteri temporali al nuovo premier tibetano in esilio Lobsay Sangay, il quale ha subito attaccato “l’occupazione cinese” del Tibet invitando la popolazione tibetana alla resistenza. Il Dalai Lama è uno strumento di pressione sulla Cina da parte di alcune forze occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti. Dietro il loro sostegno alla guida spirituale del Tibet ci sono motivi politici, c’è la volontà di trattenere il rapido svi-
luppo economico e sociale cinese. Per questi motivi non c’è alcuna ragione che politici occidentali sostengano le attività violente da parte dei fedeli al Dalai Lama né del suo successore. Noi siamo attenti alla tutela dell’etnia tibetana, quindi non c’è alcuna possibilità che il Tibet torni indietro. Cosa succederebbe, invece, con un eventuale ritorno in patria della guida tibetana in esilio? Se il Dalai Lama rinuncerà alla sua politica separatista, una sua visita in Tibet sarà la benvenuta, ma sin dal 1959 il Dalai Lama e il gruppo a lui vicino non hanno mai cessato di organizzare attività violente contro il Tibet, minacciando l’armonia della regione. Attività che si sono manifestate anche negli scontri del 2008 a Lhasa, organizzati dai fedeli alla guida spirituale in esilio. Gli Stati Uniti che secondo noi hanno agito in loro appoggio non hanno diritto di criticare né di stare sempre alle spalle dei tibetani. I seguaci del Dalai Lama hanno respinto al mittente le accuse di voler affondare le libertà civili della popolazione locale. Voi rimanete fermi sul fatto che il Dalai Lama è uno strumento della propaganda contro il governo cinese. Ma le ragioni dell’appoggio internazionale al Dalai Lama vanno ricondotte alla tutela dei diritti umani oppure no? Quello dei diritti umani, lo ribadisco, è solo un pretesto. Ci sono alcune forze occidentali che lo considerano uno strumento per danneggiare la Cina, purtroppo esi-
L’OPINIONE stono pregiudizi sullo sviluppo della Cina e del Tibet. Al tempo stesso devo ricordare che la costruzione della democrazia cinese è un percorso lungo. E che la democrazia ha un senso se serve a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. La democrazia deve tendere al progresso dei cittadini, altrimenti non si giustifica. A proposito di diritti umani, si cita spesso la Cina come un paese in cui la pena di morte trova una sua giustificazione molto forte. Premesso che la costruzione della democrazia cinese è, appunto, un percorso lungo, voglio ricordare che la pena di morte ha lo scopo di difendere la vita di altri innocenti. Proprio in nome della difesa dell’umanità e della legge morale. Come si fa a difendere l’umanità se non punendo chi ha tolto la vita? Quale sarà il futuro del Tibet, allora? Parlare di questo è come se ci preoccupassimo che il cielo ci caschi in testa. In Tibet noi possiamo garantire sviluppo e uguaglianza. Armonia tra culture e un riscatto economico e sociale della popolazione che rappresenta il 94% dei 2,9 milioni di abitanti. L’appoggio politico e l’aiuto materiale fornito dal governo centrale e dalle altre parti della Cina per la promozione dello sviluppo della modernizzazione del Tibet sono un’ottima occasione di accelerarne lo sviluppo. Viceministro, Lhasa sembra una città in fortissimo cambiamento, spuntano ovunque negozi, infra-
strutture, alberghi. Un tempo ai contadini, a sera, come sostiene sempre Duo Tuo, “non restavano altro che le impronte dei loro piedi”. Il turismo è un fenomeno molto importante per lo sviluppo anche della coscienza culturale collettiva: ricordo che solo nei primi sei mesi del 2011, il Tibet ha registrato 2,2 milioni di visitatori. Turisti cinesi, soprattutto, attratti dai monasteri di Tashilhumpo, Shigatse, residenza ufficiale del Panchen Lama, la seconda guida spirituale del paese. Questo aiuta anche i cinesi a conoscere meglio il Tibet. Il nostro è un processo che si fonda sui pilastri della stabilità e del rapido sviluppo. Non si può negare lo sforzo fatto dal Governo di Pechino: finanziamenti e prestiti agevolati, nuove imprese basate su prodotti locali, dall’acqua purissima alla birra, all’olio ricavato dalle noci, all’artigianato dei tappeti tradizionali, con profili interessanti sul volume degli scambi commerciali. Cosa c’è dietro l’angolo? Rafforzeremo questa politica. Aumenteremo il contributo all’imprenditorialità, non ci sono altri mezzi o modi per governare questa regione e il paese. La stabilità sociale si garantisce con quella economica. Lei è stato citato dal New York Times, è una personalità nota all’estero, ma le sue idee e posizioni forse circolano in maniera limitata rispetto all’eco mediatica che invece trovano altre posizioni.
Intervista / Dong Yunhu / 223 Sono, in fondo, un professore. Se un’università mi invitasse a tenere una lezione sui diritti umani e su quello che intende la Cina su questi concetti, per me sarebbe un piacere.
gliore e più rapido sviluppo della regione, a beneficio della sua popolazione delle varie etnie. Sono utili ad aumentare anche a rafforzare lo sviluppo della cooperazione tra la Cina e i vari paesi del mondo.
Proprio in Italia due anni fa, a Roma, lei ha fatto parte della delegazione presente al secondo “Forum sullo sviluppo del Tibet cinese”, evento organizzato dall’Ufficio informazione del Consiglio di Stato, dall’Ambasciata della Repubblica popolare cinese e dalla Fondazione Italia Cina, al quale hanno partecipato oltre 200 funzionari governativi, esperti e studiosi, rappresentanti aziendali, esponenti dei media italiani e cinesi ma anche in rappresentanza di altri paesi tra cui Austria, Stati Uniti, India, Australia, Spagna e Belgio. Cosa ricorda di quelle giornate romane? Simili eventi sono molto importanti e significativi per l’approfondimento della comprensione del Tibet da parte della comunità internazionale, il consolidamento dei consensi degli esponenti dei vari settori, e la promozione di un mi-
Riforme economiche, sviluppo delle Pmi, tutela della cultura, protezione ambientale, istruzione, sanità e turismo. La modernizzazione è la via maestra per il Tibet? Certamente. Questo è emerso da quanto i partecipanti hanno affermato, e cioè che lo sviluppo della modernizzazione costituisce l’intento comune dei vari paesi e regioni del mondo, ed è anche un’esigenza interna dello sviluppo della società del Tibet. C’è coincidenza con gli interessi fondamentali della sua popolazione perché in mezzo secolo il Tibet è passato dall’arretrato modello di economia feudale a quello dell’economia moderna, ottenendo risultati incoraggianti nello sviluppo della modernizzazione, con un enorme potenzialità di miglioramento della vita della sua popolazione. ■
gli autori Alessandra Cappelletti È attualmente dottoranda in cotutela presso l’Università “L’Orientale” di Napoli e la Minzu University of China (Università Centrale per le Minoranze) di Pechino, con una tesi sullo sviluppo sociale nel Xinjiang contemporaneo, in particolare in due realtà: la città di Shihezi e la prefettura di Kashgar. La Prof. ssa Marisa Siddivò e il Prof. Abdursit Jelil Qarluq sono i suoi supervisor. Le sue analisi sono state pubblicate in ISPI Analysis, East e Urban China. Gangemi Editore e Gabrielli Editore hanno pubblicato i suoi lavori rispettivamente sull’artista cinese Huang Rui e la dissidente Mao Hengfeng. Attualmente sta lavorando, insieme al Prof. Qarluq, alla compilazione dei capitoli sulla popolazione uigura dell’opera enciclopedica in 60 volumi 中国各民族 (Peoples of China), parte di un progetto congiunto Minzu University of China, Ethnic Minority Study Center of China (Emscoc) e Shanghai Yilin Press. Ignazio Castellucci È professore a contratto di Diritto cinese e tradizioni giuridiche dell’Asia all’Università di Trento e Regular Visiting Assistant Professor di Sistemi giuridici comparati all’università di Macao, nonché avvocato in Roma, patrocinante in Cassazione, e Fellow presso il Chartered Institute of Arbitrators di Londra. I suoi interessi di ricerca riguardano il diritto comparato e la storia del diritto, ibridità e pluralismo giuridico, diritto politica e governante e l’Alternative Dispute Resolution. Le sue pubblicazioni principali sono: Sistema juridico latinoamericano. Una verifica, Torino, Giappichelli, 2011; Le grandi tradizioni giuridiche dell’Asia, Trento, Uni Service, 2009; e Rule of law, socialismo e mercato nella Repubblica Popolare Cinese (corso di pubblicazione), oltre a diversi scritti sul diritto cinese attuale, la rule of law e il socialismo di mercato in pubblicazioni straniere (nordamericane, cinesi, svizzere, belghe), sul diritto romano attuale e sul diritto economico transnazionale, in Italia, Russia, Cina e altri scritti di diritto africano, diritto dell’ambiente, in Italia e negli Stati Uniti. Daniele Cologna Sinologo e sociologo delle migrazioni, si è laureato in Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano. Da quindici anni si dedica alla ricerca sociale applicata nel campo degli studi migratori. Tra i soci fondatori dell’Agenzia di ricerca sociale “Codici”, vi svolge attività di ricerca, formazione e consulenza sui temi dell’immigrazione e della diversità culturale. Ha studiato la lingua cinese presso l’Istituto di Lingue della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano e presso l’Università di Hangzhou in Cina (oggi Università del Zhejiang). Alla propria attività di ricercatore sociale ha affiancato per molti anni quella di mediatore linguistico-culturale per il sistema dei servizi territoriali dell’area metropolitana milanese, sia in ambito educativo che sociale. È docente di lingua e cultura cinese presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Como. Ha pubblicato diversi saggi e articoli sull’immigrazione in Italia e sul modo in cui il crescente pluralismo culturale, etnico, linguistico e religioso
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sta trasformando la società e la cultura italiano. La sua ultima pubblicazione (con Elena e Anna Granata, Christian Novak e Ilaria Turba) è uno studio sull’immigrazione di seconda generazione a Torino (La città avrà i miei occhi. Spazi di crescita delle seconde generazioni a Torino, Milano, Maggioli, 2010). Mauro Crocenzi Laureato con lode in Lingue e Civiltà Orientali, nel 2007 ha ottenuto l’ammissione al titolo di dottorato in “Civiltà, culture e società dell’Asia e dell’Africa” (XXIII ciclo) con borsa presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università di Roma “Sapienza “, proponendo una ricerca che ha per oggetto le modalità di rappresentazione dell’identità politica tibetana nella Rpc. Ha pubblicato in Tibetan Review l’articolo in tre parti “The Lhasa Uprising of 1987-1989: An Essay on the Critical Approach of the International Press” (Novembre 2008- Gennaio 2009) ed è co-autore del libro Brand Tibet: la causa tibetana ed il suo marketing in Occidente, edito nel 2010 da Derive Approdi. Dal gennaio del 2009 collabora con l’agenzia di stampa italiana China-Files. Rita Fatiguso È giornalista del Sole 24 Ore. Scrive di temi legati alla globalizzazione, è autrice di inchieste sulle dinamiche del commercio, della concorrenza e dell’internazionalizzazione delle imprese. Viaggiando dal sud al nord-est della Cina ha realizzato nel 2008 un reportage sulle aziende italiane che hanno investito nella Terra di mezzo, diventato un libro intitolato Oltre la muraglia (Milano, ed. Il Sole 24 Ore, 2009). È direttore responsabile di Mondo Cinese. Pier Francesco Fumagalli Dottore ordinario e vice-prefetto della Biblioteca Ambrosiana e direttore della Classe di studi sull’estremo oriente dell’Accademia Ambrosiana di Milano, docente di Cultura cinese all’Università Cattolica del Sacro Cuore in Brescia e professore aggiunto del Centro studi su cristianesimo e intercultura dell’Università Zhejiang a Hangzhou. Ha compiuto gli studi di lettere classiche, teologia, lingue e letterature orientali all’Università Cattolica di Milano, alla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e all’Università Ebraica di Gerusalemme; ha inoltre frequentato corsi di lingue presso università arabe e cinesi. Ordinato prete dall’Arcivescovo di Milano nel 1978, da quell’anno svolge l’ufficio di Scrittore, e quindi Dottore dell’Ambrosiana; dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, della quale è consultore. È autore di opere su ecumenismo, ebraismo, manoscritti ebraici e arabi, religioni orientali e cultura cinese (tra questi: Cina e Occidente, Fratelli prediletti, Roma e Gerusalemme).
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Maria Jaschok Dopo il Ph.D presso Soas, è divenuta Direttore del Centro di studi internazionali sul genere e Research Fellow presso il Lady Margaret Hall dell’Università di Oxford. I campi di ricerca riguardano la religione, il genere e l’agentività, il genere nelle situazioni di ricostruzione della memoria; pratiche etnografiche femministe, identità e marginalità; spiritualità legata al genere. Il suo ultimo libro, Women, Religion and Space in China (Routledge, 2011), scritto in collaborazione con Shui Jingjun, rappresenta il proseguimento degli studi relativi alle tradizioni islamiche femminili in Cina, già pubblicati nel 2000 nel volume The History of Women’s Mosques in Chinese Islam (Curzon). È membro del Comitato consultivo accademico del China in Comparative Perspective Network (Ccpn), Lse di Londra, Senior Research Fellow presso l’Istituto Nordico degli Studi Asiatici di Copenhagen; membro del comitato di redazione del Berliner China-Hefte. Chinese History and Society di Berlino e cofondatore e amministratore dell’Associazione Women and Gender in Chinese Studies Network (WagNet). Mauro Mazza È professore associato di Diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bergamo. I suoi interessi di ricerca riguardano in modo particolare il diritto dei Paesi afroasiatici, nonché la tutela delle minoranze e la condizione giuridica dei popoli indigeni. Ha scritto, tra l’altro, Lineamenti di diritto costituzionale cinese (2006); Decentramento e governo locale nella Repubblica popolare cinese (2009); Le istituzioni giudiziarie cinesi. Dal diritto imperiale all’ordinamento repubblicano e alla Cina popolare (2010). Tommaso Previato Laureato in Lingue e istituzioni economico-giuridiche dell’Asia orientale (Sinologia) presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha conseguito nel 2009 la Laurea magistrale (M.A.) in Linguistica applicata alla Capital Normal University di Pechino. Attualmente conduce un dottorato di ricerca (Ph.D.) congiunto fra la Minzu University of China (Università Centrale per le Minoranze) di Pechino, Dipartimento di etnologia e sociologia (School of Ethnology and Sociology), e l’Università “La Sapienza” di Roma, Istituto italiano di Studi orientali. L’area di ricerca riguarda i fenomeni migratori lungo la Via della Seta e il dialogo interculturale. Valentina Punzi È candidata al dottorato di ricerca in Studi Tibetani presso la Minzu University of China di Pechino. Dal 2007 al 2009 ha usufruito di una borsa di studio biennale offerta dal Ministero per gli Affari Esteri per sviluppare un progetto di ricerca sull’istruzione scolastica elementare nelle prefetture tibetane del Sichuan. Ha successivamente trascorso un anno di studio presso la Tibet University a Lhasa. Nel 2010, dopo aver ottenuto la laurea specialistica
in Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, ha iniziato il dottorato a Pechino, realizzando al tempo stesso per l’ufficio di cooperazione dell’ambasciata italiana materiale didattico di contenuto sanitario destinato alla diffusione nelle scuole elementari della Regione autonoma del Tibet. Qi Jinyu Di etnia Mogour/Tu, ha conseguito il dottorato in Antropologia presso la Minzu University of China di Pechino e ha svolto il post-dottorato in Sociologia presso l’Università di Pechino. Attualmente docente di antropologia e sociologia presso la Minzu University, Dipartimento di Etnologia e Sociologia (School of Ethnology and Sociology). La sua area di ricerca è l’identità di gruppo, l’antropologia culturale e dell’istruzione. Thomas Rosenthal È professore a contratto di Storie e Geoeconomia: lo sviluppo economico della Cina presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Alla Fondazione Italia Cina è responsabile del Centro Studi per l’Impresa (Cesif) e Responsabile sviluppo strategico e relazioni esterne. È membro del comitato esecutivo di Mondo Cinese. Laureato con lode in Scienze politiche presso l’Università Cattolica di Milano, ha ottenuto un Master in Mercati e Istituzioni del Sistema Globale (presso l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali) e un Advanced Diploma - Business in China (press l’Università Bocconi - Ispi). I suoi interessi di ricerca riguardano in particolare lo sviluppo economico della Cina contemporanea, la situazione macroeconomica, l’analisi di rischio e l’internazionalizzazione delle imprese italiane in Cina e gli investimenti cinesi in Italia. Ha partecipato, organizzato e coordinato seminari e conferenze sulla Cina in Italia e all’estero. Paolo Santangelo Già professore ordinario di Storia della Cina presso l`Università “l’Orientale” di Napoli sino all’ottobre 2007, è attualmente professore ordinario di Storia dell’Asia Orientale presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma. È stato membro del Direttivo della Associazione Italiana di Studi Cinesi e ha fatto parte del Board dell’Associazione Europea di Studi Cinesi. Dal 1992 cura inoltre la pubblicazione di un periodico di studi sull’Asia Orientale premoderna e moderna, Ming Qing Studies. È membro dell’Advisory Board del Bulletin of Portuguese Japanese Studies, pubblicato dal Centro de História de Além-Mar dell’Università Nova di Lisbona, del Bulletin of the Museum of Far Eastern Antiquities di Stoccolma e dell’Editorial Board di Frontiers of History in China, Chengdu. Attualmente dirige una ricerca internazionale sulla percezione delle passioni attraverso l’esame di documenti della Cina moderna (http://w3.uniroma1.it/santangelo/), il cui primo rilevante risultato, oltre ai numerosi articoli, è il volume: Sentimental
Education in Chinese History. An Interdisciplinary Textual Research in Ming and Qing Sources (Leiden, Brill, 2003), seguito da Materials for an Anatomy of Personality in Late Imperial China (Leiden, Brill, 2010). Dirige la nuova collana Emotions and States of Mind in East Asia, della casa editrice Brill. La sua attività scientifica negli ultimi anni procede sui due binari dell’evoluzione dell’immaginario cinese fra i secoli XVI-XIX, con particolare attenzione alla “mentalità” e alla percezione delle emozioni, e della storia sociale e intellettuale dell’Asia orientale nello stesso periodo. Ha diretto ricerche sulla società cinese, sull’evoluzione della concezione morale, sulle emozioni durante le dinastie Ming e Qing. Cristiana Turini Laureata a pieni voti in Lingua e Letteratura cinese presso la Facoltà di Studi Orientali dell’Università “La Sapienza” di Roma. Ha approfondito le sue competenze linguistiche presso l’Isiao (allora Ismeo) di Roma, l’Università di Lingue e Culture Straniere di Pechino e l’Università di Wuhan. Ha frequentato un corso annuale di Master in Antropologia medica presso la School of Oriental and African Studies (Londra). Nel 2003 ha vinto una Ph.D. Dissertation Fellowship della Chiang Ching-kuo Foundation for International Scholarly Exchange (Taiwan) e nel 2005 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Storia e Civiltà dell’Asia Orientale, con una tesi sulle molteplici dimensioni culturali dell’esperienza della malattia tra i Naxi dello Yunnan. Ha partecipato a convegni e missioni scientifiche in Italia e all’estero. È membro dell’Associazione Italiana Studi Cinesi e della European Association for Chinese Studies. Già docente di Lingua cinese presso l’Università di Siena, di Storia della Cina e di Filosofia della Cina presso l’Isiao, è attualmente docente di Cultura e Società dei Paesi di Lingua cinese presso la Libera Università Luspio (Roma), di Lingua Cinese presso l’Isiao di Roma e presso l’Università di Macerata. Negli ultimi anni i suoi interessi si sono concentrati sulla didattica del cinese moderno, sulle questioni che interessano le etnie minoritarie in Cina, e in particolare i Naxi, sui rapporti tra la scrittura pittografica dei Naxi e il jiaguwen. Zhang Xi Di etnia Qiang, è laureato in Lingua e letteratura cinese presso Minzu University of China di Pechino è ha frequentato il Master in Antropologia culturale presso la Arts and Science School dell’Università di Tokyo, conseguendo poi il dottorato di ricerca in Antropologia culturale presso la stessa istituzione. Attualmente è docente presso Minzu University, Dipartimento di Etnologia e Sociologia (School of Ethnology and Sociology). La sua area di ricerca è l’antropologia applicata.
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Mondo Cinese Rivista di Studi sulla Cina Contemporanea della Fondazione Italia Cina
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Banche, finanza e moneta
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