Il reale e gli spazi per la politica

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A cura di Leonardo Caffo

FFF—Quaderni #3



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Collana diretta da Roberto Masiero



A cura di Leonardo Caffo Quaderni #3


© 2015 Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana: Quaderni della fondazione, n. 3 Isbn: 9788857531267 Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: mimesis@ mimesisedizioni.it www.mimesisedizioni.it


Indice

p. 7 Introduzione Il reale e gli spazi per la politica Leonardo Caffo

Materiali

Discussione

p. 11 L’ontologia sociale di Giacomo Leopardi Leonardo Caffo

p. 78 Spazio ideologico Gianni Talamini

p. 18 Nella politica…lo spazio Roberto Masiero p. 35 Metropoli biopolitica: lo spazio del conflitto tra flussi globali e luoghi urbani. Marco Assennato

p. 88 Stabilire il confine Il territorio fragile della politica Mario Ambrogi p. 98 Il giorno in cui la classe media si rivolterà. Dispersione e aggregazione Leonardo Ebner

p. 43 Alcune annotazioni sui «luoghi/simbolo della politica» Pietro Piro

p. 107 La crisi della democrazia e della funzione rappresentativa Mattia Gambilonghi

p. 47 Doppio movimento, ovvero della necessità storica di una sinistra non “progressista” Andrea Zhok

p. 114 Giovani senza terra. il trionfo dell’individualismo non-politico Gabriele Giacomini

p. 63 La proposta cosmopolitica di Isabelle Stengers Anna Longo p. 68 Una nuova messa in opera dei concetti politici Caterina Croce

Documenti p. 125 Da una società frantumata alla comunità L’economico “stato di eccezione” come cifra della politica Maria Grazia Turri



Il reale e gli spazi per la politica Leonardo Caffo

«Alla fine di ciò che Balzac avrebbe detto un’orgia, un certo individuo per niente metafisico mi disse, credendo di fare dello spirito, che defecare gli causava un’impressione di irrealtà. Ricordo le sue parole: “Ti alzi, ti volti e guardi, e allora dici: ma l’ho fatto io queso?”» Julio Cortázar

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Ogni cosa ha una storia. Ognuna di queste cose nasconde dei volti, amicizie, progetti, speranze e litigi. Per non incorrere, come ammonito dal protagonista de La grande bellezza di Sorrentino, nella sedimentazione di tutto questo tra chiacchiericcio e rumore vorrei provare a raccontarvi, brevemente, la storia di questa “cosa” – un libro – che avete in mano. L’edizione del 2013 del Festival Comodamente, ormai storico appuntamento culturale settembrino a Vittorio Veneto, ha ospitato – tra gli altri – un laboratorio politico dal titolo “Ovunque… gli spazi della politica”. Ed eravamo quattro amici al bar, verrebbe da dire, dato che a ospitare le riflessioni di più di venti persone, era il bar Unione di Largo Cavallotti. La politica, e la sua filosofia, in mezzo alla strada. Potrebbe sembrare una metafora giacché mi pare ovvio che la politica attuale è, davvero, in mezzo a una strada; ma invece non lo è. Roberto Masiero che, come si dice in questi casi, la sa lunga e si spinge lontano, ha saputo organizzare in un contesto informale, volutamente ibridato agli spazi cittadini, un’occasione di confronto a più voci – incaricate di intonare melodie diverse – dal filosofico al giuridico, dall’architettonico al poetico, tenute insieme dall’esigenza di pensare uno spazio per la politica radicalmente diverso da quello attuale. Pensare l’impensabile: dato che le categorie

politiche con cui cerchiamo di riflettere ci sono date proprio dalla stessa politica che cerchiamo di contrastare. Ma non siamo dinnanzi a un paradosso quanto, piuttosto, all’ennesimo – ma fondamentale – tentativo di estrinsecare un cambio di stagione ormai evidente. L’epoca della dissoluzione di ogni valore, evaporato tra i debolismi del postmoderno, è al tramonto: il “tutto è interpretazione” che si voleva rivoluzionario (Vattimo 1989), perché in grado di contrastare le verità dogmatiche delle dittature novecentesche, ha finito per attorcigliarsi su se stesso (Ferraris 2012). Se ogni cosa può traslare di prospettiva, sulla base dei processi ermeneutici che la interessano, allora nulle è certo (neanche le tasse) e tutto è possibile. Ma una politica che non ha fondamento nel mondo esterno non può che condurre se stessa al nefasto. E tale esigenza di realtà è manifesta nelle pagine di ognuno dei contributi che vi troverete a leggere: laddove è la morale a fare da ideale regolativo per la politica, o la necessità di riconoscere al corpo la sua autonomia all’epoca del suo totale controllo (la cosiddetta “biopolitica negativa” – Esposito 2004), la ricerca di quello che Thoreau definiva un necessario punto di partenza per costruire un corretto spazio sociale è evidente. E vediamo, di preciso, cosa ci dice l’autore di Walden: «Colonizziamo noi stessi, lavoriamo e muoviamoci con i piedi ben giù, nel fango e nella mota delle opinioni, dei pregiudizi, delle tradizioni, degli inganni e delle apparenze […] finché non arriveremo a un fondo solido e alla viva roccia, che potremo chiamare realtà, e di cui potremo dire: “Questo esiste senza possibilità di errore” e poi, avendo un point d’appui, sotto l’inondazione, il gelo e il fuoco, cominciamo a preparare un luogo dove si possa piantare


con sicurezza un muro, o uno Stato, o un palo da lampione, o magari un idrometro […] affinché i secoli futuri possano sapere come, a poco a poco, un’inondazione di falsità e apparenze si fosse formata nei secoli trascorsi. […] Morte o vita che sia, desideriamo soltanto la realtà» (Thoreau 1988, p. 160). Un point d’appui dunque: ma quale? La questione del realismo è assai complessa: non la si congela con degli slogan “realtà si, realtà no”. Come ha mostrato soprattutto la riflessione analitica angloamericana in tal senso (Miller 2012), ma anche più recentemente quella volta a indagare i rapporti tra estetica e scienza (Longo, Masiero 2013), anche questa faccenda – come la maggior parte delle grandi questioni filosofiche – è colma di sfumature, gradi e tasselli. Quando ci chiediamo “che cosa c’è?”, come recita una nota domanda di Willard Van Orman Quine, dobbiamo sempre aggiungere un’ulteriore interrogazione: “dove?”. Il problema è che la realtà, o meglio il mondo, è fatta a strati (celebri i Millepiani di Deleuze e Guattari) e dunque, anche le nostre teorie su di esso, vanno localizzate per porzioni. Nel testo che avete in mano, e di cui vi apprestate a leggere i contributi, la domanda ontologica verte sullo spazio ultimo della politica – ovvero la realtà sociale. Quale deve essere, e cosa comporta, il punto di inizio per edificare e immaginare i luoghi, siano essi architettonici, filosofici o metaforici, della politica che verrà? Se osservate bene vi accorgerete che ciò che tiene insieme i pezzi del puzzle che abbiamo cercato di costruire, talvolta davvero diversi tra loro, è l’idea che il point d’appui di cui parla Thoreau altro non sia che il territorio dell’etica, dei corpi, dei diritti e dei valori. In sostanza quando volgiamo la domanda di Quine al mondo politico lo facciamo con uno spirito assai diverso che quando ci rivolgiamo al suolo metafisico: qualcosa non solo esiste, ma dovrebbe essere assai diversamente da com’è. Migliaglia di corpi, umani e non, sono attraversati dalle lame della mancanza della speranza: immigrati senza nome cercano di raggiungere le nostre coste mentre cuccioli di Homo Sapiens mettono in fila i loro cadaveri

nella mezzaluna fertile. Ogni occasione di confronto filosofica sul terreno della politica non deve perdere di vista un punto: la nostra società, che per alcuni è una comoda poltrona, per la maggior parte è un immenso mattatoio. Non abbiamo avuto, e non abbiamo, la pretesa che questo umile lavoro possa cambiare questo stato di cose ma abbiamo provato a immaginare, su diverse prospettive, un mondo possibile in cui la politica si risolva nel suo significato originale, e aristotelico, troppo spesso ignorato: sacrificio per l’altro da sé. Speriamo di essere riusciti nel nostro intento: buona visione, e alla prossima puntata del laboratorio.


Materiali

≥ Leonardo Caffo ≥ Roberto Masiero ≥ Marco Assennato ≥ Pietro Piro ≥ Andrea Zhok ≥ Anna Longo ≥ Caterina Croce

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p. 11 p. 18 p. 34 p. 42 p. 46 p. 62 p. 67



L’ontologia sociale di Giacomo Leopardi di Leonardo Caffo

Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. G. Leopardi, L’Infinito

1.1 Ontologia sociale leopardiana L’ontologia sociale è la branca dell’ontologia che studia il funzionamento degli oggetti sociali, come le multe, i professori o il denaro, chiedendosi come vengono a formarsi, come si articola la loro essenza e analizzando, nel modo più preciso possibile, il loro statuto. Dobbiamo a John Searle, se non si risale fino a Edmund Husserl, un primo tentativo in tal senso ma oggi, dati alla mano, le posizioni sul tema sono molteplici e il dibattito, di conseguenza, è lungamente articolato2. Chiedersi se Leopardi possa contribuire

Il primo dato che dobbiamo da qui estrapolare è che Leopardi, oltre a schierassi contro l’idea che ogni fenomeno sociale, per il solo fatto di esistere, sia utile e/o necessario è anche cosciente di una cosa: gli oggetti sociali, che sono la benzina del sociale, sono socialmente costruiti - possono essere in un modo, ma anche in infiniti altri, e l’umano tende ad adattarsi con facilità a ognuna di queste possibilità. Ma qui comincia a intravedersi l’argomentazione più interessante:

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1. Contesto Va da sé come e quanto Giacomo Leopardi sia noto come letterato - evitiamo di chiederci il perché. Meno nota, se si esclude l’analisi che è stata fatta delle Operette morali, è la sua produzione filosofica. Non tanto perché nessuno si sia sforzato di evidenziare la quantità di riflessioni filosofiche di Leopardi1 quanto, piuttosto, perché le sua argomentazioni non sono mai state prese seriamente per comprendere se e quanto utili al dibattito filosofico contemporaneo. La mia tesi è che attraverso una rilettura non filologica, ma filosofica di un certo Leopardi, sia possibile discutere argomentazioni estremamente interessanti per lo stato dell’arte della filosofia di oggi: per i fini del saggio, e i miei obiettivi, mi limiterò a ricostruire e discutere un inedito Leopardi come ontologo sociale.

a ciò che sappiamo dell’ontologia sociale significa, dunque, rintracciare tra le sue riflessioni pagine in grado di influire sulle questioni, appena citate, delle disciplina in questione. Qualche tempo fa ho visitato la sua casa natale a Recanati - la visione della biblioteca è impressionante: due delle quattro stanze oggi accessibili lo erano già all’epoca di Leopardi e si dice, a ragione, che ne avesse letto ogni libro. A uno sguardo attento non può sfuggire quanto sia immensa la sezione dedicata alla filosofia così, che lo Zibaldone sia pieno zeppo di argomenti filosofici, non appare più un fatto degno di eccessivo stupore. Ma veniamo al dunque o, meglio, cominciamo a capirci qualcosa - sentiamo cosa ha da dire Leopardi a proposito della società: La nostra civiltà, che noi chiamiamo perfezione essenzialmente dovuta all’uomo, è manifestamente accidentale, si nel modo con cui s’è consegnata, si nella sua qualità […] Quanto alla qualità, essendo l’uomo diversissimamente conformabile, e potendo modificarsi in milioni di guise dopo che s’è allontanato dalla condizione primitiva, egli non è tale qual è oggi, se non a caso, in diverso caso, poteva esser diversissimo [Zib. 1570-1572, 27 agosto 1821].


non tutte queste possibilità sono equivalenti, naturali ma, soprattutto, isomorfe da una prospettiva morale.

la formazione di mondo sociale, vanno osservati gli animali non umani e le loro società;

Per società perfetta non intendo altro che una forma di società in cui gli individui che la compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli altri o, se nocciano, ciò sia accidentalmente e non immancabilmente; una società in cui individui non cerchino sempre e inevitabilmente di farsi del male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le formiche, fra i castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale, e nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, una ragione, del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, né il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui. […] Infatti fra gli animali, fra cui la società è scarsa, la disuguaglianza fra individui è rara e sempre scarsissima: così i vantaggi degli uni sugli altri. […] La società stretta, ponendo gl’individui a contatto gli uni degli altri, dà necessariamente l’esser all’odio innato di ciascun vivente verso altrui. […] La natura non ha posto nel vivente l’odio verso gli altri, ma esso da se medesimo è nato dall’amor proprio per natura di questo. Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce per se medesimo dall’esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un sere che sentisse di essere e non si amasse come altrove ho dichiarato [Zib. 3773-3810, 25-30 ottobre 1823].

Tesi C: Meno società, e dunque applicare una sorta di rasoio di Occam agli oggetti sociali, è la migliore condizione possibile (deriva dalla tesi B) - perché solo così ci sono meno diseguaglianza sociali (che sappiamo essere bene dalla tesi A);

Le riflessioni di Leopardi sul sociale, e sul suo formarsi attraversano, perlomeno, tutte le pagine dello Zibaldone da cui sono tratte le citazioni in questione. Tuttavia, già in queste poche righe, sono condensate alcune importanti tesi che possiamo così riassumere: Tesi A: Esistono società, e dunque costruzioni di oggetti sociali, migliori e peggiori: i parametri sono morali - la non violenza è il principale ideale regolativo; Tesi B: Per le società umane, e per

Tesi D: Il sociale deve fare della natura qualcosa a cui ispirarsi: odio e cattiveria sono infatti naturali, ma solo socialmente raggiungono le proporzioni che conosciamo. Collante del sociale deve essere proprio quella “amor” che esiste in natura, e che lega a doppio filo tutti i viventi. Diamo a Leopardi ciò che gli spetta e trattiamolo come ogni filosofo andrebbe trattato: non glorificandolo ma discutendo, in modo articolato, ognuna di queste quattro tesi confrontandoci e interagendo, ovviamente, con il dibattito filosofico attuale. 2 Tesi A: Etica e ontologia sociale La prima tesi di Leopardi è una tesi che cerca di congiungere, in un solo gesto, l’ontologia sociale e l’etica. Parrebbe banale se non fosse che praticamente tutto il dibattito sull’ontologia sociale, da Searle fino a Tuomela, passando per David Lewis, non si fosse completamente dimenticato che l’etica - che per definizione è ciò che regola i comportamenti - gioca un ruolo essenziale in ontologia sociale. Innanzitutto, tradizionalmente, l’ontologia sociale indaga il come nascono gli oggetti sociali e mai il come dovrebbero nascere tali oggetti - la differenza è sottile, ma strutturale. Sappiamo che Searle, realista debole, fornisce tutto il suo formulario logico che spiega come funzionano creazione e rappresentazione di oggetti sociali - ma mai, neanche nella sua ultima produzione, si sofferma su una possibilità d’analisi qualitativa in questo rapporto. Per analizzare correttamente la portata teorica della Tesi A devo, tuttavia, intrecciarla con alcune delle implicazioni


2.1 Filosofia della mente leopardiana Ogni ontologia sociale presuppone un modello del mentale - si consideri sempre quello - più celebre - proposto da Searle:

L’idea è nota: ci sono tanti “io” - individuali - che si avventurano all’esterno attraverso un particolare “stato mentale”, che è l’intenzionalità collettiva, che consente di ragionare come dei “noi”4. Lasciamo ora da parte i problemi, che esistono, a proposito di cosa sia, o meglio, dove stia l’intenzionalità collettiva5 e limitiamoci a comprendere come anche in Leopardi vi fossero tutti gli elementi per la costruzione di un modello del mentale alternativo. Va da sé che più al suo funzionamento, su cui comunque diremo qualcosa, siamo interessati a una ricostruzione del modello volta ad arricchire un dibattito ancora in corso. Seguendo la rappresentazione precedente, anche per Leopardi, possiamo immaginare un modello che abbia questa struttura:

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generate dalle altre tesi che - ovviamente - costituiscono una sorta di scatola cinese che è specchio dell’ontologia sociale leopardiana. La tesi D, in particolare, ci dice qualcosa sul fatto che la costruzione della realtà sociale debba ispirarsi a qualcosa di esistente in natura - che è definito da Leopardi come “amor” che poi, nella tesi A, deve svolgere il parametro per la migliore delle società possibili. Leggendo attentamente Leopardi, l’amor, come lo intende lui, altro non è che l’empatia: la capacità di sentirsi nell’altro sentendo l’altro in se stessi3. Facciamo tesoro di questa assunzione, che sarà fondamentale quando discuteremo la tesi D, e riconsideriamo la tesi A: “esistono società, e dunque costruzioni di oggetti sociali, migliori e peggiori: i parametri sono morali la non violenza è il principale ideale regolativo”. Adesso, per parafrasi, significa che oggetti sociali costruiti come estensione dell’empatia, e società maggiormente empatiche, sono ciò che la filosofia deve indagare e la politica perseguire. Qui risiede l’idea leopardiana, che vedremo meglio discutendo la tesi B, che il sociale dovrebbe essere estensione e non frattura della natura (cultura come emergenza spontanea dalla natura). In questo modo Leopardi sostiene, implicitamente, un modello del mentale specifico per la rappresentazione degli oggetti sociali oltre a un modello di comparazione nella loro costruzione, vediamo con ordine tutto.

Qui non ci sono individui che avventurano i propri “io” verso un esterno “noi” ma un “noi” da cui poi, in un secondo momento, le individualità prendono forma. Leopardi, a mio avviso, è estremamente chiaro nella seconda delle lunghe citazioni che abbiamo riportato e, più avanti, un simile modello del mentale sarà sostenuto da psicologi come Lev Semënovič Vygotskij fino ad approdare alla contemporanee ricerche della psicologia evolutiva di Donald Winnicott che hanno mostrato come, nei primi mesi di vita, esista una zona intermedia - parecchio sfumata tra io e non-io: è solo la cultura successiva, infatti, a polarizzare le due entità ma la mente, primariamente, è un prodotto collettivo che solo in un secondo momento di specializza. Linea di ricerca che, idealmente, arriva fino alla scoperta dei “neuroni specchio” che, proprio secondo Vittorio Gallese, consentono di ipotizzare modelli del mentale con


la matrice leopardiana che stiamo discutendo: prima l’intersoggettività e, solo dopo, la soggettività6. Questo modello del mentale che ha il suo zoccolo d’uro nella nozione di empatia che, praticamente, prende il posto dell’intenzionalità collettiva di Searle nella rappresentazione di oggetti comuni - come quelli sociali - tende a dare un primo sostengo alla tesi D, come più avanti vedremo, ma intanto ci consente di chiudere il cerchio a proposito della tesi A. 2.2 Più rispetti, più ti rispetti L’empatia è la capacità di rappresentare l’altro in se stessi: se vedo qualcuno preso a calci mi rappresento come se mi prendessero a calci e l’etica, dunque, comincia proprio da qui. Quando Leopardi richiama a società migliori ha in mente, con le scoperte e concezioni del suo tempo ovviamente, proprio un meccanismo di questo tipo: più costruiamo società, e oggetti sociali, sensibili a questo ideale regolativo presente già in natura, più sarà possibile individuare società giuste. 3 Tesi B: Fate come le bestie Veniamo a discutere la tesi leopardiana secondo cui le società umane dovrebbero ispirarsi a quelle animali. Anche se Leopardi fa effettivamente qualche esempio, formiche, api, ecc., va evidenziata la sua ingenuità nella genericità con cui discute di animalità7 e animali. Ma lasciamo un attimo da parte questa debolezza di Leopardi per cercare di capire cosa aveva effettivamente immaginato riconsiderando queste sue parole: «i loro individui cospirano tutti e sempre al ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, una ragione, del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per accidente, né il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo altrui». Poco importa se è vero quanto dice: l’etologia animale potrebbe, infatti, prima di tutto fare dei distinguo tra diverse società animali, qualora credesse opportuno parlare di società vere e proprie e inoltre, non meno importante, smentire del tutto questa affermazione.

Per i fini della nostra argomentazione, tuttavia, supponiamo che sia vero ciò che afferma Leopardi e discutiamo il motivo per cui decide di rifarsi agli animali: la migliore delle società possibili è composta da individui che mirano tutti al bene pubblico, il conflitto va arginato ai minimi e necessari termini - e non è concepibile come fenomeno strutturale al sociale. Qui Leopardi sta decisamente argomentando in favore di un fatto che va ben oltre un generico, e banale, “meno conflitto possibile, meglio è”. Intrecciamo ancora una volta un’altra tesi, ovvero la C - quella sulla parsimonia ontologica nei contesti sociali. Sappiamo, dunque, che Leopardi è convinto che meno società significa più etica ma, in realtà, qui si riferisce allo Stato il che lo farebbe sembrare, senza forzature, un sostenitore di un certo pensiero anarchico - tipo H. D. Thoreau della Disobbedienza Civile - meno governo significa più libertà. Tralasciando l’anarchismo, che pure a mio avviso è palese in Leopardi, resta un dato importante - tesi B + tesi C: la parsimonia ontologica, ovvero il rasoio, va applicata su quella enorme porzione di oggetti sociali che contribuiscono ad aumentare il conflitto e a creare individui che agiscono soltanto per il proprio bene anche quando questo nuoce al bene altrui e comune. Data la tesi A, il sociale è costruito e cambiabile, abbiamo adesso i parametri su come andrebbe operato questo cambiamento. L’ideale di Leopardi sono queste società animali perché, per suo vizio filosofico, inversamente proporzionale a quello da poeta della “natura matrigna”, tende a ispirarsi alla natura [correndo sempre il rischio della fallacia naturalistica] ma, per noi, potrebbero essere tranquillamente dei mondi possibili a farci da musa ispiratrice. Nel vasto, e potenzialmente infinito, insieme degli oggetti sociali c’è spazio per “amore” e “amicizia” tanto che per la “guerra” o “la pena di morte”. La caratteristica propria degli oggetti sociali è che sono creati ma che, una volta in circolo nella realtà sociale, sono a noi indipendenti: non basta chiudere gli occhi per vedere scomparire una multa, per intenderci. Tuttavia quello che mai si dovrebbe


4 Tesi C: Il rasoio di Leopardi Si diceva, appunto, del rasoio di Occam che, contestualizzato alla realtà sociale, possiamo definire rasoio di Leopardi. Riconsideriamo un attimo la tesi C nella sua interezza - meno società, e dunque applicare una sorta di rasoio di Occam agli oggetti sociali, è la migliore condizione possibile - perché solo così ci sono meno diseguaglianza sociali. Nelle sue parole «tra gli animali, fra cui la società è scarsa, la disuguaglianza fra individui è rara e sempre scarsissima: così i vantaggi degli uni sugli altri». Sembra, Leopardi, protendere per società minimali che sono, de facto, il contrario degli Stati globalizzati che oggi la maggior parte degli umani abitano - la sua tesi, tuttavia, è almeno intuitivamente contro intuitiva. O, meglio, lo sarebbe se non avessimo già alle spalle brevi discussioni a

proposito delle tesi A e B - tendenzialmente è accettata un’idea secondo cui una corretta vita etica, che riposa sdraiata sul solido letto della normatività, è possibile solo in società complesse d’altronde, se si dà spesso per scontato una forma germinale di comportamento proto-sociale non solo negli uomini al di là del sociale ma anche, qui ha ragione Leopardi, in certi animali8, d’altro canto si parla di comportamento sociale e società solo ad un livello più articolato9. Ma Leopardi, qui la tesi più importante per un’ontologia sociale, non crede che la creazione di mondi sociali nasca dal nulla - attraverso processi razionali e costruttivisti alla Searle o Lewis - ma che sia emergenza della natura che, anche in senso minimale, garantisce contesti sociali agli animali che la abitano (umano compreso). Poca società significa poca diseguaglianza: questo, va da sé, perché vengono a mancare tutta una serie di dispositivi sociali che incrementano forbici e fratture tra classi diverse - senz’altro, avesse vissuto abbastanza, Leopardi sarebbe stato un anticapitalista convinto. 5 Tesi D: Natura e società Il concetto di natura di Leopardi è oggetto di dibattito10, difficile inquadrarlo tra posizioni troppo strette e precise. Nella tesi in questione, tuttavia, è chiaro cosa intenda - almeno contingentemente a questa argomentazione: «la natura non ha posto nel vivente l’odio verso gli altri, ma esso da se medesimo è nato dall’amor proprio per natura di questo. Il quale amor proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce per se medesimo dall’esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un sere che sentisse di essere e non si amasse». Quindi, senza troppa fantasia, possiamo affermare che Leopardi - in barba alla ghigliottina di Hume - ci dica che la natura pone le condizioni per l’amore reciproco e che sta a noi passare da questo essere a un suo correlato deontico che è, ovviamente, il dover essere. In che modo funzioni questo amore, che anche se Leopardi non lo sa è l’empatia, lo abbiamo già visto prima - e la tesi risulta dunque effettivamente plausibile.

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verificare, e che invece costantemente si verifica, è che l’indipendenza diventi, paradossalmente, una dipendenza inversa: siamo noi a dipendere da loro. Si pensi a un oggetto come la “crisi economica” che, costantemente e ciclicamente, regola le scelte etiche e politiche di intere nazioni, oltre la vita degli individui che in queste nazioni vivono. Secondo Leopardi, che di questa dipendenza si accorge e cerca di rimediare poi con la tesi D, il problema sta a monte: nella concezione di certe classi di oggetti sociali che poi contribuiranno a creare questa malsana dipendenza. Qui è dove il paragone con gli animali assume funzione primaria: la povertà di mondo sociale dei non umani, in un Leopardi che sembra lo specchio inverso di Heidegger, assume e diventa una qualità che li rende migliori dell’umano - etica e giustizia di una società si celano dietro la semplicità, e non dietro la complicazione (che è il proliferare di entità che, quando non sono dannose, si rivelano inutili). Se, data la tesi B che qui discutiamo, dobbiamo ispirare il sociale a individui che vivono armoniosamente abbiamo bisogno di ontologie sociali parsimoniose: il taglio deve avvenire rispetto a tutti quegli oggetti che amplificano il conflitto. Meglio, la tesi B, sarà chiara durante la discussione della tesi D.


6. Conclusione Va da sé che quanto qui abbiamo detto è poco per parlare di una vera e propria ontologia sociale in Leopardi anche sé, mi preme evidenziarlo, ci sono alcuni spunti per tesi originali e spesso contrastanti con quelle più discusse nel dibattito attuale in ontologia sociale. Se poi fossimo talmente arditi da prendere anche le poesie di Leopardi11, per costruire un tale progetto, forse avrebbe un senso quella che segue, o forse no (come ogni poesia): Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l’altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s’affretta, e s’adopra di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba. Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno. da Il sabato del villaggio Nota biografica Leonardo Caffo (Catania, 1988), PhD, è membro del Labont: laboratorio di ontologia dell’Università di Torino. Fellow dell’Oxford Centre for Animal Ethics, direttore della rivista Animot: l’altra filosofia, e collaboratore di numerose riviste e quotidiani come Huffington Post, L’Indice dei Libri, A rivista anarchica e Lettera Internazionale. Tra i suoi ultimi libri: Il maiale non fa la rivoluzione (Sonda, 2013), Naturalism and Constructivism in Metaethics (Cambridge SP, 2014), Radicalmente liberi (Mimesis, 2014), An Art for the Other (Lantern Book, 2015) e A come Animale (Bompiani, 2015).


1 – Cfr. S. Ghan, Leopardi filosofo antifilosofo, Ist. Editoriali e Poligrafici, Pisa-Roma 1997. 2 – Per un censimento recente: R, Mallon, “Naturalistic Approaches to Social Construction”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Winter 2013 Edition), Edward N. Zalta (ed.), URL = http:// plato.stanford.edu/ archives/win2013/entries/ social-constructionnaturalistic. 3 – Per un’analisi scientifica dell’empatia di cui fare tesoro filosoficamente cfr. G. Northoff, “What is neuroethics? Empirical and theoretical neuroethics”, in Current opinion in Psychiatry, 22: 2009, DOI:10.1097/ YCO.0b013e32832e088b.

5 – La nozione di “intenzionalità collettiva” è la più problematica tra quelle postulate entro l’ontologia sociale searliana - Maurizio Ferraris, noto per aver prodotto una teoria alternativa, critica lungamente questa nozione nel suo M. Ferraris, Documentalità: perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. 6 – V. Gallese, “The Roots of Empathy: The Shared Manifold Hypothesis and the Neural Basis of Intersubjectivity”, in Psychopathology 2003; 36:171–180 DOI: 10.1159/000072786. 7 – Per una critica alla nozione di animalità come insieme generico mi permetto di rimandare al mio L. Caffo, Adesso, l’animalità, Graphe, Perugia 2013.

9 – Il già citato M. Ferraris, Documentalità, op., cit. è il saggio che più esprime questo rapporto - per spunti critici e articolati sul tema si consulti anche M. Ferraris, L. Caffo, (a cura di) “Documentality”, The Monist, 92: 2, 2014. 10 – A tal proposito è essenziale la ricostruzione che ne fa B. Biral, La posizione storica di Giacomo Leopardi, Einaudi, Torino 1974. 11 – Che le poesie celino argomenti filosofici necessari da discutere è ormai tesi non così astrusa - segnalo, a tal proposito, un poema filosofico ospitato tra gli articoli in una delle prestigiose riviste del Royal Institute of Philosophy: S. Adamas, “Philosophy Poems”, in Think: Philosophy for everyone, 35: 12, pp. 93 - 95, Cambridge University Press.

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4 – Immagine e ricostruzione sono mutuati da J. Searle, La costruzione della realtà sociale, Einaudi, Torino 2005.

8 – Bartal, B.I., Decety, J., Mason P. 2011. “Empathy and Pro-Social Behavior in Rats”, in Science, December 2011: Vol. 334 no. 6061, pp. 1427-1430, DOI: 10.1126/science.1210789.


Nella politica…lo spazio di Roberto Masiero

Non esistono idee politiche senza uno spazio a cui siano riferibili, né spazi o principi spaziali a cui non corrispondano idee politiche C. Schmitt Rem Koolhaas, famoso archistar e attuale direttore della Biennale di Architettura di Venezia, ha intitolato un suo pamphlet del 2001 Junkspace. Unendo la parola Junk che sta per cianfrusaglia, roba, roba vecchia, in qualche modo spazzatura, e space, ci provoca una sorta di smarrimento proponendoci l’idea che lo spazio possa essere il luogo che raccoglie tutti i rifiuti possibili e che il mondo stesso, lungi dall’essere come scriveva Marx all’inizio del Capitale, un grande ammasso di merci sia, o sia diventato, un grande ammasso di rifiuti. Secondo Koolhaas “…la continuità è l’essenza del Junkspace; il Junkspace sfrutta ogni invenzione che rende possibile un’espansione, dispiega l’infrastruttura dell’uniformità: scale mobili, aria condizionata, sprinkler, porte tagliafuoco, lame d’aria...È sempre un interno, così esteso che raramente se ne possono percepire i limiti; promuove il disorientamento con ogni mezzo (specchi, eco, superfici lucide...). Il Junkspace è il doppio corporeo dello spazio, un territorio di visione compromessa, di aspettative limitate, di serietà ridotta. È un triangolo delle Bermuda dei concetti. (…). Sostituisce la gerarchia con l’accumulo, la composizione con l’addizione (…). Il Junkspace è come essere condannati a un bagno perpetuo in una Jacuzzi con milioni dei tuoi migliori amici… Un nebuloso impero di indistinzione che confonde l’alto e il basso, il pubblico e il privato, il diritto e il ricurvo, il sazio e l’affamato per offrire un ininterrotto

patchwork di ciò che è perennemente disarticolato”. E questa indistinzione non ha gli stessi tratti della deregulation o, se vogliamo, del neoliberismo scatenato? In fondo non stupisce che un architetto si conceda ad una sorta di lirico cinismo per aprirci gli occhi sullo spazio in cui viviamo e sullo spazio in generale e forse anche nell’economia politica del nostro tempo. D’altra parte dobbiamo anche ricordarci che un sociologo come Marc Augé sin dal 1992, elaborando una sorta di antropologia della surmodernità, crea una neologismo, nonluogo, in contrapposizione ai luoghi antropologici. I nonluoghi sono tutti gli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Se c’è una antropologia è inevitabile che si articoli anche un’etica e una politica; nella postmodernità sarà quella dei nonluoghi, della fluidità come indicherà Bauman, della identità sempre rinvita. L’identità soprattutto se elaborata nella memoria collettiva e nella storia è questione eminentemente politica come le forme delle relazioni intersoggettive. Alcuni anni prima nel 1984 Jameson nel cercare di comprendere cosa succede della cultura dopo gli anni Sessanta nel suo Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardocapitalismo, cerca di analizzarne gli spazi e quindi è costretto, anche se di professione studioso di letteratura e critico sociale, a rivolgersi all’architettura e confessa che è “... nell’ architettura che le modificazioni nella produzione estetica si sono rese più platealmente visibili e che i problemi teorici da essa sollevati hanno ottenuto una centralità e un’articolazione maggiori che in altri ambiti”.


Per Jameson con il Postmoderno siamo di fronte ad una “... mutazione dello stesso spazio costruttivo”. Siamo di fronte ad un “... iperspazio rispetto al quale non abbiamo ancora sviluppato adeguate capacità percettive”. Un iperspazio che ci chiede di sviluppare “... nuovi organi,

di espandere il nostro sensorio o il nostro corpo in nuove dimensioni finora inimmaginabili e forse in ultima analisi, impossibili”. A dimostrazione Jameson commenta una costruzione dell’architetto Portman, l’Hotel Bonaventure, costruito nel nuovo downtown di Los Angeles. Ci troviamo di fronte ad uno spazio totale, una città in miniatura abitata da una specie di iperfolla. Non è, né vuole essere parte della città. Le sue entrate sono per questo insignificanti. Rifiuta la città senza proporsi come alternativa alla città, si lascia essere senza cercare di imporsi. Riflette l’esistente (l’intorno) in modo deformato attraverso una grande pellicola di vetro riflettente. Scale mobili e ascensori, moltissimi e bene in vista, sono “... nuovi emblemi e segni riflessi del movimento stesso... “. Momenti nodali per una passeggiata narrativa enfatizzata grazie al trasporto meccanico, “... che diventa così il significante allegorico della passeggiata di una volta che oramai non ci è più permesso condurre per conto nostro” e ciò costituisce un’intensificazione dialettica dell’autoreferenzialità propria di tutta la cultura moderna, che tende a riferirsi a se stessa e a designare come suo contenuto la propria produzione culturale”. Lo spazio perde la propria capacità di essere un misuratore dell’esistente. La prospettiva non ha ordine, non perché ‘dilatata’ come nel Barocco, ma perché inessenziale. D’altra parte la crisi della visione retinica, della prospettiva, era già stata segnata dall’opera di Marcel Duchamp. Scrive ancora Jameson: “Sono tentato di dire che questo spazio ci rende impossibile parlare ancora in termini di volume o di volumi, dato che questi non è possibile coglierli. Anzi i nastri pendenti che invadono questo spazio vuoto distraggono sistematicamente e deliberatamente da qualsiasi ipotesi di forma; mentre un’attività costante dà la sensazione che qui il vuoto è assolutamente stipato; che è un elemento dentro il quale noi stessi siamo immersi, privati di quella distanza che una volta rendeva possibile la percezione della prospettiva o del volume.

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Il Postmodernsmo, secondo Jameson elabora una critica implacabile del moderno avanzato e del cosiddetto International Style (Le Corbusier, Mies). La critica formale e l’analisi vanno qui di pari passo con la riconsiderazione del livello della vita urbana e dell’istituzione estetica. Al moderno avanzato è imputata la distruzione del tessuto urbano tradizionale e della cultura delle aree periferiche (operata mediante la separazione radicale del nuovo edificio moderno-avanzato della città utopica, dal proprio contesto), mentre l’elitarismo e l’autoritarismo del movimento moderno si rivelano spietatamente nel gesto imperioso del Maestro carismatico. Contro tale elitarismo si scatena una sorta di populismo estetico con conseguente “......cancellazione del confine (essenzialmente moderno-avanzato) tra cultura alta e la cosiddetta cultura di massa o commerciale e l’emergere di nuovi tipi di ‘testi’ pervasi da forme, categorie e contenuti di quell’industria culturale tanto appassionatamente denunciata da tutti gli ideologi del moderno, da Leavis e dal New Criticism americano fino ad Adorno e alla scuola di Francoforte. Il postmoderno ha infatti subìto tutto il fascino di questo paesaggio degradato, di kitsch e scarti di serial televisivi e cultura da Reader’s Digest, di pubblicità e motel, di show televisivi, film hollywoodiani di serie B e della cosiddetta paraletteratura con i suoi paperback da aeroporto, divisi nelle categorie del gotico o del romanzo rosa, della biografia romanzata e del giallo, della fantascienza e della fantasy: materiali che nei prodotti postmoderni non vengono semplicemente ‘citati’ come sarebbe potuto accadere in Joyce o in Mahler, ma incorporati in tutta la loro sostanza “. Questa è indubbiamente una anticipazione dello Junkspace di Koolhaas.


Siamo dentro questo iperspazio fino agli occhi e con tutto il corpo”. L’effetto è lo spaesamento. I luoghi della tecnica sono segnati dall’indifferenza e caratterizzati dalla atopicità, questo sino a quando, oggi, anche la tecnica è diventata fenomeno memoriale, oggetto per retoriche nostalgiche e modo dell’enfasi. Come se Prometeo fosse arrivato in ritardo. In questa realtà il tutto tende ad essere coniugato al presente. Le città stavano nello spazio. Ci si poteva andare. Ci si incamminava o si prendeva un mezzo, si passava attraverso la natura (i molti luoghi della natura) per giungere alla città. La si vedeva da lontano, la si desiderava come si può desiderare la sicurezza. Ora dove tutto è diventato città essa non sta più nello spazio e anche il tempo in lei si è in qualche modo contratto. È in atto una temporalizzazione dello spazio e una spazializzazione del tempo. Gli orologi, non segnano più solo il tempo, ma anche lo spazio. Non ti dicono più che ore sono, ma dove sei rispetto a coordinate planetarie. Abbiamo bisogno di localizzarci dato che viviamo in una costante delocalizzazione. Gli artisti registrano questa condizione, oggi. Reagiscono. Lasciano dappertutto segni. Fanno come i gatti: fanno qua e là la loro pipì per segnare il territorio. La chiamano Land Art e oggi Pubblic Art. Nulla di più archetipico e nulla di più problematicamente attuale. Tutto può essere analogo; non è in sé, ma per altro. Tutto vive di iperanalogia potenziale. Tutto è diverso, quindi tutto è analogo, almeno nella diversità. Dato che la soggettività attuale afferma se stessa nella diversità, l’analogia riconduce tutto alla sostanza. L’analogia è così capace di espandere il proprio dominio dall’identità alla differenza. Tutto diviene traducibile. È essa fondamento. Ciò che compie questo miracolo è l’informazione diffusa. Ogni messaggio può significare una infinità di messaggi in potenza. Localizzare diviene procedura non più rituale, ma virtuale. Non ci sono più bordi, perché tutto è diventato bordo, confini, perché tutto è diventato confine, centro, perché tutto si è fatto centro. L’identità dei luoghi è oggetto di

museificazione, estetica memoriale, variabile del kitsch. Il progetto non si misura più con il dare luogo allo spazio, ma con la localizzazione diffusa del non-spazio. Si può con il progetto resistere a queste tensioni, ma ciò che vince è lo straniamento. Ogni luogo è uguale agli infiniti altri luoghi: da questa condizione nasce l’enfasi a localizzare, la retorica della identificazione, la presunzione di rifondare identità locali, estetiche kitsch, regionalismi, piccole patrie. Tutto ciò nello spazio della virtualità, cioè nella potenza della retroazione. Nella retroazione un’azione data non ha più solo il proprio spazio reale, ne ha uno virtuale, cioè in potenza. Non è più l’azione ad essere virtuosa, né il soggetto che la compie può essere considerato virtuoso (si ricordi che virtuoso deriva dal termine latino vir, uomo), è la condizione di possibilità a farsi virtuale. È il possibile che viene messo in gioco come presente. È il reale che subisce una debacle ontologica. Nel virtuale che cosa è vero? Certo ci sarà sempre una residualità ontica; sempre alla fine uno potrà pensare che ciò che ha virtualmente provato non sia accaduto nel reale, ma nel virtuale. Così scoprirà che le sue sensazioni non possono più dire questo accade nel vero. L’empiria non sarà più invocata a garantire il vero. Là dove lo spazio e il tempo si sono ibridati, là dove si può rifare il già stato come se fosse ancora da fare, là dove gli spazi si fanno compresenti, nell’analogico come nel virtuale, che ne è dei trascendentali? E che ne è del soggetto? Il soggetto della tradizione umanistica, il vir faber fortunae suae e quello dell’imposizione scientifica e razionalista del cogito ergo sum viene totalmente depotenziato. Ne rimane la larva. Se il medium è il messaggio che cosa è il soggetto? Vengono a cadere l’identità e la rappresentazione. Forse è finita l’epoca dell’immagine del mondo, l’epoca della rappresentazione del mondo, per lasciare spazio al mondo così com’é: un possibile. Il corpo è diventato la cosa. È la protesi che agisce, non il soggetto. L’attualità si fa ipertopica non atopica, come pensano i filosofi della morte dei valori. La simultaneità, lo zapping, non rendono


il mondo frammentato, come pensa il pensiero debole, ma totalità, dato che l’attualità può assorbire, vampirizzare il passato come il futuro, il già stato come il non ancora, il compiuto come il possibile.

L’orizzonte di senso dei nonluogo o dello Junkspace non trova giustificazione nemmeno nel tentativo di ridefinizione che elabora Heidegger in Essere e tempo che così scrive: “...né lo spazio è nel soggetto né il mondo è nello spazio, ma il soggetto stesso, cioè la realtà umana, l’Esserci, è spaziale nella sua natura”. Quel né/né in Heidegger copre ancora una dimensione mistica e l’idea che ci sia una natura specifica dell’Esserci. Di contro l’immaginario Junk è per così dire profondamente materialista e cinicamente realista. E se lo spazio fosse molto banalmente il modo in cui materialisticamente percepiamo ciò che è fuori oltre la stessa

Consideriamo alcuni casi di modalità di percezione del tempo storicamente non omogenee. Paul Zumthor ne La misura del mondo del 1993 dimostra che l’uomo del Medio Evo percepisce e si rappresenta la natura degli spazi e dei luoghi come disomogenee, differenti a seconda che essi siano vicini e lontani. Le idee stesse di luogo, di movimento, di ignoto e, dunque, di scoperta si rivelano straordinariamente diverse da quelle attuali. Giustamente Zumthor fa notare la notevole differenza tra un mondo della disomogeneità e quello invece della uniformità astratta e formalizzata che emerge con la scienza moderna. Altri, Koyré, aveva in precedenza scritto: dal mondo del pressapoco a quello della precisione. Potremmo aggiungere noi: da una visione iconica a una affidata alla prospettiva. Quella che potremmo definire come una ragione cartografica. Lo spazio medievale non è assolutamente quello umanistico-rinascimentale e non solo per la funzione cruciale che ha avuto l’invenzione (ribadisco: invenzione)

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Ma che spazio è quello che Jameson, Augé, Koolhaas colgono e provano a descrivere anche negli aspetti antropologici e politici? È indubbiamente uno spazio disordinato, fluido, vorticoso, pieno di rifiuti, uno spazio discarica. Uno spazio che non ha gerarchie, nel quale diventa quasi inutile indicare dove sta il luogo del potere perchè o è ovunque, o si nasconde tra i rifiuti o nei singoli corpi. Sarà qui la biopolitica? Uno spazio che non ha proprio nulla a che vedere con l’idea kantiana dello spazio come forma pura della intuizione che precede tutti i possibili fenomeni e tutti i dati dell’esperienza, o con quella hegeliana per il quale lo spazio è universalità astratta, esteriore e separata dalla natura in sé, mera apparenza, nell’indifferenza priva di mediazione, pura quantità. Sembra anche non avere nulla a che vedere con le tre modalità presenti in una ipotetica storia dell’idea di spazio: lo spazio come qualità posizionale degli oggetti materiali nel mondo, come il contenente di tutti gli oggetti materiali e lo spazio come campo. Così sintetizza Jammer nel suo importante Storia del concetto di spazio del 1954, con prefazione, ricordiamolo, di Einstein.

fisicità, nella finitudine e al di là della nostra stessa finitudine. Fosse cioè modalità della nostra stessa dinamica esperienziale. La relazione tra interiorità ed esteriorità. C’è uno spazio al singolare ma lo spazio del verme non è lo stesso della mosca e non è lo stesso del leone che a sua volta non è lo stesso dell’uomo. Se questo è plausibile lo spazio si modifica nel mentre si modifica la nostra stessa esperienza, sia nella sua dimensione soggettiva che collettiva. Questa dimensione (quella della spazializzazione dell’esperienza) partecipa del nostro stesso vissuto, ne permette l’organizzazione assumendo così valenza politica. Verrebbe a decadere l’idea kantiana dei trascendentali? No, ovviamente! E nemmeno il né/né heideggeriano. Andrebbe valutata nella sua fenomenicità e/o a partire dalla nostra stessa finitudine. D’altra parte è innegabile che dello spazio si dà anche una dimensione storica (e qui sta – seguendo Heidegger- tutta la nostra finitudine) della percezione dello stesso e del tempo (altro trascendentale, forse non così altro dal tempo come si tende a presupporre).


della prospettiva, che ha permesso la discretizzazione del, la possibilità di comporre e ricomporre il visibile attraverso uno sguardo-macchina analitico, che ha liberato (sic!) la riproducibilità tecnica dai limiti della mimesi e che ha permesso all’immaginario di costruire nuovi mondi prima plausibili, poi totalmente inventati e infine astratti. Lo spazio del barocco apre all’ellisse contro il cerchio che voleva per se, sin dall’antichità ordine, centralità, perfezione, eterno ritorno in un cosmo ben ordinato in sfere celesti. L’ellisse invece predispone il cerchio al disordine, lo guarda attraverso due fuochi, ci costringe a pensare che siano possibili nel mondo non solo due punti di vista, ma infiniti fuochi, e soprattutto ci costringe al dubbio che l’ordine non sia ciò che è comprensibile, ciò che è razionale, ciò che prima o dopo potremmo catturare, comprendere e nemmeno – e questo sì è inquietantevivere. Potremmo continuare a interrogare nell’arte il modo del nostro rappresentare (che, tengo a precisare, non è il solo compito dell’arte) e quindi la funzione che assume lo spazio. Lo potremmo fare avvicinandoci al nostro tempo, ad esempio valutando cosa può significare il termine spazio in un lavoro come il Grande vetro di Duschamp, trasparente, senza cornice, visibile da ogni parte e quindi da ogni spazio, sino a chiederci che cosa sia lo spazio per un artista come Christo nel momento in cui, sempre ad esempio, produce un’opera come Umbrellas. Christo é andato per un mese in un territorio del Giappone e in una mappa dello stesso territorio ha segnato i luoghi in cui durante le sue passeggiate era accaduto qualcosa: l’incontro inaspettato con un animale, il ricordo improvviso di qualcosa del passato, la presenza di una persona e così via; poi ha fatto lo stesso in un territorio in America del nord. Alla fine ha fatto costruire dei grandi ombrelli di due colori diversi che sono stati posizionati nei punti segnati nella mappa nei due diversi territori. Chi visita l’opera in Giappone “vede virtualmente” anche quella in America e viceversa. È come se si potesse tagliare in due la Gioconda di Leonardo e metterne una metà in un museo giapponese e l’altra metà in un museo

americano. Non solo, la ragione che ha permesso l’identificazione dei luoghi segnati da un ombrello è una ragione privatissima, parte di una intimità o di una biografia sentimentale, che rimane del tutto nascosta, non espressa. Ma è questa che genera l’opera stessa. Si tenga presente che non c’è nessun punto dell’universo dal quale poter immaginare di poter vedere le metà dell’opera riunificate. Che spazi sono questi? Che esperienza è questa che mette insieme una ragione sentimentale e una pratica rappresentativa? Di che estetica stiamo parlando (sarebbe meglio scrivere vivendo)? E questo sguardo cosi cogente da implicare profondi strati del sensibile, e di di immaginarsi in un luogo infinito, cosa ha a che vedere con ciò che chiamiamo virtuale? E questa dimensione come modifica (se modifica) le nostre relazioni sociali? Di nuovo si profila la necessità di valutare la questione dello spazio rispetto allo stesso vissuto e alla sua organizzazione, scoprendo che questo “gioco” che chiamiamo arte e che da sempre cerca di mettere sotto scacco la stessa rappresentazione del mondo proprio rappresentandolo, ha una ragione politica … meglio sarebbe dire biopolitica, visto che Christo elabora il proprio stesso vissuto facendolo diventare indiretta realtà estetica per un soggetto altro, lo spettatore potenziale, e visto che questo spettatore è in un campo (spazio?) oggettivamente virtuale, capace di tenere assieme due mondi così vicini rispetto ad un impossibile punto di vista all’infinito e agli antipodi rispetto alla forma dell’orbe terraqueo. Sarebbe quindi necessario provare a riflettere sullo spazio/mondo o sulla relazione tra spazio e mondo, visto che non è detto che coincidano o che possano effettivamente “ritrovarsi”. In particolare va tenuto presente che mondo sta nella concettualizzazione naturalistica per la totalità delle cose esistenti, ma anche come modo d’essere che è proprio dell’uomo (Heidegger) evidente nell’espressione “essere nel mondo”. Mondo significa così l’insieme delle relazioni tra l’uomo e gli altri esseri: la totalità di un campo di relazioni,


L’ unità di un mondo è fatta di questo, che non è qualcosa di aggiunto o qualcosa che l’unità può eliminare. L’unità di un mondo, in realtà, non è altro che la sua diversità, e quest’ultima, è a sua volta una diversità di mondi. Un mondo è una molteplicità di mondi, e la sua unità è la condivisione (partage) ed esposizione reciproca, in questo mondo, di tutti i suoi mondi. La condivisione del mondo è la legge del mondo”. Rispetto al nostro tema generale il rapporto tra spazio e politica (e potere) questa affermazione apre ad un nuovo livello di comprensione visto che anche lo spazio è “una diversità” è una unità che non è una unità sia per chi lo vive e percepisce sia per il fatto che esso è sempre la totalità di una parte e in questo esso diviene in-comune, cioè è una condivisione. “La condivisione del mondo è la legge del mondo. Il mondo non ne ha altre, non è sottomesso a nessuna autorità, non ha un sovrano. Cosmos/Nomos. La legge suprema del mondo è come una sorta di tracciato mobile e molteplice della condivisione che il mondo stesso è. Nomos è la distribuzione, la ripartizione, l’attribuzione delle parti. Luogo territoriale (noi potremmo dire, paesaggio) porzione di cibo, delimitazione dei diritti e dei doveri, per ciascuno ed ogni volta, come si conviene”. Noi possiamo aggiungere, valori in condivisione. “Ma come si con-viene? La misura della convenienza -la legge della legge, la giustizia assoluta-risiede solo nella condivisione stessa e nella singolarità eccezionale di ciascuno, di ciascun caso, nella condivisione. Tuttavia questa condivisione non è data, e nemmeno ‘ciascuno’ è dato (l’unità di ciascuna parte, l’occorrenza di un caso, la configurazione di un mondo). Non si tratta di una distribuzione riuscita. Il mondo non è dato. Il mondo è piuttosto il dono stesso. Il mondo è la creazione di se stesso (è questo che significa ‘creazione’)”.

Proviamo sulla relazione spazio/mondo a muoverci nei luoghi della filosofia evocando un testo di Jean-Luc Nancy La creazione del mondo o la mondializzazione: “L’unità di un mondo non è davvero un’unità: è fatta di una diversità, che giunge fino alla disparità e all’opposizione.

La riflessione di Nancy complessa e affascinante porta ad affrontare in tutta la sua radicalità il tema di tutto ciò che è comune riprendendo da Heidegger il tema del Mitsein, dell’essere con. Heidegger introduce la cooriginarietà dell’essere-con solo dopo aver fissato l’originarietà

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uno spazio aperto di relazioni possibili, una dimensione della politica se intesa come studio dei comportamenti intersoggettivi. C’è quindi una storia della percezione, della rappresentazione e forse anche dello stesso spazio. Questo forse potrebbe costringere a rivedere i trascendentali kantiani e in fondo la nostra stessa metafisica. Ci sono quindi delle cesure, dei passaggi, delle rivoluzioni, dei diversi modi d’essere. A segnalare con grande forza argomentativa un crisi cogente (e non solo per lo spazio ma anche per la politica) è un bellissimo libro dal titolo, appunto, La crisi della ragione cartografica, del 2009 di Franco Farinelli. La tesi è che per la prima volta nella storia dell’umanità la terra chiede di essere considerata per ciò che essa davvero è, cioè un globo e non una mappa. Questa è la globalizzazione non solo dal punto di vista economico ma anche da quello epistemologico. In questo nuovo sguardo viene il dubbio che per il funzionamento del mondo tempo e spazio hanno perso quasi ogni importanza. Farinelli afferma (e non posso che concordare e concorderebbe anche Zumthor) che lo spazio e il tempo moderni sono il prodotto della sostituzione del mondo con la carta geografica: soltanto su una tavola, cioè una mappa, i corpi possono perseverare nel loro moto rettilineo uniforme. Sulla sfera terrestre però non ci sono limiti, né spazio, né tempo. Tutto è cambiato nell’estate del 1969: in quei giorni nasceva il primo segmento della Rete: “negli Stati Uniti due computer iniziavano a dialogare tra loro riducendo gli atomi a immateriali unità di informazione”. Non siamo più nel mondo delle mappe, ma in quello delle reti. Il mondo delle mappe ha prodotto gli Stati Nazione con i loro confini, la loro cartografia anche umana, che politica sarà possibile generare nello spazio della rete?


dell’esser-ci, del Dasain. Questo stare nel con è stare nello spazio: il modo in cui le parti si posizionano riguarda la politica, è la relazione con. Scrive Nancy in Essere singolare plurale nel 1996: “Essere singolare plurale significa: l’essenza dell’essere è, ed è soltanto una co-essenza; ma co-essenza o l’essere-con-l’essere-in tanti-con designa a sua volta l’essenza del co-, o ancora meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza”. La relazione con l’altro è nel contempo inclusiva ed esclusiva, plurale e singolare … è in uno spazio che designa e quindi colloca nella singolarità e nel contempo, universalizza, cioè pone nella pluralità. Qualsiasi sia la forma dello spazio, qualsiasi storia abbia subito o prodotto, qualsiasi sia il paesaggio che in esso si viene a costruire, reale o immaginario, esteriore o interiore che sia, è mondo, cioè totalità e nel contempo porzione. Nella relazione tra totalità e porzione si articola ciò che chiamiamo politica, cioè un mettere in relazione, un dare spazio. C’è una relazione che Nancy segnala in modo fortemente icastico nel momento in cui unisce le due parola Cosmos/Nomos, cioè Mondo/Legge e non aggiunge null’altro, non ne prova una qualche argomentazione. La relazione è cogente. Il modo in cui si configura il mondo-spazio determina non solo le regole per dare posizione alle cose e agli uomini, ma anche le leggi da seguire, imperative. Cosmos è ornamento, abbigliamento, addobbo, gloria, onore; Nomos è decreto, usanza, regola, precetto, legge…misura (che è comunque valutazione spaziale ed etica). La cosmetica, la decorazione, scrive (e in fondo parla) nello spazio, come nel corpo di chi è nella relazione identitaria, cioè spaziale, la propria identità. È questa l’arte/artificio che sta prima dell’arte e che può stare anche dopo l’arte, cioè nel nostro tempo. Comunque il Cosmos, che è in sostanza l’abitudinarietà dell’identico, non può che essere l’insieme delle leggi e dei costumi wdi un determinato popolo, questa è la sua cosmetica: essere lo spazio di un luogo come identità collettiva e nel contempo singolare. Anche il nomos impone se stesso in nome di una universalità per “difendere”

la singolarità. La questione cruciale è quindi tra il mondo e la legge, tra il cosmos e il nomos. In questo tra abita l’uomo. E chi si interessa, oltre al politico, dell’abitare? L’architetto! E quale è la sua arte? Secondo alcuni la sua è l’arte dello spazio: E quindi riascoltiamo Koolhaas: “... l’umanità continua a occuparsi dell’architettura: E se lo spazio cominciasse a occuparsi dell’umanità? Il Junkspace finirà per invader il corpo? Forse attraverso la vibrazione dei cellulari? Lo ha già fatto? Iniezione di Botox? Collagene? Impianti di silicone? Liposuzione? Allungamento del pene? La terapia genetica preannuncia forse una totale reintegrazione in accordo con il Junkspace? In ognuno di noi un mini cantiere? L’umanità come somma di 3-5 miliardi di interventi individuali di miglioramento? È forse questo il repertorio di una riconfigurazione che facilita l’inserimento di una nuova specie nella sia Junk-sfera autoprodotta? Il cosmetico è il nuovo cosmico...”. Così termina il pamphlet di Koolhaas che riprendo per porlo al lettore con un punto di domanda: “Il cosmetico è il nuovo cosmico?”. Questo siamo noi? Proviamo, prima di tentare ulteriori sentieri nella interrogazione del rapporto tra spazio e politica, una improbabile sintesi: ciò che si è sempre pensato o ritenuto, o dato per scontato, è che all’inizio c’era il Caos. Questo si dà nella mitologia come nella scienza o in ciò che chiamiamo scienza. Il Caos è apertura immensa, spazio immenso, tenebre, abisso, oscurità, magma senza ordine, la materia stessa come vertigine nella impossibilità di definirla. Il Nomos di contro è decreto, usanza, regola, precetto, legge, misura, nell’insieme, mette ordine. Chi lo decreta? La soluzione è nel contempo semplice e paradossale: la natura o un dio (che molto spesso sono lo stesso, anche se questo crea non pochi problemi teologici). Il paradosso? Chi ordina o procede per ordinare il caos? Nessuno o un Dio! Perché proprio da questo “sfondo” emerge un ordine, e dove e perché esso ha legittimità? È chiaro a questo punto la


questione non è più filosofica ma teologica e non voglio perdermi in questo labirinto. Quindi procedo ancora a schematizzare: il mondo da cui veniamo, quello Greco come quello vetero e neo testamentario, procedono, secondo percorsi e con concettualità (e forme che definiamo usualmente come spirituali o ideologiche) per cui dal caos, o dal nulla, si passa all’ordine e l’intero vissuto come l’insieme delle relazioni sociali devono (o dovrebbero) dipendere da questo sfondo che in sostanza produce un insieme definito usualmente come diritto naturale. Solo così il cosmos, il mondo, è ordine e misura, legge, e mai e poi mai Junkspace, o nonluogo.

Se dovessimo consultare un dizionario di filosofia troveremmo che la politica può essere intesa come la dottrina del diritto e della morale, come la teoria dello Stato, come l’arte e la scienza del governo e come lo studio dei comportamenti intersoggettivi. Questi scenari concettuali sembrano non avere nulla a che vedere con l’idea o il problema dello spazio. Se vogliamo invece interrogare la parola stessa, politica, dovremmo riferirci al concetto

Si consideri, per altro, che la storiografia da sempre interpreta la politica avendo come “tavolo da gioco” proprio i territori, se non altro perché uno dei suoi grandi temi è la guerra che inevitabilmente è legata alla occupazione dei territori. Si consideri anche dei contributi fondamentali che vengono dagli studiosi del diritto, in particolare da Carl Schmitt che nel suo il Nomos della terra, afferma che “... all’inizio della storia … sta sempre il processo costitutivo di una occupazione di terra. Ciò vale anche per ogni inizio di un’epoca storica. L’occupazione di terra (…) è il ‘mettere radici’ nel regno di senso della storia”. Per Schmitt ogni ordinamento spaziale è anche un ordinamento giuridico. Le costituzioni politiche come le leggi sono quindi intimamente legate all’organizzazione dei territori. Se cambia l’organizzazione del territorio cambia la politica e viceversa. Secondo Schmitt ad ogni ordinamento spaziale corrisponde un ordinamento giuridico-politico in quanto la terra (lo spazio controllabile) è la madre di ogni diritto. Possiamo indubbiamente accettare l’argomentazione del grande (e inquietante) giurista, ma questo non impedisce -anzi!che nascano alcune domande: cosa succede là dove non ci sono più territori da occupare? O dove la terra smette di essere una “cartografia” per diventare globo, globale? Finisce la storia o inizia un’altra storia? Si ricordi la grande metafora leninista dell’imperialismo come fase suprema del capitalismo: il capitalismo onnivoro produce la sua stessa crisi nel momento in cui si ritrova con l’imperialismo, appunto, ad occupare l’intero orbe terraqueo … ha finito la terra da conquistare e non gli rimane

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La domanda diviene: forse il passaggio dal Caos al Cosmos in realtà non è mai avvenuto e noi ci siamo semplicemente illusi o abbiamo aggiunto un presunto ordine a ciò che non ce l’ha (non ce l’ha il mondo, come non ce l’ha la natura, come non ce l’ha una qualche divinità) e quindi il Cosmos non è mai Nomos e questo non é niente altro che imposizione, patto sociale, convenzione e non co-essenza; oppure è accaduto che quell’ordine (forse perchè presunto o mai compiuto) ha prodotto il proprio contrario diventando nel Junkspace una sorta di destino che possiamo solo cercare di interrogare visto che il destino, per propria natura, è ineludibile? È forse per questo che alla fine del proprio percorso filosofico Heidegger si è ritrovato a scrivere: solo un dio ci può salvare? O forse avrebbe dovuto scrivere: solo la politica ci può salvare, una politica capace di pensarsi in un spazio della finitudine e in un umanissimo luogo.

di città, visto che il termine politica deriva dal greco polis e che questa può significare città, ma anche e soprattutto comando su un determinato territorio. La politica come disciplina sembra così indifferente alle trasformazioni spaziali, territoriali, ambientali e/o paesaggistiche, mentre la parola dalla quale la politica nasce porta con se un nesso forse cruciale con lo spazio.


che l’inevitabile crisi; cosa succede della politica nella globalizzazione cioè là dove le differenze territoriali sono superate e vengono progressivamente frantumate le frontiere e il capitale finanziario si muove “in tempo reale” nel non- spazio (nei nonluoghi) o nello spazio rizomatico di internet? Ha proprio ragione Schmitt quando lega quasi ontologicamente l’umanità alla terra, alla inevitabile costruzioni di confini, alla distinzione tra me e l’altro e tra ciò che è mio e ciò che è dell’altro, cioè ad un rapporto stretto tra identità e proprietà? È proprio inevitabile fondare le categorie del politico sulla dualità amico/nemico, come appunto fa Carl Schmitt? Proverò anche se in forma schematica a rispondere; prima ritengo però necessario ragionare attorno alle stesse origini della parola politica e provare a valutare il fatto che esistono diversi modi di considerare e di vivere lo spazio e quindi la relazione tra spazio e politica non può essere considerata come data una volta per sempre. Alla fine cercherò anche di chiarire a me stesso (e spero anche al lettore) cosa accade oggi nel rapporto tra spazio e biopolitica andando ancora ai fondamentali lavori di Foucault e chiuderò con alcune note tornando sullo Junkspace. Per molti studiosi il significato originario di polis è quello di “rocca”. Giovanni Semerano rinvia al sanscrito pur che valeva per cittadella. Secondo Semerano pur corrisponde all’antico accadico purum che vale per comunità e a sua volta si accosta al concetto di regno e di comando. Per altro anche per Benveniste, nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, il senso preistorico della polis era cittadella e fortezza e solo in un momento successivo prende il senso di città e poi di Stato e vale come autorità su un determinato territorio. La parola polis ci costringe quindi a valutare gli aspetti della difesa da qualcosa o da qualcuno, ciò che viene ritenuto comune, le forma del governo e del potere, e tutto questo in uno “sfondo” che è il territorio. Noi oggi potremmo riferirci non solo al concetto di territorio, ma anche

a quello di ambiente e di paesaggio, concetti tra loro diversi, ma che operano nello stesso orizzonte di senso. Va anche ricordata, a conferma per contrapposizione linguistica,la differenza tra polis e astu. Il termine greco astu indica la città come complesso edilizio costituito da case, mura e strade. Polis, in modo più preciso designa il centro politico determinante di un dato territorio e più tardi il territorio sul quale essa domina. Ad esempio città subordinate che rientrano in quel territorio non sono polis. In qualche modo è polis ciò che è capitale, cioè ciò che comanda. Da polis deriva polites che designa colui che partecipa alla cosa pubblica, cioè il cittadino membro della città e dello stato, nel pieno possesso di diritti attivi e passivi a differenza, per esempio, dei meteci e degli schiavi. Il cittadino sta non solo in una città ma in un territorio e contribuisce alla amministrazione di ciò che viene ritenuto pubblico, riguarda quindi il diritto pubblico. Questo é alle origini della nostra stessa cultura che per quanto mi riguarda sta nell’incrocio tra l’età classica greca e il mondo vetero e neotestamentario. Ma potremmo, leggendo (e imparando) dai paleontologi, dagli antropologi e dagli archeologi, riflettere su questioni che precedono la formazione della nostra stessa civiltà. Leroi Gourhan, ad esempio, nel suo Il gesto e la parola, nel capitolo intitolato Spazio umanizzato scrive: “L’organizzazione dello spazio abitato non è solo una facilitazione tecnica, è, come per il linguaggio, l’espressione simbolica di un comportamento completamente umano. In tutti i gruppi umani conosciuti, l’habitat risponde a una triplice necessità: creare un ambiente efficiente dal punto di vista tecnico, fornire un inquadramento al sistema sociale, mettere ordine a partire da un punto dato nell’universo circostante”. Tutto questo è politica. Tutto ciò accade anche perchèè lo spazio può essere vissuto e usato in modi diversi. Nel capitolo successivo intitolato Lo spazio sociale scrive: Il sistema spaziale dei primi agricoltori appare già molto diverso da


“Molte ha la vita forze tremende; eppure più dell’uomo nulla, vedi, é tremendo”. Appare il “potere angosciante dell’uomo” la sua “irruzione violenta e violentatrice nell’ordine cosmico, della sua temeraria

invasione nelle varie sfere della natura grazie alla sua infaticabile intelligenza”. L’uomo “costruisce una casa per la sua autentica umanità,”. L’autenticità dell’uomo sta nell’artificialità. Egli é produttore di artifici. Solo con gli artifici l’uomo può sopravvivere. Da un lato la natura e dall’altro l’uomo, quindi. Eppure sempre l’uomo si è riconosciuto in essa. Sempre ha pensato alla natura come permanente e alle proprie opere come mutevoli. A volte, solo a volte, tutto permane. Solo nelle opere d’arte, e in particolare di architettura, ha provato ad andare oltre il tempo. Nella natura riposano le leggi, nell’uomo vive la necessità. Nella natura ha cercato e trovato ordine e misura. Da essa dipende. Ciò che nasce dall’uomo è già nato in natura. Ma cosa succede là dove ciò che permane e giustifica non é più la natura con i suoi cicli o il Cosmos con il suo ordine e le sue misure, ma l’artificio stesso divenuto in sé permanente, divenuto autonomo? Cosa succede là dove l’artificio induce e determina la natura? Cosa succede delle leggi là dove la città si diffonde per ogni dove occupando tutto lo spazio che era della natura? Cosa succede della politica? Ancora domande!? Ma proviamo a interrogare un filosofo piuttosto che il paleontologo. Riprendo dalla Teoria della inconcettualità di Blumenberg che usa la metafora del primo uomo ben sapendo che non è mai esistito. La sua tesi è che il primo uomo è quello che si ritrova a guardare il mondo da una posizione eretta. L’andatura eretta, l’allargamento dell’orizzonte, ha come conseguenza la capacità di oggettivare delle cose che non sono fisicamente vicine. La relazione ecosistemica, la relazione ambientale, permette una progressiva discretizzazione del reale con una relativa concettualizzazione della totalità. L’uomo ha la sua origine nell’evoluzione dei primati il cui comportamento principale è la fuga (o l’attacco) cioè il guadagnare spazio (e tempo) per la propria sopravvivenza. Guadagnare spazio significa avere in “tempo reale” la “mappa” del territorio con tutte le sue specifiche caratteristiche e le sue “opportunità”.

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quello dei cacciatori-raccoglitori primitivi perché (…) la sedentarizzazione trasforma non solo il sistema sociale ma persino l’immagine del mondo”. E ancora, nel capitolo successivo: Il cacciatoreraccoglitore nomade arriva a conoscere la superficie del proprio territorio attraverso i suoi spostamenti; l’agricoltore sedentario costruisce il mondo in circoli concentrici intorno al granaio”. Il libro di Leroi Gouhran, come spero molti ricorderanno, si rivolge nelle sue conclusioni al nostro tempo con una considerazione che può aiutarci a proseguire in questo nostro tentativo di leggere con attenzione le complesse relazioni tra spazio e politica: “Tutta l’evoluzione psico-motoria, dei primi vertebrati, si è compiuta mediante l’aggiunta di territori nuovi che non hanno soppresso l’importanza della produzione dei precedenti, l’hanno invece conservata, sempre più sepolta dalle funzioni superiori. Questa piramide assume, con i Mammiferi, una ampiezza già considerevole, ma fino alle grandi scimmie resta in maniera geometrica coerente: la corteccia di integrazione neuro-motoria è la punta sottile di un apparato meraviglioso, ma ancora rigorosamente animale. Giunto al punto in cui si situano gli Antropiani primitivi, accade un po’ come se sulla piramide animale, che resterà la base di ogni comportamento umano, nascesse il vertice di un’altra piramide, rovesciata (…) sempre più gigantesca, costituita da tutto l’apparato che si è esteriorizzato nella cultura”. Il paesaggio dell’animale uomo è quindi l’insieme delle due piramidi, quella superiore sempre più gigantesca e sempre più altro da quella animale che sta alla base. In tutto questo c’è qualcosa di liberatorio e di potentissimo ma anche di tremendo, quel tremendo che viene segnalato con la lucidità che solo i poeti tragici potevano avere: così Sofocle all’inizio dell’Antigone:


Significa poter scegliere in “tempo reale” tra le molte possibilità, opportunità, soluzioni, sapendo sia le proprie possibili mosse che quelle dell’aggressore o della vittima. L’identità è così duplice: il sé nell’altri, l’altro con sé. La trappola viene posta là dove c’è una probabilità valutata che possa passare la preda (mappa territoriale) ed è “pensata” sulla base (mimetica) delle caratteristiche stesse della preda, della sua forma, del suo peso, dei suoi movimenti e delle sue abitudini. Insomma la preda viene oggettivata nello stesso momento in cui viene mentalmente rappresentata. La trappola quindi è una azione tecnica in assenza della preda, in assenza del “fatto”, in quanto solo pre-visto e nella modalità del concetto. Meglio il concetto stesso è, e nasce, da questa assenza. La sua “potenza” nasce da questa “assenza”. Il concetto si forma per assenza in relazione a necessità, possibilità, rappresentabilità, previsionalità, interagendo e interferendo con l’ecosistema, con il sistema genetico cerebrale, in un contesto che definiamo come sistema socio-culturale. In altri termini la concettualizzazione è inevitabilmente sistemica, prodotta da determinati e determinanti relazioni intersoggettive. Oggettivazione, concettualità, intersoggettività sono profondamente intrecciate. La trappola è una singola azione tecnica ma insieme è capacità di previsione, processo di astrazione, costruzione di relazioni tra il luogo e la possibilità di un evento e tutto questo apre ad una forma intersoggettiva di comunicazione, potremmo persino affermare che è proprio tutto questo insieme che permette al pensiero di essere efficace in quanto socializzato. Concetto e socializzazione sono nella oggettivazione un mezzo e non un fine per essere in grado di trafficare gli uni con gli altri. Va ora posta la questione della differenza tra concetto e ragione. Abbiamo capito che il concetto ha a che fare con l’assenza dell’oggetto e che non risolve né si risolve nella ragione anche se c’è una indubbia relazione. La trappola a cui ho fatto riferimento agisce nel momento in cui il cacciatore “non c’è” mentre la preda c’è.

La costruzione della trappola prevede i rapporti invertiti. In questo senso la trappola è il trionfo del concetto. Anticipiamo: lo spazio, l’ambiente, il territorio, il paesaggio- è il luogo delle trappole possibili, è esso stesso luogo di formazione del concetto, registra sia il tempo che lo spazio ed è la “scena” di ogni possibile evento. Nel momento in cui viene identificato, identifica e permette l’elaborazione stessa dell’idea di “appartenenza” e, nella sua forma generale, di “possesso”. Sia la tecnica che il fare sono in relazione di sistema con l’ambiente-paesaggio. Questo è il luogo di tutte le possibili trappole, ed è a sua volta una trappola. Ciò che nasce dall’unione della tecnica e del fare (ciò che poi si è chiamato arte) è, in sostanza, una trappola concettuale. E la trappola è legata all’assenza. Scrive Valery: “ … la potenza della pittura sta nel renderci consapevoli dell’assenza del suo oggetto”. Parlando dello spazio come ambiente, territorio, paesaggio dobbiamo sapere che stiamo mettendo in gioco (in vista) l’assenza stessa come presenza concettuale. E la ragione? Mentre il concetto viene elaborato ed elabora in assenza, la ragione è l’assenza stessa, meglio è ciò che tiene assieme tutto ciò che il concetto evoca in assenza presupponendone comunque l’esistenza (la forma, le caratteristiche, l’utilità o meno). “Si potrebbe dire che la ragione sia la quintessenza della distanza (della percezione della distanza) ovvero l’interpretazione di ciò che dimora nel concetto come sostituzione dell’oggetto”. Non c’è ambiente-paesaggio se non c’è lo sguardo dell’animale eretto che sa guardare il particolare e la totalità come differenziata e la totalità stessa non come una semplice somma di particolari. Il suo sguardo è inevitabilmente totale (?) e strategico. Questo “in più” della totalità è la ragione che-si badi bene, ripetiamolo, non è la somma delle parti ma un discorso sulla relazione tra le parti che si fa totalità. È la capacità di distinguere, avendo la possibilità di riconoscere i nessi tra ciò che viene distinto. Indubbiamente in gioco c’è l’istinto che però si sedimenta nella ragione. È ciò che cerca di cogliere non l’oggetto, ma il mondo che “tiene”


Queste alcune considerazioni tra paleontologia e filosofia. Solo accenni ovviamente visto che potremmo ritrovare un enorme quantità di repertori o di stimoli su questi temi in tutte le discipline non solo scientifiche. Torniamo di nuovo in Grecia, in particolare riflettendo su alcuni apparati mitologici: nella mitologia greca antica c’è un dio del tempo, Cronos, ma non c’è un dio dello spazio. Coros, lo spazio, non assumerà mai un qualche valore divino. Certo, si dirà che non c’era stata nessuna elaborazione nel mondo Greco antico che potesse portare a pensare al tempo e allo spazio come a priori e nemmeno come dei trascendentali. Cronos diventa figura divina (sarebbe meglio non scrivere figura, ma essenza divina) il quanto governa il tempo e nel tempo, si può ben immaginaredomina l’origine, l’archè e la fine, il telos, cioè l’interrogazione stessa che muove il pensiero. Se vogliamo, interroga sulla nascita e sulla morte di ogni cosa in un orizzonte dove la decisione è imperscrutabile, nella condizione

della indecidibilità. In Cronos opera moira il destino, che è sì legato alla posizione e al posto e quindi ha su di se un valore spaziale, ma in quanto assegnato; in Cronos opera Tuxe come fato, fortuna, sorte e persino come caso. Nello spazio, in Coros, le possibilità sono sì aperte, ma rispondono ad una decisione. In Coros si “prende posizione”, si è nella posizione, rispetto ad un intorno, ad un orizzonte …. un orizzonte di senso. In Moira e in Tuxe, e quindi in Cronos, non ha alcun senso invocare la posizione come la decisione per giustificarsi. Ciò che accade nel compiersi del destino (indecidibile per ogni soggetto ed evento imperscrutabilmente predeterminato, già deciso) ti coglie al di là di ogni posizione (ambientale, sociale ….politica). Cronos, il dio che mangia i propri figli, che divora tutte le cose che egli stesso ha creato, è un dio perché non si preoccupa della tua posizione o postazione, del tuo stare o essere in un posto, in un luogo. Lui è comunque in un altrove, meglio è un altrove. In Coros non c’è un altrove, o,per meglio dire, ogni dove è anche un altrove, nella inevitabilità e reciprocità delle postazioni. Persino l’infinito non è nello spazio un altrove. È nel contempo postura e impostura; è finito perché l’orizzonte finge l’infinito, è vicino o lontano perché concettualmente si coglie- appunto concettualmente (….. logos deriva da legein cogliere, tenere assieme) da un altrove lontanissimo, appunto il concetto. Lo spazio è ubiquo e nel contempo è assolutamente qui e ora. Cronos è sempre da un’altra parte, per questo è mitologicamente un dio. L’uno è indecidibile, l’altro è lo spazio della decisione, l’uno è teologico l’altro è politico. E l’uno e l’altro nel mondo della mitologia sono irriducibili mentre nel nostro mondo, diciamo nella Modernità come nella Contemporaneita sono a-priori, astratte, quantificabili, omologhe. Si pensi a come nella storia della scienza (della scienza sperimentale avviene la relazione tra spazio e tempo, come si produce la loro calcolabilità e soprattutto si pensi alla funzione che ha avuto l’elaborazione dello spazio cartesiano: ogni ente sta in uno spazio determinato e ogni suo

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l’oggetto. Nella tradizione di molte culture sia occidentali che orientali l’uomo è quell’animale che interroga il cielo stellato. Il cielo è qualcosa di più, di altro, di oltre all’ambiente/paesaggio, non alimenta nessuna attesa: l’uomo non vola e nel cielo non si può fuggire e non ci si può nascondere: l’oggetto cielo è irraggiungibile per ogni sorta di manipolazione, di pratica, di tecnica: da questo punto di vista è un oggetto teoretico (dispensato dalla quotidianità. È una totalità o ciò che è prossimo alla totalità del mondo). Lo sguardo nel cielo è uno sguardo sul tutto (é un guardare il guardare). Non è un caso che nei greci antichi cielo e mondo siano sinonimi. Non essendo manipolabile, lo sguardo che lo indaga è inevitabilmente contemplativo quindi teoretico. Totalità come cielo/mondo e “dato” in quanto non può essere pensato come mezzo. La ragione è al di là (che che ne dicano …) dell’usabilità del mondo, anche se il suo “sguardo” permette una maggiore cogenza tra soggetto e oggetto e quindi apre alla tecnica.


movimento è perfettamente misurabile. Sarebbe interessante provare a riprendere da questo punto di vista proprio la questione stessa della teologia politica. Ma confesso che, per quanto io sia spudoratamente e volutamente indisciplinato, qui mi tremano i polsi. Nel Protagora platonico si presenta in forma mitica l’uomo che istituendo la polis, esce dalla condizione d’insicurezza aculturale e percorre la via di una evoluzione superiore. Si tratta di una libera associazione resa possibile soltanto dal fatto che, oltre all’ eutecnos sofia di Efeso e di Atena, donata dagli uomini da Prometeo, Zeus aggiunge, mediante Ermes, il timore reverenziale e la giustizia. L’ordinamento della polis, cioè dello stato è pervaso di sacralità religiosa: la polis è comunità religiosa. Il suo nomos unisce stato e chiesa. Essa è inconcepibile senza religione e senza culto. È una organizzazione sacrale. Essa trae origine dal più alto degli dei, il quale non per nulla si chiama -come Atena- polioukos, protettore della città. Per Platone la scienza politica, regale o economica, presiede al governo o di una famiglia o di una casa. Essa è scienza conoscitiva, ma oltre a conoscere essa comanda. Non appartiene alle arti perché essa governa le arti, è causa dello stato delle altre arti che sono solo concause o cause ausiliari. Il vero politico è al di sopra delle leggi e ottima costituzione è quella in cui non le leggi ma il vero politico comanda in vista del bene. Nel vero politico devono convivere valore e saggezza. Questo è il compito della vera politica, l’arte regia. In Platone la questione del territorio è del tutto marginale, non così in Aristotele Come si ricorderà la Politica di Aristotele inizia subito con una affermazione pressoché perentoria: ogni polis (che usualmente i traduttori indicano con la parola Stato) è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene, che è da allora considerato come comune. Nel Libro secondo Aristotele introduce il legame tra polis-Stato e, aggiungiamo noi, politica in quanto i cittadini hanno in comune un unico Stato perché hanno

un unico territorio in comune. Potremmo seguire l’intera storia non solo della politica ma anche e sopratutto del potere che la anima o che la motiva per riconoscere un dato che per alcuni sembra imprescindibile: ogni ordinamento spaziale è anche un ordinamento giuridico. Le costituzioni politiche come le leggi sono quindi intimamente legate all’organizzazione dei territori. Sto ovviamente citando Carl Schmitt. La forma della città e per molti aspetti del territorio è quindi politica. Questo significa che ogni politica dipende anche dalle caratteristiche e dalle modalità in cui lo spazio si viene a configurare o viene configurato. D’altra parte è ancora Aristotele ad affermare che dalla forma della città si può capire il governo. Si può cioè capire se il governo che la regge è una tirannia, una oligarchia o una democrazia. Evidentemente allora i tempi della sedimentazione del potere era lenta e permetteva che lo stesso si consolidasse nella forma città. Oggi-ho il sospettoi tempi e le forme di sedimentazione del potere nei territori sono decisamente molto più veloci e l’analitica -nobilissimaaristotelica si dimostra pressoché inefficace. Come ben sappiamo Aristotele è stato precettore di Alessandro Magno la cui politica cambierà in modo radicale le ragioni e le funzioni della polis e dello stato, meglio della città Stato. Ciò che va governato non è un territorio e la sua capitale, ma un impero. Da una parte i fondamenti religiosi saranno distrutti dai sofisti, divenne dominate l’individualismo egoistico, l’abbandono democratico dello stato alla massa e ai suoi istinti, la lotta dei partiti quali esponenti di strati sociali, ma assieme a tutto ciò è evidente che il cambiamento è -per dirla con un termine dei nostri tempi- geopolitico che troverà espressione nella politeia di Zenone che nasce l’anno stesso in cui Alessandro salì al trono. La sua politeia mirava in sostanza al superamento degli staterelli. “... affinchè riteniamo tutti gli uomini membri del popolo e concittadini e unico sia il modo di vievre e il suo ordinamento, come un gregge che, retto da comune legge, si nutre allo stesso pascolo” allo stesso territorio


si affacceranno la chiesa, il palazzo reale, il municipio, e in seguito la banca… La piazza sarà anche il luogo del monumento pubblico, del racconto con le sue retoriche del potere. Mentre nascono le piazze si sviluppano gli stati nazione. Sono pensabili senza la logica dei confini? E i confini non sono spazi delimitati, inclusivi ed esclusivi? È di certo significativo l’intreccio tra spazio/rappresentazione/potere. Si pensi al giardino all’inglese: si finge un luogo della natura, come se essa fosse lasciata libera di esprimersi in tutte le sue forme; non si danno confini a quello spazio, regno della varietà; e in esso si collocano finti resti greco-romani, ponti palladiani o pagode cinesi. Forse c’è una qualche relazione con il fatto che l’Inghilterra sta incominciando la sua avventura imperialista? Forse la relazione spazio politica si fa drammaticamente esplicita se ricordiamo come i totalitarismo del Novecento si sono alimentati dell’idea dello spazio vitale o del sangue e della terra. Più politico di questo?!?! E nel nostro tempo? C’è lo sprawl lo spazio indistinto, tipico dapprima dei territori americani e oggi caratteristico anche degli spazi diffusi nella nostra Europa; ci sono i non luoghi raccontati da Augè, gli spazi liquidi di Bauman, c’è lo spazio digitale e virtuale che ci occupa e ci invade e che per molti aspetti sembra una sorta di noosfera. Non come sfera del pensiero ma come sfera pensante. Tempo fa mi chiesero in una intervista perché Calatrava era così famoso. Ho spiegato, spiazzando il mio intervistatore che si aspettava una risposta in chiave estetico artistica, che nell’Ottocento si affidava all’ingegnere la costruzione di ponti che doveva seguire il principio del maggior risultato con il minimo sforzo e usare la tecnica secondo principi funzionalisti. I ponti erano solo delle mere funzioni. L’identità collettiva era ancorata alla piazza, al campanile, alla chiesa e non certo alla campagna attraversata da strade e segnata da ponti. Oggi l’identità collettiva è il territorio nel suo insieme, le sue infrastrutture (i nonluoghi ?) diventano oggetto di rappresentazione collettiva e di

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diremmo noi, un territorio così esteso da essere il mondo stesso. Si presenta così la teoria di un impero universale che travalica tutti i limiti storici e naturali. È in questo contesto che emerge negli Storici il cosmopolitismo antico che distaccandosi radicalmente da ogni politica empirica, si avvale del concetto di polis per rappresentarsi plasticamente il contesto e il cosmo come un tutto retto da un’unica legge divina. Quì termina la polis così come l’aveva articolata la Grecia antica perdendosi in una sorta di spiritualizzazione filosofica con il cosmopolitismo, nella sua modalità ellenistica. Ovviamente molte sono le cause storico economiche e politiche di trasformazioni così radicali, rimane il fatto che anche questa nota inevitabilmente schematica sul passaggio dalla città stato greca al cosmopolitismo imperiale ellenistico (e poi ,con altre valenze, anche romano) conferma il principio schmittiano: ogni ordinamento spaziale è anche un ordinamento giuridico. Il modo in cui guarda e governa il proprio territorio Pericle è decisamente diverso dal modo in cui guarda e governa il mondo Alessandro magno. Cambiano i concetti che in qualche modo possono definire gli spazi, ad esempio l’idea di limite, di confine e persino quello di infinito, così come cambia l’autorappresentazione del potere e le leggi che lo “ordinano”. Non è certo questione da poco (sia sotto l’aspetto politico che etico-filosofico) che Aristotele, come ricordato in precedenza, per definire le varie forme della politica utilizzi la forma della città cioè una organizzazione spaziale, così come non è questione di poco conto che sia nel tessuto urbano delle città dell’antica Grecia che in quelle della Roma antica non ci fossero delle vere e proprie piazze. Così anche nelle città medioevali. Solo con l’Umanesimo le città cominceranno ad essere caratterizzate dalle piazze. Questo accade perché il sistema politico non si basa più sul potere assoluto della spada (o della forza) ma si costituisce un potere delle mediazioni. In particolare ciò è espresso dalla forma camerale. I vari poteri devono potersi rappresentare in un luogo unitario ed è così che nella piazza


identificazione persino comunitaria. Calatrava fa ponti come se stesse facendo un monumento per processi di identificazione. Noi siamo quelle reti, quelle infrastrutture, quella occupazione totale dei territori che non vive più nella distinzione città campagna. In fondo abbiamo acquisto uno sguardo zenitale, quello per intenderci di google earth. Siamo nell’indistinto. Questo è il globale. Non si dà più come ordinatrice la distinzione tra natura e artificio, tra reale e virtuale o potenziale, tra soggetto e oggetto, tra l’umanità e l’animalità, tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, tra me e l’altro (e questo-ho il sospetto, faccia molta paura, una paura ancestrale). Forse potrà sembrare eccessivo, ma dovremmo ripensare le logiche della dualità che hanno fondato e alimentato la metafisica occidentale verso un orizzonte sia ontologico che epistemologico del plurale. La domanda inevitabile è allora la seguente: cosa succede della politica e quindi anche del potere quando quando lo spazio si dilata sino a diventare globale, cioè indistinto? Cosa succede quando si frantumano i confini, i limiti, territoriali? Cosa succede quando come in Europa gli stati nazione perdono la loro autorità, si aprono le frontiere, si fa una moneta unica e ci si ritrova costretti a ridisegnare una nuova costituzione? Quali sono i luoghi della politica? Domande alle quali è indubbiamente difficile dare una risposta anche se verrebbe subito voglia di accogliere la tesi di Wendy Brown secondo la quale l’eliminazione dei confini nelle logiche della globalizzazione lungi dal rendere i popoli più liberi produce nuovi muri, più radicali forme di esclusione e di segregazione come quello che separa il confine americano dal Messico, o quello israeliano che si snoda attraverso la Cisgiordania e molti altri. C’è una ulteriore considerazione da fare attorno al rapporto tra politica-potere e spazio: in questi ultimi tempi sono comparsi vari movimenti di piazza: La piazza è ovviamente una modalità particolare dello spazio urabno.

Uno spazio politico. Così in Turchia, in Egitto piuttosto che in Brasile o in questi ultimi giorni in Ucraina (e perchè no in Libia? Non sarà anche questo dovuto alla stessa specificità del potere in questione?). E spesso, come in Turchia, l’elemento scatenante è un bene comune. Si pensi al fatto che la ribellione contro Erdogan è avvenuta a Istanbul per difendere l’esistenza di un parco, uno spazio pubblico, un bene comune. E come mai proprio un bene comune, un parco con tutti i suoi valori simbolici, con la sua capacità di evocare la natura, di offrirsi come natura a disposizione di tutti (anche se artificializzata) si fa pretesto per una rivolta che indubbiamente ha anche ragioni economiche e politiche? E perché risultava evidente che a battersi contro Erdogan (sempre per riferirci alla Turchia, ma potremmo espandere la riflessione anche altrove) è il popolo della metropoli mentre la legittimità politica dello stesso Erdogan è dovuto ai voti della campagna? C’è ancora, nonostante la globalizzazione per così dire immanente e totalizzante, la classica distinzione città e campagna? Cioè la distinzione tra due spazi che sono anche due modi di produrre e due modi di essere? C’è ancora quella distinzione che tanto aveva interessato Hegel nella sua Fenomenologia quando parlava della dialettica servo e padrone o Marx ed Engels quando ragionavano, appunto, attorno alle relazioni tra modo di produzione e potere e quindi anche tra città e campagna? E in quelle piazze sta avvenendo uno scontro di classe o che altro? D’altra parte non è forse evidente che ogni conflitto si esprime occupando gli spazi del potere? Le immagini della folla in piazza dominano immediatamente anche un altro spazio, quello della televisione e quello di internet. La folla si riunisce nelle piazze per esprimere collettivamente un rifiuto del potere e vanno nelle piazze perchè solitamente nelle piazze si trovano i palazzi del potere. Perchè il potere non solo ha luogo ma ha un luogo. Quale è il luogo, a quale luogo del potere si rivolgono, le immagini che compaiono nei televisori di tutto il mondo o nell’ineffabile internet?


di se stesso. Perciò il Panopticon non è tanto il luogo in cui un potere costringe, quanto quello in cui il soggetto “...prende a proprio carico le proprie costrizioni (…); le fa giocare spontaneamente su se stesso; inscrive in se stesso il rapporto di potere del quale gioca simultaneamente i due ruoli e diviene il principio del proprio assoggettamento”. Così Foucault in Sorvegliare e punire, riletto da Cavalletti. È necessario partire da questo sguardo nascosto e inaccertabile che prova a renderci tutti colpevoli (per non dire inconsapevoli vittime). Vorrei concludere indicando,dopo questo forse disordinato percorso, quella che mi sembra dal punto di vista sia pistemologico che politico la questione cruciale: a) è necessario ripensare le categorie del politico non cercando un particolare statuto delle stesse, un particolare ordine del discorso politico, una dimensione disciplinare o disciplinata, una ontologia regionale, un’etica specifica, una tecnicità, ma valutando questa provocatoria affermazione: là dove non è possibile distinguere tra natura e artificio, la politica è tutto. Nell’indistinto della globalizzazione (che fa proliferare le differenze), nella deterritorializzazione, forse non è più il caso di fondare la politica sulla distinzione tra amico e nemico; b) dal punto di vista geopolitico – sperando che l’implicito di ciò che è stato qui scritto possa diventare esplicito – la deterritorializzazione in atto nei processi che possono portare ad una costituzione (ad una politica) in e per l’Europa, possa essere accompagnata da un cosmopolitismo etico fondato non su ciò che unisce in forme ancestrali, ma nelle differenze.

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Tra potere e spazio c’è una relazione complessa e sfuggente che può e deve essere indagata. Secondo quali tracce? Una possibile e quella di indagare il rapporto tra spazio, potere e biopolitica. Quali sono gli spazi della biopolitica? In fondo il tema della biopolitica è anche il tema del rapporto tra il potere e il corpo (o i corpi, compreso i corpi sociali). Il corpo è a sua volta uno spazio, ciò che sta in uno spazio, che occupa uno spazio, che ha bisogno degli spazi per essere ciò che è. La biopolitica non è niente altro che un’area (uno spazio?) d’incontro tra potere e sfera della vita, incontro che caratterizza quell’epoca che ha assunto in forma generica il nome di capitalismo in particolare dal Seicento in poi. Così seguendo Foucault. È il potere che controlla innanzi tutto il corpo, la sua biologia, le sue necessità, i suoi desideri. Il singolo corpo ma nel contempo controlla anche i corpi sociali. Lo spazio è il luogo dei corpi. Tanto più è astratto, tanto più permette localizzazioni, individuazioni, posizionamento, singolarità. Il potere si fa garante della stessa vita. La questione diviene: quale vita? Per mettere a fuoco la questione uso come metafora il Panopticon di Jeremy Bentham sempre seguendo le pagine di Sorvegliare e punire di Foucault del 1975. Faccio nel contempo riferimento anche a ciò che su questo argomento ha scritto Andrea Cavalletti nel suo La città biopolitica del 2005 che annota come il Panopticon sia un dispositivo esemplare “...perché (...) racchiude la formula sottile della coimplicazione spaziale”. Si tratta di una “macchina astratta capace di creare un rapporto di potere indipendente da colui che lo esercita” “... la griglia panottica funziona come cartina di tornasole, che fa apparire una spazialità immanente ai rapporti di potere. Il Panopticon è una trappola della visibilità e funziona (…) secondo il principio dello sguardo nascosto e inaccertabile. L’eventualità che il guardiano invisibile nella torre al centro dell’edificio sia in realtà assente non può essere verificata: lo sguardo nascosto è così totalmente diffuso e sempre presente, poiché chi si trova ad agire come se il custode ci fosse, diviene il custode


Nota biografica Roberto Masiero, Professore Ordinario di Storia dell’Architettura nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, è studioso delle arti e delle scienze nel quadro di una generale storia delle idee e architetto. Ha contribuito alla nascita della Facoltà di Architettura di Trieste e della facoltà Design e Arti dell’IUAV. Ha pubblicato numerosi testi editi in inglese, tedesco, francese, spagnolo e turco, ed è stato curatore di significative mostre d’arte. Queste le sue ultime pubblicazioni: prefazione alla riedizione della Parva Aesthetica di T.W. Adorno , Mimesis, Milano, 2012; saggi sulla costruzione delle cupole in Italia dal 400 al 700 e dei ponti nell’Ottocento, sempre in Italia, per l’Enciclopedia Treccani ne: Il contributo italiano alla storia della scienza, Roma 2013; Nel - il + , I disegni di architettura di Livio Vacchini, Libria, Regio Calabria, 2013; AAVV, a cura , Il divenire della conoscenza, Mimesis, Milano , 2013; AA.VV., Pensare l’Europa, in Quaderni del Laboratorio Politico della Fondazione Francesco Fabbri, Mimesis, Milano, 2013; A. Bonomi, R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Marsilio, Venezia, 2014, Paesaggio paesaggi. Vedere le cose, per l’editore Libria. In corso di stampa: Silvia e Reto Gmür, opere e progetti, Electa, Milano, 2015, Massimo Majowiecki, strutture, Mimesis, Udine-Milano, 2015. Sta completando un’opera sul Kitsch e sul passaggio dal modo di produzione industriale al modo di produzione digitale. Nel 2002 è stato direttore artistico della sezione di Neuschatel dell’Expo internazionale della Svizzera. Per la Regione veneto su progetto INTERREG è stato ideatore e coordinatore assieme a Carlo De Pirro, di un’opera per ragazzi per La Fenice di Venezia dal titolo L’angelo e l’aura, musiche di C. De Pirro, scene di G. Ricchelli, immagini di S.Arienti, regia G.Esposito. Ha curato molte mostre tra le quali: Mir-arte nello spazio (con L. Francalanci), Comune di Bolzano, catalogo Skira, Milano 1999; La grande svolta. Anni’60, Comune di Padova, catalogo Skira, Milano 2003. e a collaborato alla stesura dei testi per alcuni video tra i quali, Livio Vacchini, la palestra polivalente

di Losone, SRG SSR idèe suisse, 2001 diretto da Adraino Kesthenholtz che vince a Parigi il “Grand Prix de l’image” al festival internazionale del film d’arte e pedagogia, Unesco 2002. È nel Comitato Scientifico della Fondazione Francesco Fabbri e nel Comitato Direttivo della Fondazione Collodi.


Metropoli biopolitica: lo spazio del conflitto tra flussi globali e luoghi urbani. di Marco Assennato

parallela, cerca di lumeggiare sulla “antropologia politica” prodotta dal dispositivo metropolitano. Bene. Se il secondo raggio di questioni mi pare già abbastanza scandagliato in letteratura, è il primo, invece, che ancora fa difetto. Perché in fondo noi parliamo di metropoli come parlassimo di città. E invece, questa la tesi che vorrei proporre, la metropoli non è la città, anzi: chiama esattamente ad una rottura epistemologica con l’idea di città. Ma cosa succede se parliamo di metropoli pensandola-immaginandola come una città? Si produce un paradosso. Mai il mondo è stato così urbanizzato, mai l’idea di città è stata così simile a un terrain-vague: spazio vuoto, residuo, eppure spazio di relazione, di incontri inaspettati. Ciò che colpisce è che, pur nella sua morfologia ormai scomposta e tecnica, “la città” permanga come analogo politico. La fatica della città è la medesima della politica, si dice. Il suo dilemma è quello del progetto (Cacciari, 1981): del fare le cose come vorremmo che fossero, del darvi forma in direzione futura. Analogo politico, dunque, persino dopo la sua crisi. Perché “l’idea di città” è una idea di crisi? Perché essa è metafisica, è dialettica idealistica, è desiderio di equilibrio. Il progetto di città – l’ultimo progetto di città, la città industriale, già, come vedremo, attraversata da Metropolis, suo doppiocontrario – è Aufhebung, pianificazione funzionale, Zoning; ed è questo sviluppo pianificato, razionalizzato perché “in equilibrio”, capace di sciogliere tutte le antitesi, che oggi non si dà più, neppure in forma tecnocratica. Chi ragiona sulla metropoli avendo nostalgia della città resta dunque paralizzato (come del resto ogni buon socialdemocratico) perché il suo

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La dirompente novità prodotta da quel complesso di fenomeni che solitamente definiamo “globalizzazione” investe direttamente la nozione stessa di “spazio politico”. Come ha di recente riconosciuto Carlo Galli, ciò dipende dal fatto che attraverso questa nozione si può apprezzare «la differenza radicale tra politica moderna – centrata sull’asse esterno/interno e su quello pubblico/ privato, come paradigmi decisivi, che riassumono in sé l’essenza della statualità e della sua capacità sovrana di istituire confini e ordinamenti – e la politica globale, in cui quelle distinzioni sfumano e collassano» (Galli 2013). Cosa significa, dunque, fare politica in questo contesto? Dove sta, la politica? Si può rispondere a questa domanda articolandola su una doppia scala spaziale: Globalizzazione e Metropoli. Ma, è bene chiarirlo subito, non si tratta qui di un macroscopico mondiale dal quale discendere nella trama microfisica della metropoli. Al contrario: si tratta di pensare la globalizzazione stessa come rete di spazi metropolitani interconnessi, all’interno della quale scorrono flussi globali di ricchezza, di informazioni e cultura, conflitti e forme di vita. I flussi globali alludono direttamente all’urbano e l’urbano condensa linee generali, questa è la nostra cartografia. A meno di non voler ripiegare nelle troppe teorie del tramonto della politica, però, ci occorre un secondo elemento: le singolarità agenti. La politica è sempre azione di qualcuno su uno spazio determinato. Vediamo il tema, allora: in generale, direi, “metropoli e singolarità”. Dunque una prima traiettoria investe il luogo specifico delle insorgenze, l’oggetto proprio della metropoli biopolitica come fabbrica sociale; e una seconda traiettoria,


discorso viene preso in una morsa: tra l’enfasi tecnologica, proiezione infinita di una mobilità tanto pervasiva quanto immateriale – il sogno a-topico della città di bits, della comunicazione virtuale (Mitchell 1995; Castells 2004; Griffa 2008) – e l’idea metafisica di un luogo originario, ecologicamente puro, capace d’ispirare la rinascita di significati e istituire identità, eterno ritorno al locale, all’organico, alla città genetica, omogenea, comunitaria (Krier 1995). Se la città virtuale esaspera gli aspetti tecnologici, trascurando ogni riferimento al conflitto politico, alla contraddizione, all’aporia interna delle forme urbane realmente esistenti, l’altra, la città della memoria nostalgicamente connessa a passati immaginari, propone di arrestare il tempo, per giungere infine ad un ritrovato e irenico spazio unitario, ad un luogo significante, che si vorrebbe guastato dalla modernità e dalla tecnica. In entrambi i casi, comunque, è confermata la povertà concettuale del nostro discorso sulla città (Rykwert 2002), incapace di tenere insieme le diverse profondità del discorso urbano. Tutto ciò manca dell’assoluta novità prodotta dalla trasformazione biopolitica e immateriale della produzione. È un discorso tarato, ben che vada, sulle contraddizioni interne della città industriale e sulla sua crisi. Vedremo questo passaggio. Intanto registriamone lo schema. Si oppone la città – figlia della pòlis, agorà politica, secondo le peggiori retoriche mainstream – all’urbano – ovvero all’insieme di tecniche istituzionali che sovraintendono al governo del territorio (Brugére 2012; Choay 1965). Eppure questo governo, l’insieme di discipline che raggruppiamo sotto l’etichetta di urbanistica, manca il suo oggetto specifico. Così al progetto non resta che la doppia morsa: o utopia o mistificazione (non è questa la malattia fondamentale di ogni riformismo?). La Città-pòlis è democratica e locale, custodisce la storia, determina un immaginario, si fonda sui corpi, ospita la cultura, l’arte e la bellezza, è sede della memoria e del senso. La sua dimensione esatta è il quartiere, il quotidiano, la prossimità (de Certeau 1990). L’Urbanometropolis è invece tecnocratico e globale, colonizzatore ed espansionista,

non ha rispetto per la storia, non ha memoria. È il potere, l’organizzazione, l’ordine del discorso mercificante che vanifica l’arte, la cultura, la bellezza. Non ha ancoraggi locali, non vive di quartieri ma di territori infiniti: non ha corpo ma solo flussi globali. Da una parte il rifugio di zoé, bene essenziale da difendere, dall’altra la trappola del biòs, male culturale da combattere. Le insorgenze metropolitane vengono lette di solito dentro questo schema. Il presupposto politico messo in gioco qui è: la città è più forte dell’urbano. Senza la città, l’urbano muore, è in-sensato (Harvey, 2013). Ciò che si perde, così facendo, è evidentemente la densità politica dell’urbano in sé, la natura contraddittoria di Metropolis. Ma, dato che tuttavia nella metropoli biopolitica si vive e mai altrove, l’unica azione pensabile risulta la tutela di spazi interni alla trama urbana, ma sottratti alla sua logica mercificante. La città diventa enclave, si rinserra tra i flussi metropolitani e diventa cittadella fortificata, territorio da difendere. Il “mio quartiere”, il “piccolo borgo natio”, il “centro storico”, il “bel paesaggio” o peggio la “natura”, come spazi liberi dalla logica di mercato. Quanto poi duri questa libertà, è tutto da verificare – e da verificare altresì è se si tratti effettivamente di libertà (che essi potrebbero invece rivelarsi perfettamente funzionali all’ordine specifico della valorizzazione neoliberista). Qui: Metropolis è scomparsa. Rinserrati nella gabbia delle nostre cittadelle, incapaci di pensare la dimensione generale, la superfice dei nostri territori, semplicemente, non la vediamo più. Non a caso persino i meno reazionari tra gli interpreti, come Henri Lefebvre o da ultimo David Harvey, parlano di diritto alla città (Lefebvre 1968; Harvey 2011 e 2013). Nulla possono scrivere del diritto all’urbano, del diritto a gioire e godere delle ricchezze di Metropolis, del desiderio proliferante nelle pratiche di urban cannibalism (Pasquinelli 2013). Perché nulla sanno di queste ricchezze. Quanto è in ritardo questo approccio? Almeno quanto misura la distanza tra il momento in cui Walter Benjamin, attraversando Parigi, capì che la città-pòlis non è più forte dell’urbano-metropolis e il tempo che viviamo. Nella sua archeologia dei passages, linee d’un paese di Bengodi


perciò eterno). Roma è Urbs che da leggi a tutto il mondo, all’intero Orbs. L’energia che anima questa idea è la globalizzazione, la città che si fa mondo, Urbs-Orbs. La civitas è civitas augens ovvero essa “cresce”, si allarga a tutte e tutti… essa de-lira ovvero supera il solco, il seminato, il limite che la definisce. Certo, come aveva notato Agamben, già Metro-polis è termine greco che designa la relazione coloniale tra una pòlis originaria e le città rispetto alle quali essa è “madre”, quindi in nuce troviamo già un profilo imperiale. Ma nell’idea romana c’è un salto qualitativo, che conferma e dispone dell’aporia tra metropolis e pòlis. Alla città adesso si oppone ciò che è proprio di questa idea dell’Urbs, ciò che attraversa e sovradetermina tutti i luoghi, questo elemento fondamentale di dismisura e di eccedenza rispetto ad ogni forma e ad ogni confine spaziale. Da una parte dunque un modello etnocentricocoloniale, e dall’altra l’allusione ad una immagine normativo-imperiale. Da una parte un essenziale radicamento e dall’altra una dis-locazione. La storia delle città, o delle diverse forme di vita urbana fino alla città industriale, all’epopea delle capitali del secolo, non è altro che la continua tensione tra queste due linee concettuali. Cos’è la città industriale? Cos’è Metropolis? Essa non è un luogo, piuttosto una tendenza storica che attraversa tutti i luoghi. Già nel film di Fritz Lang essa è fabbrica, che egli volle rappresentare nell’irenica pacificazione del conflitto di classe, Aufhebung, pianificabile dunque – quando l’alto giardino, eden della borghesia filantropica si unisce al basso inferno macchinico, nella stretta di mano tra operaio e padrone che chiude il film (Lang 1927). Metropolis è la forma generale che il processo di razionalizzazione dei rapporti sociali, portato dal capitalismo industriale, tende ad estendere sul pianeta (Cacciari 1973). Essa tenta la completa integrazione di tutto il sociale nel lògos del capitale. Qui, l’individuo deve essere sciolto in inter-esse, calcolo, ragione. Così ci viene raccontata da Georg Simmel. Il fondamento specifico di Metropolis è l’economia monetaria di mercato, ovvero: la costruzione di un dominio intellettuale-astratto sul reale;

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già travolto dalla meccanizzazione, Benjamin scrisse che di città ormai possono darsi solo immagini, rifugi di un’infanzia che si protegge dalla storia (Benjamin 1963 e 1983). Quanto è distante questo approccio dal nostro? Che nulla vogliamo perderci del battere della storia, forse anticiparlo, di certo innovarlo e trasformarne le linee di sviluppo? Proviamo a ridefinire il tema allora. In effetti hanno ragione Giorgio Agamben e Massimo Cacciari. La metropoli – la Großstadt, che attraversava e sconvolgeva la città, mutandola in città industriale – non è un’evoluzione lineare della città. Tra città e metropoli vige la stessa differenza che registriamo tra potere sovrano, territoriale, da Ancien Régime, e biopotere o potere governamentale. La “Metropoli”, insomma, non è la “città”, perché non ne ha i caratteri propri di tessuto omogeneo, radicato e continuo. Più che una territorializzazione, la metropoli è una dis-locazione, una disomogeneità spaziale e politica (Agamben 2007). Cacciari, da par suo, recupera una genealogia di questa dislocazione. All’idea di città-pòlis egli oppone quella dell’Urbs-civitas (Cacciari 2008). La pòlis greca è la dimora di un génos specifico, radicata etnicamente ed eticamente, la casa di una stirpe. I polítes sono tali in quanto abitanti della pòlis. La città greca dunque deriva la politica dalla sua etica e dal suo radicamento etnico, e rimanda così ad un tutto organico e territorializzato. Completamente differente l’idea romana. L’Urbs-civitas latina non ha la determinatezza ontologica del termine greco. Essa deriva da cives, cioè da un insieme di persone che si sono raccolte, si sono accordate nel voler seguire le stesse leggi. Dunque la civitas è essenzialmente politica indipendentemente dall’etica e dalla composizione etnica dei suoi cittadini. L’idea romana è il rovescio di quella greca: civitas deriva da cives, mentre polìtes deriva da pòlis. Secondo Cacciari, questa ratio urbana custodisce la strategia politica romana, finalizzata all’imperium sine fine, alla costruzione dell’Impero come spazio senza confini (neanche temporali,


lo scioglimento dell’individuo nella relazione di interesse, nello scambio; l’astrazione del dato in equivalente generale, moneta; la riduzione di ogni qualità a calcolo-quantità; la mercificazione di uomini e cose (Simmel 1957). Questo è Metropolis che attraversa Parigi e scaccia pòlis. Su questo mito gli architetti modernisti hanno costruito l’utopia del progetto, la pianificazione. Ma dicevamo: c’è un di più della pianificazione, c’è una metropoli corporea, materiale, che produce l’ombra pianificabile delle metropoli della mente. Cos’altro è il grande libro su Baudelaire di Walter Benjamin, se non il riconoscimento che il problema di fondo di Metropolis è la sua intrinseca conflittualità, la sua contraddittorietà (Benjamin 1962)? Cos’altro è la ricerca di Baudelaire, dell’esperienza dello choc metropolitano: il suo desiderio di fare un bagno di moltitudine – ormai abbandonata la nostalgia di Simmel che fugge la folla – se non allusione alla contraddittorietà, al conflitto che anima il progetto del capitale e agita la sua immaginemetropoli? E cos’è la Parigi capitale del XIX secolo se non la rottura definitiva di ogni ideologia della città-pòlis, di ogni possibilità sintetica? Da un lato l’emergere di una poderosa socializzazione dei rapporti di produzione e dall’altro la scoperta del barone Haussmann: la morfologia della Metropoli come terreno di lotta di classe, come dominio del grande capitale sulla classe operaia in formazione. Non a caso è a quell’altezza che si producono le prime contestazioni reazionarie di Metropolis, i primi appelli a tornare alla città contro l’urbano. Tönnies prima di tutti: attraverso una doppia riduzione, da Metropoli a città, da Kultur a comunità, egli tenta di ripristinare rapporti reali-organici contro quelli meccanici-ideali della fabbrica metropolitana (Tönnies 1912). L’ideale di Tönnies è la corporazione come comunità religiosa, espressione compiuta del mito reazionario della pòlis. E non è questa la linea che porta fino ad oggi? Fino ai profeti del diritto inesigibile alla città e della negazione di ogni desiderio urbano? Questo modo di affrontare la cosa, peraltro,

mistifica un fatto fondamentale – riconosciuto da Weber: la metropoli come rottura politica ed epistemologica contro la pòlis non è altro in fondo che il risultato di un’emergenza, di un’eccedenza di classe sui rapporti sociali precedenti. È la classe contro il Bürger, il borghese abitante una città (Weber 2003). La classe operaia che spezza le mura del borgo natio, ne affolla lo spazio confinato e lo apre, lo ri-determina come de-lirante. Così nasce Metropolis, nel fuoco della lotta di classe. Possiamo adesso noi riprodurre il mito del borghese reazionario? No: ogni utopia regressiva è inservibile. Come inservibili sono i miti riformisti, tutti tarati sulla città industriale. Gli architetti si sono piegati mille volte ad analizzare la storia del fallimento di questa illusoria riforma che investiva solo in seconda istanza le soggettività operaie. Basti rimandare qui ai contributi di Tafuri e della scuola di Venezia sulla pianificazione mitteleuropea, sovietica e statunitense (Tafuri 1976), ripercorrerne la trappola del progetto e dell’utopia, l’impossibile riduzione del labirinto metropolitano ad una sfera, neoplatonicamente pacificata in forma di città (Tafuri 1974; 1980). Agli architetti modernisti non sfuggivano certo i termini del problema, essi erano molto meno ingenui di quanto l’ignorante letteratura contro l’architettura, ci invita a credere. Architettura o rivoluzione, scriveva Le Corbusier. E come evitare la rivoluzione in occidente, se non attraverso il piano? Tutti gli obiettivi dell’architettura moderna sono anticipati o paralleli al keynesismo come quadro generale della politica economica borghese (Tafuri 1974). Ma è appunto, dopo Keynes che noi siamo chiamati a pensare ed agire. La città industriale è stata il campo di battaglia del passaggio da pòlis a Metropolis poiché essa ospitava, nel suo tessuto concreto, alcune costanti: certo, nota Cacciari «la fabbrica non era la cattedrale, non aveva la stabilità dei vecchi centri della forma urbis, ma una certa stabilità l’aveva!» (Cacciari 2008). Non a caso quella città, lungi dall’essere esclusivo dominio degli ingegneri delle anime o della grande industria, è stata sognata come utopia dalle avanguardie storiche, regno di macchine da piegare


del comune, come rottura della distinzione tra pubblico e privato, tra un dentro e un fuori, tra un centro (storico e di senso) e una periferia (vuota); sia dal punto di vista del blocco e della repressione neoliberista – uno spazio in cui l’unica attività consentita è lo shopping, immenso teatro repressivo di un fascismo senza dittatore (Koolhaas 2006; Negri 2008). Il pregio fondamentale degli scritti di Koolhaas, ha notato Negri, è nel riconoscere la dimensione globale come più produttiva di quella locale (Negri 2008). Certo, la metropoli di Koolhaas è il luogo dell’Impero. Ma appunto da qui dobbiamo ripartire. Dal riconoscimento che è qui e non altrove, qui in Junkspace, in questo postmoderno perverso e corrotto, che possiamo ritrovare la gioia della produzione biopolitica e non certo nel rifugio identitario o localistico, o nei miti della città e dello spazio pubblico. Come? Ricordando che la moltitudine abita la metropoli, ed essa soltanto. Solo in questo dis-locante, de-lirante dispositivo si danno gli incontri produttivi tra singolarità biopolitiche. La metropoli biopolitica “non svuota il reale” (e nessuna configurazione postmoderna, del resto, vi riesce), né il comando neoliberista riesce a razionalizzarlo. Essa è in tal senso più forte sia della città che dell’urbano, perché è attraversata da moltitudini produttive. Nulla di ciò nell’antica città. Ad Atene non è ammessa la folla dei barbaròi. Dunque dovremmo forse dire: facciamola finita con il mito essenzialista ed omogeneo della città chiusa, della sfera pacificata. Davvero si tratta qui di un problema di filosofia prima. Dobbiamo iniziare a pensare, attraverso continui spiazzamenti, abbandonare l’idea del centro e dei suoi arrondissements, per ragionare su questo labirinto produttivo, che si biforca e scarta di lato, che si ripete e si differenzia continuamente. Così facendo, possiamo iniziare a riconoscere dei luoghi in Junkspace. A costruirne cartografie. In fondo noi abbiamo bisogno di luoghi per qualcosa che attiene alla nostra dimensione fisica più originaria. Noi non riusciamo a concepire uno spazio-senza-luogo perché in fondo il nostro corpo è luogo

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al riscatto dell’umanità, Siedlungen operaia da estendere a tutto il territorio. Questo e null’altro, è il processo che si compie con le utopie della città per tre milioni di abitanti, della ville radiouse o del Plan Obus per Algeri di Le Corbusier. Questo tentativo di piegare l’acciaio del Gestell alle forme di vita che abitano la metropoli. E non fu l’incapacità politica – riconosciuta, percepita e discussa, tra l’altro in diversi CIAM – di aggredire il nodo di fondo della rendita, ovvero la proprietà privata dei suoli, una delle cause del fragoroso fallimento di quel progetto (che ovviamente si accompagnava alla mistificazione del conflitto di classe, interna ad ogni pianificazione capitalistica)? Dunque qui ci collochiamo. Anzi, qualche passo ancora in avanti, prima di raggiungere il nostro problema. Tra città industriale e metropoli biopolitica, v’è la medesima rottura che si registra in campo economico, dopo la trasformazione immateriale del lavoro, tra l’integrazione crescente di elementi linguistici, cognitivi e relazionali nella produzione e il paradigma del lavoro industriale pianificato. La metropoli biopolitica, in questo quadro, è una novità assoluta: indietro non si torna (Negri 2009). Questa novità è stata ampiamente scandagliata in letteratura, dunque ne conosciamo i caratteri specifici: Città di slums, Sprawltown, Ville panique, Città generica composta di Junkspace (Ingersoll 2004; Virilio 2004; Koolhaas 2006; Perulli 2007). Ecco qui davvero, come ha scritto Toni Negri, gli architetti ci aiutano a guadagnare un po’ di sano realismo (Negri 2008). È stato Rem Koolhaas, il più vicino a Le Corbusier tra i contemporanei, a darci il ritratto disincantato di questo spazio oltre la pianificazione: non pianificabile perché appunto delirante, dislocato, deterritorializzato, accumulativo (Koolhaas 2001 e 2006). Qui non è la città ad essere più forte dell’urbano: è la Metropoli che viene riconosciuta come superiore tanto alla pòlis che al dispositivo urbanistico. Koolhaas descrive la metropoli biopolitica sia dal punto di vista delle singolarità – come distruzione della città storica borghese-reazionaria-identitaria, come meticciamento, come aleatoria proliferazione di “incontri” e produzione


assolutamente primo. I cantori della città digitale, invece, enfatizzando l’aspetto virtuale della proliferazione di Metropolis, pensano a noi come a pura energia, come anima, comunicazione immateriale (Cacciari 2002). Riducono il conflitto allo sguardo nostalgico d’un angelo trascinato dal vento della storia. Ad altri lasciamo questa cattiva utopia. Perché noi siamo corpo. Ecco la contraddizione: da una parte l’idea di Metropolis come pura forma, infinito continuo, rottura degli spazi geometrici, eccesso, dismisura, protesi tecnologica; e dall’altro però, torna il peso, la materia, il corpo. L’architettura di Metropolis si produce per ingombri edificati enormi, monumentali, pesanti, che nessuna piroetta in vetro e acciaio può “alleggerire”. Bigness, dice Koolhaas. Ancora luoghi, corpi architettonici, attraversati da un nomadismo che si vuole libero da patrie e identità. Nomade è l’abitante di questo spazio postmoderno. Ma il nomade è corpo, i suoi tragitti sono reali, egli sosta in vari luoghi, attraversa vari luoghi (Cacciari 2002). E al suo migrare s’oppongono barriere, confini, limiti: un dispositivo di inclusione disgiuntiva che svela la metropoli come fabbrica biopolitica, con le sue contraddizioni e le sue tattiche di cattura del valore. Conosciamo bene la definizione di Metropoli biopolitica. Toni Negri ne ha, più volte, tratteggiato i parametri produttivi e i potenziali di conflitto (Negri 2008). Saskia Sassen ne ha definito la collocazione nella struttura economica globale (Sassen 1997). E la fenomenologia delle rivolte urbane di Mike Davis ci ha insegnato il contrasto tra queste due dimensioni (Davis 1999). La metropoli biopolitica è un insieme di ateliers cognitivi connessi tra loro. Essa si costituisce in una serie di nodi urbani che concentrano le macrofunzioni del comando mondiale. Qui, lo schema governamentale si fa complesso, funziona per ripartizioni differenziali di assoggettamento, esclusione e controllo: individualizzazione degli esclusi e produzione di questa stessa esclusione (Agamben 2007). Nella metropoli biopolitica tuttavia il dispositivo disciplinare si intreccia ad una nuova tecnologia del potere, di tipo entropico o

a-poietico che ne rappresenta i luoghi vivi come improduttivi e le forme di vita esclusivamente in termini di spreco di risorse (Revel 2012). Eppure, in questo medesimo luogo si danno soggettivazione e produzione, ricchezza e felicità. Per leggere questa fabbrica, per vederne la ricchezza dobbiamo abbandonare ogni dualismo. Non più una relazione tra un dentro la produzione biopolitica ed un fuori. Ancora una volta: a differenza della città, che si reggeva esattamente su determinazioni spaziali biunivoche – centro/periferia, città/campagna, ville/ banlieue – la megalopoli contemporanea mostra una pluralità di modelli (Revel 2012). Dobbiamo dunque abbandonare ogni dualismo: ragionare in termini di centro e periferia, di dentro e fuori, di luoghi del diritto e luoghi del bando è ancora discutere della metropoli biopolitica immaginandola come città. Valga lo stesso per tutte le determinazioni comunitarie, coesive, di quartiere e di vicinato: il diritto alla città è diritto ad un habitat stanziale, consuetudinario e omogeneo. Il diritto all’urbano, il diritto alla metropoli biopolitica è diritto allo spostamento, alla deviazione, alla mobilità. Di più: la pacifica raccolta del quotidiano, le logiche di prossimità che costituiscono i quartieri, sono addirittura funzionali al comando neoliberista, poiché vengono immediatamente tradotte nella coppia ghetto/Gated Communities (Davis 1999; Revel 2012) o assorbite dalla gentrificazione. Nessuno spazio libero resiste all’assedio della mercificazione. La storia si piega in celebrazione mercantile del passato, la soggettivazione in identità. Nella mente del gestore neoliberale, ha scritto Koolhaas, «c’è sempre un quartiere chiamato Ipocrisia, in cui viene conservato un minimo di passato: di solito è percorso da una vecchia ferrovia/tranvia o da un autobus a due piani, al suono di terrificanti campanelli: versioni addomesticate del vascello fantasma dell’Olandese volante. […] Ipocrisia […] è un’elaborata operazione mitopoietica: celebra il passato come solo ciò che è di concezione recente può fare» (Koolhaas 2006). A dispetto della sua assenza, la storia è la principale


Ma è un ripiegamento ricco, che chiama un conflitto politico nuovo, e un nuovo catalogo di diritti esigibili per la produzione biopolitica, in grado di muoversi contemporaneamente sulla dimensione dei flussi globali ma a partire dal concreto corporeo dei luoghi urbani. Metropoli e moltitudine, allora. Ecco il nostro tema. Riconoscere la metropoli dopo e contro la città, guardarla come fabbrica biopolitica significa innanzitutto leggere ogni elemento di conflitto che vi si determina come capace di intervenire sul livello mondiale, pensare il conflitto nella metropoli come direttamente globale, direttamente implicato nella dinamica generale del comando neoliberista e in grado di spezzarne le catene. In secondo luogo significa riconoscere il codice specifico di governance della metropoli neoliberista – che nulla ha a che vedere con quello della città. Provare a collocarsi al livello della tendenza generale della metropoli, pensarne il dispositivo istituzionale solo complicandone i caratteri, ovvero inserendovi la vita, la figura viva della moltitudine produttiva. Qui noi siamo in ritardo. La governance neoliberista degli spazi urbanizzati ha una sua meccanica, una tecnica istituzionale che spesso ci sfugge e che invece dovremmo analizzare e riconoscere puntualmente. Il comando della rendita e della finanza sulle singolarità produttive, è sempre mediato. Allora la ricerca dovrà orientarsi nell’individuare i punti medi sui quali si istituisce il rapporto di dominio, identificare i nessi amministrativi reali. Così da riconoscere ed agire su contraddizioni determinate, sulle frizioni interne del codice che governa questa rete interconnessa di biopoteri – abbandonando ogni rifugio nell’antico quartiere, o nel verde trastullo del parco autogestito e dell’orto biologico. Probabilmente tutto ciò significa pensare il conflitto a partire da una azione sull’espansione algoritmica delle nostre relazioni sociali, che poi in fondo, è lo specifico della metropoli biopolitica. In altri termini, va detto che la governance urbana non vive solo di gentrificazione e ghettizzazione: ha bisogno che le moltitudini produttive si esprimano, partecipino, si lascino tradurre nei suoi

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preoccupazione del dispositivo di mercificazione; ma lo è nella forma del souvenir universale, del tipico, dell’autentico che si risolvono in un’insipida e insensata celebrazione del tempo perduto. Una presenza del passato da vendere per qualche centone. Tutti vanno in cerca di qualcosa di “caratteristico” ma per questa via le città collassano nel non-sense, Parigi è destinata ad essere sempre più «parigina». I più avveduti tra gli storici dell’architettura italiana hanno sempre polemizzato contro le operazioni di meccanica conservazione dei centri storici. Si diceva allora: se non si individua, fuor d’ipocrisia, la funzione specifica dei centri storici come parte dell’economia politica di un territorio, se non si decide sulla missione produttiva di questi tessuti architettonici li si lascia alla mercé del mercato. L’insistenza conservativa amplifica e realizza questo rischio: il centro storico è il quartiere chiamato Ipocrisia, un parco a tema nel quale calpestare lo stesso selciato di qualche antico eroe, simulare una esperienza di senso ormai perduta. Disneyworld è il modello. Il Mall è lo schema di circolazione di moneta. Qui la storia è negata mentre viene celebrata: presenza del passato contro la storia, dicevamo prima (del resto “La presenza del passato” è esattamente il tema di una delle prime Biennali di Architettura postmoderne); quanto distante è questo approccio dal coraggio innovatore che pratica piuttosto una presenza della storia contro il passato, volta al futuro! È tempo di riconoscere che tutte le categorie classiche della città sono surdeterminate dal dispositivo biopolitico. Che la dimensione globale è il piano su cui vivere e rovesciare il comando della metropoli biopolitica. Dimensione globale, ovvero ad un tempo: parte di una rete mondiale priva di esterno e dunque attaccabile direttamente da ogni dove; e dimensione generale della Metropoli come spazio delirante. Non esiste un fuori della metropoli, solo pieghe, solo piani sovrapposti e proliferanti. Perciò, la cosa che chiamiamo Banlieue non è un esterno della metropoli (se non nel racconto che ne fa il comando neoliberista, o nell’erronea metafora di Agamben), piuttosto un suo ripiegamento, una linea di fuga (Revel 2012).


codici di gestione e amministrazione. Guardiamo al dispositivo delle Smart Cities: cos’altro segnala, se non l’incapacità del gestore neoliberare di effettuare dall’alto un governo efficace ed efficiente del territorio? Il territorio ormai è ingovernabile, se non attraverso la messa a valore del potenziale di socializzazione che pulsa nel labirinto metropolitano. Privata di questa socializzazione viva, la gestione di Metropolis crolla. D’altronde, quando si dice: metropoli è comune, a cosa si allude? A una ricchezza artificiale, prodotta direttamente dal cognitariato urbano, ad una emergenza della trama di relazioni sociali, potenziate in Metropolis. Che è dunque fabbrica biopolitica. Luogo produttivo e luogo di cattura della ricchezza. Come si libera questa produzione spezzando le maglie dello sfruttamento? Su mille piani. Spezzando la spirale della rendita; ripensando la rete dei trasporti e delle infrastrutture metropolitane; intervenendo sull’organizzazione specifica degli ateliers cognitivi (come si può pensare la Metropoli senza le sue scuole, le università, i centri culturali, le fondazioni artistiche?); potenziando e difendendo il diritto al Welfare biopolitico; rovesciando la governamentalità smart in estensioni democratiche e conflittuali. Queste sono le tracce che si possono seguire. Certo non vogliamo tornare alle vecchie chiese, né alle vecchie città: queste nostalgie le lasciamo, weberianamente, accucciarsi nei tanti borghi agresti che ancora esistono, in attesa che scompaiano. Ciò che intanto urge è il nostro desiderio di diritti e ricchezza nella metropoli. Tuttavia, nulla di tutto ciò è possibile, immaginando la metropoli come una città. Nota biografica Marco Assennato (Palermo, 1978), ricercatore indipendente, vive e lavora a Parigi. Si occupa di filosofia politica, teoria dell’architettura e conflitti sociali. Collabora con il portale di ricerca euronomade.org, con Alfabeta2 e altre riviste italiane. Nel 2011 ha pubblicato per la casa editrice Duepunti, “Linee di fuga. Architettura, teoria, politica”.


Alcune annotazioni sui «luoghi/simbolo» della politica di Pietro Piro

Esiste ancora una «alternativa» al fenomeno inquietante della «dimensione pubblica»? Per essere più chiari: prima di queste chiacchiere sulle «alternative», c’è ancora un criterio per discernere le cose essenziali? Per quali inferni deve ancora passare l’uomo, prima di riuscire a capire che non è lui a produrre se stesso? M. Heiddeger, Lettera a H. Arendt del 12 aprile 1968.

2. I luoghi/simbolo della politica o sul culto dello straordinario Perché per gli italiani – con il vizio della memoria e della storia - un luogo (oggi simile a migliaia di altri in altrettante città) come Piazzale Loreto a Milano è un luogo simbolo della politica? Perché lo sono gli opifici della Isotta Fraschini di Milano; i teatri Goldoni e San Marco di Livorno; la Macchia

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1. Una visita a Norimberga Arrampicandosi sugli scaloni grigi della Haupttribüne des Zeppelinfeldes (tribuna del campo Zeppelin) priva ormai del colonnato e ridotta a un moncone disadorno, si può provare il brivido osceno di osservare - dalla stessa visuale che fu di Adolf Hitler - il campo delle esercitazioni militari un tempo sede dei raduni mistici del partito nazista. La visuale è immensa. Si può dominare un ampio spazio che è oggi ricoperto da alberi e da strade larghe e occupate dai bus turistici. Il luogo non smette di suscitare interesse – a volte nostalgico ma soprattutto curioso. Il complesso monumentale dello Reichsparteitagsgelände di Norimberga si presenta al suo visitatore come un residuo di pietra di un sogno megalomane. La Kongresshalle (Sala dei Congressi) che s’ispirava al Colosseo e che avrebbe dovuto ospitare le riunioni del partito, è un contenitore vuoto. Le mura di cinta fanno presagire una struttura interna possente. Invece, lo spazio interno è cavo, desolante e tetro. Materiali accumulati, auto abbandonate, erba non tagliata, barili di ferro arrugginiti. Il luogo fu per molti anni un parcheggio di auto da demolire. Nella Lichtdom-Trafostation (Centrale Elettrica) dove ancora s’intravede sulla parete di pietra l’ombra dell’aquila nazista, ci si può

comodamente avvelenare nel fast-foodrestaurant di un’arcinota catena americana. Le emozioni che una visita a questo complesso monumentalemaniacale può suscitare, sono moltissime e tutto dipende dalla storia della persona che lo visita. Tuttavia, una sensazione accomuna tutti i visitatori, indipendentemente dal livello di giudizio: qualcosa si è ritirato da quel luogo. Le forze oscure e lugubri che agitavano le coscienze, tiranneggiate da sapienti architetti del male, sembrano essersi volatilizzate e quello che rimane non è altro che un simulacro. Queste pietre possenti e squadrate, ispirate a sogni totalitari di potenza, appaiono come un incubo sbiadito, la nebbia della palude in cui sono state erette le ricopre e le rende invisibili. Il viaggiatore è colto da un senso di freddo tutto interiore, indipendentemente dalla stagione. Monumento all’odio e alla morte che la palude vorrebbe inghiottire e che l’uomo, invece, trattiene per una memoria sempre meno condivisa degli orrori del passato. Quale lezione si può ricavare dalla visita – obbligata - a questo luogo politico del passato e a tutti quelli che in un modo o nell’altro, lo sono stati o lo diventeranno? Che cosa fa di un luogo qualunque un luogo politico?


della Quartarella a Riano; la città di Fiume; Piazza Venezia a Roma; l’abitazione di Giorgio Enrico Falck a Milano; Salò; via Rasella a Roma; Portella della Ginestra; Porta San Paolo a Roma; Valle Giulia a Roma; via Mario Fani a Roma; il casolare di contrada Feudo a Cinisi; la sala d’aspetto di 2ª classe della stazione di Bologna; l’hotel Raphaël a Roma; l’autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci; via D’Amelio a Palermo e molte centinaia di altri luoghi, che nella loro quotidianità più spicciola, non hanno nessun attributo che li possa far individuare come luoghi politici? L’elemento chiave che accomuna questi luoghi/simbolo della politica è il carattere eccezionale degli eventi che hanno ospitato. Niente lasciava presagire, fino a poche ore prima, che proprio quel luogo che generalmente – era, ed è attualmente - destinato agli usi più quotidiani – il mercato, il commercio, il transito, il pascolo, il lavoro produttivo - entri prepotentemente nelle cronologie della storia politica. L’elemento straordinario, inconsueto, unico, che rompe tutti i legami d’uso che fino a pochi minuti prima erano solidi, immette il luogo prescelto nel flusso di una nuova narrazione. Lo ridisegna e lo rifonda alla luce di nuove categorie ermeneutiche che saranno poi lette e rilette, fino a creare una vera e propria mitologia del luogo politico. Niente prima dell’evento scatenante, inconsueto, anti-quotidiano, riesce a connotare un luogo usuale in politico e a inserirlo nelle cronologie storiche. Tutti quei luoghi che sono scelti ed eletti come luoghi istituzionali della politica, i palazzi e le caserme, le sezioni di partito e i luoghi fissi per le adunate, subiscono il logoramento del quotidiano, del ripetitivo, della noiosa prassi burocratica. In questi luoghi, la politica abita solo come referente simbolico dei luoghi dove la politica si genera e si rigenera, dove si manifestano gli eventi fondanti della legittimità politica. Il carattere straordinario dei luoghi/simbolo della politica c’insegna alcune cose – non marginali - della natura profonda della politica e del potere.

3. Potenza-potere-politica Se gli elementi che caratterizzano l’agire politico sono sempre stati legati all’esercizio del potere, com’è possibile scindere la forza originaria che alimenta il potere – la potenza – dal potere stesso? Potenza e potere sono inscindibili. Il potere si esercita solo se è legittimato dalla potenza. La potenza è una forza straordinaria che supera ogni resistenza e che irrompe nella realtà quotidiana modificandola e generando in coloro che ne sono testimoni orrore e meraviglia (il miracoloso). Paura e ammirazione. Rispetto incondizionato e timore reverenziale. Capi, Re, Caudillos, Dittatori e grandi leader politici, furono legittimati nella loro azione politica perché la potenza decise d’investirli e di fornirli di qualità straordinarie. Per questo motivo, nei loro confronti era necessario adottare un doppio atteggiamento di paura e ammirazione (lo stesso per tutte le manifestazioni della potenza). La politica è esercizio del potere legittimato dalla capacità di invocare, manifestare e gestire la potenza. Quando questa capacità si perde parzialmente o del tutto – come nel caso della politica che accompagna la fine del mondo magico tardo rinascimentale e giunge fino ai nostri giorni – e la politica diventa una pratica burocratica sottomessa al volere degli interessi tecnico-scientifici ed economici, la potenza può solamente essere simulata. Accade un fatto di portata inaudita e le cui conseguenza tragiche sono ancora tutte da assimilare: l’immagine della potenza è sostituita con la potenza delle immagini. La politica perde definitivamente la sua legittimità ultraterrena e tuttavia, cerca di mantenerne il carattere anti-quotidiano, rivestendosi di un aura fabbricata ad arte in attente cabine di regia. Si assiste così alla terribile messa in scena delle parate fasciste e naziste, in cui si evocano forze ctonie e in cui sacerdoti-medium invocano una potenza che si è in realtà ritirata da tempo. È vero che oggi il complesso monumentale del Reichsparteitagsgelände di Norimberga ci appare svuotato di qualcosa, ma quel qualcosa mancava anche quando fu costruito e durante tutti gli anni del suo nero splendore.


Si trattava di uno scenario – efficace, senza dubbi - in grado di simulare una potenza che legittimasse il potere dei capi nazisti. Una macchina vuota, una parete di scena che camuffava la nudità e l’orrore.

5. La politica mediologica e la necessità incombente del saltimbanco La politica mediologica, pur avendo impoverito e svuotato molti luoghi tradizionali della politica, sembra non riuscire a smaterializzare del tutto il bisogno di luoghi fisici in cui manifestare le pulsioni politiche. Resistono le piazze stracolme, i cortei, gli assalti ai cantieri, le occupazioni e gli sgombri delle forze dell’ordine. L’agire quotidiano, la politica dell’ordinario, sono spazzate via da una logica dell’anti-quotidiano che deve necessariamente catturare l’attenzione di un cittadino distratto e sonnecchiante. S’insiste dunque con volontà ferrea, su tutto ciò che può essere classificato come unico, irripetibile, storico. In realtà, nulla sembra spezzare le sbarre della gabbia d’acciaio di un mondo in cui la tecnica, la finanza e gli interessi privati, hanno colonizzato l’immaginario dell’agire politico. Sono in atto trasformazioni silenziose, che stanno cambiando radicalmente la natura antropologica dello spazio politico. Tra pochi anni, sarà impossibile classificare gli eventi politici futuri con le categorie in uso oggi, e che già soffrono di obsolescenza. L’accelerazione in atto, rende ogni tentativo di comprendere fragile e franoso. La potenza, unica forza che legittimi il potere politico e il dominio dell’uomo sull’uomo, sembra essersi ritirata da alcuni secoli dalla storia dell’Occidente. Quello che resta è sopruso ingiustificato, potere esercitato con sadismo, volontà di mantenere i privilegi e accrescere le disuguaglianze. Se il potere politico non è fondato su una potenza che trascende l’uomo, come è possibile stabilire la superiorità di un uomo sull’altro? Manca una prospettiva più profonda che permetta d’inquadrare le relazioni di potere alla luce di una dinamica più precisa e più netta. Il mondo fattosi definitivamente adulto, simula le movenze della potenza e la legittimità è quasi sempre estorta con l’inganno. Chi esercita il potere

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4. Cratofanie rovesciate Non deve stupire dunque che la maggior parte dei luoghi simbolo della politica italiana che abbiamo citato, siano legati a eventi tragici, cratofanie rovesciate, scontri e conflitti, in cui collidono le forze più attive e aggressive della società. L’omicidio politico è sempre un gesto straordinario, lo sono ugualmente un attentato dinamitardo, un corteo con migliaia di partecipanti, una rivolta. In quelle occasioni, le forze ordinarie che regolano il vivere civile sono sospese e ribaltate, forze tenute represse entrano nella circolazione sanguigna del reale, irrorando parti addormentate e fredde. Una potenza che trascende le forze degli attori che le scatenano, supera di gran lunga le intenzioni dei protagonisti, che si ritrovano spesso quasi pietrificati di fronte alla sproporzione dell’effetto generato dai loro gesti. La potenza evocata si manifesta e l’evento s’iscrive nelle tavole di pietra degli annali. Poi però, con la stessa rapidità con cui si è manifestata, la potenza si ritira e alla politica non resta altro da fare che inserire l’evento in una storia politica, in una narrazione dotata di senso, che dal fatto straordinario si genera e si nutre. La politica vive del culto dello straordinario - che lo si voglia ammettere o meno. Tutte le forme politiche attuali sono le eredi delle teocrazie divine. Degli antenati si conservano il gusto per l’evento fondante, il fatto unico, la forza esplosiva dell’anti-quotidiano. Ci si stupisce di fronte all’evocazione che alcuni capi politici hanno fatto di territori immaginifici, terre libere, forze legate ai fiumi e ai monti e si sorride di fronte alle divise, ai cori, alle bandiere sventolanti. Si sottovalutano le azioni mosse dal sentimento e le si svaluta come anti-politica. Tuttavia - lo si accetti senza troppa ritrosia - la politica vive alimentando il mito dei luoghi eccezionali, il culto degli eventi fondativi, la liturgia delle date storiche, la venerazione delle personalità

carismatiche. Sembra improbabile che la politica riesca a emanciparsi dal suo pensare per - e attraverso – luoghi/ simbolo.


ai massimi livelli oggi, deve possedere necessariamente doti di attore e di saltimbanco. Altrimenti, la sua assenza di potenza sarà subito svelata. Non è un caso che si richieda ai leader politici bella presenza e doti di Showman. Nota biografica Pietro Piro è cultore della materia in Sociologia all’Università di Roma Tre. Dottore di Ricerca in Comunicazione Politica. I suoi più recenti contributi sono: I frutti non colti marciscono. Temi weberiani e altre inquietudini sociologiche (2014); Nuovo Ordine Carnevale (2013), Francisco Franco. Appunti per una fenomenologia della potenza e del potere (2013), Il dovere di continuare a pensare (2013).


Doppio movimento, ovvero della necessità storica di una sinistra non “progressista” di Andrea Zhok

e uomo, e tra l’umanità e la sua terra (o ambiente). Questo processo di logoramento (il primo movimento di Polanyi) è acutamente percepito ed istintivamente condannato già in contesti pre-moderni e pre-capitalisti, ogni qual volta situazioni di momentanea dominanza dell’economico fanno capolino: le condanne del denaro, come potere e come fine, sono tra i giudizi morali maggiormente reiterati nel corso dell’intera storia umana, antica e moderna. Ma l’acutezza della sensazione di rigetto non garantisce di per sé l’elaborazione di correttivi adeguati. La pratica monetaria infatti è chiara in ciascun caso particolare ed oscura nel suo funzionamento generale e nelle sue ripercussioni sistemiche. Il secondo movimento di cui parla Polanyi implica reazioni molto difformi all’imporsi ed estendersi illimitato delle relazioni di tipo monetario. Sul piano teorico la lezione marxiana, e poi quella keynesiana, definiranno diversi punti fermi (ancorché spesso rimossi dall’odierno discorso pubblico). Ma quando si giunge al piano storico e pratico dell’implementazione politica, il “secondo movimento” nel XIX e XX secolo si è espresso in forme ben lontane dallo stato dell’arte delle elaborazioni teoriche. Le dittature europee tra le due guerre mondiali sono state in effetti il caso più eclatante di questa concrezione del “secondo movimento”, caso da cui Polanyi non poteva certo facilmente distogliere lo sguardo negli anni di redazione di The Great Transformation. Oggi a settant’anni di distanza possiamo ritrovare una versione aggiornata ed insidiosa di quel doppio movimento, versione su cui val la pena di soffermarsi e riflettere.

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Nel suo capolavoro, pubblicato nel 1944, The Great Transformation, Karl Polanyi introduce l’idea di un “doppio movimento” (double mouvement) nello sviluppo delle società moderne. Da un lato troviamo una tendenza legata al diffondersi degli ordinamenti di mercato ed ideologicamente incarnata dal liberismo economico, per cui il sistema degli scambi economici tende ad imporsi come un sistema autoregolantesi. In opposizione a questa tendenza troviamo invece “il principio della protezione sociale, che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura oltre che dell’organizzazione produttiva, basandosi sull’appoggio variante di coloro che erano più immediatamente toccati dall’azione deleteria del mercato.”1 Lo sguardo storico ed antropologico di Polanyi ci insegna a cogliere il senso epocale del costituirsi di società dove le pratiche di libero scambio economico si impongono come dominanti (capitalismo). Polanyi osserva come il capitalismo emerga in epoca moderna da un terreno tradizionale di relazioni dove l’idea stessa di un’autonomia della sfera economica era priva di senso: ogni economia pre-capitalista è subordinata agli indirizzi tradizionali e morali della società in cui i rapporti economici si dispiegano. Ciò viene meno, appunto, con l’emergere di ciò che dopo Marx siamo soliti chiamare “sistema capitalista”: il sistema degli scambi (idealmente) autoregolati, dove le transazioni guidate dall’interesse individuale dei transattori trovano, o almeno cercano, costantemente l’equilibrio. Tale sistema, ci dice Polanyi, ha un effetto di logoramento sistematico delle relazioni pre-economiche, in particolare del rapporto tra uomo


1. Primo movimento: il libero scambio e i suoi effetti preterintenzionali Per intendere il senso specifico in cui il secondo movimento si manifesta nel contesto politico contemporaneo dobbiamo prima tratteggiare sinteticamente di cosa consta l’attività destrutturante del primo movimento. Per quanto si tratti di tema molto noto, può essere utile metterne in fila i lineamenti principali. Nelle sue linee essenziali il sistema dello scambio competitivo, di cui consta il cuore di ciò che chiamiamo capitalismo, è molto semplice: si tratta di generalizzare gli scambi volontari. Ogni scambio volontario sembrerebbe essere di necessità vantaggioso per entrambi i transattori, che altrimenti non vi acconsentirebbero. Dunque, se ogni singolo scambio porta benessere, in qualche misura, a ciascuno dei transattori, una loro moltiplicazione sembrerebbe equivalere ad un aumento di benessere complessivo. Questa semplice idea supporta al fondo la concezione per cui una generalizzazione degli scambi volontari è intrinsecamente cosa positiva. Il denaro interviene in questo tipo di relazioni come facilitatore degli scambi volontari. Le forme in cui esso opera da facilitatore sono le note funzioni del denaro: principalmente esso permette di tesaurizzare il valore in modo non deperibile, di misurare il valore in forma numerica, e permette a domande ed offerte variegate di incontrarsi su un terreno comune (tutti i beni sono tradotti nel denaro come merce universale, scambiabile con tutte le altre). Gli scambi economici finché sono parte di un contesto sociale più comprensivo che li contiene e subordina rappresentano realmente un fattore di diffusione di benessere. I problemi cominciano a sorgere quando gli scambi economici tendono ad imporsi come forma dominante di scambio: questa è una situazione che si è riproposta ciclicamente svariate volte nella storia, ben prima dello sviluppo del capitalismo moderno.2 Mettiamo innanzitutto in luce un primo gruppo di effetti generali dell’acquisizione di dominanza degli scambi monetari.

(i) Il primo effetto sta nel radicalizzarsi del carattere competitivo degli scambi: mentre uno scambio subordinato a principi extra-economici (come le forme di dono tradizionale) non persegue la massimizzazione del profitto, in assenza di fattori extraeconomici, etici o tradizionali, ciascun transattore razionale deve cercar di ottenere il massimo vantaggio dallo scambio economico. In linea di principio, infatti, non c’è più spazio per forme di “indebitamento morale”, per favori, promesse, lealtà: se ciò che ha valore è racchiuso nella sfera degli oggetti di transazione, il valore che nello scambio si concede all’altro è sic et simpliciter una perdita per sé. (ii) Un secondo effetto è strettamente connesso al primo: nel momento in cui la pratica monetaria si diffonde, e con essa lo scambio competitivo, tutti sono costretti a venirci a patti, ed in ultima istanza a subordinarcisi. Chi non lo fa, infatti, risulta semplicemente un transattore debole, destinato progressivamente ad essere escluso dal gioco degli scambi per mancanza di qualcosa da offrire. In un gioco in cui i beni/servizi si ottengono attraverso compravendita, in cui tutti tentano di massimizzare il proprio guadagno ed in cui i vantaggi accumulati in precedenza (capitale) danno ulteriori vantaggi nelle transazioni a venire, chi voglia rifiutare le regole del gioco viene estromesso ad un tempo dal gioco degli scambi e dalla società. Lo scambio competitivo diviene perciò un ‘gioco obbligato’ in cui ciascuno esercita (o dovrebbe razionalmente esercitare) il suo massimo potere contrattuale. (iii) Un terzo effetto dell’acquisizione di carattere di dominanza dello scambio competitivo sta nella sua libertà di estendersi liberamente in ogni direzione, inglobando nella compravendita idealmente ogni cosa di valore. Se non ci sono fattori di contenimento espliciti e restrittivi a ciò che il denaro può acquistare, tutto ciò che per qualcuno ha un valore può trovare un ‘prezzo’ di mercato. In condizioni di dominanza reale dell’economico, anche elementi che ufficialmente siano estranei alla compravendita, come cariche politiche,


diritti civili o sentenze giudiziarie, possono essere assoggettati de facto al potere del denaro. Quando questi effetti dell’ascesa della pratica monetaria si sviluppano, quelli che erano i principali vantaggi nell’uso del denaro si rivelano anche essere i suoi maggiori difetti. Proviamo ora a segnalare di seguito alcune tendenze di ordine sociologico, dipendenti dall’instaurarsi di una dominanza degli scambi competitivi.

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1.1 La restrizione degli orizzonti In un contesto dove lo scambio competitivo è dominante, o tende a diventare dominante, ogni valore o interesse che vada al di là del vantaggio individuale tende a rappresentare un lusso ed un onere netto per chi lo supporta. Per capire questa dinamica bisogna porre attenzione non tanto al carattere genericamente competitivo dell’economia di scambio, quanto a) alla centralità del momento dell’acquisizione del profitto, b) al tipo e c) al grado di potere che il denaro conferisce. (a) In ogni transazione svolta per profitto si può ottenere un vantaggio comparativamente maggiore o minore, a seconda delle condizioni che l’altro transattore è disposto ad accettare. Chi ottiene comparativamente maggior profitto può però con ciò avvantaggiarsi in vista delle transazioni successive. Siccome chi in un certo momento ha un capitale disponibile maggiore ha minore urgenza di compiere ulteriori transazioni, esso ha anche maggior potere contrattuale rispetto a chi in quel momento ha disponibilità minore. Avere maggiore potere contrattuale consente dunque di ottenere condizioni comparativamente vantaggiose nelle transazioni successive, aumentando così progressivamente il proprio vantaggio comparativo. Questa dinamica indica come in un sistema di scambi competitivi vi sia un potente incentivo ad effettuare scelte che massimizzano il guadagno personale a breve termine: chi prima si avvantaggia più si avvantaggia. (b) La piena portata di questo premio dato al profitto a breve termine si coglie però solo quando lo si abbina al carattere fondamentale

del valore monetario, ovvero la sua capacità di svincolarsi dal processo che lo ha prodotto. Una volta che si sia ‘passati all’incasso’ di una certa transazione il passato si cancella. Mentre negli ordinari rapporti interpersonali conservare la fiducia reciproca, mantenere le promesse, rispettare luoghi e modi dell’interazione, condividere idee, speranze e valori, ecc. sono tutti fattori premiali, che fanno sviluppare e prosperare ulteriori rapporti, nel caso delle relazioni di scambio monetario il momento dell’incasso rappresenta un possibile azzeramento del pregresso, senza resti: ciò che resta e ciò che conserva il suo valore è solo l’ammontare del profitto ottenuto, che conserva il proprio potere qualunque sia stato il percorso che ne ha dato origine. Può darsi che ad un transattore torni utile instaurare transazioni reiterate con le stesse controparti, nel qual caso conservare l’apparenza di moralità, umanità o idealità può essere una strategia atta a promuovere altre transazioni vantaggiose. Ma questa dimensione di ‘moralità’ è un orizzonte meramente strumentale, privo di valore in sé: si può fingere la virtù come strumento per ulteriori vantaggi economici. Il fatto che il denaro consenta di conservare nel tempo, cumulare e spostare liberamente il valore economico fa sì che, nel caso dell’ottenimento di un profitto tale da non aver bisogno di ulteriori scambi, l’interesse alla coltivazione del sistema delle relazioni si possa estinguere: il transattore che si sia arricchito può sacrificare ogni elemento relazionale, prima commercialmente utile, può liberarsi da ogni apparenza di urbanità e moralità, e trasferirsi con il suo potere economico in un qualunque altrove, privo di relazioni con il suo contesto precedente. (c) Naturalmente, queste caratteristiche dello scambio competitivo e del denaro hanno effetti tanto più significativi quanto maggiore è il potere del denaro ammesso in una società, cioè quanti più tipi di beni/ servizi sono acquistabili e quanto più essenziali sono quei tipi di beni/servizi. In una società in cui la detenzione di denaro sia essenziale per l’accesso a beni cruciali come alimenti, servizi medici, servizi


educativi o diritti politici il denaro diviene, a tutti gli effetti, il potere sociale per eccellenza, ed esserne privi equivale a soccombere.3 All’estremo ideale opposto sta una società in cui tutti questi beni e servizi sono forniti in forme estranee all’acquisto monetario, ad esempio come diritto riconosciuto, come fornitura pubblica, statale, comunitaria o tradizionale, come favore reciproco, ecc. In tutte le società in cui le relazioni di mercato acquisiscono un ruolo dominante, il potere del denaro è tale da non potervi rinunciare senza perdere al contempo la propria inclusione come individuo, cittadino, ecc. Guardiamo ora all’insieme dei suesposti fattori. Il primo mostra che una disponibilità precoce di capitale potenzialmente consente un vantaggio competitivo: il denaro è il veicolo più efficace per ottenere ulteriore denaro. Il secondo fattore mostra come il denaro, come valore tesaurizzato, si svincoli dalla sua origine e possa essere reimpiegato in luoghi e tempi arbitrariamente diversi. Il terzo indica l’irrinunciabilità al guadagno monetario, pena l’esclusione sociale. L’unione di questi fattori spinge sistematicamente i transattori a dare priorità all’ottenimento di profitti individuali a breve termine. Da dove proveniamo, quali debiti morali abbiamo contratto, quali relazioni abbiamo intrattenuto, quali saranno le ripercussioni a lungo termine delle nostre transazioni attuali, come toccheranno persone e luoghi a noi distanti nel tempo o nello spazio, tutto ciò esige di essere tendenzialmente rimosso dal perseguimento di transazioni economiche efficienti. Chi si preoccupa sinceramente di sfere di valore estranee al futuro individuale a breve termine si condanna ad operare in maniera più o meno inefficiente, ed al di là di un certo livello di inefficienza la pena che si sconta è l’esclusione dal mercato prima e dal consesso sociale poi (disoccupazione, emarginazione, ecc.). Naturalmente nei meccanismi di mercato realmente esistenti sussistono sempre margini, interstizi, approssimazioni tali per cui un agente economico può permettersi talune scelte eticamente svincolate dall’ottimizzazione economica.

Ma il punto da tener fermo è che le tendenze strutturali, anche se lasciano margini di libertà, operano in maniera pervasiva sui grandi numeri, inducendo una restrizione degli orizzonti morali, umani, assiologici. Ogni indirizzo che non si conformi a questa tendenza finisce per avere l’onere della giustificazione, sempre più faticosa, mentre la massimizzazione individuale nel breve termine finisce per essere serenamente accolta come ovvia incarnazione della razionalità. 1.2 L’erosione dei legami soggettivi Il quadro tratteggiato qui sopra ha alcuni corollari che è importante sottolineare in modo distinto. Innanzitutto bisogna sottolineare l’effetto che un sistema generalizzato di scambi competitivi (“capitalismo”) ha sul livello medio delle relazioni interpersonali. Qui abbiamo a che fare con due livelli di influenza. Il primo, che riguarda i sistemi sociali dove vige un elevato tasso di concorrenzialità, comporta la creazione di ostilità indotte dalla competizione stessa. Finché la competizione riguarda attività e finalità in cui una ‘sconfitta’ non rappresenta un’eventualità drammatica, la competizione può preservare relazioni di mutuo riconoscimento tra competitori, come accade nella competizione ludica o negli sport non professionistici. Ma nel momento in cui la competizione ha in palio fattori irrinunciabili per l’esistenza fisica e sociale la concorrenza tende a perdere ogni aspetto ‘sportivo’ e a risultare incompatibile con ogni forma di mutuo riconoscimento. Quanto più accesa la competizione, tanto maggiore l’induzione di comportamenti moralmente ed umanamente discutibili. Sul piano individuale, in un sistema di mercato generalizzato, solo la capacità sanzionatoria della legge preserva la concorrenza economica dal degenerare in conflittualità aperta e prevaricazione. Questo fattore va però combinato con un fattore ulteriore, di incidenza etica ancora più ampia: in contesti dove il potere del denaro è grande, il fatto che esso conferisca il suo potere a chiunque lo detenga, qualunque sia il modo in cui ne sia venuto in possesso, opera come un radicale


1.3 La dissoluzione dei legami oggettivi Un terzo aspetto del movimento disgregativo tacitamente prodotto dalla dominanza dei meccanismi di mercato è rappresentato dalla dissoluzione di tutte le forme di legame e lealtà di ordine tradizionale e territoriale. Nelle società dove lo scambio competitivo è (o era) marginale la sfera del riconoscimento personale e la sfera dell’appartenenza comunitaria e territoriale giocano (o giocavano) un ruolo fondamentale. Qui, la propria identità, il proprio progetto di individuo e la possibilità che esso abbia effetti al di là dei limiti della propria esistenza finita dipendono

dal riconoscimento interpersonale e dalla capacità di inscrivere i nostri atti in una tradizione culturale, eventualmente modificandola. In tutta la storia umana, con l’eccezione delle recenti società a dominanza mercatista, la continuità delle relazioni personali, delle attività specifiche di produzione, interazione, scambio, così come le possibilità incarnate nel proprio ambiente naturale e storico sono stati elementi essenziali perché il singolo agente potesse ottenere una collocazione sensata nel mondo. La natura del denaro in quanto fondamentale mezzo di produzione (capitale) tende a dissolvere tutto ciò. Le ragioni sono facilmente identificabili: il denaro può spostarsi in modo libero, ed oggi idealmente istantaneo, in qualunque luogo del mondo dove chi lo possiede ritenga di metterlo meglio a frutto. Ma nei sistemi di mercato sviluppato il capitale è anche il fattore di produzione fondamentale: esso decide dove e cosa si produce. Perciò, nel momento in cui il denaro può spostarsi liberamente nel mondo per cogliere le migliori opportunità di creazione di profitto, tutti gli altri fattori di produzione sono spinti ad avere altrettanta mobilità, e se non accade ciò viene letto come una ‘rigidità’ (un’inefficienza) del mercato. Supponiamo di avere un capitale X da investire in un’attività produttiva, ed i luoghi {a, b, c} dove poterlo investire; se sono pienamente libero di muovere il capitale, posso insediare in un certo momento t1 la produzione in (a), che mi garantisce le condizioni di massima resa (minore costo di produzione); se nel momento t2, per ragioni di tassazione e/o rivendicazioni salariali, e/o costi dell’energia, ecc. i costi in (a) crescono significativamente posso spostarmi in (b), che presenta condizioni migliori in t2. Se (a), (b) e (c) non sono nelle condizioni di accordarsi per imporre una cornice produttiva comune, ma accettano il gioco competitivo, liricamente decantato come panacea universale dai maggiori protagonisti della professione economica, ne segue fatalmente una progressiva erosione delle condizioni produttive locali. Di volta in volta, potendo spostare liberamente il capitale, in quanto fattore

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fattore di degrado etico. Se l’esercizio del potere economico è tale da potersi convertire in potere senza aggettivi, la detenzione di potere economico scalza o almeno subordina tutti gli altri giudizi di valore personale. Chi abbia agito virtuosamente, ma si ritrovi del tutto privo di potere economico (nullatenente) viene anche implicitamente deprivato di ogni autorevolezza sociale. Chi al contrario abbia ottenuto potere economico, quand’anche ciò sia avvenuto in forme dubbie, immorali, o semplicemente accidentali, ottiene per ciò stesso prominenenza, rispetto e riconoscimento. Il denaro è una via al potere, alla libertà e al riconoscimento che dipende esclusivamente da una condizione de facto in cui un agente (proprietario) si trova, non dunque da meriti o demeriti, virtù o vizi. Aver vinto i soldi alla lotteria, averli ereditati, rapinati, ottenuti vendendo droga o organi, ricavati come esito di una speculazione finanziaria, ricevuti come contraccambio di servilismo o di corruzione, o averli invece guadagnati con l’onesto lavoro di una vita, ciò è del tutto inconferente quanto al risultato. Il fatto che di per sé un semplice passaggio di mano di un limitato volume di carta possa ‘cambiare la vita’ di qualcuno è un fattore socialmente eversivo, che alimenta in modo potente criminalità e corruzione.4 È difficile esagerare la portata eticamente disgregativa di questo banale ed onnipresente carattere delle società di mercato.


fondamentale per la produzione, gli agenti economici dotati di capitale possono esercitare una pressione continua sugli altri fattori di produzione in direzione di una massima restrizione delle loro pretese: richieste salariali, tutele contrattuali, tassazione statale, ecc. In alternativa è l’attività produttiva stessa a poter essere trasferita e la forza lavoro ha come sola opzione la mobilità territoriale, cioè inseguire le opportunità di lavoro ovunque si presentino (inclusa dunque l’opzione migratoria). La mobilità dei capitali ha dunque come corollari una pressione verso la minimizzazione di salari ed introiti statali (tassazione), verso l’allentamento dei vincoli contrattuali, per poter variare rapidamente l’impegno produttivo in un luogo (precarizzazione, flessibilizzazione) ed una spinta alla mobilità territoriale del lavoro, emigrazione inclusa. Naturalmente questa condizione di perfetta mobilità dei capitali è una condizione ideale, che non è mai perfettamente attuata: ci sono sempre alcuni costi, più o meno significativi, per effettuare un trasferimento della produzione, e questa è l’unica ragione per cui salari e tasse non sono uniformate ovunque al minimo livello planetario. La pressione continua in questa direzione è tuttavia un tratto caratterizzante dei sistemi con dominanza delle relazioni di mercato. I flussi di migrazione economica, le delocalizzazioni industriali e la riduzione delle risorse statali sono gli effetti più frequenti (ed in via di intensificazione) di questa tendenza. 1.4. Insicurezza come esito del convergere degli effetti del primo movimento Se proviamo a dare uno sguardo d’insieme all’intreccio dei fenomeni di cui sopra possiamo notare come tutte queste modifiche del tessuto relazionale (storico, interpersonale, ambientale) convergono in un unico esito complessivo: la percezione di insicurezza, nell’intera pluralità delle sue accezioni, ne esce costantemente incrementata. Abbiamo una riduzione di sicurezza lavorativa, con le spinte alla mobilità, al precariato e alla flessibilità. Abbiamo una riduzione di sicurezza fisica e patrimoniale dovuta all’intensificarsi

degli aspetti predatori e criminogeni nella società. Abbiamo una riduzione di sicurezza culturale, legata ai mutamenti indotti dalla mobilità migratoria e alla riduzione di risorse pubbliche a sostegno del patrimonio culturale ereditato. Abbiamo una riduzione di sicurezza esistenziale, dovuta al logorarsi della continuità tradizionale ed intergenerazionale in cui gli individui agiscono. L’uomo che una società a dominanza mercatista tende a produrre è un uomo isolato dagli altri, dal proprio ambiente, dalla propria storia, dalla propria cultura e dal proprio lavoro, un uomo alla cui libertà politica ufficialmente proclamata fa da contrappeso una condizione di dipendenza sostanziale da fattori in rapido cambiamento e totalmente al di fuori del suo controllo. Per quanto anche in altre epoche per gran parte della popolazione il controllo sui fattori culturalmente, socialmente ed economicamente influenti fosse minimo, l’impatto e la velocità con cui quei fattori producevano la loro opera destrutturante era immensamente inferiore. 2. Il secondo movimento Proviamo ora ad esaminare in breve le forme storiche in cui il movimento di correzione del primo movimento è venuto a dispiegarsi, con particolare riferimento al periodo che va dalla Prima Internazionale (1864-1876) ai giorni nostri. 2.1. Supremazia teorica e minorità pratica dei “socialismi” Il processo dinamico e disgregativo sommariamente rappresentato come “primo movimento” è stato il bersaglio della più radicale riflessione filosoficopolitica degli ultimi secoli, cioè l’elaborazione del pensiero marxista in tutte le sue diramazioni: socialista, comunista, socialdemocratica, ecc. (D’ora in poi userò prevalentemente il termine ‘socialista’ come pars pro toto, per nominare l’intera famiglia.) Anche se l’elaborazione marxiana ha dedicato inizialmente maggior attenzione agli aspetti di compressione salariale, pauperizzazione e concentrazione progressiva del capitale, l’elaborazione


avvenne in un’Europa postbellica in cui, da un lato, la credibilità dell’anticapitalismo di destra era stata azzerata dalla bancarotta delle dittature nazifasciste, e dall’altro l’esistenza di una plausibile “minaccia rossa” nell’Europa dell’Est conferiva un inusitato potere contrattuale ai partiti di ispirazione socialista, e ai relativi sindacati, in occidente. Sotto queste peculiari condizioni l’economia di mercato si mostrò realmente capace di contribuire ad una prosperità generale, ma tali condizioni implicavano che le ragioni del mercato non fossero dominanti, bensì contenute e circoscritte da istanze politiche di ispirazione sociale, comunitaria, pubblica. Con il ’68, ed in particolare dopo la “Primavera di Praga”, in occidente l’autorevolezza, attrattività e plausibilità del modello sovietico come alternativa al mondo capitalista venne rapidamente scemando. Il cambiamento di opzioni politiche in campo venne rapidamente percepito dalle classi dirigenti e convertito in iniziative che segnalavano lo svincolarsi delle logiche di mercato dal contenimento politico di ispirazione sociale. Questo passaggio può essere ben rappresentato simbolicamente dall’uscita degli Stati Uniti nel 1971 dal golden exchange standard, istituito dalla conferenza di Bretton Woods (1944): l’abbandono della convertibilità del dollaro in oro riportava la determinazione del valore della valuta nazionale al gioco globale della domanda e dell’offerta. Questa semplice mossa implicava l’abdicazione del controllo nazionale sul valore del denaro ed il suo affidamento al meccanismo dei mercati e alle loro fluttuazioni. Tutta la storia monetaria successiva, inclusa la necessità di creare una moneta europea che potesse fare da contrappeso al dollaro, risultò dipendente da quella decisione. La storia occidentale dai primi anni ’70 ad oggi è la storia di una rinnovata erosione di tutte le conquiste ottenute nello scorcio 1945-1970. 2.2 Pervasività e successo politico dell’anticapitalismo di destra Di fatto l’implementazione concreta del “secondo movimento” ha prevalentemente preso una direzione ben

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successiva ad essa ispirata ha affrontato in varia misura anche gli aspetti di logoramento culturale, tradizionale, ed ambientale. Ora, però, se dovessimo rivolgere uno sguardo retrospettivo alla storia politica del “socialismo”, inteso come movimento di correzione e rivolgimento rispetto all’opera disgregatrice dei ‘sistemi di mercato’, dovremmo trarne una conclusione piuttosto sconsolante: la storia dei “socialismi” come incarnazioni del “secondo movimento” è la storia di una sconfitta politica quasi ininterrotta. Mentre sul piano teorico il socialismo, nelle sue varie forme e con l’integrazione successiva di Keynes, è senza dubbio il modello correttivo più articolato ed autorevole a tutt’oggi elaborato, sul piano dell’implementazione politica il socialismo ha alle spalle una storia prevalentemente di protesta, resistenza o opposizione. Nessuno, infatti (se non per ignoranza o malafede) parlerebbe oggi degli esiti della Rivoluzione d’Ottobre come di una reale implementazione dell’impianto critico del marxismo. Per quanto questo equivoco sia durato a lungo (per ottime ragioni tattiche dei partiti socialisti occidentali) il “socialismo reale”, a partire dalla quasi immediata dismissione del ruolo politico dei Soviet,5 non ha mai neppure cominciato ad incarnare i ‘principi del socialismo’. L’unico periodo storico che abbia conosciuto un’influenza politica consistente, e talora dominante, dell’apparato critico socialista è stato, in Europa Occidentale, il periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale a poco dopo il ’68. Paradossalmente, questo periodo è spesso preso ad esempio dai cantori del libero mercato come dimostrazione della capacità di un’economia libera di produrre spontaneamente miglioramenti nelle condizioni economiche e nei diritti dei ceti meno abbienti. Il dettaglio che in questi resoconti viene sempre taciuto o minimizzato è che gli indubbi miglioramenti nello stato sociale e nelle condizioni generali del lavoro del periodo 1945-1970 non furono generati spontaneamente dal sistema, ma furono ottenuti nel corso di una serrata lotta politica. E questa lotta


lontana dall’elaborazione teorica marxiana. Di fatto le incarnazioni storiche più influenti dell’anticapitalismo sono state di stampo autoritario e reazionario. Per cogliere la natura tragica di questa debolezza comparativa della proposta “socialista” è utile richiamare ciò che avvenne alla sinistra europea allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Negli anni che vanno dalle contrazioni economiche degli anni 1870 al 1915 il movimento socialista europeo si rafforzò grandemente, inducendo anche governi conservatori (esemplare il caso della Germania di Bismarck) ad avviare programmi che alleviassero la condizione dei lavoratori (dalla riduzione dell’orario di lavoro ai primi sistemi di pensione d’anzianità). Nello stesso torno d’anni tutte le dinamiche erosive legate alla diffusione dei sistemi di libero mercato cominciavano a manifestare appieno i loro effetti nel mondo industrializzato. (In Inghilterra, in verità, quelle dinamiche erano avviate da molto tempo, ma limitate negli effetti più drastici dalla supremazia mondiale acquisita, con il relativo afflusso di ricchezze). La competizione industriale spingeva i paesi alla ricerca di risorse primarie e all’espansione dei mercati: entrambe queste tendenze trovarono realizzazione nella pulsione all’espansionismo coloniale. A partire dai primi anni 1870, pur continuando a crescere la produzione mondiale complessiva, la competizione cominciò a ridurre drasticamente i margini di profitto. Tale situazione di depressione ebbe effetti cospicui su proletariato e piccola borghesia, i cui esigui margini di sicurezza economica ne uscirono scossi, inducendo un deflusso migratorio massiccio dai paesi più fragili sul mercato mondiale (Norvegia, Irlanda, Polonia, Italia). Questo processo migratorio ebbe tra i suoi vari effetti anche quello di incrinare l’afflato internazionale di alcune parti del movimento socialista, soprattutto legato ai sindacati. Come scrive Hobsbawm, con riferimento alla spinta migratoria dai paesi di nuova colonizzazione: “Molti capi sindacali probabilmente ritenevano irrilevanti le discussioni sulle colonie, o consideravano la gente di colore soprattutto come una

manodopera a buon mercato che minacciava i lavoratori bianchi. Certo è che le pressioni per vietare l’immigrazione di colore, dalle quali scaturì fra il 1880 ed il 1914 la politica della «California bianca» e dell’«Australia bianca», provennero principalmente dalla classe operaia, e i sindacati del Lancashire si unirono ai cotonieri di quella regione nel combattere l’industrializzazione dell’India.”6 Se però all’immigrazione extraeuropea era possibile far fronte adducendo istanze di ordine razziale, per l’immigrazione bianca interna all’Europa e dall’Europa all’America ciò era più difficile, e creò di fatto le condizioni per un appello difensivo alle appartenenze nazionali. “Il cinquantennio che precede il 1914 fu un’età classica di xenofobia, e quindi di reazione nazionalistica ad essa, perché, anche lasciando da parte il colonialismo, fu un’età di mobilità e migrazione massiccia e, specie nei decenni della Depressione, di manifesta o sotterranea tensione sociale.”7 Ciò che è importante osservare qui è il progressivo crearsi di una convergenza storica in cui le istanze identitarie (nazionaliste e razziste) svolsero una pluralità di funzioni: furono esperite come baluardo alle pressioni migratorie, ma anche come fattore di stabilizzazione sociale rispetto ai mutamenti culturali, e come creazione di un fronte avverso alla natura transnazionale del capitale (le difficoltà economiche locali venivano attribuite, non irragionevolmente, alla competizione estera). La figura emblematica in cui tutte queste istanze conversero fu, notoriamente, quella dell’ebreo, visto al tempo stesso come straniero, razzialmente e culturalmente, e come incarnazione del capitalismo. Come notava sconsolatamente il socialista Auguste Bebel: “L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli”. Bebel, che morì nel 1913, non fece in tempo a vedere quanto poco contasse nella prosa della realtà politica avere così brillantemente ragione sul piano teorico. E giungiamo così alle porte di quell’archetipo di tutte le


entusiasmo nella piccola e media borghesia colta: “Ognuno conosce i giovani (…) che salutarono lo scoppio della prima guerra mondiale col fervore di innamorati. «Sia ringraziato Iddio che ci ha fatto vivere in quest’ora», scrisse il poeta Rupert Brooke, socialista fabiano solitamente razionale. «Soltanto la guerra», scrisse il futurista italiano Marinetti, «sa svecchiare, accelerare, aguzzare l’intelligenza umana, alleggerire ed aerare i nervi, liberarci dai pesi quotidiani, dare mille sapori alla vita e dell’ingegno agli imbecilli». «Nella vita del campo e sotto il fuoco», scrisse uno studente francese, «sperimenteremo la suprema espansione della forza francese che sta dentro di noi».”11 Ciò che lo scoppio della prima guerra mondiale e la débâcle delle posizioni socialiste ci insegna è quale sia la forza, del tutto indipendente da ragioni articolate, di risposte semplificate e dirette alle turbative generate dai processi di mercato. Una comprensione dei meccanismi che conducono alla riduzione dei margini di profitto, alla pressione competitiva sui salari, alle migrazioni, ecc. è necessariamente un’operazione mentale mediata, che richiede uno sforzo ed una qualche formazione; al contrario, l’appello diretto all’ostilità frontale verso un nemico identificabile fu (ed è) agevole ed intuitivo, scalda gli animi ed i cuori, consente il rapido crearsi di convergenze ed alleanze. Queste tendenze che condussero alla prima guerra mondiale naturalmente proseguirono la loro efficacia inerziale dopo il 1918, nella generalizzata involuzione autoritaria del primo dopoguerra, fino alla seconda carneficina, due decenni più tardi. 2.3 Un vicolo cieco della storia Per quanto le lezioni della storia implacabilmente sbiadiscano nel tempo, tuttavia l’esito catastrofico della seconda guerra mondiale ha fornito anticorpi in parte ancora circolanti nella cultura occidentale. La forma autoritaria, dittatoriale e bellicosa assunta dall’anticapitalismo nella sua versione nazifascista suscita ancora a settant’anni

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bancarotte politiche rappresentato dal comportamento dei partiti socialisti europei allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ancora nel 1912 il congresso della II Internazionale (1889-1914), riunitosi a Basilea per prendere posizione sulle recenti Guerre Balcaniche, che minacciavano di sfociare in un conflitto generale, ribadiva all’unanimità il rifiuto da parte di tutti i partiti socialisti della guerra. La lettura degli eventi storici era lucida e chiara: le maggiori nazioni industriali avevano bisogno di espandersi a scapito dei propri concorrenti e ciò si esprimeva nella forma dell’imperialismo coloniale. Il destino della sfida coloniale era il conflitto bellico, conflitto i cui eventuali benefici sarebbero stati di pertinenza delle classi dirigenti nazionali, mentre l’intero peso della guerra sarebbe ricaduto sulle spalle delle classi lavoratrici. L’interesse dei lavoratori era perciò indipendente dalla loro nazionalità, ed essi dovevano fare fronte internazionale comune contro una guerra voluta per interessi di classe travestiti da interessi nazionali. Due anni dopo, allo scoppio della guerra, tutti i partiti di impronta socialista (con la sola eccezione dell’Independent Labour Party) si schierarono con i rispettivi governi nazionali a favore della guerra. Per intendere questo avvenimento, l’appello alla categoria del tradimento, molto in voga a partire dalla contemporanea denuncia di Lenin,8 non è particolarmente utile. I partiti socialisti aderirono, controvoglia, alla guerra perché erano certi che l’alternativa fosse essere abbandonati dai propri seguaci, dal popolo, ed apparire dunque come traditori (non della classe operaia, ma della nazione). Che la loro percezione fosse corretta (ancorché deprimente) è testimoniato a sufficienza da alcuni dati: le autorità francesi, che avevano previsto una percentuale di disertori tra il 5 ed il 13% si ritrovarono con una renitenza alla leva limitata all’1,5 %;9 in Inghilterra, dove non esisteva la coscrizione obbligatoria, allo scoppio della guerra si presentarono due milioni di uomini come volontari.10 E se questo favore per il confronto bellico con lo ‘straniero’ fu diffuso tra le masse, esso raggiunse vette di autentico


di distanza un’allerta ed una diffidenza abbastanza diffuse. Per quanto aperte rivendicazioni di impianto neofascista, neonazista o affini siano sempre più frequenti in Europa, e per quanto le pulsioni nazionaliste, antieuropeiste, scioviniste e razziste siano in una fase di rinnovata espansione, esse non sembrano essere ancora capaci di cancellare del tutto la consapevolezza del loro azzardo. Tuttavia la cultura politica emersa in occidente a partire dagli anni ’70 ha portato alla luce un prodotto culturale originale, che incarna in una stessa posizione politica ciò che in passato era rappresentato da due istanze più o meno nettamente contrapposte. Con figure come Ronald Reagan e Margaret Thatcher è emersa sulla scena politica una destra politica che abbina politiche liberiste radicali sul piano economico con politiche di ispirazione nazionalista, identitaria, tradizionalista e illiberale sul piano sociale. Questa combinazione è estremamente interessante in quanto sembra operare una sintesi tra posizioni che furono proprie, nell’Ottocento, da un lato del liberalismo economico, con la sua ideologia del laissez faire, e dall’altro del conservatorismo reazionario nella sua versione populista (non dunque quella elitaria di Edmund Burke o degli Junker). Il conservatorismo classico, con il suo appello alla solidità dei valori tradizionali, al legame con la terra, all’identità storica dei popoli era stato tra ‘700 e ’800 il principale avversario delle emergenti istanze liberali, che creavano le condizioni per una mobilità generalizzata delle merci, delle genti e dei costumi. L’anima tradizionalista, agricola e fondiaria dell’Ancien Regime venne radicalmente sconfitta durante il XIX secolo dal dinamismo liberale, legato al commercio e al denaro. Essa però si reincarnò in una forma non più elitaria, ma popolare e populista nei movimenti di destra (più culturali che politici) che accompagnarono l’Europa verso la prima guerra mondiale. Questa nuova destra ripropose come spazio delle relazioni tradizionali, dei legami comunitari e territoriali, la Nazione, definita in modo accentuatamente sciovinista,

per opposizione conflittuale con le altre nazioni, considerate stravaganti, sospette ed infine senz’altro disprezzabili. A fine ‘800 tanto l’internazionalismo socialista che il transnazionalismo della grande finanza rappresentavano un bersaglio elettivo per questa nuova destra. Tali istanze sono rintracciabili con forme ed accenti poco differenti nei recenti movimenti politici, per ora minoritari, della cosiddetta “destra sociale” (British National Party, Front National, Forza Nuova, ecc.). Tutt’altro che minoritaria è invece la vera novità politica che gli ultimi decenni ci ha riservato, rappresentata non da forme più o meno note di anticapitalismo neo-nazionalista, ma dall’abbinamento di una glorificazione del libero mercato e di un arcigno conservatorismo sul piano sociale. Questa posizione appare come una sintesi politicamente potente. Essa, infatti, riesce ad un tempo a nuotare con la corrente del grande potere economico e a far tesoro dei relitti che quella corrente porta a riva. Il nome probabilmente che più si attaglia a questa posizione politica è “conservatorismo liberista” (le più comuni espressioni “neoconservatorismo” e “neoliberismo” risultano entrambe fuorvianti). Questa posizione, inaugurata da personaggi come Reagan e Thatcher, si caratterizza raramente per un’emulazione degli aspetti più aggressivamente liberisti in genere associati a quei nomi. Il cuore di quella posizione è invece rappresentato dalla propensione ad alimentare e giustificare proprio quei meccanismi economici i cui effetti disgregativi poi si pretendono di correggere sul piano morale e sociale. Il conservatorismo di cui queste posizioni politiche si fanno latrici è esclusivamente di ordine morale ed individuale: esso si propone come il giusto grado di severità e di coazione paternalistica di cui c’è bisogno per correggere i moderni tratti di anomia, individualismo, illegalità e disorientamento. Che questi tratti siano alimentati e sviluppati dal sistema delle relazioni di mercato viene sempre ignorato: al contrario, quei tratti vengono ascritti alla sorte, al fato o alla “natura umana”,


liberiste, senza necessariamente rivendicarne forme particolarmente aggressive (“thatcheriane”), giacché in un sistema di transazioni già informato dal modello del mercato autoregolantesi anche una sostanziale inerzia equivale ad una politica liberista. Invero, l’idea che la noninterferenza sia una politica economica ottimizzante è straordinariamente confortevole per chi la adotta, assolvendolo preventivamente da ogni responsabilità per eventuali fallimenti del mercato. Questa posizione strategica rappresenta a tutti gli effetti una sorta di corto circuito o vicolo cieco della recente storia politica: essa può giovarsi del supporto del grande capitale e presentarsi al popolo come severo censore dei peccati individuali; può abdicare ad ogni responsabilità di politica economica e simultaneamente scaricare gli effetti di un’economia disfunzionale sulla sfera delle responsabilità individuali (i poveri sono stigmatizzati come colpevoli della propria povertà). In sostanza può favorire indefinitamente (a livello di sistema) il prodursi di quei problemi che poi chiede di risolvere con la durezza (a livello degli individui). Il conservatorismo liberista riesce per la prima volta nella storia ad appropriarsi di entrambi gli estremi del “doppio movimento” polanyiano, portando alla luce una strategia idealmente capace di autoriproduzione illimitata. L’unico vero rischio che questa posizione corre è quello di essere spinta dalla propria demagogia a radicalizzarsi fino a sfociare in un azzeramento della politica democratica. In presenza di crisi di sistema molto accentuate il conservatorismo liberista può vedersi costretto a compiacere le pulsioni repressive e coercitive del proprio elettorato fino a livelli estremi; nulla esclude che si possa giungere alla sospensione della formalità del gioco democratico (visto come un lusso ed una perdita di tempo). L’esacerbarsi della tensione tra criticità di origine socioeconomica e pretesa di una loro correzione morale/penale può giungere fino a decretare l’inagibilità delle stesse pratiche democratiche. L’autodeterminazione democratica risulta infatti consegnata a soggetti

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intrinsecamente fragile e incline al male. È importante qui cogliere la specificità di tale posizione rispetto a quella del conservatorismo reazionario classico. Il conservatorismo reazionario, incarnato in periodo moderno dai ‘fascismi’ e poi dalle cosiddette “destre sociali”, propone una strategia che è l’equivalente occidentale di ciò che il radicalismo islamico propone altrove: si tratta di rispondere alla dissoluzione sociale della modernità “capitalista” con l’istituzione di un fuoco di sbarramento, che rigetti le relazioni economiche di mercato, ripiegando su modelli sociali che precedono la modernità: ad esempio, vagheggiando civiltà medievali o classiche, evocando il sistema delle corporazioni, ecc. Con questa mossa, idealmente, l’intera modernizzazione culturale (inclusi diritti e libertà personali) viene rigettata. Questa mossa ha una sua indubitabile coerenza ed anche, in questo senso, un’efficacia risolutiva: ad esempio, nel 1979 l’Iran di Khomeini è uscito coerentemente dalla modernità cui il timido riformismo dello Scià Reza Pahlavi lo aveva introdotto. Tuttavia tale tipo di opzione, magari travestita in occidente da tradizionalismo cristiano, non rappresenta ancora una reale insidia per i paesi europei, in quanto essa confligge troppo apertamente con elementi di indipendenza personale, benessere economico e sviluppo scientifico-culturale storicamente consolidati. Invece, rispetto al conservatorismo reazionario, il conservatorismo liberista occupa una peculiare posizione di forza proprio in grazia della propria essenziale contraddittorietà. Esso riesce ad incarnare simultaneamente entrambi i due movimenti di cui parlava Polanyi: da un lato favorisce le dinamiche del mercato e dall’altro si propone come correttivo delle ripercussioni di quelle dinamiche stesse (non riconosciute come effetti). Sul piano sociale e morale il conservatorismo liberista si caratterizza per il richiamo alla nazione, alla famiglia tradizionale, alla religione, alla repressione delle istanze libertarie e all’inflessibilità verso i reati comuni (che creano “allarme sociale”). Sul piano economico sostiene posizione


la cui inaffidabilità ed immoralità vengono deprecate su base quotidiana (senza, naturalmente, farsi carico delle radici di quei comportamenti). La tendenza del conservatorismo liberista in questa direzione è manifesta: vi è una costante propensione all’incremento della dimensione autoritaria, all’esigenza di abbreviare i tempi di decisione e di accorciare le “catene di comando” politiche; il tutto per l’ottima ed innegabile ragione che, a fronte di un mondo economico che crea di continuo situazioni di emergenza, di crisi ed opportunità, un sistema politico vincolato a pratiche formali, regole, elezioni, assemblee, discussioni pubbliche, ecc. appare intrinsecamente inefficiente e goffo. Come accade nelle situazioni di guerra, ed il sistema globale degli scambi si presenta sempre di più come una condizione di perpetua belligeranza economica, l’accentramento delle decisioni in poche mani risponde ad una ragionevole istanza di efficienza. Tuttavia uno sbocco apertamente autoritario non è nell’interesse del conservatorismo liberista, per quanto tutto tenda a condurvi. La forza del conservatorismo liberista sta nella sua capacità di giovarsi delle tendenze intrinsecamente demagogiche presenti in ogni democrazia. Svolte apertamente autoritarie interrompono il suo gioco da tela di Penelope, esponendosi alla responsabilizzazione e dunque al fallimento. Al contrario, finché è possibile giocare alternativamente sui due tavoli del liberismo economico e dell’apparente correttivo conservatore, la strategia in questione è virtualmente imbattibile quanto ad accreditamento popolare. Occasionalmente una classe dirigente può essere abbastanza impresentabile da perdere le elezioni, ma ciò non sottrae a quella strategia la sua collocazione vincente. Lo spettro dell’intero dibattito politico rimane dettato da quell’agenda anche quando non sono i partiti che ufficialmente si riconoscono nel conservatorismo liberista a governare. In assenza della capacità dei sedicenti “progressisti” di far passare una reinterpretazione complessiva degli eventi

(reinterpretazione fatalmente più complessa e meno intuitiva), le sinistre si condannano a presentare la medesima classificazione schematica delle destre post-thatcheriane, solo in versione dimidiata: un pizzico in meno di mercato, un pizzico in meno di conservatorismo, ed il gioco è fatto. Come sempre, tuttavia, l’originale risulta alla lunga più convincente della sua riproduzione sfocata. 3. Una sinistra non “progressista” come riapertura del vicolo cieco Il vicolo cieco rappresentato dalla collocazione strategica del conservatorismo liberista deve essere visto come sintesi politica di un’oscillazione storica più generale. L’esistenza di forze conservatrici-liberiste rappresenta solo una soluzione politica originale (e di successo) per un vicolo cieco di portata storica più ampia, che coinvolge le principali dinamiche che dagli anni 1870 portano alla prima guerra mondiale e dal 1970 alla crisi presente. La storia non si ripete mai identica e, grazie al cielo, non sembra che una guerra mondiale sia alle porte, ma il persistere del modello organizzativo del mercato generalizzato sembra stia riproducendo negli ultimi decenni (su scala più estesa) precisamente i medesimi problemi che condussero un secolo fa alle guerre mondiali ed ai totalitarismi. Le esigenze strutturali di crescita dei sistemi economici esercitano la loro costante pressione sui costi di produzione (contenendo i salari), sulle risorse statali (riducendo le pretese fiscali) e sulle risorse ambientali (sfruttandole come fonte di materie prime e ricettacolo di scarti). I vincitori in questo gioco globale sono sempre vincitori provvisori, che non possono smettere di correre, pena la perdita della supremazia. I perdenti relativi a maggior ragione sono chiamati a cedere le ultime resistenze (vestigia dell’episodio 1945-1970) e a mettersi a correre sul piano della concorrenza internazionale, pena l’impoverimento, la marginalizzazione, l’implosione sociale. Rispetto ai decenni che precedettero la prima guerra mondiale oggi il gioco internazionale degli scambi ha un maggior numero di protagonisti,


la mobilità dei capitali è infinitamente superiore, il logoramento ambientale è molto più intenso, mentre la fiducia dei singoli paesi di poter sconfiggere i principali competitori manu militari è scomparsa (per quanto ciò non escluda l’uso della forza militare verso stati periferici). Come queste diverse variabili possano mescolarsi nel suggerire strategie politiche non è sempre facile da scorgere, ma la nascita di partiti conservatori liberisti è certamente una di queste strategie, come si può vedere mettendone in luce due fondamentali corollari: ɑ) Questi partiti rigettano come un falso problema, o ignorano senz’altro, le tendenze degenerative del sistema economico globale, liberando così il discorso pubblico proprio dal fattore che più di ogni altro è divenuto ingestibile sul piano delle politiche nazionali.

Queste disposizioni politiche consentono di conservare la società in un perenne “caos ordinato” e di “guidarla”. Guidarla, un po’ come la ruota nella gabbia “guida” l’affannosa corsa del criceto. Il quadro qui presentato è piuttosto sconsolante, ma non è un invito alla rassegnazione. In effetti, esso ci può dare anche qualche indizio circa la direzione, io credo l’unica direzione, da cui un’efficace alternativa politica può emergere. I suoi estremi sono di semplice definizione, la loro implementazione lo è molto meno. In generale, si tratta in primo luogo di prendere sul serio i problemi cui

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β) Al tempo stesso questi partiti affrontano gli effetti di disgregazione sociale e culturale, riconducendoli a questioni di ordine morale o penale, trattabili sul piano delle responsabilità individuali. Così facendo essi possono incarnare alcune istanze delle destre post-fasciste, presentandosi simultaneamente come argine alle loro istanze più apertamente aggressive, xenofobe e belligeranti, ed evitando così il deterioramento dell’aggressività internazionale in aperto (ed inconclusivo) conflitto.

il conservatorismo liberista fornisce la sua soluzione, ed in secondo luogo di operare per mutarne la percezione nel discorso pubblico. Quanto al punto (ɑ), una forza politica che volesse provare a farci scendere dalla nostra ruota di coscienziosi criceti inurbati dovrebbe innanzitutto riproporre al discorso pubblico, in forma aggiornata, il tema dei problemi strutturali del sistema economico. Le tendenze sistemiche delle dinamiche di mercato, quando diventano dominanti, hanno implicazioni non particolarmente ambigue: esse sono socialmente esiziali a breve termine, fatali allo stesso funzionamento del mercato a lungo termine. Su questo punto l’abdicazione del pensiero di matrice socialista è stato, ed è, imbarazzante. Chi ritenesse che le critiche di fondo ai meccanismi dello scambio capitalistico formulate da Marx e da Keynes siano state in qualche modo confutate sul piano teorico si sbaglierebbe di molto. Sotto questo punto di vista, lo stato dell’arte dell’economia politica non è significativamente difforme oggi da quello dei giorni d’oro della sua influenza politica (gli anni ’60). Ad essere cambiata, e di molto, è invece l’attrattività pubblica e la persuasione privata delle classi dirigenti eredi di quelle tradizioni. Il venire meno del supporto retorico e psicologico rappresentato dall’esistenza di una sorta di “socialismo realizzato”, per quanto impresentabile, è risultato fatale alle classi dirigenti di ascendenza socialista, la cui inadeguatezza culturale, prima ancora che politica, rimane uno delle più grandi ombre nella recente storia civile europea. La rimozione o negazione di ogni significativa problematicità alle transazioni di mercato è un punto di possibile fragilità del conservatorismo liberista. Tale rimozione è tuttavia facilitata dalla difficoltà per parti ampie (e di nuovo crescenti) della popolazione di intrattenere un discorso di ordine astratto, quale che sia. Tacendo i problemi strutturali e sottolineando gli interventi di natura individuale e morale, il conservatorismo liberista produce una semplificazione che sfocia in esercizi populisti e demagogici. Cionondimeno, la dipendenza


da eventi macroeconomici di problemi locali e personali è spesso troppo evidente perché la sua rimozione dal discorso pubblico non presenti difficoltà. Il caso della presente crisi finanziaria è in ciò esemplare. Su questo terreno un partito politico che fosse capace di riappropriarsi in forma aggiornata (anche linguisticamente) del patrimonio d’analisi che fu delle lezioni marxiane e keynesiane potrebbe avere significativi margini di manovra. Questo orientamento non è controintuitivo, trattandosi di aggiornare un’eredità culturale che, sia pure in forme minoritarie, è rimasta in vita sulla scena politica della sinistra europea. Meno intuitiva è la trasformazione richiesta da una presa in carico delle istanze sollevate dalla posizione (β) di cui sopra. Ritenere che le istanze di ordine identitario, tradizionale e “conservatore”, nel senso letterale del termine, siano estranee ed opposte alla visione storico-strutturale dei “socialismi” è un grave errore. Lasciare queste tematiche nelle mani di forze di destra, che le trasformano sistematicamente in questioni di ordine pubblico o di indignazione reazionaria, significa fraintendere il senso profondo della critica di ascendenza marxiana al capitalismo e significa anche rendersi incapaci di interpretare istanze autentiche della popolazione. Come il costante emergere di queste pulsioni nella storia ci ha segnalato, le istanze di preservazione e difesa della dimensione tradizionale, territoriale e comunitaria non sono meri “errori culturali”, accidenti della storia e della cultura, atavismi che possano essere superati con balzo elegante da uno sguardo cosmopolita e disincantato. Per quanto apprezzabile sia la capacità culturale di relativizzare quei fattori e di vederli su di un piano non provinciale, aperto e non difensivo, non si deve credere che esista un accesso diretto alla “cittadinanza del mondo” che non passi dal sentirsi a casa propria in un luogo, un territorio, una comunità, una tradizione, un linguaggio. La preservazione di questa dimensione di prossimità e stabilità è sempre un valore, in qualunque società

ed in qualsiasi tempo. Il diffuso senso di insicurezza e minaccia, che la destra capitalizza nelle forme che abbiamo detto, non può essere affrontato con l’atteggiamento paternalistico di chi invita a considerarli pregiudizi o errori culturali. Qui in effetti incontriamo un autentico fattore ostativo all’evoluzione della tradizione dei “socialismi”. In questa tradizione l’autoidentificazione come una forza “progressista” ha una storia radicata, legata tra l’altro a quell’alleanza con la ragione positivista e con il progressismo di fine ‘800 che possiamo rintracciare già in Engels. Cosa precisamente sia incluso nella natura di una forza “progressista” è raramente reso esplicito, ma le sue più o meno vaghe connotazioni ne delineano un carattere modernizzante, scientista ed eracliteo, disinteressato all’eredità storica e proiettato verso il futuro. Questa visione, dimentica ùdel radicamento storicista della lezione marxiana, ha avuto considerevole diffusione nella sfera politica dei “socialismi”. Il “progressismo” tuttavia è una patologia per il pensiero di ascendenza socialista. È una patologia in quanto il suo dinamismo tutto proiettato verso il futuro smarrisce l’intera dimensione antropologica e storica, essenziale all’elaborazione marxiana, e con ciò perde anche ogni sensibilità verso i temi dell’identità storica, del senso della comunità, del radicamento in una tradizione, del riconoscimento personale “faccia a faccia”. Questi temi “comunitaristi”, se siamo forzati a collocarli nella casella dei “progressisti” o in quella dei “conservatori” sono destinati fatalmente a finire nella seconda. E tuttavia essi si integrano perfettamente nell’“umanesimo storicista” di ascendenza marxiana, condividendone l’avversione per la natura entropica e disumanizzante delle relazioni promosse dal liberismo. Il pensiero “socialista” non può permettersi di giocare il futuro contro il passato, l’internazionalismo (o cosmopolitismo) contro le identità (locali, nazionali, ecc.), l’industrializzazione contro il territorio, perché ciò finisce per assimilarlo al liberismo. Così facendo il pensiero socialista finisce per concludere


Nota biografica Andrea Zhok (Trieste, 1967) si è formato presso le università di Trieste, Milano, Vienna ed Essex. Ha insegnato Filosofia della Storia, ed è attualmente docente di Antropologia Filosofica, presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Tra la sue pubblicazioni monografiche ricordiamo Intersoggettività e fondamento in Max Scheler (1997), Fenomenologia e genealogia della verità (1998), L’etica del metodo. Saggio su Ludwig Wittgenstein (Mimesis, 2001), Il concetto di valore: dall’etica all’economia (Mimesis, 2002), Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (2006), La realtà e i suoi sensi (2012).

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la propria parabola giocando l’individuo contro la comunità, l’interesse a breve termine contro la storia, l’industrialismo contro l’ambiente. Una forza politica che si voglia mettere nelle condizioni di far uscire la società occidentale dal vicolo cieco in cui si trova, ed in cui il conservatorismo liberista prospera, deve togliere a quest’ultimo il terreno sotto i piedi; e ciò può avvenire solo in due modi. Da un lato, in coerenza con la tradizione della sinistra europea, deve rimettere in primo piano l’analisi sistemica delle relazioni di mercato, denunciandone le costitutive criticità. Dall’altro, discostandosi in parte dalla tradizione della sinistra europea, deve fare spazio ad istanze “comunitariste”, “conservatrici” nel senso, ad esempio, in cui sono conservatrici le istanze di difesa dell’ambiente (l’unico ambito in cui questa sintesi tra tradizione “conservatrice” e sinistra abbia fatto prove di conciliazione). Questo secondo aspetto del “secondo movimento” di Polanyi non ha le sue ragioni d’essere in questioni di natura meramente tattica, per quanto tatticamente esso sia conditio sine qua non per un successo politico effettivo. Il punto essenziale da intendere è che prendersi cura sul piano strutturale (e non individuale-repressivo, come nella versione di destra) del disorientamento, della paura sociale, dell’insicurezza d’orizzonte delle popolazioni non è una concessione all’isteria e al pregiudizio, ma la dovuta tutela di tratti umani profondi ed ineradicabili. Prendersene cura in modo strutturale, sistemico, e simpatetico, e non fomentando logiche xenofobe, repressive, moraliste e dogmatiche, non è solo una buona tattica, ma è soprattutto il segno di una visione del mondo omprensiva e degna.


1 – Polanyi K., La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Torino, Einaudi 2000, p. 170. 2 – Ne Lo spirito del denaro e la liquidazione del mondo (Jaca Book, 2006) ho fornito quattro esempi storici macroscopici di questa tendenza (pp. 171-284), ben prima del suo imporsi moderno come sistema globale e come ideologia. 3 – Il locus classicus di questa considerazione sul potere del denaro come mediatore universale di ogni altro potere è rappresentato dalle pagine sul denaro nei Manoscritti economicofilosofici del 1844 di Marx. In tempi recenti un’analisi volta a mettere a frutto quelle intuizioni è presente nello splendido lavoro di Michael Walzer, Spheres of Justice (1983). 4 – Il nesso tra ruolo dominante delle relazioni monetarie e sviluppi corruttivi e criminali è intuitivo e parte del senso comune, ma chi volesse riferirsi ad analisi più strutturate può vedere Mc Lean B.D., The Political Economy of Crime, Prentice-Hall, Scarborough 1986; Rider B. (a cura di), Corruption: the Enemy Within, Kluwer, The Hague 1997; Young J., The Exclusive Society, Sage Publications, London 1999. Con particolare riferimento al passaggio (legale o illegale) del potere economico in potere politico si veda anche Phillips K., Wealth and Democracy, Broadway Books, New York 2002. 5 – I Soviet, consigli elettivi dei lavoratori, avrebbero dovuto rappresentare la fondamentale cellula organizzativa democratica dell’URSS dopo la Rivoluzione del 1917. Di fatto, in parte per le condizioni di guerra

perduranti, in parte per scelta politica, il ruolo dei Soviet venne rapidamente compresso, fino ad essere del tutto svuotato con l’ascesa al potere di Stalin (1924). Il venir meno del ruolo dei Soviet a soli sette anni dalla Rivoluzione d’Ottobre segnala l’abdicazione integrale della dimensione democratica, essenziale al socialismo di origine marxista. 6 – Hobsbawm E., L’età degli imperi. 1875-1914, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 85. 7 – Ibid., p. 176. 8 – Lenin (Vladimir Ilic Ulianov), Il socialismo e la guerra (1915) 9 – Hobsbawm, op. cit. p. 372. 10 – Ibid., p. 127. 11 – Ibid., p. 220.


La proposta cosmopolitica di Isabelle Stengers di Anna Longo

cosmopolitico”, uno spazio che si produce in maniera immanente ogni volta che pratiche diverse – uguali in ogni luogo dal punto di vista del valore ma non equivalenti dal punto di vista della specificità – contrattano diplomaticamente un divenire comune. Prima di entrare nei dettagli dell’ecologia delle pratiche, è il caso di chiarire che la proposizione cosmopolitica non ha nulla a che vedere col cosmopolitismo Kantiano. Quest’ultimo si inserisce in un progetto di pace universale basato sul riconoscimento, da parte di ciascuno, di un diritto valido per tutti e razionalmente fondato. Quest’ideale istituzione di una verità universale rispetto alla quale operare l’esclusione di saperi e pratiche non conformi è proprio quello che Stengers vuole evitare. La nozione a cui fa riferimento è in effetti quella di un cosmo che non può essere riassunto in una totalità generalizzabile: la sua verità non è concettualizzabile in una teoria unitaria, ma corrisponde alla stessa molteplicità di differenze irriducibili attraverso le quali si costituisce. Se l’ordine cosmico kantiano si basa sul sillogismo disgiuntivo,1 ovvero sulla necessità di affermare o questa, o quella rispetto ad alternative egualmente possibili, il cahosmos (per riprendere il termine guattariano) di Stengers si fonda sull’articolazione e sulla risonanza di serie divergenti, che non possono venir ridotte ad un denominatore comune, ma la cui differenza incommensurabile deve essere affermata in una sintesi disgiuntiva. Nella prospettiva ecologica proposta, allora, lo scopo non è quello della selezione della teoria che deve trionfare sulle altre in un regime di guerra, ma si tratta piuttosto di considerare lo specifico di ogni pratica come l’occasione per l’attualizzazione di un divenire collettivo

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Isabelle Stengers, professore di filosofia delle scienze all’Università libera di Bruxelles, si è distinta per l’originalità del suo approccio filosofico sin dal 1979, anno di pubblicazione di La nouvelle alliance, opera d’avanguardia scritta a quattro mani col premio Nobel per la chimica Ilya Prigogine. Partendo dall’irreversibilità del tempo implicata dagli studi più recenti sulle strutture dissipative, i due autori mettevano in discussione le frontiere tra la scienza e le altre discipline umanistiche, facendo della creatività un denominatore comune della natura e del pensiero. Appassionata lettrice di Whitehead e Deleuze, Stengers ha continuato il suo percorso interrogando le pretese autoritarie della scienza, cercando di delineare un approccio costruttivista in cui la pratica sperimentale è legittima per la sua portata creativa di stimolo per il pensiero. Nascono così i due volumi L’invention des sciences modernes (Stengers 1993) e Science et pouvoir: faut-il en avoir peur? (Stengers 1997), nonché la proposta di un pensiero speculativo capace di metter fine alla guerra dei saperi e ad aprire ad una “ecologia delle pratiche”. È principalmente di quest’ultima fase che ci occuperemo, prendendo in considerazione i sette volumi di Cosmopolitiques (Stengers 2003), senza dimenticare La sorcellerie capitaliste (Stengers e Pignarre 2005a) e Au temps des catastrophes (Stengers 2009). La proposta di Stengers ci sembra particolarmente rilevante nel quadro del tema di discussione scelto quest’anno in occasione dell’incontro annuale del Laboratorio politico, Ovunque…gli spazi della politica, in quanto si tratta di costruire l’ipotesi di un “parlamento


di tutte le pratiche. In questo senso la differenza è ciò che forza il pensiero a pensare, a creare un possibile di complicazione e risonanza tra serie divergenti che non poteva essere progettato in anticipo, che non corrisponde alla soluzione universale di convergenza auspicata da alcuna teoria ad esclusione delle altre. Nell’ambito della proposta cosmopolitica ogni pratica è una soluzione singolare ad un problema specifico che non può essere messa in equivalenza con nessun’altra, ma il cui valore deve essere considerato su un piano egalitario. Non si tratta quindi di stabilire una verità rispetto alla quale imporre la tolleranza di credenze ritenute ingenue, ma di mettere a rischio la propria verità esponendosi al problema cosmico della copresenza di pratiche irriducibili. La speculazione, in quanto realismo costruttivista, non sostiene né l’assolutezza di una verità, né la relatività della verità, ma la verità del relativo: la specifica funzionalità di ogni pratica rispetto al problema che la rende necessaria e la verità del divenire come soluzione del problema cosmico della risonanza di tutte le pratiche. Uno dei punti di partenza delle riflessioni di Stengers è il conflitto tra le scienze dure e gli altri saperi, in particolare il dibattito che oppone il sapere della fisica e quello di altre discipline circa la realtà ultima delle cose. I fisici, infatti, pretendono di conoscere la verità oggettiva della natura e, di conseguenza, di godere di una posizione privilegiata per giudicare tutte le altre “realtà fittizie” costruite dall’uomo, comprese quelle delle altre scienze. Secondo Stengers il problema non concerne tanto la validità del sapere scientifico, ma il fatto che questo non possa essere affermato che nell’esclusione degli altri saperi, il che, invece che favorire un divenire creativo del pensiero comporta, al contrario, un’amputazione del pensiero. Si tratta quindi di comprendere le ragioni di un tale atteggiamento al fine di proporre una maniera di pensare alternativa che non implichi la squalificazione di una disciplina o dell’altra, ma che renda possibile l’articolazione a dispetto della disgiunzione. Quello che emerge nell’analisi stengeriana della “guerra delle scienze”

è che i fisici si comportano in questo modo perché qualora rinuncino a sostenere di essere i soli a conoscere la realtà che si cela dietro le apparenze, si ritrovano privi di difese ed incapaci di resistere alla riduzione del loro sapere ad una finzione equivalente a tutte le altre. In altre parole, resterebbero vittime della stessa riduzione alla quale condannano tutte le altre “finzioni”. I fisici temono gli attacchi deconstruttivisti tipici di una certa attitudine postmoderna e per questa ragione reagiscono accusando tutti coloro che attaccano la verità delle loro produzioni di essere dei nemici della ragione (Stengers 2005b). Lo scopo dell’ecologia delle pratiche consiste nell’evitare allo stesso tempo il rischio che un sapere, in quanto legato ad un pratica, escluda tutti gli altri e che tutte le pratiche siano messe su un piano di equivalenza che ne annulla la specificità. Altrimenti detto, si tratta di considerare ogni pratica nella propria unicità, proprio come ogni specie vivente non può essere considerata equivalente a tutte le altre, e di conseguenza normalizzabile secondo un criterio universale, benché ciascuna debba essere considerata uguale alle altre dal punto di vista del valore. La nozione di ecologia intende pensare il cosmo come il luogo dove le diverse pratiche sono evocate le une in presenza delle altre non sulla base di una qualche comunanza o convergenza, ma come differenze irriducibili che evolvono senza che nessuna possa rinunciare alle obbligazioni che ne fanno la specificità. Si tratta di considerare ogni pratica come la soluzione ad un problema particolare e il divenire di questo cosmo come la soluzione immanente al problema posto per l’esposizione reciproca di tali differenze. Stengers deplora quindi l’attitudine dell’economia politica capitalista, che tende a far ricorso agli esperti, ai teorici, per operare delle vere e proprie amputazioni del pensiero, affermando la verità di una teoria che rappresenti il punto di vista privilegiato rispetto al quale giudicare tutte le altre finzioni. Il problema della “guerra delle scienze” è quindi implicato in quest’attitudine moderna: il sistema capitalista tende alla produzione


stabilire la verità mettendo a confronto i discorsi di esperti legittimati a parlare in nome del tutto, bensì, l’obiettivo consiste in una convocazione di tutte quelle pratiche che non possono essere ridotte ad un discorso teorico sulla verità ultima. Nel parlamento cosmopolitico ci si deve far sensibili al fremito di quanti rifiutano di ridurre la propria pratica ad un discorso universale, di quanti si ritrovano impossibilitati ad aderire ai discorsi sul vero senza per questo essere in grado di produrre un discorso da opporre. L’ansia silenziosa di quanti temono che l’affermazione di una verità universale, di una teoria ufficiale, squalifichi le loro pratiche è ciò a cui, in tale prospettiva, si deve prestare attenzione. È a questo proposito che Stengers introduce la figura dell’idiota, personaggio concettuale creato da Deleuze per indicare colui che non sa aderire al buon senso della maggioranza sentendosi obbligato da qualcosa di più urgente, che non saprà mai ridurre ad un discorso che segue le norme del discorso razionale ufficiale. Allo stesso modo in cui il personaggio di Dostoevskij non riesce ad adempiere ad alcun progetto, spinto dall’ansia che ci sia qualcos’altro di più importante, nell’ecologia delle pratiche l’idiota non riesce ad aderire ad alcun progetto comune e fa rallentare tutti gli altri, offrendo così l’occasione di interrogarsi sull’universalità effettiva del progetto proposto. La sua funzione è quella di creare un interstizio, di sollevare il dubbio circa la possibilità che sia possibile parlare in nome del cosmo escludendo le differenze di cui lo stesso cosmo si costituisce. La sua silenziosa mancanza di adesione è un sottrarsi al gioco che obbliga ad esprimersi, a ridurre la soluzione specifica ad un problema singolare ad una teoria generale, la quale, una volta espressa, può facilmente venir confutata o, al limite, tollerata come una finzione innocua, come un’ingenua credenza equivalente a tutte le altre. Il problema cosmopolitico, pertanto, non è un problema la cui soluzione è la scelta di un’alternativa a pretese universali rispetto ad un’altra espressa negli stessi termini, ma è il problema dell’articolazione di pratiche particolari che non possono

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di una guerra a cui seguirà certamente la pace dove troneggerà, solitario, il vincitore. In risposta la speculazione ricerca una soluzione diplomatica, una pace che non implichi la soppressione degli avversari ma un divenire comune. Non si tratta di obbligare all’espressione teorica le varie pratiche in un combattimento a colpi di prove e nel nome della verità, ma di tenere in considerazione che soltanto ciò che diverge può comunicare. Per quanto riguarda la guerra delle scienze, allora, non è questione di dotarsi del potere di affermare la verità della propria conoscenza contro tutte le altre, lo scienziato non è colui che può arrogarsi il diritto di parlare in nome delle cose, ma il ricercatore è colui che nell’ambito del problema inedito che pone al proprio oggetto, diviene con questo in una reciproca creazione. Non si tratta di sapere se le particelle subatomiche sono la realtà ultima, ma di concepire il modo in cui si delinea un problema nel corso del quale una certa pratica fa esistere e divenire il ricercatore e l’oggetto, mettendo l’uno in presenza dell’altro: a cosa ci obbliga la presenza delle particelle subatomiche? In questo senso la buona pratica scientifica non è l’affermazione di una verità assoluta, ma ciò che forza il pensiero ad una creazione immanente ad un problema specifico. Il problema cosmopolitico, allora, non riguarda la scelta della teoria vera, ma la verità della copresenza di pratiche diverse, non equivalenti ma egalitarie. Nella prospettiva dell’ecologia delle pratiche, la scienza non conosce la verità ultima della realtà, ma contribuisce a quella creazione collettiva che è la verità di un cosmo in nome del quale nessuno è autorizzato a parlare perché non costituisce né un’unità, né un’identità, ma una molteplicità di situazioni di territorializzazione sempre rimesse in gioco da movimenti di relativa deterritorializzazione. Nell’ottica dell’ecologia delle pratiche il valore di una teoria scientifica consiste nel suo saper stimolare tale dinamica creativa piuttosto nella sua efficacia di esclusione, ovvero di amputazione del pensiero. Nel parlamento cosmopolitico immaginato da Stengers non si tratta di


essere generalizzate. Come lo scrivano Bartleby del racconto di Melville, l’idiota sussurra “I would prefer not to” ogni volta che gli viene chiesto di aderire ad un progetto che il senso comune giudica universalmente buono e, per questo, normativo. Egli è spaventato dalle “buone ragioni” non perché le giudichi false, ma perché non vi riconosce la soluzione del proprio problema particolare, al quale solo una pratica non universalizzabile e non comprensibile al di fuori di confini territoriali specifici può rispondere. Nell’ambito della proposta cosmopolitica, pertanto, non sono i pareri dell’esperto che devono essere ascoltati e giudicati, ma ci si deve rendere sensibili al silenzioso timore dell’idiota, del praticante in nome del quale nessuno è autorizzato a parlare: nessuno può comprendere fino in fondo le obbligazioni determinate da un problema che non è il suo. È in questo modo che il cosmo viene convocato in presenza, non come un’identità teorizzabile in un unico discorso vero, ma come una molteplicità di differenze, di problemi e soluzioni singolari e irriducibili. Il problema cosmopolitico è il problema della compresenza di tali pratiche singolari, problema la cui soluzione è un rischioso quanto imprevedibile divenire del cosmo: creazione di un’inedita modalità di articolazione basata da operarsi per sintesi disgiuntiva piuttosto che per esclusione. Nel parlamento cosmopolitico la figura dell’esperto, normalmente convocata per operare delle scelte tra teorie a pretesa universale, deve quindi essere sostituita con un’altra figura che assume una rilevanza particolare nell’ambito del pensiero speculativo di Stengers: il diplomatico. Il suo mandato non è quello di mettere gli altri davanti ad alternative esclusive: o così, o la guerra. L’arte della diplomazia mira invece a creare una soluzione inedita di comunicazione tra obbligazioni divergenti, nell’ambito della quale espone quelli che rappresenta ad un divenire “ecologico” con gli altri, senza che questo implichi la perdita della specificità. A partire dalle condizioni particolari di un problema di irriducibilità di pratiche coesistenti, la proposizione

diplomatica mira ad una soluzione creativa e mai definitiva. Sono le differenze stesse, nel loro determinare un problema specifico, a forzare il diplomatico a pensare, ovvero a lasciare che il possibile di una pace si attualizzi come soluzione provvisoria di sintesi disgiuntiva, di articolazione non esclusiva. Il diplomatico non parla in nome degli altri, ma, in un certo senso, tradisce sempre quelli che rappresenta perché piuttosto che garantire la preservazione della loro identità minacciando l’annientamento altrui, opera per una trasformazione dei praticanti che lo hanno nominato. La soluzione diplomatica è un’esposizione rischiosa in quanto comporta il divenire di tutte le pratiche coinvolte. In questo senso Stengers compara la diplomazia alla chimica: si tratta di trovare il modo di attivare il contatto tra i vari elementi in modo da facilitare una reazione il cui esito non è prevedibile in anticipo ma che, certamente, non implica la distruzione di alcun atomo coinvolto. Nell’ambito della diplomazia non si negano i confini culturali, ma si opera per costruire un’inedita articolazione dei territori al fine di produrre quella speciale modalità di guerra che Stengers chiama “possibilità della pace”. La pace diplomatica non implica la sottomissione di tutti alla ratifica che ha saputo imporsi, il implicherebbe un’uniformizzazione delle specificità culturali e dei territori, ma è un regime dove le differenze continuano a sussistere in un nuove articolazioni di risonanza. “La pace dei diplomatici” non è l’assenza di conflitto, ma è un regime di guerra del tutto speciale dove il sussistere del problema determina un divenire collettivo che conserva le singolarità. La pace del diplomatico, potremmo dire, è una pace creativa invece che il risultato di una distruzione, di un’amputazione del pensiero. Una pace che non è mai definitiva in quanto il problema cosmico della molteplicità non è risolto ma conservato come ciò che solo può forzare il pensiero a pensare, che può causare nuove creazioni: ovvero garantire quel divenire che è la verità di un cosmo inteso come insieme di differenze piuttosto che come identità unitaria.


È in questo senso, allora, che: Au terme « cosmopolitique » correspond ce qui n’est ni une activité, ni une négociation, ni une pratique, mais le mode par où s’actualise la coprésence problématique des pratiques: l’expérience, toujours au présent, de celui en qui passe le rêve de l’autre.2

Nota biografica Anna Longo è dottore in filosofia estetica all’Università Paris 1 – Panthéon Sorbonne. Si occupa dei rapporti tra estetica e scienza. Ha co-diretto i volumi Il divenire della conoscenza, Tempo senza divenire, Breaking the Spell, Speculative Realism under Discussion.

2 – “Al termine “cosmopolitico” non corrisponde né un’attività, né una negoziazione né una pratica, ma la modalità attraverso la quale si attualizza la compresenza problematica delle pratiche: l’esperienza, sempre al presente, di colui attraverso il quale passa il sogno degli altri.” Stengers 2003, vol. 7, p. 96.

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Di conseguenza, il parlamento cosmopolitico è definito da Stengers come quel luogo sempre delocalizzato che esiste ogni volta che si costituisce un “noi” che non si identifica con l’identità di una soluzione, ma con l’esitazione in quanto problema. È il luogo dove si produce il “noi” a partire dal quale non si affermano né il vero, né il giusto assoluti, ma dove ogni verità ed ogni giustizia sono “fabbricate” come soluzioni di problema posto ogni volta da condizioni particolari, ovvero “causati” da condizioni ogni volta singolari. Lo ripetiamo, non si tratta né di stabilire una verità universale, ne di rendere ogni verità equivalente a qualunque altra, ma di affermare la vérità del relativo: l’irriducibilità delle soluzioni implicate da problemi incommensurabili. Il pensiero speculativo proposto da Stengers, quindi, ha lo scopo di salvare, contro tutte le parole d’ordine che presuppongono una gerarchia ed un giudizio, tutti quelle “forme di vita” alle quali, in ogni epoca, possiamo essere sensibili. È un pensiero che non procede in nome di una verità che avrebbe il potere di produrre esclusioni, ma che procede nell’immanenza dell’obbligazione che esso stesso fa esistere: far risuonare le differenze in un processo creativo il cui divenire è la verità del cosmo.

1 – Ricordiamo a questo proposito che l’idea della ragione che in Kant prende il nome di Dio, altro non è che un principio di selezione disgiuntiva delle determinazioni.


Una nuova messa in opera dei concetti politici Caterina Croce

Nell’ottobre del 2013, dopo l’ennesima strage di uomini e donne al largo di Lampedusa, il Presidente del Consiglio Enrico Letta ha dichiarato: “Quei morti sono cittadini italiani”. Un’affermazione che ha suscitato non poche polemiche per via del paradosso, velato di ipocrisia, che sembrava sollevare: in assenza dello ius soli, se si nasce in Italia, non si ha diritto alla cittadinanza italiana; però, se si muore in Italia, vengono organizzati i “funerali di stato” e viene proclamato il “lutto nazionale”. I fatti di Lampedusa – di quell’isola che non c’è1 sospesa nelle acque del Mediterraneo – non fanno che esibire in forma drammatica le aporie della politica attuale, una politica che deve far fronte al venir meno del suo spazio specifico, la polis come universum dell’identità e dell’appartenenza2. Infatti, come ha spiegato Jacques Derrida, oggi si assiste a una “deterritorializzazione del politico” che implica una “decomposizione dello Stato come sovranità legata al dominio del territorio” (Derrida, Stiegler 1997, p. 87). Questo fenomeno ci obbliga ad abbandonare “l’orbita della filosofia politica di tradizione platonica” (Derrida 2001, p. 11) in direzione di “un’altra messa in opera dei concetti di ‘politica’ e di ‘mondo’”3. Dinnanzi al venir meno del nesso tra Ortung e Ordnung4 – e dunque del territorio in quanto strumento di delimitazione di un dentro e di un fuori dotati di un preciso orientamento politico – la filosofia politica tradizionale, basata su una concezione territoriale della polis, sembra perdere credito. Se è vero, dunque, che oggi assistiamo a una “espropriazione” (Derrida, Stiegler 1997, p. 87) e a una dissociazione del territoriale e del politico, l’unità di

ordinamento e localizzazione che trovava espressione compiuta nella forma-Stato appare ormai superata e inadatta a render conto dei flussi deterritorializzanti che percorrono e perturbano la politica attuale. Quando Derrida parla della “filosofia politica di tradizione platonica” allude a un pensiero di tipo normativo che pretende di ispirare l’azione politica. I viaggi di Platone in Sicilia non sono che le prime e ancora maldestre espressioni di quella millenaria “tentazione di Siracusa” che porterà i filosofi a credere di poter “divenire gli ispiratori, i consiglieri, i teorici del sovrano” (Derrida 2001, p. 9). Potremmo osservare come la “filosofia politica di tradizione platonica” sia inoltre riconducibile al tentativo di fondare la politica ricorrendo alla forma del concetto: alla pretesa, cioè, di ricondurre il caos inestinguibile del contingente al paradigma imperturbabile dell’ordine attraverso la costruzione di un sistema ideale. Cos’altro è la Repubblica platonica se non il tentativo di sottrarsi alle turbolenze della vita associata per dotare la polis della migliore costituzione possibile? In effetti, la questione che tradizionalmente viene posta al cuore del pensiero politico greco è proprio la definizione istituzionale del miglior regime (così come il liberalismo moderno sembra gravitare attorno al riconoscimento dei diritti e dei doveri dell’individuo). Michel Foucault tuttavia, soprattutto nei suoi ultimi corsi al Collège de France, suggerisce che sia possibile tornare al pensiero politico greco adottando punti di vista differenti. Per esempio, la questione della parresia (del dir-vero, della libertà di parlare con franchezza) permette di illuminare un modello agonistico della politica il cui problema principale non è la definizione


non viene identificato né con la dimensione pubblica, né con la dimensione privata, ma con un luogo terzo che si profila come soglia di articolazione dell’opposizione tra le due. Il dehors cinico, nelle analisi di Foucault, si profila come un’esteriorità radicale che non coincide con la sfera pubblica ma anzi finisce per contestare il partage che la oppone al privato. Come scrive Frédéric Gros, « Ce ‘dehors’ des cyniques déstabilise l’opposition traditionnelle du privé et du public, car il s’agit là finalement de deux cercles clos, renfermés sur eux-mêmes, et protégés du grand dehors » (Gros 2011, p. 71). In questo senso, rifacendoci all’orizzonte categoriale foucaultiano, potremmo dire che il dehors dei cinici si delinea come una nozione eterotopica che ha il potere di destabilizzare le topie tradizionali: né pubblico né privato, il dir-vero dei cinici si colloca in quello spazio altro che rende porosi i margini delle geometrie convenzionali. Va detto che la problematizzazione dello spazio è un motivo ricorrente della ricerca foucaultiana, un motivo che si impone almeno con la stessa frequenza con cui emerge la questione del tempo. Anzi, nella conferenza tenuta nel 1967 al «Cercle d’études architecturales»8, Foucault in un qualche modo gioca lo spazio contro la storia: se l’epoca che ci ha preceduto è stata indubbiamente l’epoca della Storia, l’epoca presente sarebbe piuttosto l’epoca dello spazio. Foucault accenna ad una storicità cha va dissolvendosi sotto la pressione di una rete di punti interconnessi – di incroci, prossimità e lontananze – organizzata attraverso la logica della simultaneità, più che della durata9. L’analisi dello spazio e dei suoi punti di applicazione – l’urbanistica, l’architettura degli edifici disciplinari, l’Altro come figura della lontananza – si rivela dunque una direttrice fondamentale per studiare i dispositivi di sapere e potere. Nella conferenza del ’67 dedicata alle eterotopie, Foucault si dichiara interessato a quei luoghi capaci di “sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti” (Foucault 1998, p. 310) che organizzano e definiscono

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statica dell’assetto istituzionale, ma il gioco di potere dinamico che si istituisce tra pari: tra uomini che conquistano o perdono il proprio ascendente nell’oscillazione instabile tra soggettivazione e assoggettamento, resistenza e sottomissione, governo di sé e governo degli altri5. Se già all’interno del repertorio di Platone sono rinvenibili temi e istanze che moderano o addirittura sconfessano il portato prescrittivo dei dialoghi6, Foucault nel suo ultimo ciclo di lezioni (Il coraggio della verità) sembra più interessato a raccogliere e rilanciare motivi provenienti dalla filosofia cinica. Una corrente filosofica di grande interesse nella misura in cui pare estremizzare il canone platonico fino a produrne un rovesciamento parodistico. I cinici, spiega infatti Foucault, riprendono un tema tipico della riflessione socraticoplatonica, quello della vita vera (dell’alethes bios), estrapolandolo tuttavia dal corpo “iperuranico” della filosofia tradizionale per iscriverlo nella carne del bios. Il principio dell’alethes bios trova espressione in concrete pratiche di vita che, proprio facendo dell’esistenza il luogo di esposizione della verità7, appaiono inconsuete, brutali, difformi. Vite altre in rottura con le tradizioni, le abitudini e le convenzioni. È in questo senso che Foucault definisce la filosofia cinica come “le miroir brisé” della filosofia antica: uno specchio che ci restituisce un’immagine scomposta e scarmigliata di una filosofia indicizzata al mondo vero delle Idee. Ma allora, nel tentativo di raccogliere l’esortazione di Derrida ad articolare una “nuova figura di alleanza tra filosofia e politica”, potremmo rivolgerci proprio alla filosofia cinica: potremmo, cioè, frugare nel suo arsenale alla ricerca di spunti e suggestioni che ci permettano di pensare a una politica che ha perso il proprio ancoraggio all’universum composto e conciliato della polis. In particolare, nel contesto delle nostre riflessioni, può rivelarsi interessante la nozione spaziale di dehors: un fuori eterogeneo rispetto all’oikos e all’agorà che viene promosso a luogo specifico del dir-vero filosofico. Nella formulazione cinica, infatti, lo spazio della filosofia


le topie tradizionali: quegli “spazi altri” dissonanti rispetto ai regimi spaziali in cui abitualmente siamo immersi. Le eterotopie, infatti, danno asilo al deviante e all’eccedente, accolgono e giustappongono l’inconciliabile, favoriscono l’eterocronia di un tempo in rottura con la temporalità convenzionale. Per il loro carattere inquietante10, straniante e perturbante le eterotopie hanno il potere di mettere in discussione la mise en ordre delle parole e delle cose, dell’esclusione e dell’inclusione, del vicino e del lontano. In questo senso, mi sembra che l’esteriorità in cui si esercità il dir-vero del cinico rappresenti emblematicamente l’aspetto eterotopico delle resistenze: adottando una terminologia deleuziana, potremmo dire che, né incluso né escluso, né privato né pubblico, né familiare né estraneo, il dehors cinico attiva piuttosto un flusso deterritorializzante che apre dei varchi in quei cercles clos cui faceva riferimento Gros. L’impressione è che “il fuori” di tradizione cinica possa disegnare lo spazio eccentrico, dislocato e fluttuante in cui prendono corpo le lotte di cui Foucault parla nella conferenza tenuta in Giappone nel 1978 e intitolata La filosofia analitica della politica. Ai suoi uditori giapponesi Foucault propone la tesi secondo cui nei paesi occidentali le resistenze al potere stiano prendendo la forma di lotte diffuse e decentrate che investono problemi non appartenenti all’ambito tradizionale della politica: la morte, la malattia, l’istruzione, la penalità. Rispetto alla “rivoluzione” in senso classico – e cioè a una lotta globale e unitaria che coinvolge un intero popolo o un’intera classe sociale – le lotte attuali si dispiegherebbero lungo vettori locali e periferici che attraversano “le questioni quotidiane, marginali, rimaste un po’ in silenzio” (Foucault 1998, p. 106). Sono lotte, potremmo dire, né pubbliche né private che, originandosi nello spazio altro del dehors, contestano le forme tradizionali dell’interesse collettivo e dell’interesse privato. Locali e decentrate, queste lotte inventano e percorrono uno spazio terzo che scardina la dicotomia tradizionale tra intimità dell’oikos e dimensione politica dell’agorà. Non è un caso, io credo,

che una tipologia delle lotte evocate da Foucault nella sua conferenza sia proprio quella del movimento femminista. Un movimento che negli anni Settanta si riconosceva nello slogan il “personale è politico”, laddove si intendeva mettere in luce la portata sociale, culturale e politica di scelte fino ad allora giudicate intime e private e da sempre relegate alla presunta naturalità dell’oikos, della vita domestica. D’altra parte, potremmo osservare come la commistione tra le sfere del pubblico e del privato dipenda proprio dalla torsione biopolitica che caratterizza queste lotte. Sappiamo che per biopolitica, Foucault intendeva l’investimento diretto della vita da parte del potere: un potere che non si identifica più solo con il sovrano potere di morte, ma si occupa di potenziare la vita. Con la categoria di biopolitica Foucault intende riferirsi alla strategia politica complessa che si incarica di gestire il “vivente” facendo così della vita – proprio nella sua tenuta biologica – il principale campo di applicazione del potere. Se questa è la svolta biopolitica, dovremmo chiederci come oggi la vita sia investita proprio nella materialità del corpo. Penso non solo al corpo disciplinare e disciplinato di cui Foucault parlava già in Sorvegliare e punire (corpi individualizzati, specializzati, attivati e addestrati a una particolare attività); ma anche, per esempio, ai corpi medicalizzati, vaccinati, assicurati, immunizzati di tutti noi11: corpi, potremmo dire, presi in un “regime di salute” che prescrive forme generali di esistenza e schemi di comportamento. Perché non si tratta solo di curare, ma anche di prevenire, di migliorare, di ottimizzare: in questo senso potrebbe essere interessante riflettere sulle discontinuità che si producono nel passaggio tra una società della normalizzazione e una società dell’ottimizzazione. Di recente, Davide Tarizzo ha osservato come Foucault non arrivi a delineare lucidamente la transizione tra una società normalizzatrice, incarnata dall’uomo medio assoggettato al regime biopolitico della Norma, e una società ottimizzatrice retta invece dalla logica dell’Ottimo e impegnata nel potenziamento delle prestazioni12.


procreativa che risponda ad esigenze di salute e a standard di normalità. Tuttavia, potremmo anche osservare come il corpo delle donne, per alcune teorie femministe, sia stato il luogo privilegiato a partire dal quale intraprendere un’ontologia critica di noi stessi che ci permetta di decostruire i dispositivi della governamentalità biopolitica: in questo caso, i corpi non sono indagati solo nel loro assoggettamento e nel loro disciplinamento, ma anche nella loro capacità affermativa di fare resistenza, di “mettersi di mezzo”. Per esempio, nell’ambito dei grandi temi bioetici che convocano e interessano la politica attuale – l’aborto, la fecondazione artificiale, la procreazione assistita – i corpi delle donne sembrano portare alla luce alcune inadeguatezze del lessico politico: prima fra tutte, la difficoltà di abbordare temi e questioni che non si lasciano ricondurre alla sintassi del diritto. Dovremmo tenere presente, infatti, che il linguaggio dei diritti fa riferimento a un’idea di libertà sorta insieme alla nozione di individuo offerta dal liberalismo moderno: un soggetto a-storico, asessuato, autonomo e disincarnato, cioè “disancorato dalla corporeità propria e del corpo che l’ha generato” (Dominijanni 2003). Un soggetto con aspirazioni universalistiche, ma che in realtà è espressione di un punto di vista particolare: quello moderno, maschile e occidentale15. In questo senso, dare la parola al corpo delle donne, a quel corpo che esperisce “l’essere due in una”, mette in crisi la tradizionale rappresentazione del conflitto intorno a “diritti” individuali che verrebbero a contrapporsi: il diritto della donna ad abortire quello alla “vita” dell’embrione; il diritto di disporre del proprio corpo da parte della donna e quello dell’embrione di venire al mondo. Il paradosso è che l’embrione si nutre di quel corpo femminile, di esso ha bisogno per venire alla luce, l’uno non esiste senza il due. E così, in questo essere “due in una”, l’attribuzione di diritti individuali non appare possibile. Studiato in questa prospettiva, il corpo delle donne potrebbe rappresentare dunque un luogo capace di generare spunti e indicazioni utili per pensare a un diverso lessico della politica:

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Foucault sembra annunciare questo mutamento nel momento in cui riflettere sulle novità attestate dall’attuazione del piano Beveridge13: non si tratta tanto dello Stato che si fa carico della salute dei suoi cittadini al fine di conservare e potenziare la forza fisica nazionale (la sua forza lavoro, la sua capacità produttiva, la sua potenza militare); quanto piuttosto della salute che diviene oggetto di preoccupazione per i singoli individui. Nel momento in cui la buona salute diventa un diritto riconosciuto, la medicina modifica il proprio statuto: nella società biopolitica interamente medicalizzata, la funzione autenticamente terapeutica perde terreno rispetto ad interventi medico-sanitari che mirano soprattutto al “benessere” degli individui. Nel momento in cui il “benessere” – e non il semplice vivere, dice Foucault – diviene il fulcro delle strategie bio-mediche, le occasioni di intervento si moltiplicano potenzialmente all’infinito. In questo senso, proprio la nozione di benessere potrebbe fare da cerniera tra società della normalizzazione e società dell’ottimizzazione, giacché suggerisce il passaggio da un intervento volto a curare la patologia deviante a un intervento che invece fa leva sull’operatività e sull’efficienza dei comportamenti. Il corpo conserva la sua posizione strategica, anche se non sarà più il corpo normalizzato, individualizzato e omologato dell’uomo medio, ma saranno i corpi potenziati dai programmi di wellness, tonificati dai regimi dietetici, modellati nei fitness-center. E tornando al tema dei movimenti femministi, a proposito dei corpi in quanto luoghi della politica, potremmo dare particolare rilievo al corpo delle donne. Da una parte, si può considerare come storicamente il corpo delle donne sia stato considerato un oggetto di cui impadronirsi, un oggetto su cui esercitare un potere di controllo e sorveglianza14; dall’altra, andrebbe rilevato come nel quadro della biopolitica contemporanea il corpo delle donne, proprio in quanto corpo generativo, si riveli cruciale per le strategie di gestione del vivente. Il corpo femminile diviene un luogo capitale cui rivolgere una domanda


una politica relazionale in cui il noi non sia l’unione contrattualistica di individui autonomi e autosufficienti, ma l’essere in comune che ci espone e ci lega gli uni agli altri nella forma dell’interdipendenza. Tuttavia, la duplicità almeno virtualmente iscritta nel corpo femminile potrebbe incoraggiare un’ulteriore riflessione sulla corporeità che ci rimanda alle nostre considerazioni iniziali. Infatti, nel pensiero politico tradizionale, il corpo – declinato al singolare e pensato al maschile – ha funzionato come potente metafora politica: per i caratteri di unitarietà e di proprietà a esso attribuiti, il corpo ha orientato il lessico e l’immaginario di una politica basata su una concezione territoriale e organicistica della polis. In questo senso mi sembra interessante l’operazione suggerita da Roberto Esposito: se nel pensiero politico moderno il corpo ha potuto funzionare come dispositivo di identificazione politica in virtù della sua connotazione potenzialmente immunitaria16, potrebbe rivelarsi opportuno esporre la metafora del “corpo politico” alla semantica comunitaria della carne. Come scrive Timothy Campbell, la nozione merleau-pontiana di chair offre ad Esposito la possibilità di “teorizzare una politicizzazione della vita che non passi attraverso la semantica del corpo, dal momento che essa si riferisce ad ‘una materia mondiale antecedente, o successiva, alla costituzione del soggetto di diritto’. Il carattere tipicamente antiimmunitario della carne favorisce ‘l’eclissi del corpo politico’ e con essa l’emergenza di una differente forma di comunità in cui l’esposizione contagiosa agli altri renda possibile una costitutiva apertura” (Campbell 2008, p. 38). E dunque se il corpo appare come il luogo del proprio, dell’organico, del chiuso, la carne può invece aiutarci ad immaginare uno spazio che sia quello aperto, esposto e slabbrato della comunità. Una comunità non più circoscritta a uno specifico territorio e garante di un’origine comune, ma una comunità globale che si dà come trama di relazione e differenziazione: un pluriversum che non si lascia ricondurre alla logica pacificante e unificante del concetto.

La carne, potremmo dire altrimenti, appare come il dehors eterotopico del corpo: un fuori che non è altro dal corpo, ma il suo confine esposto, il suo bordo lacerato. Anch’essa sembra dischiudere uno spazio terzo: né interno né esterno, né mio né tuo, né privato né pubblico. Esposito spiega infatti come la carne sia un concetto impolitico, sorto in ambito fenomenologico, che nondimeno, parlandoci dell’apertura originaria che mette ciascuno in comune con gli altri, si offre ora come la possibile forma politica attraverso cui pensare le relazioni tra il sé e l’altro, tra l’ospite e l’intruso, tra l’uomo e il suo ambiente. Sulla scorta di queste sollecitazioni potremmo tornare all’invito di Derrida a pensare a un’esperienza inedita e inaudita dell’ospitalità, garantita non tanto dal “diritto di essere ospitato”, quanto piuttosto kantianamente dal “diritto di visita che spetta a tutti gli uomini (…) per via del diritto al possesso comune della superficie della terra” (Kant 1995, p. 177). Questo riferimento alla terra come suolo comune rimanda alla semantica della carne come orizzonte della reciproca co-appartenenza: la corporeità si darebbe come comune accesso a una Lebenswelt che è già da sempre Mit-welt, a un mondo-in-comune cui noi accediamo in virtù della radice corporea e “terrestre”17 della nostra esistenza. Va osservato come per la nozione merleau-pontiana di chair si riveli decisiva la lettura del manoscritto di Husserl Umsturz der kopernischen Lehre, dove il filosofo tedesco sosteneva che l’uomo della rivoluzione copernicana avesse perduto l’idea della Terra in quando suolo originario. È la tematizzazione husserliana della terra in quanto “suolo di esperienza” (Husserl 1991, pp. 17-18) a suggerire a Merleau-Ponty una riabilitazione del sensibile che pone una “parentela fra l’essere della terra e quello del mio corpo” (Merleau-Ponty 1995, p. 122). Il nostro insediamento sulla terra, infatti, ha un carattere più profondo della semplice localizzazione fisica: esso allude al vincolo carnale che imparenta il nostro corpo-proprio al resto del sensibile. In questo senso, tanto nel rimando alla terra come suolo comune quanto nella semantica comunitaria della carne,


Nota biografica Caterina Croce è nata a Milano nel 1984. Ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Filosofia e dalla sua tesi ha tratto un libro, L’ombra di Polemos, i riflessi del Bios. Ha vissuto a Berlino, a Friburgo e a Lione. Collabora con i blog del Corriere della Sera, per cui ha scritto un ebook intitolato Il futuro in tasca, piccole storie per (r) aggirare la crisi. Da giugno 2014 è entrata a far parte della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, occupandosi soprattutto dell’attività progettuale e redazionale.

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si percepisce la tensione a contravvenire la logica escludente del proprio in nome della condivisione di un improprio cui tutti apparteniamo. Forse, è proprio in questo nesso che ci rimanda a una terra e a una carne comuni che possiamo cogliere l’indicazione più preziosa per immaginare una nuova alleanza tra politica e filosofia che ci permetta di pensare alla polis non in quanto luogo dell’origine, ma in quanto suolo originario. Originario che con Merleau-Ponty potremmo definire in “perenne esplosione” (Merleau-Ponty 1993, p. 142): e dunque non dietro di noi in un’ancestrale purezza di sangue, ma insieme e avanti a noi in una dissonante parentela di carne. Si profilerebbe così la possibilità di una nuova “messa in opera dei concetti di ‘politica’ e di ‘mondo’” (Derrida 2003, p. 140) che ci permetta di superare la visione territoriale della polis per formulare parole e pratiche capaci di far fronte a una situazione globale che sfugge alle tutele giuridiche tradizionali. Parole e pratiche che si lascino lambire e ridisegnare dai flussi di sconfinamento e sfondamento che creano dei varchi in quei “cercles clos” che identificano il pubblico con lo spazio omogeno dell’identità territoriale e il privato con l’intimità appartata e indifferente dell’oikos. Forse questi flussi, strappandoci agli assetti rassicuranti delle geometrie politiche tradizionali e rinviandoci alla terra e alla carne che abbiamo (siamo) in comune, ci permetterebbero di incontrare quelle vite che attraversano il mar Mediterraneo prima che esse ridotte allo statuto di soma18, corpi esanimi allineati su una spiaggia.


1 – Si intitolava Lampedusa, l’isola che non c’è il saggio di Federica Sossi apparso nel volume a cura di Cutitta, P., Vassallo Paleologo, F. (2007), Migrazioni, frontiere, diritti, Edizioni Scientifiche italiane: Napoli. 2 – Un’anticipazione delle aporie che discendono dal venir meno della sovranità statale-nazionale e dei diritti di cittadinanza ad essa associati è già rinvenibile nelle riflessioni condotte da Hannah Arendt attorno al tema dei diritti dell’uomo. Ne Le origini del totalitarismo Arendt illustra il paradosso che si accompagna alla nozione di diritti umani: su un piano formale essi dovrebbero essere validi per ogni essere umano, tuttavia Arendt spiega che se un uomo perde il suo status di cittadino, perde di conseguenza anche la tutela dei diritti inalienabili. Il dramma degli apolidi mostra come i diritti umani valgano solo a condizione che si venga riconosciuti da uno Stato sovrano garante del diritto: “I diritti umani si sono rivelati inapplicabili (…) ogni qual volta sono apparsi degli individui che non erano più cittadini di nessun stato sovrano” (Arendt 2004, Le origini del totalitarismo, Einaudi: Torino, p. 406). 3 – La citazione è tratta dal dialogo che Jacques Derrida intrattenne con Giovanna Borradori dopo l’attacco alle Twin Towers del 2001 (Borradori 2003, p. 140). 4 – Il rapporto di implicazione tra Ordnung e Ortung è stato tematizzato da Carl Schmitt secondo cui ogni ordinamento (Ordnung) deve fondarsi necessariamente su una localizzazione (Ortung). Il celebre saggio di Schmitt Der Nomos der Erde (C. Schmitt, Il Nomos della

Terra. Nel diritto internazionale dello «Jus Publicum Europaeum», Milano, Adelphi 1991) si apre infatti con un capitolo intitolato “Il diritto come unità di ordinamento e localizzazione”: l’autore intende segnalare il legame che collega il diritto al suolo e alla terra. Un legame che Schmitt indaga a partire dall’etimo del termine greco nomos, ricondotto ai significati di “misura” e di “misurazione”. Il nomos, tracciando nello spazio delle linee di misurazione e di demarcazione, ha un profondo legame con la spazialità (Schmitt si occupa di questi temi anche nel saggio “Nehmen, Teilen, Weiden”, in Schmitt 1972). 5 – “Credo che la parresia sia legata, molto più che a uno statuto – anche se lo presuppone – a una dinamica, a una lotta, a un conflitto. Struttura dinamica e struttura agonistica della parresia, dunque” scrive Foucault descrivendo la parresia nei termini di una dynamis, di un movimento che consente al singolo di esercitare il potere attraverso un atto di parola che lo espone pubblicamente (Foucault 2009, p. 154). 6 – Foucault fa riferimento alle Lettere, giudicate più interessanti rispetto alla Repubblica e alla produzione politica più nota del repertorio platonico, perché esse non mirano alla costituzione di uno stato ideale, ma fanno interagire la pratica filosofica con una realtà politica contingente, determinata e imperfetta. 7 – A proposito della deformazione scandalosa che i cinici applicano al concetto di vita vera, occorre tener presente i quattro grandi vettori che, secondo Foucault, articolano il concetto greco di aletheia. In modo

schematico, possiamo riassumere così le quattro forme in cui può essere detto il vero: 1) vero come non-nascosto, nondissimulato; 2) vero come puro, non alterato, non mischiato; 3) vero come diritto, non-contorto, conforme alla rettitudine; 4) vero come ciò che si mantiene stabile, identico a se stesso, non corruttibile. I cinici radicalizzano queste quattro forme del vero fino a produrne un rovesciamento paradossale: 1) la mancanza di pudore come espressione esasperata del non nascosto; 2) la vita selvaggia ed essenziale come esempio estremo di una vita che si purifica dal superfluo; 3) la vita diacritica come rielaborazione scandalosa e polemica di una vita conforme alla legge; 4) uno stile di vita simile a quello di un cane da guardia come passaggio al limite di una vita che sorveglia se stessa e non si lascia corrompere (cfr. Foucault 2011). 8 – Si tratta della conferenza intitolata Des espaces autres tenuta a Tunisi il 14 marzo del 1967 e ora raccolta nel secondo volume di Dits et écrits (2001), pp. 752-762. 9 – “Viviamo in un momento in cui il mondo si sperimenta, credo, più che come un grande percorso che si sviluppa nel tempo, come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa” (Ivi, p. 752). 10 – “Le eterotopie” scrive Foucault nelle prime pagine de Le parole e le cose “inquietano (…) perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la ‘sintassi’ e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa ‘tenere insiemÈ (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose” (Foucault

2009, pp. 7-8). In questi passaggi, Foucault par la di eterotopie per evocare il modo in cui il linguaggio può scompaginare lo spazio omogeneo e ordinato del discorso. È il caso della famosa “enciclopedia cinese” citata da Borges, che “vanifica l’e dell’enumerazione rendendo impossibile l’in in cui le cose enumerate potrebbero ripartirsi” (Ivi, p. 7). 11 – “In questo senso, dovremmo riflettere sul fatto che se ciò che fa forte uno Stato è la buona forma dei suoi cittadini, la loro capacità e prosperità, e se il loro vigore e la loro attitudine al lavoro assicurano la coesione e la tenuta statali, ciò significa che un principio di ‘salutÈ pubblica è intervenuto a precisare ulteriormente il concetto di popolazione e a completare e concludere il compito della polizia. Tutto l’asse statale viene a gravitare intorno alla dimensione di ‘cura’ e con essa il ‘bene comune, usuale nella politica, acquista una valenza sanitaria, accostandosi non solo alla promozione economica, alla tutela dello stato di salute del vivente” (Putino 2011, p. 87). Tra gli autori che hanno riflettuto sulla piega securitaria e previdenziale della biopolitica contemporanea François Ewald, L’état providence; Jacques Donzelot, L’invention du social. Essai sur le déclin des passions politiques; Robert Castel, La metamorfosi della questione sociale. Una cronaca del salariato. 12 – Tarizzo 2013, Dalla biopolitica all’etopolitica: Foucault e noi, in “Noema”, 4-1 (2013), pp. 43-51. 13 – Si tratta del programma di protezione


e assicurazione sociale elaborato durante la Seconda Guerra mondale dal rettore dell’Univeristy College di Oxford, sir William Beveridge, e considerato l’atto di fondazione del moderno Welfare State. 14 – È significativo in questo senso il titolo scelto da Barbara Duden per il suo saggio Il corpo della donna come luogo pubblico, dove tra l’altro l’autrice si interroga sulla gestione del corpo femminile che ne sollecita la docilità, la funzione riproduttiva e la medicalizzazione.

16 – Il corpo infatti – in quanto luogo dell’intimo, dell’organico, del chiuso – ha rappresentato ciò che più di ogni altra cosa meritava di essere difesa dalla contaminazione e dall’aggressione esterna. 17 – “A misura che mi innalzo nella costituzione copernicana del mondo” scrive Merleau-Ponty, “io abbandono la mia situazione di partenza (…) dimentico la mia radice terrestre” (Merleau-Ponty 1995, p. 123). 18 – Ricordiamo che

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15 – “Se si interpreta la biopolitica come un potere produttivo di soggettivazioni, non può stupire che sia al centro di molte analisi femministe. Le teorie femministe rivendicano esattamente la centralità del corpo e del genere nei dispositivi di governo delle vite, centralità occultata, rimossa, forclusa dalla teoria liberale del soggetto giuridico disincarnato. Il soggetto autonomo, titolare di diritti e di ragione legittimante, è accusato di presentarsi come una categoria neutrale alle differenze, ma di fatto portatore del regime di verità/potere paternalista e maschilista dell’Occidente” (Bazzicalupo 2010, p. 101).

la parola “soma” in greco indicava originariamente il cadavere, il corpo abbandonato dal suo soffio vitale. Come scrive Rossella Fabbrichesi, per i greci “il corpo trova coesione solo nella rigidità della morte: soma viene allora (…) colto come intero rigidamente delimitato, privato della dinamicità plastica dei suoi tratti vibranti. Resto decaduto – deceduto – della pulsione energica e vitale; cadavere, appunto” (Fabbrichesi 2013, p. 23).



Discussione

p. 76 ≥ Gianni Talamini p. 85 ≥ Mario Ambrogi p. 95 ≥ Leonardo Ebner p. 104 ≥ Mattia Gambilonghi p. 111 ≥ Gabriele Giacomini 76—77



Spazio ideologico Gianni Talamini A Renzo Poser. Guida affettuosa e cara.

Molte città hanno assunto la loro forma particolare per ragioni simboliche: la loro conformazione visibile aveva lo scopo di ispirare il timore e la memoria, come simboli del governo, della comunità, delle credenze religiose o di altri valori dominanti. Kevin Lynch, L’immagine della città, p. 240

L’architettura, e a scala diversa l’urbanistica, si compongono di forme geometriche. Tali forme sono anche, a profondità diverse, dei simboli. Susanne Langer sulle orme di Cassirer, citando Ritchie, asserisce che il pensiero è immancabilmente un processo di simbolizzazione5. È questa una facoltà tipicamente umana, che si fonda sulla differenza fra indizio e simbolo6 e che si misura nella capacità evocativa di un’entità autonoma e distinguibile – il simbolo – da ciò che è da essa rappresentato. I simboli, elementi costitutivi di ogni linguaggio, sono di diversa specie. Volendo avanzare una possibile categorizzazione, va operata una preliminare distinzione fra le idee – “irreali strutture dotate di senso” – e i “segni visibili dell’ambiente edificato”7. La linea di demarcazione appena tracciata separa anche le formesensibili dalle forme-struttura8 ed è superata dal linguaggio ogniqualvolta esso muta le seconde nelle prime. Se però la peculiarità di tale possibilità di superamento è propria d’ogni linguaggio, i modi in cui esso avviene differiscono da linguaggio a linguaggio e non sono fra loro pienamente commutabili. Per quanto concerne le arti figurative, ad esempio, la simbolizzazione – “comprensione di ciò che sarebbe altrimenti inintelligibile” – avviene in modo differente per ognuna di esse, in quanto

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Che vi sia un rapporto biunivoco fra spazio e scrittura è chiaro a partire, prima che dalle parole di Foucault, da La scrittura del dio di Borges. La formula che Tzinacàn ricerca si configura nello spazio come un insieme ordinato di simboli. Ma ciò che è facile cogliere, oltre e in relazione al rapporto palese fra codice e spazio, sono anche le asimmetriche relazioni fra scrittura e tempo e fra autore e lettore. Se, infatti, “scrivere, attraverso i secoli, ha significato subordinarsi al tempo”1, la scrittura – non quella universale ed eterna del dio, bensì quella, finita ed effimera, degli uomini – è strumento di subalternità. Decifrarla presuppone accettare regole, condividere il ricongiungersi di un simbolo al suo significato, sottomettersi alla logica di un ritorno omerico delle parole alle idee – più ancora che alle cose. A ben guardare però, come rammenta Borges nelle vesti di Tzinacàn2, l’ideale ritorno a Itaca non è un viaggio verso un luogo puntuale, bensì una peregrinazione verso l’universale3, poiché dire “Itaca” è dire tutto ciò che ha dato forma ad Itaca, gli uomini che la fondarono, quelli che lì sono vissuti, coloro i quali in quel luogo transiteranno, le rotte che la incrociano, le acque che la bagnano, il sole che l’illumina. Vi è, in altri termini, una discrasia fra la determinatezza del verbo e i suoi molteplici rimandi possibili. In altri termini ancora, la scrittura, più estesamente il linguaggio,

opera a partire da una originaria imposizione, quella dei codici o delle convenzioni utili a quella che pur sempre resta un’interpretazione4. Ciò è connaturato a qualsiasi linguaggio, non escluso quello che forse più degli altri ha con lo spazio un rapporto diretto e materiale: il linguaggio architettonico.


a “ciascuna […] spetta una diversa funzione conoscitiva”9. È merito di una particolare Scuola di Francoforte10 l’aver riportato in pari la dignità dell’arte rispetto a quella della scienza mettendo in chiaro che il compito della prima, nelle sue svariate forme, può dirsi identico a quello della seconda nella misura in cui entrambe costituiscono processi di simbolizzazione – “presentativo” il primo, discorsivo il secondo11. Muovendo da tale asserzione e considerando l’impossibilità di una traduzione esauriente di una simbolizzazione presentativa in una simbolizzazione discorsiva12 è possibile dunque affermare l’autonomia e la necessità d’essere delle diverse forme di espressione. In una formula sintetica l’architettura, così come l’urbanistica, può dirsi simbolizzazione presentativa di idee altrimenti inintelligibili. Le entità a cui l’architettura dà forma, configurazioni simboliche spaziali, diventano a loro volta dei simboli qualora si trovino a fungere da oggetto in un processo di identificazione. In termini freudiani, nel caso in cui vi sia un’adesione emotiva fra il soggetto e un determinato spazio, che scaturisca in una sostituzione rappresentativa dell’ideale dell’Io con “irreali strutture dotate di senso”, siamo di fronte allo stesso processo di identificazione di quello in cui l’ideale dell’Io sia sostituito da una o più persone13. Allo stesso modo, infatti, si può leggere una corrispondenza fra entità percettibili visivamente (simboli), ciò che essi simboleggiano (idee) e la “struttura interna” del soggetto (ideale dell’Io) che in tale configurazione spaziale trova identificazione. Un simile processo, se condiviso da diversi soggetti, è alla base della fondazione di un gruppo, catalizzatore per la coagulazione di una comunità urbana. Infatti, è proprio nella condivisione di un “sistema di simboli emotivamente uniforme” e nella “corrispondenza di atteggiamento, cioè di presa di posizione, dell’Io rispetto all’ideale dell’Io” che trova costituzione un raggruppamento che ha in comune simboli spaziali14. Architettura e urbanistica sono responsabili della traduzione in forme

spaziali di “strutture irreali dotate di senso” e possono, utilizzando il linguaggio di cui dispongono, dare forma a configurazioni capaci di generare un mutamento comportamentale in alcuni dei soggetti che fanno esperienza di tali spazi. Esistono, in altri termini, spazi che funzionano come dei contrappunti emotivi in grado di catalizzare “un vivace impegno affettivo personale”15. Ma architettura e urbanistica, per le medesime ragioni del meccanismo appena dimostrato, sono anche responsabili della formazione delle strutture psichiche dei soggetti che abbiano maturato nel corso della propria formazione una “familiarità” con esse16. Nessun soggetto, secondo Lorenzer, può sottrarsi all’influenza che le relazioni oggettuali con l’ambiente circostante – in modo “più intimo e complesso” con lo spazio costruito – hanno nella formazione delle strutture psichiche17. In tal senso quindi, non vi è spazio che possa dirsi neutrale rispetto al processo formativo e vi sono particolari conformazioni spaziali che fungono da catalizzatori di un’identificazione che è principio fondativo nel processo di coagulazione di una comunità urbana. Ad un diverso livello, apparentemente più superficiale, ma come vedremo contiguo e connesso alla relazione fra strutture psichiche, spazio costruito e coagulazione di gruppi sociali, vi è ciò che Kevin Lynch ha voluto indicare con il termine “figurabilità”18. L’appariscenza di alcune costruzioni o conformazioni spaziali è tale da sovrastare, per forza di attrazione visiva, gli altri elementi del paesaggio urbano. La figurabilità è per Lynch carattere essenziale per una città o una configurazione spaziale che possa dirsi dotata di leggibilità o – per usare la formula del noto urbanista statunitense – in cui le parti componenti il paesaggio urbano possano essere facilmente “riconosciute” e “organizzate in un sistema coerente”19. Leggibilità e figurabilità, caratteristiche percettive, sono qui da considerarsi in relazione alle forme sensibili, a ciò che San Bonaventura da Bagnoregio definisce quale “aspetto esteriore delle cose”20. Oltre all’ubicazione degli elementi urbani,


Primitivi e contemporanei, pertanto, trovano nello spazio di cui fanno esperienza le basi per la costruzione di relazioni sociali. Ma fra i due modi di relazionarsi allo spazio vi sono due fondamentali differenze. La prima ha a che vedere con lo spazio, la seconda con il tempo, entrambe si possono leggere a partire dal diverso rapporto che le due culture hanno con il mito. Le popolazioni primitive, come quella Arunta citata da Lynch, si pongono

in relazione con uno spazio a cui essi non hanno dato forma, ma che semplicemente utilizzano: il paesaggio naturale. Gli elementi costituenti tale spazio diventano i puntelli di miti tramandati oralmente, utili alla trasmissione di saperi. Nella società contemporanea, invece, lo spazio al quale i gruppi si relazionano è sovente antropico e quindi per definizione artificiale. È uno spazio costruito, caduco e in costante trasformazione. La figurabilità di cui scrive Lynch è caratteristica di costruzioni a cui l’uomo ha dato forma, così come ha dato forma agli spazi all’origine di quelle “immagini pubbliche” sopra descritte. La subordinazione fra autore e lettore sopra nominata è pertanto qui da intendersi non solo in relazione alla unidirezionalità del rapporto fra scrittura e lettura, ma anche e soprattutto in relazione al potere di cui dispongono i detentori del linguaggio architettonico. Infatti, agli autori dello spazio urbano di cui noi tutti facciamo esperienza è data possibilità di dare forma a configurazioni spaziali che per figurabilità o per forza comunicativa – proporzionale secondo Lynch alla concentrazione di associazioni che l’immagine fa scaturire25 – possono entrare a far parte dell’immaginario collettivo, influenzando la formazione delle strutture psichiche di chi con esse sviluppi familiarità e diventando, addirittura, potenziali rappresentazioni dell’ideale dell’Io. Pertanto, gli autori dello spazio urbano di cui noi facciamo quotidianamente esperienza sono, in ultima analisi, direttamente responsabili della formazione e delle strutture psichiche individuali e della conformazione di gruppi sociali che trovano la propria rappresentazione simbolica nello spazio al quale essi hanno dato forma. Mentre per i popoli primitivi la socialità si forma a partire da mitologie che sono messe in relazione con lo spazio di cui essi fanno esperienza, per l’uomo contemporaneo è lo spazio stesso, da lui modellato, ad essere potenziale artefice della formazione delle strutture psichiche e dei gruppi sociali. Fin qui abbiamo trattato dello spazio. In che cosa si misura, invece, la diversa

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sono proprio il particolare aspetto esteriore di alcuni di essi, il loro porsi in contrasto con l’ambiente circostante21, la loro singolarità rispetto al contesto a rendere tali elementi urbani significativi al punto da far sì che essi possano essere assurti al ruolo di riferimenti22. Ma la tesi più interessante de L’immagine della città – nel testo più volte abbozzata, ma mai coerentemente approfondita – pur prendendo le mosse dalla vecchia Gestalt approda ben lontano da essa e ha a che vedere con la sociologia più che con la psicologia della forma. La si potrebbe riassumere come segue: ad ogni città, o parti di essa, corrisponde una certa “immagine pubblica” comune ad un gruppo di osservatori. Tale immagine può mutare col cambiare del punto di osservazione o dell’osservatore. “Sono queste immagini di gruppo, che raccolgono il consenso fra vari strati della popolazione, che interessano gli urbanisti, i quali aspirano a modellare un ambiente che sarà usato da molte persone”23. In altri termini, esistono una serie di immaginari collettivi, “immagini pubbliche”, rappresentazioni interiori di configurazioni spaziali esteriori, comuni a molti individui. Sono proprio queste immagini condivise, “memorie” e “simboli comuni, che” – come gli Arunta dell’Australia citati da Lynch – “legano il gruppo e permettono ai suoi membri di comunicare l’uno con l’altro”24. Allo stesso modo che per le popolazioni primitive che, come gli Arunta, ancorano la propria cultura a rappresentazioni spaziali, anche per l’evoluto uomo contemporaneo è possibile cogliere “il ruolo sociale” svolto dall’adesione emotiva – familiarità condivisa da molti soggetti – a particolari spazi.


relazione che con il tempo instaura l’uomo primitivo rispetto a quello contemporaneo? Per comprenderlo dobbiamo innanzitutto chiarire la differenza che passa fra il tempo mitico e quello storico. Il primo è un tempo ancestrale, che per sua stessa natura si colloca fuori dalla storia. Il secondo, quello storico è un tempo ciclico e indissolubilmente legato alla tradizione occidentale: in essa “(e probabilmente solo in quella) il tempo storico si innesta sul tempo mitico, anzi si sostituisce ad esso”26. In questo innestarsi e sostituirsi, che coincide con la crisi dell’epos greco e con l’“impossibilità di evocare il mythos in una forma letteraria e in un contesto arrativo”27, è possibile cogliere una perdita: l’incapacità di accogliere direttamente e semplicemente l’oggetto della “mitologia”28. Il tempo dell’uomo primitivo, pertanto, è immancabilmente legato alle epifanie mitiche, mentre quello dell’uomo moderno è calato nello scorrere della storia e nella funzionale ciclicità della sua narrazione. Assunto ciò, si potrebbe quindi asserire che l’uomo primitivo forma le proprie strutture psichiche per mezzo di adesioni emotive a spazi che egli mette in relazione con il soprannaturale, con le “forme in cavo”, con “ciò che non c’è”29. Diversamente l’uomo contemporaneo struttura lo stesso processo formativo a partire da spazi prodotti nel tempo storico. Si è detto delle differenze. Ma vi sono anche delle comunanze? Vi sono o vi possono essere delle sopravvivenze del tempo mitico nello spazio storico? Forse la domanda è mal posta, forse dovremmo prima chiederci: che cosa accomuna la mitologia alla simbolizzazione operata dal linguaggio? Simbolo e mito sono campi semantici contigui i cui confini sembrano a volte sovrapporsi. La parola simbolo procede dal greco symbolon – segno – che per gli antichi era la tessera ospitalitatis, “cioé l’anello o altro contrassegno, che suoleva rompersi in due pezzi, i quali conservati da due famiglie servivano poi sempre alle persone ad esse attinenti per comprovare l’ospitalita data e ricevuta”30. Se per Bachofen il simbolo è reviviscenza di presagi31, ben più in là si spinge Creuzer vedendo in esso

una chiara manifestazione divina32. Entrambi gli autori pongono il simbolo in relazione con il mito. Bachofen considera il mito un prodotto umano che si costituisce a partire dal simbolo, Creuzer vede nel mito la “veste-ostacolo” del simbolo33. Ma se – per citare ancora Bachofen – il simbolo rinvia solo a se stesso, qual è la sua essenza? È Jung a fare chiarezza su questo aspetto accostando il simbolo alla connessione archetipica, ossia a “una connessione fra due immagini, determinata da un’emozione tale da investire pienamente, con profondità ed evidenza, la psiche umana”34. La cesura storica che avvenne con la crisi dell’epos greco è perciò, secondo Jesi, da mettersi in relazione con la cacciata da quello che Elide definisce “il paradiso degli archetipi”, con la perdita della primordiale ipostasi, la chiave che permette di accedere alla conoscenza dell’essenza del mito35. In questo fondamentale passaggio epocale ad imporsi è “il mythos-simbolo: la formula lessicale, la forma, che è vera nel suo “riposare in se stessa”. L’eloquio diviene enunciazione di verità”36. Ciò che giunge sino a noi, ciò che immancabilmente segna la modernità, è un materiale archetipo al quale non abbiamo accesso diretto, ma a cui il linguaggio continuamente attinge attraverso il “mythos-simbolo”. Il mito – il solo modo per afferrare le primordiali connessioni archetipiche – può essere ora solo studiato, non potendo più essere direttamente e semplicemente “accolto”37. Esso è fuga dal tempo storico, rifugio nell’“istante immobile, l’eterno presente della contemplazione”38. La sopravvivenza del tempo mitico nel tempo storico, la porta che mette i due ambiti temporali in comunicazione, è “la parola-simbolo”, luogo di “epifania mitica”. Per mezzo di quel varco, attraverso quell’apertura, possono passare mostri. Per comprenderne la natura è utile – come fa Kerényi tramite Thomas Mann39 – ricordare ciò che rileva Sorel in Reflexions sur la violence: l’enorme potere politico dei miti costruiti per le masse, il loro divenire forze storiche40. Quelli di cui scrive Sorel


non sono miti, ma esattamente i mostri appena nominati, così in Jesi: la sorte del mito, nell’istante in cui documenta il sacrificio e la perdita delle grandi epifanie in immagini, connesse con le antiche tradizioni religiose, si identifica con quella della propaganda. Dal mito del dovere, della virtù, del sacrificio, procede per generazione spontanea la propaganda politica nella sua eccezione più genuina. E a questo punto inizia, per la propaganda, anche il rischio di divenire veicolo di sopravvivenze abnormi, non genuine, mostruose e colpevoli, di miti ormai deformi – di pseudomiti41.

La città è un prodotto sociale intimamente legato al modo di produzione e riproduzione della società stessa. Sebbene sia possibile cogliere all’interno di un modo di produzione una considerevole varietà di forme urbanistiche e all’interno di diversi modi di produzione la medesima forma, è plausibile sostenere, come fa Harvey, che ad ogni modo di produzione corrisponda una forma urbanistica dominante44. In altri termini, la rappresentazione spaziale delle relazioni sociali muta al mutare delle epoche e delle condizioni

Ad ogni epoca fanno capo idee dominanti, poiché ad ogni epoca corrisponde una classe dominante la quale, disponendo dei mezzi di produzione materiale, controlla anche la produzione intellettuale. Se la produzione ideologica va intesa come ne L’Ideologia Tedesca, ossia come produzione spirituale, formazione della coscienza, sedimentazione delle idee, è facile condividere la correlazione fra essa e l’attività materiale degli uomini. Allo stesso modo, muovendo dagli stessi

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Attraverso quel pertugio, che la parolasimbolo lascia aperto, vi è la possibilità di usufruire, ai fini della propaganda politica, di una strategia che implica la coincidenza di una porzione del tempo storico con l’immobilità temporale del mito42. L’intellettuale italiano, muovendo dal concetto di macchina mitologica che mutua da Kerényi, giunge a mettere a sistema la produzione dello spazio costruito con la propaganda politica. I “simboli granitici”43 del potere che la macchina mitologica produce, tuttavia, sarebbero di per sé innocui. É solo nel riconoscimento del valore simbolico che il potere conferisce alle proprie strutture che si celebra la loro forza, è solo in questo trasferimento di senso, in questa adesione emotiva – anche se negativa –, che si attribuisce ad essi un valore simbolico. Ed è esattamente in questo modo che essi iniziano ad operare nella formazione delle strutture psichiche, nell’organizzazione sociale e politica.

e la maggior parte delle città in cui viviamo sono il frutto di moltissimi autori, spesso anonimi, e di molteplici logiche45, ma ad ogni forma di società, più coerentemente ad ogni modo di produzione, corrisponde una forma egemonica di struttura spaziale46. Il modo di produzione – ove con “modo di produzione” si intende anche la produzione delle idee, delle rappresentazioni, del linguaggio47 – della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Se, infatti, ad ogni modo di produzione corrisponde una struttura economica e sociale – quindi anche spaziale – egemone, questa è indissolubilmente correlata a un sistema di forme ideologiche (giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche), ossia ad una sovrastruttura. Ciò premesso è possibile, come fa Jesi sulla base delle tesi avanzate da Propp, arguire che esistano dei tòpoi, dei “luoghi comuni” corrispondenti ad ogni “regime sociale”48. Tali disposizioni funzionali alla struttura sono anche schemi ideologici che operano nella formazione delle strutture psichiche dell’osservatore. In termini esemplificativi, il riconoscere una città come “la città del padrone”49 coincide con la condivisione fra dominanti e dominati – per usare Bourdieu – degli stessi schemi di conoscenza e giudizio, tali per cui gli spazi della città, ai quali i dominanti hanno conferito un significato simbolico, siano percepiti dai dominati come “simboli non contingenti di potere”50. All’egemonia di alcune strutture spaziali correlate a un particolare modo di produzione procede per generazione anche una varietà di forme ideologiche.


presupposti, appare altresì evidente che la produzione ideologica non può dirsi autonoma rispetto a quella materiale. Sulla scorta di quanto già affermato, è possibile dunque avanzare la stretta correlazione fra i modi di produzione dello spazio e la struttura economica e sociale, considerare lo spazio nel suo essere un prodotto delle relazioni materiali degli uomini – niente di più rispetto a quanto già affermato da Lefebvre. Ma quando, per mezzo del linguaggio architettonico, si cerca di far passare – come è sovente successo nel corso della storia – l’indipendenza o, addirittura, il predominio dell’ideologia sulle forze produttive, siamo di fronte al tentativo di imporre una “falsa coscienza”. Ciò che accade ogniqualvolta la produzione dello spazio si fa macchina mitologica e ogniqualvolta la produzione dello spazio serve a legittimare la posizione dei dominanti, è l’imposizione di una “falsa coscienza”. Scevri da una simile produzione ideologica, i dominanti apparirebbero privi di quel capitale simbolico – per usare ancora Bourdieu – che permette loro di continuare ad assoggettare masse di dominati e di mantenere una posizione illegittima. Il prostrarsi al potere di molti fra i più noti architetti contemporanei, chini a oliare i meccanismi della macchina mitologica, è caricato di senso solo nell’istante in cui noi subiamo il fascino dei simboli granitici che essa produce. La macchina mitologica di cui parla Jesi è, in ultima analisi, una macchina ideologica. I simboli granitici che essa produce sono spazi ideologici. L’utilizzo dell’architettura e dell’urbanistica con un tale scopo ideologico è particolarmente rilevante in alcuni periodi del tempo storico. Ci sono, infatti, alcuni periodi di “crisi sistemica” che coincidono con il passaggio di consegne fra due diverse potenze egemoni ove avviene una sorta di generale rivoluzione51, tale da dare forma ad un diverso equilibrio planetario e a nuove connessioni di tipo economico che a loro volta accompagnano un riassetto dei processi di produzione materiale della vita. Siamo ora in uno di questi periodi e questo risulta chiaro

dall’osservazione, oltre che degli scambi economici, anche dalle forme che assume la produzione spaziale52. In questi periodi di caos sistemico come quello attuale, architettura e urbanistica sono potenti strumenti nelle mani dei dominanti. Nel caos a noi contemporaneo sono mezzi di un capitalismo di rapina che ammalia masse di sfruttati con il potere espresso dalle sue fantasmagoriche creazioni, come mirabolanti torri di Babele in mezzo al deserto (es. il Burj Khalifa di Dubai o lo Shard di Londra). Nell’ultimo quarto di secolo il mondo ha subito uno straordinario turbamento, che ha portato al rivolgimento di equilibri che si credevano stabili, alla vanificazione di antichi confini e all’erezione di nuovi. Lo spazio è profondamente mutato, così come il nostro rapporto con esso. Un cittadino europeo ora può liberamente vagare entro un’area – l’area Shengen – ben più ampia di quella circoscritta dai propri confini nazionali, senza che gli sia richiesto di dimostrare la propria identità, ma nel frattempo si sono eretti altri limiti, come quelli che separano gli spazi delle nostre città. Così il Mediterraneo è diventato un confine a volte insormontabile e i suoi approdi meridionali ospitano incresciosi centri di detenzione. Troppo spesso si tessono le lodi della rete e della sua liquidità53 e si vuole ignorare il suo essere strumento biopolitico di controllo totale e le retoriche populiste che la celebrano. Ci autoconfiniamo in ghetti spinti dalle paure che quotidianamente i media ci impartiscono a mezzo di pseudomiti. La Jugoslavia è stata smembrata in brandelli a tutt’oggi pieni d’odio e di risentimento e lo stesso processo di balcanizzazione è avvenuto più ad oriente, in quello che era noto per essere il ventre molle dell’Unione Sovietica. I nuovi confini che segnano quei territori sono arbitrari dispositivi spaziali, messi a sistema con una produzione architettonica ed urbanistica piegata alle logiche di dominanti, che legittimano il proprio potere per mezzo degli pseudomiti che architettura ed urbanistica veicolano. Correva l’anno 2010, mi trovavo ad Osh. C’era il coprifuoco. Una grande parte della città era stata da poco data alle


La macchina mitologica diviene un congegno pericoloso sul piano ideologico e politico, anziché soltanto un modello gnoseologico provvisoriamente utile, quando ci si lascia ipnotizzare da essa. Dunque: quando ci si lascia subire la sua indubbia forza

fascinatoria – quando si accetta la sua esortazione: “non badate tanto al mio modo di funzionare, quanto alla mia essenza”1. Nota biografica Gianni Talamini, architetto, ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Urbanistica presso lo IUAV con una tesi sulla città asiatica sotto la guida di Bernardo Secchi. Attualmente è ricercatore post-dottorato presso l’HIT di Shenzhen. Da tempo interessato alla relazione fra spazio e potere, ha a lungo studiato le recenti mutazioni spaziali dell’Asia Centrale. Da architetto ha lavorato a progetti interdisciplinari nel campo dell’arte e dell’architettura, quali quelli realizzati per “The Snow Show” Kemi-Rovaniemi (2003-2004) e Torino (2006), con Tadao Ando, Daniel Buren, Zaha Hadid, Arata Isozaki, Paola Pivi, Kiki Smith, et al. Ha inoltre condotto il restauro del Padiglione Finlandia di Alvar Aalto alla Biennale di Venezia (2012). 84—85

fiamme. Gli sfollati superavano i centomila. Diverse centinaia avevano trovato la morte in modi orribili. Sui muri delle case si leggeva ancora “Sart”, antico vocabolo locale per indicare gli stanziali54. Ero di fronte alle tangibili conseguenze di un pogrom. Gruppi di invasati di etnia kirghisa avevano imbracciato le armi e nel corso di tre notti avevano depredato e poi messo a fuoco le case e gli esercizi commerciali di coloro che erano semplicemente colpevoli, pur avendo la cittadinanza kirghisa, di essere di etnia uzbeka. Raggiunsi il vicino confine. Pensavo a quel dispositivo spaziale che stavo per attraversare, che vent’anni prima era presente solo sulla carta e che ora era la leva che aveva fatto degenerare un odio che trovava fondamento in uno pseudomito. Pensavo alla vile propaganda politica che di quel vecchio pseudomito aveva fatto nuovo uso. Pensavo ai regimi totalitari che governano quelle lande desolate e alla propaganda spaziale che serve a legittimare il loro potere55. Pensavo al mostruoso mito dello Stato. Pensavo a quello che lo scorta: al mito della globalizzazione e a ciò che essa aveva veicolato. Giunsi alla vicina frontiera, anche quella data in pasto alle fiamme. Uno sparuto gruppo di militari kirghisi in divisa mimetica stava appollaiato all’aperto su di uno scrittoio. A volte, quando la lingua parlata è sconosciuta all’interlocutore, i gesti diventano simboli di un linguaggio suppletivo che, come quello architettonico, è sovranazionale. Il militare, con un ghigno beffardo, muovendo avanti e indietro la mano a simulare l’atto sessuale, mi chiese: “Berlusconi i Carfagna?” Il tempo immobile del mito era calato, per un istante, nel tempo storico di Osh. Ma nella tragedia che in quell’apertura si era consumata, esattamente nel punto in cui il mito dello Stato ha uno dei suoi simboli più efficaci, il confine, trovava spazio – forse per automatismo psichico? – il mito deforme di un potere immorale.


1 – Foucault M., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis, Milano 2001, p. 33. 2 – Borges J. L., L’Aleph, Feltrinelli, Milano 1992, pp. 114-120. 3 – “Considerai che anche nei linguaggi umani non c’è proposizione che non implichi l’universo intero; dire “la tigre” è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra” (Ibid.). 4 – La storia della filosofia è colma di speculazioni sull’interpretazione, sull’arte della stessa – ermeneutica – o sulle particolari declinazioni – come l’esegesi – che essa può assumere. Non serve all’economia di questo breve testo inoltrarci in un campo così lungamente e profondamente indagato. Ci basti qui sapere, semplicemente, che la determinatezza del linguaggio non sta esclusivamente nel linguaggio in sé, ma dipende, immancabilmente, dalle modalità della sua recezione. 5 – Langer S. K., Phylosophy in a New Key, New American Library, New York 1948, p. 49.

La terra si rivolta, Mimesis, Milano 2015, pp. 218-220.” 9 – Lorenzer A., op. cit., p. 97. 10 – Quella del Sigmund Freud Institut che fa capo al pensiero di Alexander Mitscherlich. 11 – Ibid. 12 – “È ovvio che una parte del linguaggio semantico dell’architettura può essere tradotto nel linguaggio delle rappresentazioni discorsive, come quando in una chiesa gotica interpretiamo come trascendente mancanza di peso il verticalismo, il dissolversi della parete in un duplice involucro spaziale trasparente, la dinamizzazione della della luce per mezzo di vetrate colorate. Tuttavia il linguaggio dell’architettura non è mai pienamente traducibile in comunicazioni verbali, allo stesso modo che non può essere tradotta in parola la musica, perché l’una cosa non può surrogare l’altra. Ogni traduzione dev’essere intesa solo come allusiva; solo frammentariamente essa può rendere riconoscibile la funzione simbolica dell’architettura” (Ivi, p. 100).

6 – Cassirer E., Philosophie der symbolischen Formen, 3 voll., WBG, Darmstadt 1957.

13 – Ivi, p. 89.

7 – Lorenzer A., “Urbanistica: funzionalismo e montaggio sociale? La funzione sociopsicologica dell’architettura”, in Berndt H., Lorenzer A., Horn K., Ideologia dell’architettura, Laterza, Bari 1969, p. 90.

16 – Ivi, p. 76.

8 – Talamini G., Lo spazio in rivoluzione, in Polverini A. (a cura di),

14 – Ibid. 15 – Ivi, pp. 79-80.

17 – Ivi, p. 62. 18 – […] “cioè la qualità che conferisce ad un oggetto fisico una elevata probabilità di evocare in ogni osservatore una immagine vigorosa. Essa consiste in quella forma, colore o disposizione che facilitano la formazione di immagini ambientali

vividamente individuate, potentemente strutturate, altamente funzionali. Essa potrebbe venir denominata leggibilità o forse visibilità in un significato più ampio, per cui gli oggetti non solo possono esser veduti, ma anche acutamente ed intensamente presentati ai sensi” (Lynch K., L’immagine della città, Marsilio, Venezia 1964, pp. 31-32). 19 – Ivi, p. 24. 20 – San Bonaventura da Bagnoregio, Opera Omnia, Quaracchi (1882-1904) 1889, vol. IV, p. 393. Anche in Talamini G., op. cit., p. 218. 21 – A titolo esemplificativo, Lynch cita il caso di Piazza San Marco a Venezia ed il rapporto antitetico, ma complementare, che questo spazio instaura con l’ambiente circostante (Lynch K., op. cit., p. 92). 22 – Ivi, pp. 93-96. Il potere fascinatorio del pensiero lynchano è forse da ricercarsi nella banalità – non per questo correttezza – della tesi più volte espressa nell’opera che gli diede fama internazionale: che una città strutturata gerarchicamente e limitata in ambiti coerenti sia di più facile comprensione, concorrendo quindi a un piacere psicologico e, addirittura, a una maggiore “sanità mentale” in chi ne faccia esperienza. Lynch insiste nel sottolineare l’importanza dell’educazione dell’osservatore, insegnandogli a “vedere” la propria città (Ivi, p. 131). Non è chiaro perché l’osservatore non possa essere diversamente educato a “vedere” un paesaggio indifferenziato o “la smarginatura priva di forma” della periferia delle grandi città.

23 – Ivi, p. 29. 24 – Cfr. Porteus, S. D., The Psycology of a Primitive People, New York City, Longmans, Green, 1931 (Ivi, p. 140). 25 – Ivi, p. 115. 26 – Settis S., Futuro del “classico”, Einaudi, Torino 2004, p. 107. 27 – Jesi F., Mito, Nino Aragno Editore, Torino 2008, pp. 30-31. 28 – Kerényi K., in Jung C.G. e Kerényi K., Einführung in das Wesen der Mythologie, RheinVerlag, Zurigo 1951, p. 13. 29 – Jesi F., op. cit., p. 147. 30 – Pianigiani O., Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana, Società Editrice Dante Alighieri di Albrighi, Segati e C., Roma-Milano, 1907, vol. I, p. 400. 31 – Bachofen J., Mutterrecht und Urreligion, Kroner, Stoccarda 1954, p. 52 32 – Creuzer G. F., Symbolik und Mythologie der alten Völker, besonders der Griechen, Leske, Lipsia-Darmstadt 1819, vol. I, p. 64. 33 – Utile alla comprensione di cosa il Creuzer intendesse con “veste-ostacolo” è la differenza che egli pone fra una statua e un racconto mitico. “Ora, una statua greca non è per il Creuzer un mito, bensì un “simbolo plastico” (Cfr. Creuzer G. F., Symbolik und Mythologie …, cit.); la non-plasticità del mito, inteso come racconto mitologico, fa si che il mito stesso possa essere una veste non perfettamente trasparente del simbolo, mentre la statua è più che una veste trasparente: è il simbolo stesso nella sua nuda plasticità” (Jesi F., op. cit., pp. 67-68).


34 – Ivi, p. 140. 35 – Ivi, p. 54. 36 – Ivi, pp. 34-35. 37 – Ivi, pp. 53-54. 38 – Ivi, pp. 30-31. 39 – Kerényi K., “Dal mito genuino al mito tecnicizzato”, in Giampiero Moretti (a cura di), Scritti italiani (1955-1971), Guida, Napoli 1993, p. 113.

41 – Jesi F., Spartakus. Simbologia della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 13. 42 – Ivi, p. 15. 43 – Ivi, p. 38. 44 – Harvey D., Social Justice and the City, The University of Georgia Press, Athens-Londra 2009, p. 204. 45 – Secchi B., La città del ventesimo secolo, Laterza, Roma-Bari 2005

47 – Lefebvre, H., La produzione dello spazio, Moizzi, Milano 1976 48 – Jesi F., Mito, cit., pp. 133-134. 49 – Jesi F., Spartakus, cit. p. 38. 50 – Ivi, p.34. 51 – Arrighi G., The Long Twentieth Century, Verso, Londra, 2010. 52 – Talamini G., op cit. 53 – Un buon esempio, a questo proposito, sono le retoriche di Zygmunt Bauman. 54 – “Слово сарт, которое кочевники употребляли с нескрываемым презрением по отношению к оседлому населению и которое народная этимология объясняла как “сарык ит” (желтая собака), ныне изгнано из употребления, сейчас признается только узбекская национальность в противоположность казахской, туркменской и таджикской национальностям [La parola “Sart” che i nomadi usavano con disprezzo palese per le persone sedentarie e che si spiega con l’etimologia popolare “Saryk um” (cane giallo) ora in disuso, oggi è attribuita all’etnia uzbeka in contrapposizione con la nazionalità kazaka, turkmena e tagika]” (Bartold V. V., Сочинения [Opere Complete], Nauka, Mosca 1964, Vol. II, Parte II, p. 529); traduzione nostra. 55 – Talamini G., op. cit.

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40 – “Proponevo di chiamare miti queste costruzioni la cui conoscenza ha nella storia un’importanza tanto grande: lo sciopero generale dei sindacalisti e la rivoluzione catastrofica di Marx sono dei miti. Come esempi notevoli di miti ho dato quelli costruiti dal cristianesimo primitivo, dalla Riforma, dalla Rivoluzione, dai mazziniani; ciò che volevo dimostrare è che non bisogna cercare di analizzare un tale sistema di immagini allo stesso modo che un oggetto si scompone nei suoi elementi, ma che bisogna prenderli in blocco come forze storiche, e che soprattutto bisogna guardarsi dal paragonare i fatti compiuti con le rappresentazioni che prima dell’azione erano state accettate” (Sorel G., Riflessioni sulla violenza, in Vivarelli R. (a cura di), Scritti Politici, UTET, Torino 2006, pp. 104-105)

46 – Berndt H., “L’architettura funzionalista è veramente funzionale? Analisi sociologica di una categoria architettonica”, in Berndt H. et al., cit., p. 7.


Stabilire il confine Il territorio fragile della politica di Mario Ambrogi

«Al principio sta il recinto.» Jost Trier, Zaun und Manring C’è una vecchia storiella su Vittorio Emanuele III che ho sempre trovato molto divertente. Si racconta che un giorno, all’inaugurazione di una mostra di pittura, si sia fermato davanti ad un bellissimo paesaggio bucolico che rappresentava un paesino collinare alle pendici di una vallata. Dopo averlo osservato a lungo, apparentemente rapito nell’estasi della contemplazione, il re prese in disparte il direttore della mostra e gli chiese con aria disincantata: «quanti abitanti ha quel paese?».

antropici, un critico d’arte dalla fattezza e dalla qualità delle pennellate. Così anche, nella fattispecie (questa volta metatestuale) della nostra storiella, abbiamo privilegiato una lettura che ponesse l’accento sul legittimo carattere plurale delle famiglie di interpretazioni possibili, piuttosto che ricavarne – come ad esempio fa Eco (Eco 1994) – uno spunto divertente per introdurre il problema del patto finzionale che lega autore ed interprete. Le due interpretazioni, cioè, appartengono a due distinte famiglie di interpretazioni; la prima risponde ad una chiave strettamente ermeneutica, la seconda strutturalista-proppiana.

Da questa storiella si possono ricavare diversi spunti piuttosto interessanti. In questa sede, tuttavia, mi preme di evidenziarne almeno uno. Il medesimo oggetto – e l’ermeneutica del secolo scorso lo ha affermato molto chiaramente – non si presta «soltanto» ad infinite interpretazioni possibili, ma, più alla radice, ad infiniti universi di infinite interpretazioni possibili – chiamiamoli wittgensteinianamente famiglie – sulla base del particolare punto di vista dell’osservatore e, in definitiva, del suo specifico milieu culturale. All’interno di ciascuna famiglia di interpretazioni, allora, gli elementi che compongono l’oggetto in esame avranno necessariamente un peso ed una gerarchia diversi. Così, nella fattispecie della nostra storiella, un sovrano che sia sufficientemente materialista sarà catturato in primo luogo dal numero dei tetti che compongono il paesaggio (supponendo che questo si trovi nel suo reame), un botanico dalla varietà della vegetazione che vi è rappresentata, un urbanista dalla particolare disposizione degli elementi

Allo stesso modo, quando a leggere lo slogan di questo laboratorio sia un filosofo o un politologo, particolare peso acquisterà per lui la parola «politica», che si caricherà di una moltitudine di sensi e di prospettive di sviluppo in relazione alla specifica scuola di pensiero cui consapevolmente o inconsapevolmente appartiene ed alla propria personalissima posizione in merito alla questione politica. La sua interpretazione, cioè, sarà una tra le infinite possibili comprese all’interno di quella particolare famiglia di interpretazioni – di nuovo, una tra le infinite possibili – che attribuisce peso specifico maggiore alla parola «politica» a discapito delle altre, e che assumere tale parola nella prospettiva all’interprete più familiare, ossia quella del pensiero filosofico. Così, d’altro canto, quando a leggere sia, ad esempio, un fervente attivista cinque stelle, sarà molto probabilmente il termine «ovunque» a catturare in modo particolare le sua attenzione, ed il medesimo slogan si presterà allora ad introdurre una roboante riflessione circa le nuove


straordinarie possibilità della rete, la nobile sfida della democrazia diretta e quella tanto agognata sovranità popolare che il molto poco grillino Immanuel Kant aveva già definito perentoriamente una «espressione assurda» (Kant 1795). Quando infine – e prego di non leggere questa prolissa introduzione come apologia preventiva di un apparente fuori tema quanto piuttosto come fondamentale dichiarazione iniziale di intenti e prospettiva – a leggere lo slogan di questo laboratorio sia un architetto, come io sono, la sua attenzione sarà inevitabilmente rapita da quella magica parola, «spazio», che infinite volte ha pronunciato ed ascoltato e che infinite suggestioni – pratiche e teoretiche – rievoca nella sua mente.

Dobbiamo intenderci, in primo luogo, sul significato di ciò che intuitivamente ma sin troppo semplicisticamente chiamiamo «spazio». Che cos’è, allora, uno spazio? La storia dell’architettura ha raccolto una moltitudine pressoché infinita di spazi, eppure – a me pare – la definizione più interessante, l’universale che andiamo cercando, non è stata concepita da un

E questo è precisamente ciò che l’uomo ha sempre fatto, sin dalle sue origini più remote; stabilire, plasmare, modificare, spostare, riconsolidare confini, e, attraverso di essi, definire un’identità – comunque espressa spazialmente – che è, insieme, giuridica, politica e religiosa. Affermerò pertanto che non è possibile immaginare una dimensione politica al di fuori di una qualche forma di territorio, di un qualche principio di limite e spazialità. Mi si potrà obiettare che sono esistiti ed esistono ancora oggi popolazioni nomadi, che non stabiliscono confini e tuttavia possiedono,

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«Ovunque... Gli spazi della politica», dunque. E certamente è legittimo intendere quello «spazi» in un senso figurato – come a dire, la dimensione della politica, il suo dominio di senso –, così come intenderlo nel significato e nell’ambito più generale di un manifesto del laboratorio politico – un’occasione di fare politica. Credo tuttavia che si possa e si debba intendere anche nel suo senso più letterale ed etimologico – dal greco «stadion», «spadion» nella forma dorica. L’estensione della politica, dunque, la misura – concreta e tangibile – entro cui si definisce la possibilità di un agire politico. La domanda che mi pongo, allora, è circa il senso ultimo di quella parola, «spazio» – leggiamo pure «territorio» –, nella sua intrinseca politicità, e specularmente, circa la parola «politica» nella sua intrinseca spazialità, nella sua connaturata ed insopprimibile dimensione spaziale. Mi chiedo, dunque, qual è lo spazio della politica? È possibile pensare (e fare) politica al di fuori e al di là di una qualche forma di territorio?

architetto ma da un filosofo. Il solito Heidegger scriveva infatti: «spazio è essenzialmente ciò che è sgombrato, ciò che è posto entro i suoi limiti» (Heidegger 1952). Quando siamo all’interno di un ambiente, infatti, chiamiamo «spazio» un qualcosa che, di fatto, non esiste, e cioè il vuoto nel quale ci troviamo; vuoto che sussiste ed è identificabile e definibile solo nella misura in cui si individuino i suoi limiti – le pareti, il pavimento, la copertura. Lo spazio, dunque, coincide con e non può che essere espresso attraverso i suoi limiti. Per costruire uno spazio dovremo allora costruire dei limiti e per comprenderlo comprendere quei limiti, perché «il limite non è il punto in cui una cosa finisce ma [...] ciò a partire da cui una cosa inizia la sua essenza» (Heidegger 1952). Lo spazio della politica si può così ricondurre, essenzialmente, al limite dell’agire politico, a quel confine giurisdizionale tangibile oltre il quale la politica deve sospendere del tutto il proprio statuto di vigore e all’interno del quale essa è invece in atto come espressione totalizzante dell’identità individuale e collettiva. Si tratta, cioè, in ultima analisi, di stabilire questo confine, di identificare il dentro e il fuori, ciò che Agamben definisce lucidamente la «relazione di eccezione» (Agamben 1995), ossia quel particolare carattere proprio dell’ordinamento giuridico e politico – e aggiungeremo noi, spaziale – di costituire schmittianamente la propria essenza attraverso uno speciale rapporto escludente-includente che intrattiene con l’esteriorità.


innegabilmente, una loro identità sociale collettiva e vivono all’interno di una sfera che è certo legittimo definire politica. Eppure, a ben guardare, non mi pare che ciò sia del tutto vero. Il problema sta, ancora una volta, nel capire cosa intendiamo per «spazio» e «territorio». Certamente queste popolazioni non hanno, per definizione, un rapporto stabile e sedentario specifico con uno spazio ed un territorio. Nella loro innegabile dimensione politica, tuttavia, essi intrattengono comunque una particolare forma di relazione con lo spazio, in senso generale, che si esprime, di nuovo, attraverso il principio di confine. Tale relazione, a differenza di quella delle civiltà stanziali, è semplicemente mutevole. Se guardiamo infatti a quella particolare e in certo senso primitiva forma di urbanizzazione che è l’accampamento – sia composto di tende o di roulotte, sia quello delle antiche popolazioni mongole, degli indiani d’America, delle legioni romane o dei gruppi rom – ci accorgeremo che esso ha una struttura assolutamente definita e nella quasi totalità dei casi replicata di volta in volta in forma identica. Il campo ha cioè un proprio ordine ben determinato che rispecchia la gerarchia e la struttura sociale dei suoi abitanti, intrattiene un certo tipo di rapporto, mai casuale, con il territorio in cui è posto, ed è sempre definito da una certa forma di confine, che nella stragrande maggioranza dei casi corrisponde ad un qualche tipo di presidio. La dimensione politica delle popolazioni nomadi, allora, si esprime spazialmente nella forma del campo. Questo è il vero «territorio» della loro identità collettiva. Per quanto i confini vengano di volta in volta spostati e ridefiniti, il campo sussiste come spazialità politica del gruppo. Al di là del caso limite delle popolazioni nomadi – mi pare –, la relazione indissolubile tra struttura spaziale e territoriale e dimensione politica emerge con assoluta chiarezza nelle civiltà stanziali, e sin dai primordi della storia umana. Tale relazione ha, in origine, un rapporto strettissimo con la sfera totalizzante ed onnicomprensiva del sacro. L’archeologo ed antropologo Jacques Cauvin ha ipotizzato a questo proposito

che il passaggio nel Neolitico dalla fase nomade a quella stanziale sia avvenuto proprio in conseguenza dello sviluppo delle prime concezioni religiose (Cauvin 1994). In pratica l’uomo avrebbe iniziato a raggrupparsi in alcuni luoghi ritenuti sacri per celebrare riti collettivi – ed emerge ancora una volta il carattere spaziale della dimensione politico-religiosa –, dando inconsapevolmente avvio all’inesorabile processo di strutturazione sociale e sedentarizzazione che in pochi millenni l’avrebbe portato allo sviluppo dell’agricoltura ed alla fondazione delle prime civiltà. Cauvin sostiene cioè che l’uomo sia animale sociale e politico solo in conseguenza del suo essere animale primariamente religioso. Una conferma a questa tesi per certi versi rivoluzionaria rispetto allo studio della paleoantropologia sembra arrivare dalle più recenti scoperte archeologiche. Quello che ad oggi è considerato il più antico sito archeologico del mondo, Göbekli Tepe, nell’odierna Turchia, è un enorme complesso megalitico di templi circolari, paradossalmente isolato in un territorio dove non sono presenti tracce di coeve civiltà stanziali. Anche perché teoricamente non dovrebbero esistere. Il sito, scoperto nel 1995, è infatti datato tra la fine del Mesolitico e l’inizio del Neolitico, intorno al 9.600 a.C., periodo nel quale si suppone l’uomo non avesse ancora iniziato a coltivare e vivesse in uno stato di semi-nomadismo. Quei templi megalitici, rispetto alle nostre attuali conoscenze, rappresentano allora una straordinaria testimonianza delle prime «prove generali» di sedentarietà e forse – se seguiamo ancora Cauvin – proprio la loro costruzione ha contribuito in misura sostanziale al costituirsi delle prime forme di organizzazione sociale e politica. E quei templi sono sintomaticamente recinti sacri, cioè, ancora una volta, spazi che sussistono in quanto confini. Sino ad ora, tuttavia, restiamo nel campo della suggestione speculativa. Ma cosa accade alla dimensione politico-spaziale dell’uomo arcaico quando la civiltà è oramai fondata, quando l’identità collettiva comincia a produrre consapevolmente eziologie «di massa»? Naturalmente


Appunto, il divino. Lo spazio originario della politica è allora il santuario dell’identità sociale e culturale, il presidio ultimo della divinità benevola che ai suoi figli – e solo ad essi – promette e custodisce un territorio. Sotto questi presupposti – a me pare – nasce la civiltà. E sin dalla prima di cui si possa predicare con assoluta certezza un vero e proprio «spazio politico» nel senso che ancora oggi attribuiamo a questa espressione. Ciò è piuttosto evidente già a partire dalle prime civiltà mesopotamiche, là dove l’intrinseca sacralità del confine viene esplicitamente assunta all’interno del corpus mitologico come prerogativa fondante del contesto politico e sociale. Leggiamo infatti in un frammento antichissimo: Il servizio degli dèi sia il loro servizio: per giorni eterni per stabilire il confine, la zappa e la gerla pongano nelle loro mani, la casa grande degli dei che è adatta a sublime santuario per costruire, prato verso prato per delimitare, per giorni eterni per stabilire il confine, per far dritti i canali, per stabilire il confine, per dar acqua alla terra, per far crescere le piante, per porre le fondamenta, per stabilire il confine, per riempire i granai, [lacuna] per rendere ubertoso il campo degli Anunnaki, per accrescere l’abbondanza nel paese, per festeggiare le feste degli dèi, per libare acqua fresca nella casa degli dèi adatta ad un santuario. (La creazione da parte degli dèi, 27-51) Come per la gran parte della sconfinata mitologia mesopotamica, il frammento è attribuito in origine ai Sumeri ed assunto in seguito nel corpus Assiro e Babilonese che ce lo ha consegnato. Si tratta, cioè, di un racconto che risale con ogni probabilità ad un periodo compreso tra il 4.000 ed il 3.000 a.C., elaborato dalla più antica civiltà di cui si abbia testimonianza.

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la spazialità si fa questione teologica prima ancora che politica, e proprio a partire dal divino deriva una nuova intrinseca legittimazione. Saranno allora gli dèi stessi a stabilire e consacrare quei confini che tracciano il territorio delle singole identità politiche, giacché non si dà un noi senza un loro, non si produce comunità senza immunità all’altro-da-sé, «koine» senza uno «xenos», che sia generalizzato come «barbaros» o «gojim». Il confine diventa cioè sacro per la civiltà arcaica in quanto condizione irrinunciabile per il costituirsi di quel sé politico e collettivizzante che non può sussistere se non attraverso una forma radicale di esclusione dell’altro. L’identità di un gruppo – che è al contempo politica, giuridica, culturale e religiosa – si produce allora tramite una paradossale distinzione che per la psicologia sociale tende inevitabilmente a farsi contrapposizione. In altri termini, consapevolmente o inconsapevolmente, si costruisce il nemico al di là del confine sacro del noi per costruire o consolidare l’amico che rispetto a quel confine sta al di qua ed a quel noi appartiene. E non è un caso che lo si sia storicamente fatto soprattutto quando la coesione sociale interna sembrava venire meno, espressione drammatica ma apparentemente inevitabile del disperato bisogno politico e sociale di identificare un diverso (Eco 2011). Perché il nemico, nell’immaginario collettivo, è «alle porte»; rappresenta cioè una minaccia per il confine del nostro territorio e, in definitiva, per la nostra identità sociale e politica che su quel confine è strutturata. Minaccia che evidentemente si fa e si è fatta ancora più inquietante quando è stato individuato in seno alla società, un nemico che il confine lo ha già oltrepassato, dipinto come invisibile e subdolamente mascherato da amico, da uno di quel noi che tanto abbiamo a cuore. È quasi inevitabile, allora, che queste dinamiche di psicologia sociale si siano storicamente tradotte in una radicata e diffusissima mitologia collettiva che tende a trasferire la legittimazione ontologica di principi coesivi quali la proprietà e l’inviolabilità del proprio confine territoriale su ciò che di più sacro, inconfutabile ed incontrovertibile la società arcaica avesse di riferimento.


Notiamo innanzitutto che l’ultimo verso è riferito a tutti i versi che lo precedono e ne costituisce una fondamentale specificazione. Apparirà chiaro, allora, che la «casa grande degli dèi [...] adatta a sublime santuario» non rappresenta per l’autore un tempio specifico, quanto piuttosto l’organismo urbano nella sua interezza, ossia quello spazio che è, insieme, abitato dagli uomini e consacrato agli dèi, indistintamente politico e religioso. Tutti i compiti che assegna la divinità hanno cioè in un qualche modo a che fare con l’edificazione e la custodia della città, di quel «sublime santuario» che è per i Sumeri il confine sacro dell’abitare. Non c’è, di fatto, alcuna istruzione di carattere etico, i comandamenti esprimono piuttosto l’esplicita ed assolutamente concreta volontà divina che l’uomo dia cominciamento ad un sistematico processo di modificazione del territorio attraverso opere che oggi definiremmo di architettura, ingegneria idraulica e bonifica agricola. Gli viene espressamente richiesto, in altri termini, di porre la basi per la fondazione della civiltà. Così, ad eccezione del penultimo comandamento che è dedicato nello specifico al culto della divinità ericorda da vicino il celebre «osserva il giorno del sabato per santificarlo» (Dt. 5,12), tutti gli altri compiti prescritti sono sintomaticamente ascrivibili in uno dei due fondamentali campi semantici relativi al coltivare ed al costruire. Nel saggio «Poeticamente abita l’uomo» Heidegger scriverà infatti che «l’uomo abita in quanto coltiva e costruisce, ha ora ricevuto il suo senso autentico» (Heidegger 1954). Aggiungiamo che questo coltivare e costruire non è soltanto la forma che assume di necessità l’abitare umano, ma soprattutto, per i Sumeri, l’esecuzione di una precisa e quantomai concreta richiesta divina, e cioè quella di antropizzare il territorio in tutte le modalità che si rendano necessarie per la sussistenza ed il benessere dell’uomo. In questo senso mi pare vada letto anche il comandamento che più di tutti gli altri sembra rivestire un’importanza capitale per la divinità, tant’è che apre la lista e viene ripetuto esattamente identico per ben quattro volte, unico caso di ridondanza

in tutto il racconto. «Per stabilire il confine», recita il brano. E tale confine è certamente l’incarnazione orgogliosa di quel dentro in rapporto ad un fuori che si suppone all’epoca costituito di popolazioni nomadi e semi-nomadi, ancora prive della tecnica raffinata, dell’agricoltura, della scrittura e di tutto il corredo culturale e mitologico che i Sumeri per primi sono stati in grado di elaborare. Tale confine è certamente il presidio sacro della fortissima identità collettiva di un popolo che chiamava la propria terra ki-en-gi, «luogo dei signori civilizzati», evidentemente, ancora una volta, in rapporto a popoli che civilizzati non erano, o che civilizzati non apparivano loro. Quel confine è tuttavia ancora qualcosa di più. Sin dall’antico periodo protodinastico, nel 3.000 a.C. circa, i Sumeri suddividevano il territorio in aree di influenza governate da città-stato sul modello geopolitico che in seguito riprenderà la polis. I confini delle singole città-stato e delle relative aree di influenza erano definiti da una fitta rete di canalizzazioni che irrorava il territorio con il duplice compito di portare acqua alle numerose coltivazioni e di tracciare i confini geopolitici tra poteri indipendenti. L’atto di «stabilire il confine» riveste allora una dimensione doppiamente sacra, in quanto condizione indispensabile per la costruzione dell’autonomia e dell’identità politica di ciascun gruppo e, più alla radice, per il fondamento stesso della civilizzazione del territorio in tutte le sue espressioni possibili. L’intrinseco valore politico e sociale dello spazio urbanizzato passerà in eredità a buona parte delle civiltà successive che, a partire dal X secolo, sulle ceneri delle antiche vestigia mesopotamiche hanno costruito nuove fondamenta, assorbendone in diversa misura l’impianto mitologico e teologico e sviluppando ulteriormente le radicali innovazioni tecniche che i primi popoli della mezzaluna fertile avevano introdotto. In particolare – rispetto al racconto che stiamo qui portando avanti – l’idea di confine mantiene inalterata la propria originaria sacralità e continua a porsi come paradigma primo dell’identità politica di un gruppo. Evidentemente l’atto di «stabilire il confine» non può che


preservarsi come trasposizione fedele e teologicamente indiscutibile di un preciso disegno divino, quando non diventa direttamente prerogativa del dio. Leggiamo infatti nel Deuteronomio: Quando l’Altissimo divideva le nazioni, quando separava i figli dell’uomo, egli stabilì i confini dei popoli secondo il numero dei figli di Israele. Perché porzione del Signore è il suo popolo, Giacobbe sua parte di eredità. Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. (Dt. 32,8-10)

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L’interpretazione di questo passo è estremamente complessa ed assai problematica per una serie di ragioni. Innanzitutto l’esegesi ebraica, basandosi in parte sul codice non vocalizzato, fornisce una lettura considerevolmente diversa da quella della tradizione cristiana cattolica, che è a sua volta diversa da quella ortodossa. Va segnalato, inoltre, – a principale motivo di tali discordanze– che è il testo stesso a differire considerevolmente tra le varie versioni di cui disponiamo. Nel versetto 8, in particolare, laddove il Masoretico dà «figli di Israele», la Septuaginta legge «aggelon theou» nella maggior parte dei casi, e attesta una dicitura ancora più ambigua, «huion theou», in alcune rare edizioni. La situazione si complica ulteriormente se andiamo a verificare la forma in cui il versetto compare nei rotoli di Qumran. Il 4QDtq è a sua volta leggermente discordante dal 4QDtj. Considerando che l’espressione «benê» in ebraico indica appartenenza oltre che figliolanza, abbiamo in sostanza queste alternative: «figli di Israele», cioè Israeliti, «figli di Dio», cioè altri dèi (?) o la totalità degli uomini, «angeli di Dio» o «figli dei potenti». Non è chiaro, insomma, sulla base di quale criterio il Dio biblico abbia spartito i territori. Ciò che è chiaro invece – e che in questa sede ci preme sottolineare al di là delle sterili disquisizioni teologiche e filologiche – è che per i redattori biblici a stabilire i confini sia stato direttamente Dio, secondo una qualche logica che apparentemente non ci è dato sapere. L’autonomia e l’identità politica di ciascun

popolo derivano allora direttamente da una precisa volontà divina. Ancora una volta, cioè, è il sacro a legittimare e fondare il politico. E ancora una volta espressione diretta dell’autocoscienza collettiva è un principio intrinsecamente spaziale. Così Dio suddivide le nazioni e prende in consegna le sorti del suo popolo per condurlo nel territorio che gli ha riservato, ossia quella regione che corrisponde più o meno all’attuale Palestina e che è ricordata dalla tradizione cattolica come «terra promessa». Lo trova però disperso nel deserto, cioè ancora privo dell’identità unitaria di popolo e di una propria spazialità politica. Il libro dell’Esodo è infatti il lungo racconto di come Yahweh sia riuscito con estrema fatica a costruire l’identità israelitica da genti disparate ed essenzialmente anarchiche – dirà infatti: «ecco, è un popolo dalla dura cervice» (Es. 32,9) –, trasformandole con successo in un gruppo coeso con una struttura sociale, giuridica e politica ben definita. A questo proposito può essere interessante ricordare che il termine ebraico «Elohim», reso impropriamente e troppo semplicisticamente con «Dio», è in realtà un plurale di astrazione che andrebbe tradotto più alla lettera come «Legislatore Supremo». Ne risulta un’immagine profondamente diversa del testo e di ciò che quel testo vuole significare. La Bibbia, infatti, per l’Ebraismo, non è tanto un libro di religione, quanto piuttosto la cronistoria del popolo di Israele ed insieme il suo codice giuridico e politico nella sua totalità, direttamente elaborato dalla divinità e consegnato nelle mani degli uomini. Nel pensiero ebraico, allora, o quantomeno per quello più radicale, non c’è distinzione alcuna tra dimensione religiosa, etica, politica e giuridica, perché tutte rispondenti al medesimo testo e sottoposte, in definitiva, al medesimo «Legislatore». È evidente, quindi, che se il confine dell’identità collettiva è stato tracciato personalmente da questa divinità esso non può che essere sacro e secolare allo stesso tempo, intoccabile sotto ogni punto di vista, appartenente ad una sfera di radicale indistinzione tra il religioso ed il politico. In questo senso andranno letti anche i numerosi comandamenti biblici che


pertengono alla suddivisione del territorio, come automaticamente trasferibili dal piano etico a quello più propriamente giuridico. Troveremo infatti, ad esempio, «non spostare il confine antico, che è stato posto dai tuoi padri» (Pr. 22,28) o «maledetto chi sposta i confini del suo prossimo» (Dt. 27,17). In altri termini, che sia il confine effimero della proprietà individuale o quello ben più esteso dell’eredità collettiva del popolo ebraico, lo spazio che ne deriva è espressione diretta di una giurisdizione divina ed in quanto tale non può essere assolutamente messo in discussione. Con tutte le drammatiche conseguenze che il Medio Oriente sta vivendo ancora oggi. «Non possiedi tu quello che Camos, tuo dio, ti ha fatto possedere? Così anche noi possederemo la terra di quelli che Yahweh, nostro dio, ha scacciato davanti a noi» (Gdc. 11,24). Non c’è soluzione «politica» al problema fintantoché il territorio – che è innegabilmente politico – rimarrà impregnato dall’aura brutale del sacro. Questa originaria coincidenza, incarnata ed espressa in forma concretamente spaziale, si mantiene valida in generale per la gran parte del mondo antico. Passerà intatta nella cultura greca, laddove il confine sacro dell’acropoli definisce, insieme, lo spazio indistinto del divino e dell’attività politica. Passerà infine nel mondo romano, e con estrema radicalità. Qui le «iera teichea» (Iliade IV, 378) della polis si riducono nella gran parte dei casi ad un mero sistema difensivo ma l’intrinseca sacralità originaria del confine urbano si mantiene inalterata, ed anzi, enormemente più stringente, nel trasferimento dalle mura al pomerium. La striscia di terra compresa tra i due solchi di aratro che i Romani tracciavano nell’atto di fondazione era consacrata agli dèi dell’urbe e radicalmente inviolabile. Non solo non vi si poteva costruire nulla, su questa terra non era consentito né di coltivare né di passare. A proposito delle varie versioni del racconto dell’uccisione di Remo, Livio scrive infatti: È più diffusa la tradizione che Remo, in un atto di scherno verso il fratello, abbia varcato con un salto le nuove mura e che

per questo egli sia stato ucciso da Romolo infuriato, il quale, inveendo anche con le parole, avrebbe aggiunto: «così da ora in poi perisca chiunque altro varcherà le mie mura!» (Livio, Ab Urbe Condita Libri, I, 7) È più probabile ipotizzare che con l’espressione «nuous muros» Livio intendesse riferirsi al pomerium che Romolo aveva appena tracciato e sul quale si sarebbero attestate le future fortificazioni. Anche perché è difficile immaginare che un uomo possa superare con un solo balzo un vero e proprio muro di confine. Di questa vicenda, peraltro, abbiamo una versione sostanzialmente congruente anche in Plutarco (Vita di Romolo, 10, 1-2) ed una leggermente discordante in Floro (Epitoma, I, 1.3). Il primo parla, nella fattispecie, di un fossato tracciato in previsione delle mura, il secondo di una piccola cinta provvisoria eretta direttamente sul primo solco del pomerium. In ogni caso, tutti e tre gli autori sembrano essere concordi su ciò che a noi maggiormente interessa. Qualunque fosse la reale entità del tracciamento, la grave colpa di Remo è quella di aver osato varcare il sacro confine dello spazio urbano. Ancora una volta, quindi, è il segno tangibile del confine a produrre la città e non il contrario, tant’è vero che quello viene posto nell’atto originario di fondazione, ossia prima che questa si sviluppi. Per l’uomo antico, cioè, non è l’estensione del tessuto urbano a determinare il confine, ma il tracciamento preventivo dei confini a determinare la condizione di possibilità di un ampliamento del tessuto urbano, entro una misura che è determinata e invalicabile e che non può essere modificata se non attraverso un ulteriore tracciamento ed una nuova consacrazione. Lo spazio arcaico della politica sussiste così nella misura in cui sia concretamente identificabile e tangibile, espressione diretta di una insindacabile giurisdizione divina. Interromperemo la nostra speciale «storia dei confini» in questo fatidico 753 a.C., anche se potrebbe, ovviamente, essere molto più lunga di come l’abbiamo presentata. Tuttavia, prima di fare un inevitabile balzo in avanti di due millenni


Ma c’è anche un’altra importantissima parola del greco – «temnein» – che conserva il medesimo significato. Da questo «temnein» deriverà il «temenos», il limite immaginario che l’augure circoscriveva nel cielo con la sua bacchetta per interpretare il volo degli uccelli all’interno di una porzione ben definita. Porzione di cielo che si farà porzione di terra e campo consacrato, campo consacrato che si farà recinto, recinto che si farà finalmente templum, ma sempre conservando nella propria etimologia l’antica radice di «temnein», l’originario tagliare, dividere, delimitare. Cambiano gli stili, gli ordini, i modelli, cambia la tecnologia, ma nessun tempio ha mai rinunciato al proprio crepidoma, ultimo retaggio di ciò che la bacchetta dell’augure tracciava nelle nuvole. E questo «temenos» arcaico, alla fine, è lo stesso recinto sacro che abbiamo incontrato a Göbekli Tepe, la prima vera architettura che l’uomo abbia mai costruito. È, cioè, un semplice confine. Nulla di più. Una serie circolare di colonne mastodontiche che, in fin dei conti, definisce un vuoto. Ciò che stiamo cercando di dimostrare, allora, è che proprio quel vuoto sia all’origine di ogni cosa. Quel vuoto, circoscritto e tangibile, è la politica ed è il diritto – l’abbiamo visto –, ma è anche la forma più arcaica di sacralità che l’uomo abbia prodotto e dalla quale la civiltà stessa ha preso le mosse. Quei punti e quel confine, in ultima analisi, definiscono lo spazio originario dell’indistinzione tra sacro, politico e giuridico, quel grande calderone di sensi che è il crogiolo della civiltà umana, in cui tutto si mescola e si insegue reciprocamente. «Stabilire il confine», allora, se è vero che l’uomo è animale sociale, politico, e religioso, è semplicemente il primo atto filogenetico ed ontogenetico del nostro divenire umani. Rimane da chiedersi che cosa sia rimasto, oggi, dell’originario valore intrinsecamente sacro e politico dello spazio; oggi che il sacro ha cambiato radicalmente volto e la politica è divenuta una professione. Credo che sia venuto meno con con lo sgretolarsi dello stesso concetto di spazio fino a non essere più percepibile. Già con l’età moderna, d’altra parte, il confine ha perso ogni valore nel passaggio storicamente

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ed accennare brevemente alla situazione attuale, mi preme proporre due ulteriori considerazioni. Abbiamo visto che la divinità arcaica richiede o pratica direttamente una spartizione dei territori, una divisione. Dividere, spartire, in greco si dice «nemein», e da questa parola deriva un termine importantissimo per il diritto greco e antico in generale. È quel «nomos» che Pindaro definisce in un celebre frammento «panton basileus, thnaton te kai athanaton» (fr. 169) e che Schmitt identificherà in origine come «la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo» (Schmitt 1950), cioè, ancora una volta, la giurisdizione ordinata dello spazio, il «prato verso prato per delimitare» dei Sumeri, la rete tangibile dei confini territoriali che è espressione originaria tanto del diritto quanto della politica. D’altra parte – affermerà Rousseau (Rousseau 1755) –, «il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: «questo è mio», e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile». Nonché il fondatore della civiltà stessa – aggiungeremo noi –, che proprio sulla soglia di un confine territoriale costruisce la sua identità sociale, politica e giuridica. In altre parole, ciò che sono io non-sei tu. Ciò che è mio non-è tuo. Che sia la mia vita, il mio animale, il mio terreno, la mia città. Ma dove fondare la legittimazione principiale di questi io e di questi mio se non su di una originaria ed insindacabile attribuzione divina? Questo infatti – si è visto – fa l’uomo antico, mescolando la propria dimensione politica e giuridica con l’aura rassicurante e giustificativa del sacro. D’altra parte, «tutti i nomoi umani si nutrono di un unico nomos divino», affermerà ancora Schmitt (Schmitt 1950). Perché il «nomos» non è la lex ma il mos, e il mos è la tradizione che sta a fondamento della sfera politica, tanto quanto di quella più generalmente culturale, sacrale e rituale. Anche il diritto allora, e non solo la politica, nasce in una forma concretamente spaziale, da un dividere, da un separare, da un «nemein». E ancora una volta tutto si muove in un grande spazio indistinto, dove il divino e l’umano si mescolano e si inseguono costantemente.


inevitabile dalla città-stato allo Stato, anche per il semplice fatto che si è esteso oltre ogni possibile comprensione. La centralità urbana del sacro e del politico è passata alla centralità del potere economico, per dissolversi poi completamente nel dispersivo policentrismo commerciale della megalopoli contemporanea. La città diffusa ha quindi sostituito la città murata. Non c’è più confine perché tutto è urbanizzato e antropizzato, disperso in un’unica grande rete metropolitana globale, senza barriere né distinzioni. La politica secolarizzata ha perso prima la rassicurante egida del sacro e poi, definitivamente, la sua arcaica dimensione spaziale e territoriale. Il Leviatano, sempre se c’è ancora, non è più il mostro di Giobbe e di certo non risiede più solo negli abissi. Abbandonata dal sacro e dalla sua intrinseca dimensione territoriale, la politica sembra infine avere perduto l’originaria legittimazione. Chi ci governa non è qui, non appartiene al nostro spazio, non condivide la nostra identità, e, in ogni caso, è a sua volta governato da qualcun altro. Come sottolinea splendidamente Wendy Brown – che alla questione dei muri di confine nel secondo ‘900 ha dedicato un intero volume (Brown 2010) – la stessa sovranità statuale appare oggi in netto declino, schiacciata e delegittimata dallo strapotere di organismi sovranazionali per la gran parte figli dell’economia globalizzata. Se sovrano è – secondo la celebre definizione schmittiana – «chi decide sullo stato di eccezione» allora sovrani non sono più i governi ed i parlamenti, ma le agenzie di rating, la Banca Centrale Europea, i detentori del debito pubblico. Il «quis custodiet ipsos custodes» sembra infine aver trovato una risposta soddisfacente. Mi pare tuttavia ridicolo – o forse solo ingenuo – abbandonarsi allo sconforto collettivo, allo «spirto guerrier» dei «vaffaday» o, peggio, alle immancabili dietrologie di sorta. D’altra parte, come ricorda Benjamin, «non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, «moderna» e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida e disperata consapevolezza

di essere nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità» (Benjamin 1940). Si tratta soltanto di reinventare una nuova dimensione spaziale per la politica del terzo millennio. Per il sacro credo ormai non ci sia più nulla da fare. Troppo distante (fortunatamente) è l’abisso che separa la politica dell’occidente dal vecchio, caro, rassicurante divino. Ma come reinventare, oggi, uno spazio della politica? Dove attestare il suo nuovo confine? Sembra in effetti assai difficile trovare un ambito che le sia ancora proprio e uno spazio concluso e definito dove possa recuperare l’arcaica legittimazione, in un mondo – qual è il nostro – che ha perduto quasi del tutto la propria originaria territorialità e in cui la politica ha ormai invaso ogni ambito della vita individuale e collettiva, sconfinando nel campo fragile della biopolitica, della bioetica, dell’economia sovrana, della tecnologia e delle scienze. La politica, oggi, è quantomai decisione. E una decisione che investe principalmente territori altri, che in molti sensi le sono stranieri. È – questo – un mondo complesso, e complesso proprio perché i confini – concreti e figurati – non sono più definiti e definibili, sempre se ancora esistono. E paradossale legge di questo nuovo sistema è che nulla può più essere compreso e operato con successo fintantoché si rimarrà ancorati all’interno dei rigidi confini disciplinari e spaziali che gli pertengono storicamente. Viviamo, oggi, in un’immensa città globale i cui unici limiti coincidono – e presto, forse, non coincideranno nemmeno più – con l’atmosfera terrestre, in un mondo essenzialmente aperto, trasversale, transdisciplinare e liquido, sotto molti punti di vista; nelle comunicazioni, nell’economia, nelle relazioni e soprattutto nella cultura, in tutte le sue forme. Perché ostinarsi, allora, a trovare il senso di nuovi confini e nuove barriere, laddove lungamente si è lottato per abbatterli? Oggi «spazio» non è più ciò che è compreso da limiti definiti, quanto piuttosto, paradossalmente, ciò che li supera e li mette costantemente in discussione. Se questo è il mondo di oggi, allora, quello che ancora manca disperatamente non è affatto l’obsoleta


e quantomai antistorica volontà di «stabilire il confine», ma, al contrario, un rinnovato e consapevole sguardo d’insieme, capace di raccogliere gli infiniti spunti di riflessione che solo un territorio profondamente aperto e trasversale può regalarci.

Nota biografica Nell’ottobre 2012 si laurea in Architettura a Venezia con lode e dignità di stampa sotto la supervisione di Roberto Masiero. Nella tesi «Struttura e Virtualità» ha indagato il fenomeno dell’architettura digitale alla luce delle trasformazioni estetiche ed epistemologiche incorse nell’era della computazione. Da sempre appassionato di filosofia e scienze umanistiche, si occupa di svariati temi con un’attenzione particolare rivolta alle dinamiche del contemporaneo. Attualmente, oltre alla professione, porta avanti i suoi studi sulla filosofia della tecnica digitale anche al di fuori del dominio proprio dell’architettura.

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«Ovunque... Gli spazi della politica», si diceva. Anche se questi spazi non sono più «spazi» nel senso tradizionale, né appartengono più esclusivamente al dominio di senso storico «della politica». Nulla di così nuovo, in realtà. Già Platone parlava di una «basilike techne», una scienza universale in grado di gestire al meglio «il coordinamento ed il governo di tutte le attività che si svolgono nella città» (Politico, 304a). Con l’unica differenza che quelle attività, oggi, sono in un numero pressoché infinito e quella «città», se città si può ancora chiamare, conta ormai più di sette miliardi di abitanti. Così, allora, – a me pare – la grande sfida per la politica dei prossimi decenni sarà riuscire a mettere seriamente in gioco i suoi vecchi territori e gli storici putrescenti confini del suo agire, per trovare, infine, il coraggio di confrontarsi davvero con quel nuovo, immenso, spazio anomalo che è l’«ovunque».Bibliografia


Il giorno in cui la classe media si rivolterà. Dispersione e aggregazione di Leonardo Ebner

Perché proprio la classe media? Se è vero che la storia fino a oggi è stata la storia delle lotte di classe, è probabilmente altrettanto vero che le classi sociali di cui parlavano Marx ed Engels non esistono più. Resistono però le sovrastrutture fondamentali della società capitalistica e il loro funzionamento rimane dialetticamente intrecciato alle modalità di produzione delle merci. Le vecchie classi sociali – il proletariato e la borghesia – avevano il pregio di possedere nell’immaginario collettivo volti ben riconoscibili e definiti. Erano entrambe, allo stesso tempo, due entità sociali e morali: impossibile infatti non associare un colore politico, un valore ideologico e, pure, un qualche senso di appartenenza a una di esse. Parlare invece di classe media appare come un’implicita contraddizione, equivale a parlare di un’assenza priva di essenza. La classe media è infatti un punto che si trova a metà strada, all’incrocio della società, non ha una sua identità ma possiede una propria consistenza numerica, economica e politica. È, soltanto perché ciò che le sta intorno non le appartiene; eppure, nonostante tutta la freddezza della terminologia sociologica – la classe media – rappresenta il centro della società, il luogo dove la maggior parte delle persone, dei cittadini, si colloca. Al fondamento del Manifesto vi era l’idea – del tutto filosofica e scarsamente scientifica, nel senso marxiano – secondo la quale il proletariato non può liberare se stesso senza liberare l’intera società (Hobsbawm 1998). Il proletariato era l’attore sociale e politico a cui attribuire il ruolo principale nello svolgersi delle vicende storiche.

Alla classe media invece non appartengono né il peso né la densità sociale in grado di darle un simile posto nella storia. Altre sono le sue caratteristiche: talvolta sembra aver compiuto un percorso di totale imborghesimento, in altri casi è afflitta dalle stesse vessazioni della “vecchia” classe proletaria. Questa sua schizofrenia non aiuta a rendere più chiare le cose; tuttavia, l’importanza della classe media per le sorti della società capitalistica non può essere ridimensionata: essa è fondamentale nonostante se stessa e malgrado non sia un soggetto politico unitario e coeso. La classe media non può però possedere quella funzione teleologica – tacitamente presente anche nel socialismo scientifico marxiano – che era propria del proletariato. È allora possibile pensare che la classe media possa ricoprire oggi lo stesso ruolo che in passato fu del proletariato? La celebre chiusura del Manifesto recita “i proletari non hanno niente da perdere se non le loro catene”. La classe media ha, invece, fin troppe cose da perdere: beni voluttuari, risparmi, posizioni di responsabilità nel mondo del lavoro, appartenenza a un mestiere o a una corporazione, riconoscimento sociale ed economico, il privilegio di essere i destinatari di un sistema di produzione e di consumo. E quindi, come scrisse Ennio Flaiano nel suo Diario notturno, “A causa del cattivo tempo, la Rivoluzione è stata rinviata a data da destinarsi”. Paradossalmente, quello che manca alla classe media non sono solo le catene ma è anche un’identità definita. Tutto ciò che la compone – siano oggetti fisici o sociali – non trova infatti una forma adeguata a comprenderlo. Persino dal punto di vista linguistico non esistono


le parole adatte per definire gli appartenenti a questa classe sociale; non a caso, in francese viene generalmente declinata al plurale: “les classes moyennes” (cfr. Berstein 1993, p. 6). E così, se la borghesia era composta dai borghesi – piccoli o grandi – e il proletariato dai proletari, la classe media è invece un insieme di individui senza nome, dotati soltanto di una propria collocazione spaziale: al centro della società, dei consumi, della rappresentazione politica.

Al di là delle periferie Immaginare oggi il mondo diviso in rigide categorie spaziali risulta arduo e controproducente. Per lunghi decenni le dicotomie economiche, geografiche e politiche hanno diviso il globo in differenti insiemi, in alcuni casi coincidenti, in altri opposti: il blocco americano e quello sovietico, il Nord e il Sud, il centro e la periferia. Dietro queste coppie antinomiche vi era però la chiara e precisa struttura che l’ordine geopolitico aveva assunto a partire dal secondo dopoguerra. Così, l’idea di un “centro” del mondo, dal quale molte periferie dipendono e contro cui sovente si oppongono, era il frutto di una presa di coscienza da parte degli intellettuali e politici sudamericani presenti nella CEPAL – la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite – di fronte al controllo che i capitali del centro esercitavano sulle periferie, nel Sud del mondo. Seguendo l’analisi presentate nelle teorie di R. Prebisch e H. Singer, le periferie erano sottoposte al controllo del centro in virtù

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La contro-diaspora Proprio a causa di questa sua scarsa compattezza, il modello socio-economico della classe media può essere facilmente replicato in contesti distanti e differenti rispetto ai luoghi in cui originariamente si è formato – i paesi industrializzati e, in particolare, l’Europa e il Nord America. Questa diffusione della classe media su scala globale è un fenomeno iniziato non più di una quindicina d’anni fa e si prevede che proseguirà, aumentando, nei prossimi decenni. Non si tratta però della propagazione di una coscienza di classe che ha dato forma a preesistenti condizioni sociali. Ciò che sta avvenendo è piuttosto l’emergere di livelli di ricchezza e modalità di produzione simili in diverse parti del mondo; questo fenomeno, a sua volta, favorisce la formazione di innumerevoli classi medie, che replicano il modello occidentale, senza però esserne una diretta emanazione. In questo modo, le nuove classi medie, sparse in diversi continenti nel Nord e nel Sud del globo, si formano indipendentemente le une dalle altre ma perseguono i medesimi obiettivi. Ciò a cui stiamo assistendo non è una diaspora della classe media dal centro ricco e occidentale del mondo verso le periferie in via di sviluppo, bensì una contro-diaspora, un movimento le cui cause sono indipendenti ma le finalità comuni. La classe media occidentale non si è dispersa intorno al pianeta ma, al contrario, sono le nuove classi medie in via di formazione a convergere verso un modello centrale. Questa inedita ripartizione della ricchezza, che ha indubbiamente seguito modelli di produzione e consumo occidentali,

si è sviluppata per ragioni di volta in volta differenti. Ciò che accomuna queste nuove classi medie è invece la ricerca di un modello di rappresentazione di sé, un insieme di valori e obiettivi. La controdiaspora è allora questo movimento che dalla periferia converge verso il centro, contribuendo a modificare le identità di entrambe le parti. Se da un lato sta infatti accadendo che le classi medie emergenti guardino ai paesi occidentali come al luogo dove la coscienza di questo nuovo benessere ha origine; dall’altro, le vecchie classi medie occidentali sembrano sorprese da questa ricerca di identità che le trova del tutto impreparate e disomogenee. Comincia allora ad apparire chiaro come sia inappropriato e inefficace parlare ancora in termini di centroperiferia, quando invece la realtà che si sta delineando è formata da innumerevoli centri e periferie, che talvolta si confondono sovrapponendosi: dove esiste un “centro” economico può infatti darsi che vi sia una “periferia” sociale, in cui i diritti dei cittadini sono ancora del tutto disconosciuti.


dell’antica divisione internazionale del lavoro, che relegava le regioni più povere del globo al ruolo di produttori di beni primari, costringendole a dipendere dal centro industrializzato (Prebisch 1950; Singer 1949). Questa loro tesi sul deterioramento dei termini di scambio spiega come, sul lungo periodo, le economie periferiche tendano sempre più a subire l’azione delle economie centrali e a importare da esse i beni che non sono in grado di produrre. Tale asimmetria all’interno della divisione internazionale del lavoro dimostra come le forze politiche ed economiche abbiano generato una struttura che si regge su un equilibrio precario. Alla dicotomia centroperiferia si è aggiunta nel tempo la nozione di semi-periferia: ovvero lo spazio intermedio rappresentato da quei paesi che fungono da punto d’unione tra i due estremi, essendone in parte dominati e in parte dominando (Wallerstein 2004). La semi-periferia è un luogo “relazionale” che si situa sull’asse centro-periferia, dove il centro è il punto in cui si svolgono processi di produzione quasimonopolistici, e la periferia è caratterizzata da una piena competitività. I produttori periferici sono così posti in una condizione di debolezza, a causa della libera competitività che contraddistingue il loro sistema di produzione. Lo scambio ineguale tra centro e periferia – e, quindi, semi-periferia – avviene allora nel momento in cui le periferie sono costrette a scambiare le loro merci con i prodotti quasi-monopolistici. Questo processo genera una perdita di surplus da parte dei produttori periferici, che vengono così sottoposti al dominio quasi-monopolistico dei mercati centrali (Ibid., p. 28). Nel corso del tempo, è emersa la crescente duttilità con cui tali rapporti di forza si stabiliscono: le semi-periferie e le periferie, così come i centri, sono dei concetti astratti non necessariamente identificabili sempre con i medesimi paesi. Similmente, pure questi stessi concetti – il centro, la periferia – non sono più funzionali a spiegare il modo in cui gli equilibri globali stanno mutando. Comincia infatti a vacillare la convinzione che nel mondo mondializzato debbano

esistere uno o più centri di potere economico e politico stabili e immutabili. Un mondo a quattro velocità Gli assi geopolitici nord-sud, est-ovest, centro-periferia stanno subendo un processo di decostruzione sempre più evidente in favore di una struttura costituita da innumerevoli nuclei. Questo nuovo assetto globale è stato definito il “mondo a quattro velocità”, nel quale i nuovi paesi emergenti si avvicinano progressivamente ai livelli di benessere occidentali, mantenendo però al loro interno enormi disuguaglianze sociali (Wolfensohn 2007; OECD 2010, p. 34). L’ordine mondiale sarebbe quindi costituito dalla presenza di quattro livelli di ricchezza e prosperità, in cui la posizione di predominanza dei paesi ricchi (affluent) – soprattutto, Stati Uniti ed Europa – è sempre stabile ma non più incontrastata. A contendere il primato, sono le economie emergenti (converging) come India e Cina, che appartengono al gruppo di paesi in cui il reddito pro capite è ancora sotto la media mondiale ma che sono in forte crescita – malgrado sul breve periodo possano soffrire per momentanee crisi. Circa il 50% dei paesi – in Sudamerica e nel Sud-est asiatico – si trova invece al terzo livello: si tratta di economie in difficoltà (struggling), che faticano a mantenere un certo grado minimo di benessere, nonostante nel recente passato abbiano attraversato fasi di crescita piuttosto robusta. Infine, ci sono i paesi poveri (poor), principalmente situati nell’Africa subsahariana. In questo caso, gli effetti della globalizzazione sono stati per lo più negativi e hanno incrementato uno sfruttamento incontrollato delle risorse naturali e delle popolazioni. Un numero crescente di paesi si situa al centro di questa classificazione, come le economie emergenti o in difficoltà; comunque, in una zona mediana che non riesce a raggiungere i livelli di ricchezza più alti, ma che però si sta emancipando dalla povertà estrema. In un tale contesto, il numero di persone in grado di mantenere un livello di benessere sufficiente ad assicurare un’esistenza quantomeno dignitosa, è aumentato sempre più.


Nel 2009, questa cosiddetta “classe media mondiale” contava circa 1,8 miliardi di persone, di cui 664 milioni in Europa, 525 in Asia e 338 in Nordamerica (Pezzini 2012; L. Maurin 2010). Bisogna poi considerare che si prevede una sua crescita esponenziale: nel 2020 si aggirerà intorno ai 3,2 miliardi di individui, nel 2030 poco meno di cinque miliardi. L’aspetto però più significativo di queste previsioni non risiede tanto nelle quantità assolute quanto nelle proporzioni in cui questi gruppi sociali saranno ripartiti su scala globale. Nel 2030 infatti l’Asia rappresenterà il 66% della classe media mondiale e, di conseguenza, il 59% dei consumi delle classi medie del pianeta (Pezzini, op. cit.; OECD 2012, p. 103). Sebbene questi numeri possano sembrare azzardati e fare previsioni su un periodo così lungo appaia come una sorta di vaticinio, queste analisi mostrano chiaramente l’attuale tendenza dello sviluppo demografico e i modi in cui si sta distribuendo la ricchezza nel mondo.

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Una classe media mondiale? A partire dall’inizio degli anni Ottanta, infatti, il divario tra i paesi ricchi e quelli emergenti o in difficoltà si è ridotto. L’ineguaglianza globale rimane tuttora rilevante a causa delle differenze di benessere e ricchezza esistenti tra i diversi paesi, tuttavia negli ultimi trent’anni è diminuita in maniera sensibile (OECD 2012, pp. 95-96). L’effetto paradossale di questo arricchimento globale sta nel fatto che proprio all’interno dei paesi emergenti le diseguaglianze sono cresciute, più di quanto non siano aumentate nei paesi ricchi. Se si considera, per esempio, il periodo 1990-2007 nei cosiddetti BRICS – Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa – le diseguaglianze sociali, misurate secondo il coefficiente di Gini, si sono accentuate drasticamente, salvo nel caso del Brasile dove sono rimaste stabili, seppure a livelli molto alti (OECD 2012, p. 96; cfr. 2010, pp. 105-122). I settori mediani di queste società in via d’arricchimento si trovano a ricoprire il ruolo delle classi medie occidentali pur non possedendone le stesse caratteristiche essenziali. I ceti medi nei BRICS, infatti, si posizionano nel mezzo di società molto

più polarizzate di quelle occidentali, in cui il rischio di un eventuale declassamento o la possibilità di una progressione all’interno della gerarchia socio-economica rappresentano due alternative diametralmente opposte. La classe media in questi paesi vive cioè una condizione molto più fragile e transitoria di quella occidentale: qui, il limite tra un relativo benessere e condizioni di vita in povertà è labile, e pochi sono gli strumenti di protezione messi a disposizione di queste classi medie emergenti. Il rischio di subire un “declassamento” è una costante che definisce le classi medie – più di quelle inferiori, che meno hanno da perdere, più delle classi superiori, tendenzialmente più stabili – e, d’altra parte, questa paura del declassamento è una delle peculiarità che meglio distingue anche le classi medie occidentali. Come è stato dimostrato in numerosi studi – soprattutto nel caso francese e italiano (Maurin 2009; Checchi 2012) – le società occidentali possiedono una spiccata multiformità, per cui è difficile che un individuo appartenente alle classi medie possa subire un totale declassamento verso una classe sociale inferiore. Avviene più spesso che le disuguaglianze siano difformi o variegate, riguardando così differenti aspetti della vita di una persona: disuguaglianze lavorative, di reddito, formazione, abitazione, sanità, consumi. Ciò che rende le classi medie occidentali il vero baricentro di queste società è quindi proprio la loro capacità di restare ancorate al centro della società, subendo uno scarso declassamento e promozioni sociali poco frequenti. Gli spostamenti verso classi sociali diverse sono generalmente parziali, ovvero capita che un individuo sia soggetto a un declassamento in un particolare settore della propria vita, ma che gli altri rimangano stabili, in modo da assicurargli la permanenza nello stesso settore sociale. Resta tuttavia indiscutibile la presenza della percezione di questo pericolo: la paura del declassamento (Maurin, op. cit.). Questa percezione, anche se non giustificata pienamente dai dati, è essa stessa un fatto sociale rilevante. La paura del declassamento è infatti


una caratteristica delle classi medie occidentali, al punto che si è parlato spesso di un loro processo di proletarizzazione (Chauvel 2006). Il declassamento è allora una caratteristica che non appartiene alla classe sociale nel suo insieme, ma piuttosto agli individui che la compongono. Il motivo di questa percezione risiederebbe nel fatto che le classi medie rimangono, per consistenza e caratteristiche, al centro delle società, ma la composizione degli individui che ne fanno parte è flessibile (Goux e Maurin 2012). Le classi medie ricoprono quindi il ruolo di incrocio sociale all’interno del quale una quantità costante di individui transita, cambiando il proprio posizionamento oppure restando stabilmente all’interno della classe media. In tal modo, il rischio del declassamento viene percepito come una concreta possibilità, pur trattandosi di un pericolo limitato. Le classi sociali inferiori possiedono condizioni di vita simili a quelle della classe media e fungono quindi da rete di salvataggio per quegli individui che subiscono un declassamento. Nei paesi emergenti, invece, le classi medie vivono in una condizione più incerta. La loro condizione di benessere è superiore alla soglia minima della povertà, ma sono lontane dai livelli di agiatezza occidentali. In Sudamerica, ad esempio, gli appartenenti alle classi medie hanno un grado di scolarizzazione ancora relativamente basso (in media: 8,3 anni), raramente hanno ottenuto diplomi universitari e spesso lavorano in nero o hanno impieghi precari (OECD 2012, p. 104; 2011, pp. 14-24). Tuttavia, il loro ruolo è cruciale per favorire e migliorare la coesione sociale in questi paesi. Infatti, i figli delle classi medie emergenti saranno probabilmente destinati a colmare – almeno parzialmente – il divario di disuguaglianza che separa i ceti più ricchi da quelli più poveri. Il loro ruolo sarà allora fondamentale per la creazione di una coscienza politica in grado di assicurare a queste democrazie la necessaria stabilità per intraprendere un percorso di riforme verso una graduale redistribuzione della ricchezza. Questo connubio tra democrazia e libero mercato, di cui la classe media

rappresenta il punto di equilibrio, è però tutt’altro che scontato. Le classi medie in via di formazione sono infatti poste nella difficile condizione di essersi da poco emancipate da situazioni di povertà o disagio ma non hanno ancora raggiunto un margine di benessere e sicurezza adeguato a fare di loro delle vere classi medie. Il rischio è quindi che esse si trasformino da fattore di stabilità e progressivo rinnovamento a condizione di precarietà politica e populismo. Quando la classe media si rivolterà Il connubio tra classe media e democrazia merita allora di essere approfondito. Nei paesi occidentali il legame che unisce una certa idea di rappresentanza politica democratica al modello sociale del benessere diffuso è per lo più stabile e non genera particolari tensioni – a parte situazioni di grave crisi economica e finanziaria come, per esempio, la Grecia. Nei paesi emergenti invece la classe media sta ancora trovando una propria definizione e il giusto spazio politico. È certamente vero che il modello di società capitalistica agevola la creazione di una classe media che guarda all’Occidente come a un possibile modello politico, ma è altrettanto significativo ricordare come queste (ex) periferie del mondo hanno conosciuto lo sviluppo del modello capitalistico dalla loro prospettiva, complementare ma opposta a quella dei centri di potere e produzione. L’affermazione di nuove classi medie nei paesi emergenti è contraddistinta principalmente da migliori condizioni lavorative, maggiore accesso ai servizi e una più alta scolarizzazione. Questi elementi tendono a creare, soprattutto nelle generazioni più giovani, notevoli aspettative riguardo al livello di benessere socio-economico e di rappresentazione politica a cui si può aspirare. Come ha osservato F. Fukuyama, non è un caso quindi che buona parte delle rivolte nei paesi del Nord Africa – come Tunisia ed Egitto nella primavera 2011 – siano state condotte da giovani mediamente istruiti benestanti che, proprio a causa di regimi politici stagnanti, non vedevano riconosciuta la loro preparazione, superiore rispetto a quella


l’unico obiettivo di tutte queste persone che si stanno affrancando da condizioni di disagio o povertà sia quello di poter accedere alla competizione del mercato capitalistico, quasi ci fosse una afflato liberistico che riunisce e identifica le classi medie mondiali all’interno di una visione unitaria. È più probabile invece che la spinta verso maggiori libertà sia dovuta principalmente al desiderio di emanciparsi dalle proprie condizioni di partenza e, quindi, ogni ostacolo verso il progresso – in qualsiasi direzione esso vada e qualsiasi ideologia segua – viene identificato come un limite per il raggiungimento di migliori condizioni di vita. La teoria della lunga coda Un aspetto fondamentale per meglio comprendere il processo di formazione delle nuove classi medie è il modo in cui esse possono essere rappresentate e come rappresentano se stesse. Per questa ragione, è possibile illustrare alcune tendenze delle classi medie attraverso un’analogia, che riguarda una loro caratteristica essenziale – l’alto accesso ai mezzi di comunicazione – e, al tempo stesso, dà una raffigurazione grafica della composizione e dei meccanismi essenziali di queste classi sociali. Negli ultimi anni, internet ha dimostrato le sue potenzialità come mezzo attraverso il quale formare un’enorme agorà globale, nella quale far circolare notizie ed opinioni. Accade però che l’altissimo numero di coloro che scrivono e partecipano renda per molti versi controproducente la diffusione pluralistica delle informazioni, portando ad una eccessiva frammentazione, che non permette di poter indirizzare efficacemente la comunicazione. Questo processo mostra delle somiglianze con il mercato economico: quando nessuno ha in mano una sufficiente quota per poter stabilire delle possibili linee di indirizzo, non rimane che partecipare ad un movimento collettivo, che è soltanto in grado di orientare la massa in maniera vaga, senza riuscire a prefiggersi un obiettivo preciso. A questo riguardo, nel 2004, Ch. Anderson ha avanzato la cosiddetta long tail theory, nella quale si descrivono gli effetti che

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delle generazioni precedenti, nei mercati del lavoro nazionali (Fukuyama 2013). Le rivolte sarebbero cioè il frutto di una mancata crescita economica a cui le classi medie emergenti in quei paesi legittimamente aspiravano. Fukuyama continua la sua analisi sottolineando come tuttavia il ruolo delle classi medie sia stato cruciale per scatenare una rivolta, ma non sufficiente a trasformarla in cambiamenti durevoli nel tempo. Sul lungo periodo, infatti, la classe media mostra i propri limiti: talvolta numerici, poiché in alcuni casi è una minoranza all’interno della società, altre volte “ideologici”, dal momento che la mancanza di coesione interna induce a spaccature tra diverse tipologie di classi medie. È il caso della Turchia, dove le popolazioni urbane si sono in buona parte opposte al primo ministro Erdogan nelle manifestazioni avvenute durante la primavera ed estate 2013 ma, contemporaneamente, il partito AKP ha organizzato cortei a sostegno del governo raccogliendo il sostegno proprio tra le classi medie delle zone rurali (ivi). Un altro esempio è quello del Brasile dove, nello stesso periodo, migliaia di persone, anche qui provenienti dalle nuove classi medie, hanno protestato contro la corruzione nella pubblica amministrazione e nel governo, luoghi di potere appannaggio della vecchia borghesia brasiliana (ivi). Il punto di vista di Fukuyama tende sempre a sottolineare come le classi medie si stiano sollevando perché attratte dalle prospettive di sviluppo e di arricchimento che il libero mercato e la competizione aperta potrebbero portare nei paesi emergenti. Di conseguenza, tutti gli elementi che paiono bloccare questo processo di liberalizzazione sono identificati come ostacoli all’avanzata dei diritti e del benessere per la classe media: i regimi autoritari in Tunisia ed Egitto, le posizioni conservatrici di Erdogan in Turchia, il malgoverno e la corruzione in Brasile. L’analisi di Fukuyama ha il chiaro vantaggio di mettere in rilievo molte delle dinamiche e tensioni che animano le classi medie nei paesi emergenti, tuttavia sconta un evidente debito ideologico nei confronti delle posizioni liberiste. Pare infatti che


la frammentazione dell’offerta ha avuto sul mercato economico di massa (Anderson 2004). Esistono infatti alcuni prodotti di massa che sono distribuiti da poche grandi aziende e che, solo apparentemente, monopolizzano il mercato. La costituzione di una rete commerciale ben ramificata e capillare permette di ottenere una diffusione ottimale dei prodotti di nicchia, mantenendo la massimizzazione dell’utile. L’importanza di internet risiederebbe allora nel fatto che ha reso possibile conoscere e coprire qualsiasi fascia di mercato anche marginale, eliminando – almeno teoricamente – ogni limite di informazione o di distanza. C’è, quindi, convenienza nel distribuire un prodotto che occupa una nicchia di mercato perché i costi marginali di produzione sono irrisori: il costo marginale per raggiungere l’ennesimo + 1 utente, una volta raggiunto l’ennesimo, è praticamente zero. Si pensi, ad esempio, a un software: emetterlo in 100 o in 10.000 copie crea uno scarto irrilevante e il costo della diffusione tramite la rete è quasi nullo. In tal modo si soddisfano tutti gli utenti interessati e c’è una copertura del rapporto domanda-offerta pressoché totale. Se un prodotto è ricercato da un consumatore su mille, con i tradizionali mezzi di distribuzione sarebbe un affare poco conveniente, ma a queste condizioni lo diventa, perché ora è possibile soddisfare tutti i desideri che hanno scarsa rilevanza statistica all’interno del mercato. Così, se uno su mille è un rapporto sfavorevole per chi produce in un mercato limitato, uno su mille, in un mercato di centinaia di milioni di compratori, diventa un affare molto fruttuoso. Tale caratteristica del mercato via internet ha reso possibile lo sviluppo di una miriade di offerte che non sono controllate dalla grande distribuzione e però hanno la stessa possibilità di diffusione commerciale su ampia scala. Anzi, se sommate tra loro, esse costituiscono un volume di scambi superiore a quello delle aziende principali. La raffigurazione grafica del teorema è una curva della domanda: la parte sinistra raggiunge valori molto elevati (ovvero: pochi prodotti con altissima distribuzione), mentre la parte destra declina rapidamente approssimandosi

allo zero (la sua funzione è f(x) = 1/x), in modo da formare la lunga coda rappresentante quel numero quasi infinito di prodotti con pochissimi consumatori ciascuno. La teoria della long tail è quindi interessante perché può essere applicata tanto al mercato economico quanto al mondo dell’informazione e della diffusione di notizie e opinioni. Proprio se rivolta al mondo dei mass media essa è particolarmente efficace nel rivelare le dinamiche di diffusione delle informazioni (spesso definite “contro-informazione”) che contribuiscono a formare l’opinione pubblica al di fuori dei canali ufficiali, quali radio, televisioni e giornali, che sono sottoposti a più rigidi controlli editoriali. La natura frammentaria dei canali alternativi finisce, tuttavia, per indebolire fortemente la portata e l’influenza che potrebbe avere sui cittadini, poiché manca al proprio interno quella coerenza necessaria per costituire una buona narrazione politica che si imponga nell’agenda pubblica. Informazioni come merci come diritti La teoria della lunga coda può fungere da modello di rappresentazione delle classi medie nel mondo. Il processo di globalizzazione ha infatti contribuito a creare un mercato e un’opinione pubblica sempre più aperti e connessi; in questo contesto, tutti gli individui che nel mondo stanno raggiungendo livelli di benessere più alti sono quindi coinvolti in uno spazio comune globale. Tale spazio, però, non si presenta ovunque con la stessa morfologia né ha densità uniforme in tutti i luoghi. Si possono indicare tre differenti dimensioni di questo spazio globale. Innanzitutto, lo spazio dell’opinione pubblica, che segue in maniera abbastanza fedele la teoria della lunga coda: la sua caratteristica è la pressoché sconfinata apertura e diffusione delle notizie, che determina un largo accesso all’informazione. In questo modo, però, i canali principali possiedono il vantaggio di poter indirizzare il dibattito e concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica in una maniera molto più efficace di quanto i media marginali – quelli che compongono la “coda” – non riescono


alla lotta per i diritti anche l’impegno per un concreto miglioramento delle condizioni di vita. Nella maggior parte dei casi, il conflitto sociale emerge quando un gruppo di persone cerca di cambiare lo status quo proprio per raggiungere un livello più elevato di benessere e, contestualmente, per affermare nuovi valori e diritti. Conclusioni Queste tre dimensioni – dell’opinione pubblica, economica, sociale – stanno creando un nuovo spazio a livello globale, che è altamente rarefatto e frammentato ma che, ugualmente, permette forme di aggregazione sociale fino a poco tempo fa impossibili. Il fenomeno della classe media globale è quindi il risultato di questi tre fattori concomitanti. Quello che ho qui proposto è di utilizzare tale modello per descrivere l’andamento di dispersione e aggregazione che caratterizza la formazione di questa classe media mondiale. Se, infatti, queste tre dimensioni spaziali sono il luogo dell’aggregazione globale, dove le classi medie di tutto il mondo si trovano a confronto, allo specchio una dell’altra; è pur vero che la vastità di questo spazio globale crea un movimento di dispersione in grado di rallentare i processi di cambiamento. Una simile struttura di dispersione/aggregazione ci offre allora una serie di dicotomie: la dispersione geografica e l’aggregazione economica, ovvero: molti individui con un analogo livello di ricchezza ma sparsi ai quattro angoli del mondo; la dispersione politica e l’aggregazione consumistica: poca coesione e autocoscienza ma uno stile di vita “borghese” condiviso, al punto che le nuove classi medie potrebbero essere definite come una sorta di “sotto-borghesia”; l’aggregazione dell’informazione e la dispersione ideologica: ovvero, largo accesso alle informazioni e bassa condivisione di ideali, o ideologie, tant’è che le rivolte si sono verificate in occasione di tensioni politiche locali e circoscritte (cfr. Harvey 2008, p. 56); ritorna qui l’idea che i gruppi sociali per esercitare il potere debbano possedere un certo minimo grado di coesione interna e farsi rappresentare da élites forti. Questo

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a fare. In secondo luogo, lo spazio economico delle classi medie. Attualmente le classi medie occidentali sono identificabili con la parte sinistra del grafico: gruppi presenti in un numero limitato di società, geo-politicamente molto coesi, minoritari rispetto ai loro corrispettivi nel resto del mondo. Le classi medie emergenti invece sono frammentate e disperse, anche all’interno del territorio di un unico paese, poco strutturate, ma tuttavia su scala globale maggioritarie e in via di espansione. In questa diversa collocazione spaziale risiede la sfida per le classi medie emergenti: il loro spazio economico è infatti modellato secondo la dimensione economica dei paesi occidentali e a questo modello capitalistico, almeno parzialmente, aspirano. Ciò non significa però che la direzione dello sviluppo nei paesi emergenti sia segnata fin dal principio. Al contrario, non esiste un’evidenza economica che imponga ai paesi emergenti un particolare modello di sviluppo capitalistico. Le attuali economie capitalistiche possono infatti essere suddivise in cinque modelli, seguendo le caratteristiche economiche, culturali e politiche dei diversi paesi: liberale, europeo-continentale, asiatico, mediterraneo, social-democratico (Amable 2005). Proprio perché non si dà nessuna forma di determinismo economico, è probabile che le nuove classi medie, e con esse i paesi emergenti, non aderiranno forzatamente al modello liberale di mercato ma troveranno altre vie per posizionarsi all’interno dello spazio economico globale. Infine, c’è lo spazio sociale, ovvero il luogo nel quale nuovi valori e diritti si diffondono e si confrontano. Questo spazio può essere considerato una conseguenza dei precedenti due, anche se possiede uguale importanza per la definizione delle classi medie. I diritti – e i relativi valori – non potrebbero infatti trovare spazio se non ci fossero anche le condizioni di benessere economico e di dibattito pluralistico per farli valere. Raramente accade che una presa di coscienza, un movimento popolare, sia esso riformatore o rivoluzionario, non abbia abbinato


nuovo spazio politico globale non è quindi a una sola dimensione e non conosce soltanto un’unica modalità per essere attraversato e conosciuto: cambia invece caratteristiche e densità a seconda dell’itinerario che scegliamo di percorrere. Nota biografica Leonardo Ebner, si è laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari Venezia e in Studi europei al College of Europe di Bruges/Natolin. Attualmente svolge uno stage alla Commissione europea a Bruxelles. È redattore della rivista interdisplinare “Post” (Mimesis). I suoi interessi di ricerca spaziano da questioni di filosofia politica, come la giustizia distributiva e il liberalismo, alle scienze sociali, in particolare, l’integrazione delle politiche del lavoro e della formazione nell’Unione europea.


La crisi della democrazia e della funzione rappresentativa di Mattia Gambilonghi

esclusivamente la loro carriera, il 62% ritiene che questi ultimi non conoscano affatto la vera vita dei francesi e il 49% li accusa di essere dei corrotti. Aldilà dei dati statistici e dei sondaggi poi, è l’esplosione dei movimenti di protesta degli ultimi anni a rendere immediatamente palpabile quanto la problematica della crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative sia estesa e in che misura riesca a permeare gran parte della società e dell’immaginario collettivo che questa esprime. Il filo rosso che unisce infatti il sentimento di impotenza e di frustrazione emerso prepotentemente negli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine il 14 dicembre del 2010 (data culminante dei movimenti di opposizione alla riforma universitaria del ministro Gelmini), il movimento degli indignados spagnoli e quello statunitense di Occupy Wall street, è senza dubbio rappresentato dalla sfiducia nei meccanismi rappresentativi e decisionali attuali, così come emerge da uno slogan fatto proprio dai movimenti di tutti e tre i paesi: “Non ci rappresenta nessuno”. A fronte di una simile situazione, il dibattito intellettuale degli ultimi 15 anni è stato teatro un’incredibile fioritura di studi e pubblicazioni dedicati per l’appunto alla crisi attraversata dalle democrazie occidentali. Termini come “democrazia partecipativa”, “società della sfiducia”, “democrazia deliberativa” hanno cominciato a circolare sempre più e a far parte del lessico comune utilizzato nel dibattito politico quotidiano. Nel tentare di ragionare su alcuni dei nodi venuti fuori nel dibattito che nel corso degli ultimi 15 anni ha tentato di individuare le cause e la fenomenologia stessa di questa gigantesca crisi, mi propongo di utilizzare due differenti chiavi di lettura,

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È oramai assodato e conclamato il fatto che le democrazie liberali del mondo occidentale si trovino da un paio di decenni nel bel mezzo di quella che potremmo definire una gigantesca “crisi di legittimità”. Lo scollamento progressivo tra rappresentanti e rappresentati, tra elettori ed eletti, la crescente apatia politica, i livelli raggiunti dall’astensionismo elettorale in diversi paesi (in primo luogo gli Stati Uniti, ma anche nelle recenti elezioni regionali siciliane, dove il 52% degli aventi diritto ha scelto di non recarsi alle urne), il disincanto nei confronti dell’agone politico: tutto ciò mostra come siano l e stesse forme assunte nel corso del Novecento dalla rappresentanza democratica a rivelare i propri limiti e le proprie tare. A supporto di queste considerazioni, proviamo a riportare qualche dato. Secondo uno studio presentato nel 2007 dal Laboratorio di Analisi Politiche e Sociali dell’Università di Siena [Y. Sintomer, 2009, p. 21], il 93% degli italiani ritiene che le persone elette al Parlamento perdano ben presto il contatto con gli elettori; l’87% ritiene che i partiti siano interessati solo ai voti dei cittadini, e non alle loro opinioni; «l’85% si sente incapace di comprendere quello che succede nella politica ed il 74% condivide un sentimento di frustrante inefficacia» [Ibid., p. 21]. Infine, la metà degli intervistati pensa che l’unica buona ragione per iscriversi ad un partito, sia quella di “fare carriera”. Non molto meglio vanno le cose nella vicina Francia, dove secondo un sondaggio reso pubblico da Le Monde nel 2005 [Sondaggio CSA, Le Monde, 11 ottobre 2005], il 39% ha poca fiducia nel personale politico, mentre il 37% non ne ha alcuna; dove l’85% pensa che gli eletti abbiano a cuore


due differenti categorie esplicative in grado di raggruppare le differenti tendenze e di dare conto, se non della globalità della problematica a cui ci troviamo di fronte, perlomeno di alcuni degli aspetti maggiormente rilevanti. La prima di queste chiavi di lettura (fatta propria da autori come Crouch, Ferrara, Burgio e Luciani), maggiormente rivolta agli elementi “esogeni” della crisi, è quella che intende leggere la crisi in atto come il frutto di quel conflitto di sovranità – di cui è portatore il processo di globalizzazione economico-finanziaria – tra soggetti ed enti dotati di legittimazione e di investitura democratica da un lato e soggetti che a questa legittimazione sono totalmente estranei. Se facciamo nostra un’ottica di stampo materialistico-dialettico e accettiamo la definizione di democrazia data da Alberto Burgio in uno dei suoi ultimi lavori, in base alla quale la democrazia costituirebbe non tanto un modello statico e dato una volta per tutte, ma al contrario un processo dinamico e conflittuale, e nello specifico il processo di conquista della capacità di autogoverno da parte dei corpi sociali, segnato da una tensione perenne tra inclusione ed esclusione, espansione e restrizione dell’area della cittadinanza [A. Burgio, 2007, p. 7]. Se accettiamo, dunque, come punto di partenza una simile definizione possiamo leggere l’ultimo trentennio come una fase di enorme arretramento, di enorme compressione e restrizione di questa capacità di autogoverno dei corpi sociali a causa dell’attività di spoliazione della sovranità che le dinamiche della globalizzazione finanziaria hanno messo in essere, dando luogo ad un processo di trasferimento del potere reale dalle istituzioni rappresentative e democraticamente elette tanto verso istituzioni sovranazionali estranee a qualsiasi tipo di legittimitazione democratica, quanto verso concentrazioni di potere economico privato. Ad essere chiamati in causa sono dunque gli attori principali dell’assetto economico degli ultimi trent’anni: il mondo della finanza deregolata da un lato e la grande impresa multinazionale dall’altro

(che il politologo inglese Colin Crouch ha definito essere, non a caso, l’istituzione chiave delle post-democrazie in cui viviamo). La prima tipologia del processo di trasferimento della sovranità a cui abbiamo appena accennato si “limiterebbe” - per così dire – a creare un gigantesco problema di accountability, vista la condizione di irresponsabilità in vengono a trovarsi, sul piano democratico, le istituzioni sovranazionali. Ma la seconda di queste tipologie, oltre a riproporre un identico problema di accountability, pone in essere una dinamica in grado di modificare ben più in profondità la natura delle democrazie di massa, in quanto tale da investire i concetti di “democrazia” e “statualità” per ciò che ne concerne caratteri, attribuzioni, e, in definitiva, la loro stessa essenza. Lo strapotere esercitato infatti dai poteri economici privati sia sul versante finanziariospeculativo che su quello di una produzione di merci oramai svincolata da criteri di sostenibilità sociale ed ecologica, minerebbe alla base le democrazie contemporanee in quanto vettore di una separazione crescente tra attività economica e territorio, tra produzione delle ricchezza e territorio. E ciò avviene fondamentalmente perché è la stessa l’idea moderna di sovranità (su cui poi, solo successivamente, la democrazia ed il suffragio universale si sono innestate) ad avere visto nell’attività di redistribuzione delle risorse e delle chances di vita e in quella di disciplinamento giuridico delle relazioni economiche, una delle sue funzioni principali. Non è un caso se proprio uno dei maggiori interpreti novecenteschi della statualità, Carl Schmitt, individuasse nell’utilizzazione della terra, nello sfruttamento delle risorse naturali e nella gestione della distribuzione dei loro frutti (il trinomio nehmen/teilen/weiden), gli elementi costitutivi e l’origine stessa del “Politico” e del “nomos”. Risulta dunque ovvio come lo slegarsi delle attività economiche da una base territoriale ben definita, indebolendo il carattere spaziale del diritto e della politica che proprio su quelle attività esercitavano un’azione di tipo regolativo, non poteva che mettere


In un’epoca come quella attuale, quindi, segnata dalla quasi completa abolizione di confini e barriere per l’attività imprenditoriale e per la libera intrapresa, il necessario ed ineludibile fondamento spaziale-territoriale della democrazia ha finito per attribuire un vero e proprio “plusvalore politico” all’economico e ai poteri di carattere privato. L’influenza del carattere classista del modo di produzione e dei rapporti socio-economici sul sistema politico e sui suoi canali di funzionamento, calmierata e posta sotto controllo dalla grande stagione del costituzionalismo democratico-sociale di metà Novecento – fase in cui, ci dice Luciani, il principio della “cattura costituzionale del potere” e della limitazione di questo si estende dal momento semplicemente politico a quello più marcatamente economicosociale [M. Luciani, 1996]– finisce insomma per riproporsi alla fine del secolo, seppur – ça va sans dire – sotto vesti nuove e con modalità ben più sofisticate. Non più attraverso la semplice delimitazione del suffragio e del suo perimetro sociale. Non più attraverso l’artificiosa separazione tra pubblico e privato, tra politica ed attività economica che il formalismo dello Stato liberale ottocentesco metteva in essere. Bensì attraverso la ricollocazione di poteri pubblici e poteri privati su piani e livelli differenti: il permanere dei primi su un livello di tipo nazionale ha reso nei fatti i secondi – oramai pienamente incardinati in una dimensione di carattere globale – se non intoccabili, certamente molto più difficilmente regolabili da parte dei primi. In una situazione segnata dall’alto livello di ricattabilità in cui versano gli Stati e i pubblici poteri rispetto agli attori economici globali, la Grundnorm viene, di fatto, fatta derivare principalmente dall’esigenza di competitività propria di questi attori. Un’immagine altamente suggestiva ci è stata lasciata in tal senso da alcune pagine di Gianni Ferrara. Descrivendo infatti anch’egli la democrazia come un sistema segnato nell’intimo da un’enorme contraddizione, coincidente addirittura con i due termini – e con le “leggi di movimento” ad essi sottesi – che vanno a comporre il lemma

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in crisi l’idea stessa di sovranità e la democrazia ad essa collegata. Lo Stato e le democrazie hanno infatti visto indebolirsi il carattere della loro politicità e le loro funzioni regolative e potestative, regredendo verso forme che ricordano sempre più gli apparati amministrativi, i quali, per l’appunto, si limitano ad applicare decisioni prese altrove. La problematica della “crisi della democrazia” va insomma intesa non tanto nel senso che domani si potrebbe non andare più a votare; non nel senso che ad essere a rischio è l’esistenza stessa del momento elettorale e del suffragio universale. Ma nel senso, piuttosto, che fette e porzioni sempre più larghe della vita associata cessano di essere regolate dalla sovranità popolare e dalla deliberazione politica, per venire al contrario poste su un piano sopraelevato in cui divengono soggette a decisioni o presunte tecniche, oppure assunte da soggetti assolutamente non pubblici e né tanto meno dotati di alcuna legittimazione democratica. Possiamo dunque affermare che la globalizzazione neoliberista, deregolamentando e liberalizzando i movimenti di capitale da un lato e permettendo la massima mobilità alla grande impresa multinazionale dall’altro, ha non solo consentito al mercato di ricolonizzare territori precedentemente sottratti al suo dominio e alla sua capacità regolativa, ma anche riconfigurato e ridisegnato l’assetto dei poteri nelle società contemporanee. Burgio ha definito quella in atto una tendenza neooligarchica. Ci sentiamo di dire di più: quella attuale è una riconfigurazione dei rapporti tra poteri politici e sociali in senso neo-feudale. Il potere politico in feudale si configurava infatti dinnanzi ai poteri privati come una potestas temperata, un potere estremamente limitato, che rinunciava a pretese onnicomprensive e totalizzanti nei confronti dell’ordinamento sociale, del quale parti estremamente rilevanti delle relazioni economiche tendevano insomma a sfuggire alla sua attività regolatrice e disciplinante. Se ovviamente non si può parlare di vera e propria identità tra l’epoca attuale e quella feudale, è sicuramente possibile un’analogia.


in questione, ovvero il demos da un lato (portato «strutturalmente a includere, ad aprirsi, ad estendersi») ed il kratos dall’altro (latore, al contrario, di un opposto processo di concentrazione, selezione e condensazione), arriva alla conclusione in base alla quale «il senso politico e istituzionale della globalizzazione capitalistica» non è individuabile altrove se non nel «processo di distacco, di fuga del kratos dal demos ed il suo concentrarsi ove è diventato intangibile per il demos» [G. Ferrara, 2007, p. 100]. «La liberalizzazione dei capitali», insomma, ha coinciso pienamente con «la sovranità dei capitali», e «la sottrazione del kratos al demos» con l’attribuzione del primo ai «possessori di capitali» [Ibid., p. 106]. All’interno di questo schema esplicativo può risultare utile l’integrazione delle tesi sviluppate da Colin Crouch a proposito dei regimi odierni di post-democrazia. Quest’ultima viene intesa dal politologo inglese non tanto come una situazione segnata dall’assenza della democrazia, e quindi come un semplice ritorno al passato, ma piuttosto come una forma degenerativa di quest’ultima in cui, pur in presenza del suffragio universale e della sanzione elettorale dei differenti organi deputati a funzioni di rappresentanza ed indirizzo politico, il potere sociale delle diverse classi torna ad assumere un’importanza ed una rilevanza tali da produrre sperequazioni più che rilevanti per ciò che concerne la capacità di ciascuna classe di influenzare il potere politico. Nello specifico Crouch mette l’accento su come, in luogo di una partecipazione di tipo democratico – caratterizzata a suo parere da modalità egualitarie di accesso al potere politico – si stia affermando ad opera del sistema delle lobbies una torsione in senso particolaristico ed ultra-liberale dei processi di scambio politico attraverso cui i sistemi politici accoglierebbero le domande sociali sotto forma di inputs al fine di erogare poi determinate prestazioni. Va precisato come per “liberale” (termine, non a caso, da lui a contrapposto al concetto di “democrazia”) Crouch intenda, più che una costruzione istituzionale volta

a limitare le pretese del potere politico e a salvaguardare le libertà individuali del cittadino, un sistema di rapporti tra autorità governative e società civile volto ad incoraggiare una strutturazione della competizione politica in senso fortemente diversificato ed anti-egualitario, un sistema che, dunque, mettendo in campo un apparato di regole piuttosto scarno, lascia nei fatti massima libertà agli attori sociali in campo per ciò che concerne la loro lotta per influenzare la politica governativa e per accaparrarsi le prestazioni/outputs [C. Crouch, 2003, pp. 20-25]. La seconda chiave di lettura è volta invece a mettere in risalto le cause di natura endogena, concentrandosi sui nodi problematici inerenti alla tensione strutturale propria dell’insieme delle democrazie reali, ovvero quella tra l’elemento della legittimità – la quale rinvia agli aspetti procedurali della vita democratica – e quello della fiducia – vera e propria “istituzione invisibile”, in grado di arricchire il primo elemento in quanto aggiungerebbe una dimensione morale al mero formalismo procedurale. Uno dei lavori di ricerca maggiormente fecondi in questo senso è dedicato dallo storico e politologo francese Rosanvallon alla cosiddetta “contro-democrazia”, opera attraverso cui tenta di indagare l’insieme delle reazioni messe in moto dalle diverse società dinnanzi al manifestarsi delle disfunzioni degli apparati democratico-rappresentativi. Nello specifico Rosanvallon decide di esplorare “l’universo della sfiducia” con la finalità di comprendere in che modo questa e le sue differenti articolazioni facciano «politicamente sistema», costituendo cioè non degli episodi passeggeri e transitori, ma veri e propri fattori strutturali delle democrazie rappresentative. L’universo della sfiducia avrebbe infatti dato vita, concretizzandosi, ad un’insieme di pratiche politiche volte a sanare l’insufficienza del semplice legame elettorale, considerato eccessivamente labile ed incapace di assicurare il mantenimento di un’effettiva connessione tra le esigenze del rappresentato e l’attività del rappresentante.


quanto gli obiettivi dell’agire politico appaiono ispirati oramai a criteri profondamente dissimili da quelli novecenteschi. Lo stesso Rosanvallon invita a riflettere su come il problema delle democrazie contemporanee sia rappresentato non tanto dalla passivizzazione dei cittadini, quanto piuttosto dalla crescente impoliticità della loro azione partecipativa: in luogo cioè di approcci in grado di affrontare le problematiche con un’ottica globale, le pratiche contro-democratiche odierne rischiano di scadere nella frammentarietà e nella segmentazione delle rivendicazioni. Ad una sovranità democratica piena e con una visione globale delle questioni, rischia di sostituirsi una sovranità, per riprendere un termine utilizzato da Nadia Urbinati, “puntinista”. L’universo controdemocratico, dunque, si configurerebbe in maniera profondamente problematica, in quanto se da un lato risulta in grado di produrre un accrescimento del potere sociale dei governati e dei “diretti”, dall’altro sembra covare costantemente «tentazioni populiste-reattive» tali da far regredire la qualità dei sistemi democratici in virtù dell’azione spoliticizzante di cui sono portatori. L’impoliticità ed il populismo odierni vengono dunque letti da Rosanvallon come frutto della degenerazione delle pratiche controdemocratiche. Tratti salienti del fenomeno risulterebbero essere il rifiuto radicale del potere, la sua demonizzazione, la sua irriducibile alterità rispetto al popolo, sfociando così in una sovranità negativa assoluta, distruttrice e rancorosa. A venirne fuori, due caratteristiche principali: l’assenza di progettualità e la mancanza di una compiuta visione d’insieme nell’estrinsecazione della sovranità, le quali costituirebbero insomma gli assi portanti dell’impoliticità della democrazia e dell’azione partecipativa odierna. Tutto ciò non fa altro che rinviare all’essenza del modello di statualità e di organizzazione socio-istituzionale proprio del liberalismo e alle falle da sempre ad esso connaturate. Il sistema di convivenza civile di cui il liberalismo si è fatto portatore trova infatti il suo fondamento non solo nel principio lockeano della

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Ciò che queste pratiche avrebbero tentato di realizzare, insomma, altro non era che una “sovranità indiretta”, un processo di appropriazione sociale del potere in grado di far recepire gli inputs provenienti dal corpo politico attraverso la semplice influenza, bypassando dunque la formalizzazione della decisione. Rosanvallon assegna a questo insieme di pratiche il nome di contro-democrazia, intendendo con questo termine non tanto la negazione della democrazia, bensì «la democrazia dei poteri indiretti disseminati nel corpo sociale, la democrazia della sfiducia organizzata di fronte alla democrazia della legittimità elettorale». La valorizzazione di questo particolare ambito delle democrazie moderne permetterebbe una comprensione più profonda e sottile dell’intera attività democratica. L’effetto principale, infatti, di una lettura che utilizzi come lenti questi diversi poteri e pratiche “controdemocratiche”, sarebbe quello di mostrare un’architettura della divisione dei poteri decisamente più ricca e complessa, grazie all’utilizzazione di una griglia interpretativa in grado di cogliere le diverse forme ed articolazioni dell’espressione sociale nella costruzione dell’ambito politico. Ad esempio, la categoria della controdemocrazia può indurci a leggere diversamente o addirittura a riconsiderare radicalmente la fase attuale delle democrazie e lo stato di salute della cittadinanza politica. Alla luce di un’attività democratica che esula o che non può essere rinchiusa esclusivamente nel recinto della partecipazione elettorale, il giudizio maggiormente diffuso tra i politologi e nello stesso senso comune quello del “cittadino passivo” e del declino della partecipazione politica - verrebbe a perdere, secondo Rosanvallon, gran parte della sua fondatezza. Accanto all’incremento dell’astensione elettorale, possiamo infatti osservare di converso forme di coinvolgimento dei cittadini in grado di raggiungere dimensioni tutt’altro che marginali. Più che di apatia politica, si tratterebbe dunque di mutazione delle forme della politica, di affermazione di forme non convenzionali della partecipazione, in cui tanto i vettori


divisione dei poteri in funzione limitatrice ed anti-assolutistica, ma anche e soprattutto nella necessità hobbesiana di imbrigliamento ed incanalamento «della dinamica del potere reale all’interno della dinamica delle istituzioni costituzionali» [A. Baldassarre, 1982b, p. 80]. Quest’attività di regolazione giuridicocostituzionale del processo di produzione e di scambio del potere politico non è però mai riuscita ad impedire lo straripamento delle dinamiche proprie della vita associata dal canale principale ad esse preposto (ovvero lo Stato di diritto attraverso cui viene realizzata la rule of law), rendendo quindi impossibile una composizione apriori dei conflitti di vario genere (religiosi, etnici, di classe, ecc.) che attraversano la società. Più volte durante la storia degli ultimi due secoli si è dunque posto il problema di uno sdoppiamento dei canali di espressione del processo politico, sdoppiamento tale da affiancare al canale totalmente istituzionalizzato (dialettica legislativo/esecutivo) un canale in grado di fungere in primo luogo da elemento dinamizzante di un sistema politico naturalmente tendente alla sclerotizzazione e all’irrigidimento; secondariamente da valvola di sfogo per quella dimensione demoniaca e partigiana del potere che Schmitt ha ritenuto fondante delle comunità politiche, ma continuamente soggetta nel quadro dello Stato liberale a tentativi di neutralizzazione e spoliticizzazione; ed infine, in virtù dell’azione di controllo diffuso svolta dalle strutture sociali o politiche che di volta in volta hanno dato forma concreta a questo canale non-istituzionale, da anticamera del sistema istituzionale funzionale al filtraggio e alla selezione delle domande sociali ad esso inviate. È attraverso questo doppio canale che i sistemi politici hanno risolto il problema delle modalità di composizione dei conflitti a cui si accennava poc’anzi, abbandonando l’ipotesi propria del liberalismo delle origini di una composizione apriori di questi e realizzando una composizione aposteriori, a valle cioè del processo politico. Gli strumenti attraverso cui, nel corso degli ultimi due secoli, è stato

possibile attuare questo tipo di composizione/compensazione sono stati molteplici e continuamente variabili. Dapprima questo ruolo è stato svolto dalle identità collettive di stampo socioeconomico in tutta la loro immediatezza, vista l’estrema coincidenza esistente fino ad un certo momento tra gerarchie sociali e gerarchie politiche. Successivamente, la palla è passata in mano ai partiti, che in maniera forse più piena ed efficace dello strumento precedente hanno saputo dare libero corso ad un’energia politica libera da stretti vincoli istituzionali. Ma il processo di progressiva istituzionalizzazione a cui anche i partiti nel corso del Novecento sono andati incontro ha fatto sì che l’equilibrio fra i due canali cambiasse nuovamente il proprio asse: Baldassarre, sulla scorta di Schmitt, ritiene che sia il nascente Stato sociale il luogo in cui le democrazie oramai di massa hanno individuato verso la metà del secolo scorso il luogo di una rinnovata e differente contaminazione fra i due canali. Considerando infatti il decisionismo schmittiano uno dei due nuclei concettuali (l’altro sarebbe costituito invece dal pluralismo di H. J. Laski) posti alla base di quella radicale riconfigurazione dei rapporti tra Stato, economia e società attraverso cui i sistemi politici euroatlantici hanno dato risposta alle sfide lanciate loro dall’avvento della società di massa e dalla crisi degli indirizzi di politica economica seguiti fino a buona parte degli anni Trenta [A. Baldassarre, 1982a, pp. 26-28], Baldassarre giunge alla conclusione per cui l’intelaiatura politicocostituzionale fatta propria dai sistemi politici del Trentennio glorioso ridimensiona drasticamente l’assunto neutralizzante della rule of law. La necessità di gestire e regolare i differenti processi sociali in base ad un disegno razionale e la centralità che l’elemento del piano assume nell’ambito degli “Stati del benessere”, portano infatti con sé un potente e profondo processo di amministrativizzazione e di particolarizzazione della legge, il venir meno, dunque, di quei caratteri di assoluta generalità ed astrattezza che lo Stato di diritto postulava in maniera


Nota biografica Mattia Gambilonghi, ha studiato presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Catania, per poi specializzarsi in Storia contemporanea presso l’Università di Bologna. Tra i suoi interessi di ricerca figurano la storia e la cultura politica dei partiti della sinistra italiana ed europea (con particolare attenzione per il dibattito costituzionalistico, giuslavoristico ed economico sviluppatosi al loro interno), oltre che le problematiche di filosofia politica e teoria dello Stato connesse allo studio delle caratteristiche e delle patologie delle moderne democrazie rappresentative.

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risoluta e perentoria. Attraverso una simile contaminazione tra canale regolato e neutralizzato del potere e canale “demoniaco” e non-istituzionalizzato, «quella che Schmitt chiama la “guerra civile” fra le parti è penetrata anche in tutti i gangli del sistema istituzionalizzato» [A. Baldassarre, 1982b, p. 95], producendo insomma non una dialettica armonica tra i due canali ma, al contrario, una pericolosa sovrapposizione fra i due. Quest’ultima annotazione non vuole essere una negazione del valore storico e di civiltà rappresentato dalle trasformazioni politico-costituzionali conosciute dalle democrazie di massa nel secondo dopoguerra, ma solo un espediente volto a sottolineare come il problema della politica contemporanea risieda fondamentalmente nella ricerca di modalità atte a ricreare una dialettica virtuosa fra le differenti dimensioni dell’attività democratica. La chiave di lettura proposta da Baldassarre rappresenta semplicemente un altro modo, una visuale alternativa attraverso cui guardare alle stesse problematiche focalizzate da Rosanvallon: pensare di potere esaurire la pratica democratica all’interno di uno solo dei due canali (Baldassarre), pensare di poter prendere in considerazione una sola delle dimensioni della democrazia, sia essa quella formaleelettorale o sia essa quella indirettasociale (Rosanvallon), non può che risultare illusorio e produrre alla lunga patologie degenerative di questa.


Giovani senza terra Anatomia di una generazione liquida di Gabriele Giacomini

Quello che senti in giro è questo: tante promesse a vuoto. Gli adulti continuano a darsi tutte le possibilità, come fossero loro i giovani. Prima dicevo di andare via dall’Italia, ora no. Rimanete, anche se è difficile. Restare ma venire fuori, imporsi. Fabri Fibra Introduzione I giovani di oggi vivono in un eterno Carpe diem che non ha nulla di oraziano. Sono dispersi in milioni di singole ed individuali traversate del deserto, di esodi in cui non c’è popolo, non c’è profeta, e di cui la terra promessa è tutto tranne che promessa. Dove sono i giovani? Dove si trovano? Sono in una no man’s land emotiva, economica e sociale: cognitivamente e biologicamente hanno superato l’adolescenza da molto tempo, ma chissà quando varcheranno il confine dell’età adulta. Forse fra dieci anni? Probabilmente fra quindici? Ed intanto? Senza terra, i giovani italiani vivono un presente a metà. La mancanza di radici non si traduce in una vita costruttiva, ma dispersa. È stato Zygmunt Bauman a coniare il concetto di liquidità per descrivere la condizione dell’ultima modernità, del tempo in cui siamo immersi (Bauman 2002). Liquidità sta ad indicare una forma di individualismo estremo, fondamentalista. Un concetto forte, che coglie la cifra delle attuali “magnifiche sorti e progressive”, quindi fortunato. La modernità liquida è un tipo di modernità individualizzata, privatizzata, in cui l’onere di costruire un progetto di vita e la responsabilità di un eventuale fallimento ricadono principalmente sull’individuo. I vincoli relazionali si sciolgono e gli individui diventano

propriamente ed estremamente tali. Le persone si emancipano dalla società, rendendosi libere da qualsiasi tipo di catena che impedisca od ostacoli i movimenti, ampliando la propria libertà di agire. Per lo spirito dei tempi dell’ultima modernità non è importante ancorarsi in un posto: sovraccaricare il legame con un coinvolgimento reciprocamente vincolante può essere dannoso qualora spuntassero nuove opportunità. “La società non esiste, esistono solo uomini e donne”, diceva Margaret Thatcher. Ma la liquidità estesa a principio e spiegazione unica della realtà rischia di trasformarsi nella notte in cui tutte le vacche sono nere. Nei fatti esiste una grande contraddizione, soprattutto in Italia, fra chi è liquido e chi non lo è, fra chi è acqua e chi è scoglio, fra chi è mare e chi è isola. La liquidità è una forma di individualismo che non riguarda tutti nello stesso modo. In Italia si sta verificando un conflitto, in cui invece di armi e soldati si scontrano pensioni intoccabili contro gestioni separate, contratti nazionali e a tempo indeterminato contro stage di sei mesi, radicamento nelle istituzioni politiche ed economiche contro flessibilità ed emigrazione, partiti ed organizzazioni tradizionali contro movimentismi, meetup e social network. In estrema sintesi: solidità contro liquidità. Da una parte i padri, che conservano le solidità che sono riusciti a conservare dal mondo e dal tempo da cui provengono. Dall’altra parte i giovani: se la quintessenza della modernità che viviamo è la liquidità, allora i giovani ne sono la massima espressione. Leggeri, impalpabili e non strutturati come un gas, come un fluido. Diversamente da un corpo solido, non possono sostenere una forza tangenziale


Il trionfo dell’individualismo a-politico C’è uno spirito dei tempi, un milieu simbolico, che agisce sui giovani. Che è stato inserito nel patrimonio cultural-genetico delle ultime generazioni. I depositari sono i loro padri (e, spesso, i loro nonni): quella classe dirigente autrice e rappresentante dei grandi processi sociali, economici e politici nati e sviluppati a partire dalla seconda metà del Novecento. La parola d’ordine è libertà, o meglio quel modo particolare di intendere la libertà che è la soggettività individuale. Le grandi dinamiche storiche di fine Novecento nascono dalla grande vittoria sulle dittature totalitarie e proseguono in un’epocale opera di restringimento dello spazio del potere e dei vincoli sociali in favore della massima autonomia

individuale. Movimenti storici che, tuttavia, toccati il loro apice, manifestano le loro trappole e i loro effetti collaterali. I giovani di oggi ne sono le maggiori, e spesso inconsapevoli, vittime. Come suggerisce Mauro Magatti (2012), sul piano simbolico sono due i filoni che, apparentemente in contrasto tra loro, hanno riempito l’orizzonte culturale e politico attualmente dominante. Il primo fenomeno è stato la protesta studentesca scoppiata nella primavera del ’68. I giovani di allora, spesso studenti delle università più prestigiose, futura classe dirigente, scesero in piazza per affermare un’idea assoluta di autodeterminazione e il rifiuto verso ogni forma di vincolo relazionale, di coercizione sociale ed istituzionale. Negli anni seguenti questo atteggiamento ha travalicato i circoli giovanili e ha contagiato tutte le età e gli strati sociali, permeando di sé l’intera società e rinnovandone la natura. I valori e le istituzioni del passato diventavano intollerabili: per fuggire da quel senso di soffocamento dato dall’ordine sociale e dal benessere materiale si fece rapidamente largo la richiesta di potersi esprimere con maggiore libertà, avanzando una fortissima domanda di soggettività. L’Io diventava così centro, ombelico, demiurgo, padre-padrone, metro di misura del mondo non solo interiore ma anche della vita associata. Il secondo fenomeno è generalmente percepito come politicamente di destra: il neoliberismo. Nato nella seconda metà degli anni Settanta in ambiente anglosassone, ha ripreso la scuola di pensiero liberista in polemica con l’ipertrofia degli apparati statali. Secondo questa prospettiva, nate per difendere la libertà e i diritti dei cittadini, le istituzioni pubbliche hanno finito, con il loro carico burocratico e con le loro staticità, per comprimere lo spazio di azione degli individui, al punto di diventare soffocanti. Basandosi sul (falso) presupposto secondo cui solo la scelta che nasce e muore nell’Homo oeconomicus possa soddisfare la natura libera dell’essere umano, il progetto è stato quello di ridurre drasticamente la presenza dello stato

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o di taglio. I giovani sono un corpo sul quale è facile affondare i denti. Autenticamente flessibili, i giovani si piegano, si adattano alle condizione che sono loro poste. Ecco che i giovani sono “liberi liberi - cantava Vasco Rossi ma liberi da che cosa”? Al fondo della questione, sono liberi dall’essere persone radicate nella propria realtà, il che corrisponde a dire che i giovani sono liberi di non abitare in una comunità di relazioni stabili. Liberi di essere giovani senza terra. Ma è una conquista, questo tipo di libertà così estrema? Così autoreferenziale, così fine a se stessa? Senza un luogo proprio dove affondare le radici, i giovani non trovano spazio. La società, infatti, con le sue diverse forme relazionali, è conditio sine qua non per l’affermarsi di una autonomia individuale reale e concreta, strutturata e radicata, quindi efficace. Politicamente, la liquidità della situazione giovanile si trasforma in mancanza di organizzazione e di coordinamento. I giovani sono tanto individualisti quanto politicamente afasici. Si tratta quindi di trovare un pertugio per dare spazio ad una revisione delle categorie del politico, di proporre una nuova epocale visione del mondo. Si tratta di raccontare la propria condizione, di creare quello spirito di generazione che unico può permettere ai giovani di vedersi riconosciuto un proprio spazio nella storia.


e delle organizzazioni collettive. Il mercato deregolamentato diventa il luogo per eccellenza della libera intraprendenza degli individui. L’ideale normativo dell’Homo oeconomicus, quadro di riferimento del pensiero economico moderno, un individuo razionale, egoista, che nutre un interesse esclusivo per la cura dei propri interessi individuali, che cerca sempre di ottenere il massimo vantaggio per sé stesso, che quindi basta a se stesso, diventa il simbolo di un nuovo modello sociale dominato dall’emancipazione dalle norme sociali e dalle istituzioni politiche (aristotelicamente intese, la cui natura essenziale è relazionale e collettiva). L’attuale paradosso è che questi processi della seconda metà del Novecento, seppur in origine politici e collettivi, hanno ristretto di fatto la possibilità futura di crearne nuovi. Ecco la contraddizione: questi movimenti sono nati politici e collettivi, ma veicolando dei contenuti che negano la propria natura sociale e relazionale, ovvero proponendo uno spirito dei tempi il cui baricentro è quella forma solipsistica di libertà che è la soggettività individuale. Uno spirito dei tempi così costituito ha un primo, fondamentale esito: corrode le fondamenta (fondamenta culturali, economiche e sociali) dell’avvento di un nuovo grande processo storico-politico, la cui forza non può consistere in una mera somma di individui divisi e distanti, bensì in un gruppo di persone consapevole di se stesso e fortemente coeso. I giovani italiani si dicono in molti modi. Sono tante le modalità in cui l’esperienza giovanile si sviluppa. Giovani dottorandi, giovani lavoratori, giovani madri e giovani padri, giovani manager e giovani disoccupati. Giovani emigranti e giovani di provincia, giovani creativi e giovani tecnici. Giovani settentrionali e giovani meridionali. Ma c’è un minimo comune denominatore che percorre tutte le esperienze giovanili: l’individualismo, e la straordinaria difficoltà di conquistare il futuro attraverso la creazione di un nuovo movimento collettivo e politico, di una propria visione del mondo condivisa.

La trappola di internet e dei mondi paralleli I giovani hanno le loro responsabilità: spesso si rifugiano in mondi paralleli. Abitano dei mondi separati da quello reale, in cui possono consumare appieno le loro solitudini e le loro individualità disperse, ma illudendosi di avere delle relazioni soddisfacenti, un gruppo simbolico di appartenenza, un senso e un proprio ruolo nella matassa simbolica dei rapporti con l’altro. Il primo esempio di mondo parallelo è la notte. La notte dei giovani è popolata da una società parallela, con codici di comportamento e regole proprie, in cui i giovani possono spartirsi in maniera simbolica diversi ruoli di potere e prestigio. Il vero sballo per la maggior parte dei giovani non è l’ecstasy, ma è poter creare un mondo proprio e soprattutto poterlo vivere. Luogo dove poter esercitare, in una contesa possibile, le proprie caratteristiche e le proprie capacità. Nella notte i giovani non cercano vittorie o sconfitte, ma l’esperienza totalmente nuova di uno scontro ad armi pari. Di notte il professore è a dormire, il proprio capo è a dormire. Ma i giovani, in questo modo, indirizzano le loro energie su attività relazionali, organizzative, lavorative in un mondo parallelo che non conta affatto socialmente, economicamente, politicamente. Come un pugile suonato che, non sapendo bene in che direzione battersi, fende l’aria. Il paradosso è che negli ultimi anni sta avvenendo una colonizzazione degli spazi vitali dei giovani da parte dei loro padri e dei loro nonni. Non solo i giovani si arroccano nella notte, ma è il mondo degli adulti e degli anziani che erode quello notturno, fino a pochi anni fa giovanile per eccellenza. Simbolo palese ed estremo di questo processo è Silvio Berlusconi che, non sufficientemente sazio delle sue giornate, vive anche le notti, passandole spesso in compagnia di quelle che potrebbero essere la fidanzate dei suoi nipoti. Ma il caso più eclatante di mondo parallelo sono i social network. È un caso esemplare delle dinamiche del mondo contemporaneo: nel momento in cui la società erode alcuni del beni tradizionali, come i beni ambientali oppure i beni relazionali, il mercato crea dei surrogati.


delle democrazie in cui abbiamo – nonostante tutto – la fortuna di vivere, non trae la propria origine e legittimazione da like o cinguettii. Le dinamiche della decisione pubblica non sono esattamente come quelle di Facebook, dove tutti sono in grado di intervenire in prima persona. Nella nostra democrazia ci sono i corpi intermedi, i partiti, i sindacati, le associazioni di categoria. Istituzioni come la magistratura, la stampa, le autorità indipendenti e così via. Per non parlare dei luoghi di potere economico. È qui che si giocano le partite decisive per il futuro dei giovani. Ma i giovani sono soli e divisi, vivono il trionfo delle ideologie dei padri scontandone appieno il prezzo. Molti vivono serenamente la loro condizione liquida, credendoci quasi a quella visione falsa-romantica, a quella immagine un po’ cogliona e scioccamente eroica del giovane con un cervello, alcune skills, il computer portatile, un trolley con due ruote e null’altro. In questa situazione, cosa di meglio di skype, facebook e twitter? Se è sempre più difficile parlarsi, confrontarsi faccia a faccia, organizzarsi, ci si accontenta di facebook, che ci da l’illusione di essere compatti e vicini anche se si è soli e lontani. Pazienza se non ci sono più tutte le realtà che hanno maturato le maggiori vittorie politiche del secolo scorso. Pazienza se la famiglia è in crisi, se non c’è più la piazza reale, se non c’è più un sindacato a cui iscriversi, se i partiti sono brutti, se non ci sono più parrocchie, se non esiste più la formazione politica. Pazienza, è il progresso. Voglio andare a vivere in Inghilterra La guerra fredda (e spesso inconsapevole) fra generazioni non si consuma solo in ambiti simbolici e di senso, ma anche nel terreno dell’agire quotidiano. E la globalizzazione, cifra del mondo e del mercato contemporanei, non sembra certo unire i giovani, ma è piuttosto la maggiore spinta centrifuga, l’ennesima occasione per continuare a perseguire, come scrive Bauman, “soluzioni personali a contraddizioni sistemiche”, cercando “la salvezza individuale da problemi

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Che possono essere, nel caso dell’ambiente, piscine al posto di mari puliti, mentre nel caso del rapporto con gli altri, social network al posto di incontri reali. Piazze virtuali invece di piazze reali. Il caso dei social network mostra la doppia dinamica che immobilizza il giovane italiano: prodotti dall’intreccio di due movimenti politici quali l’ideologia sessantottino-individualista e quella neoliberista, i social network offrono surrogati di relazione, illusioni di comunità, contribuendo politicamente ad allontanare i giovani dalla società reale. Nel racconto dei movimenti di piazza che hanno portato alla caduta dei regimi dispotici del Nord Africa è stata data grande importanza al ruolo politico dei social network, considerati fattori decisivi nel determinare il successo delle insurrezioni. Ma, visti anche gli esiti, il ruolo dei social network è stato probabilmente sopravvalutato dall’occidente. Ad esempio è stata data particolare importanza a quei protagonisti delle rivolte che hanno visibilità sulla rete trascurando quelli, in realtà ben più importanti, che hanno un radicamento nella società ben più forte e capillare. Come i Fratelli musulmani, che non usano i social network semplicemente perché non ne hanno bisogno. Ma al di là della interpretazione sul singolo fatto storico, quello che interessa maggiormente sono i binari paralleli su cui scorrono evidentemente piazza virtuale e piazza reale. La libertà creativa tipica dei social network può risultare efficace nelle primissime fasi delle mobilitazioni e dei movimenti politici, ma poi mostra tutti i suoi limiti. Il limite principale sta proprio nel fatto che i social network sono portatori di una concezione anarcoide dei rapporti intersoggettivi: in teoria, tutti possono comunicare con tutti parlando di tutto. Ma nel magma indistinto e tendenzialmente destrutturato della comunicazione dei social network non si crea un’identità che non sia pilotata, non si consolida una memoria collettiva, un senso d’appartenenza. Elementi invece necessari per trasformare un insieme di persone (ancorché organizzato) in un gruppo coeso in cui i membri possano identificarsi. Il potere che conta, quello


comuni” (2003). Una salvezza a singhiozzo, che non basterà alla grandissima parte dei giovani, che non sarà tale se non per pochi. Secondo la vulgata comune, una possibile strategia per i giovani, oltre all’adattarsi a quanto il sistema sociale ed economico italiano offre, è la fuga verso l’estero. Do you speak english? In effetti, il mondo globalizzato permette una via di fuga dal problema giovanile che storicamente non è mai stata tanto facile. Ma è una via d’uscita centrata ancora una volta sulla soggettività individuale, non sull’azione coordinata e collettiva. Pochi anni fa l’allora rettore della Luiss e manager di lungo corso, Pierluigi Celli, ha scritto una lettera aperta al figlio appena laureato, pubblicata su uno dei maggiori quotidiani italiani. Il titolo è eloquente: “Figlio mio, vattene dall’Italia” (Celli, 2009). Quando è uscita, la lettera ha fatto molto scalpore, uno scalpore spesso simpatetico verso l’autore: in molti hanno dato, a ragione, il merito a Celli di aver portato all’attenzione dell’opinione pubblica su un problema macroscopico ma fino ad allora poco, se non per nulla, presente nel dibattito pubblico italiano. Ma, a ben vedere, il contenuto e il senso della lettera è un inquietante condensato di egoismi ed egocentrismi di cui la generazione dei padri sembra non riuscire a fare a meno. Celli sostiene che la sua generazione ha fallito, che questo Paese non è come avrebbero voluto (e dovuto) lasciarlo ai propri figli. “Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio”. Quindi? Non è l’autore della lettera o la sua generazione a doversi farsi da parte, è il figlio e i suoi coetanei che farebbero bene ad andarsene. L’invito ad andarsene è l’ennesimo segno di arroganza di una generazione che dichiara di aver fallito, che ne è ampiamente consapevole, ma che dopo aver dato cattivi esempi si riserva comunque il diritto di dare buoni consigli. I ragionamenti dei genitori italiani seguono il cammino battuto da Celli: ho contribuito agli errori che sono stati fatti, ma mi sono guadagnato la mia posizione, in un modo o nell’altro me la sono conquistata.

Fanno valere quelle conquiste del dopoguerra che predicavano individualismo ed emancipazione ma che sono state raggiunte solo in quanto collettive. Ma mentre i padri difendono conquiste collettive che sentono legittime, predicano soluzioni individuali ai loro figli. Il genitore Celli è disposto addirittura a sacrificare il rapporto con il proprio figlio, quelle che chiama le “dolci consuetudini del nostro vivere uniti”, pur di non mettersi realmente in discussione. Questo fatto può essere visto come la volontà di far crescere i propri figli con la schiena dritta, di incoraggiarli nella dura conquista dell’indipendenza e della realizzazione. Ma l’indipendenza non ha assolutamente nulla a che fare con l’andarsene, con lo scappare, con la fuga a gambe levate. I propri natali, la propria piccola patria, i legami familiari, la propria lingua non sono giochetti da bamboccioni che non vogliono crescere. Sono le colonne di una nazione e i fondamenti della vita di una comunità, e i giovani emigrati lo sanno molto bene. La forza d’animo, di cui i giovani hanno tanto bisogno, non esiste al di fuori dell’interesse, e l’interesse non esiste al di fuori di un legame emotivo. E allora il discorso del genitore che dice al figlio: “Sii autonomo! Vattene!” racconta lo spirito di corpo di una generazione che, dall’interno del suo fortino, consiglia ai figli di vivere sulla pelle tutte le conseguenze del mondo che ha creato. Quello che preoccupa ancora di più è che, secondo l’indagine del recente Rapporto Giovani, quasi il 50% dei giovani (48,9%) si dichiara pronto ad andare all’estero per migliorare le proprie opportunità di lavoro. Solo meno del 20% non è disposto a trasferirsi. Inoltre i più disposti a trasferirsi per inseguire migliori opportunità di valorizzazione del proprio capitale umano sono proprio i laureati, appunto a conferma del rischio di “brain drain”, non solo di “brain waste”, che corre il Paese (Istituto Toniolo, 2012). Secondo l’economista e politologo Hirschman (1970), sono diverse le possibili attitudini degli individui verso una organizzazione. Esistono tre categorie principali di comportamenti: loyalty, che consiste nel riaffermare lealtà; voice, che consiste


Protettivi con i figli propri, egoisti con quelli altrui Se non si sceglie la via dell’emigrazione, si resta in Italia. Ma a quali condizioni? La tanto vituperata famiglia è l’ennesima “trappola necessaria” italiana in questo mondo liquido, di cui i giovani ne sono allo stesso tempo fruitori e vittime. I supporti pubblici ai giovani sono ai minimi storici. Gli studenti universitari beneficiari di borse di studio sono una esigua minoranza. Per il lavoro va ancora peggio: non esistono ammortizzatori socialmente condivisi. Data la bassa anzianità contributiva dei giovani o l’assenza di un contratto di lavoro formalmente dipendente (nel caso dei parasubordinati, per non parlare degli stagisti), chi perde il posti di lavoro, e lo perde molto spesso, non ha diritto a ricevere sussidi di disoccupazione, oppure li riceve solo per brevi periodi. Così l’unico ammortizzatore sociale dei giovani è il supporto della famiglia di origine: un posto letto e il pasto caldo della mamma.

Vivere nella casa dei genitore permette ai giovani disoccupati in cerca di lavoro e ai lavoratori temporanei con salari modesti di mantenere un tenore di vita simile a quello a cui sono stati abituati, quindi simile a quello dei genitori: i costi aggiuntivi di una persona in più in casa non sono certo paragonabili a quelli necessari per vivere da soli. Con un mercato del lavoro che propone insicurezza, salari da fame (quando ci sono), scarse prospettive di inserimento e di crescita professionale, i giovani si appoggiano ai genitori. Ecco che la maggioranza dei giovani italiani fra i 18 e i 34 anni, quasi il 60 per cento, vive ancora con i genitori (Istat 2012). Il motivo è presto detto: gli italiani sono consapevoli del fondamentale ruolo che gioca nel tutelare le giovani generazioni in Italia. Secondo una inchiesta condotta da Demopolis (2011), una volta posta questa la domanda su chi tuteli maggiormente i giovani, appena il 5% dei cittadini cita partiti o sindacati, il 3% governo e parlamento; oltre un terzo, il 34%, ritiene che nessuno oggi tuteli i giovani. Resta fondamentale, secondo la ricerca di Demopolis, il ruolo di sostegno e di ammortizzatore sociale svolto dalla famiglia: una convinzione espressa dal 58% degli intervistati, che la considera ancora il riferimento più saldo ed affidabile, ma anche l’unica vera rete di sostegno per chi studia o cerca un posto di lavoro. Il paradosso tutto italiano, sottolineato dagli economisti Boeri e Galasso (2007), è che i padri italiani sono generosi con i propri figli, ma egoisti con i figli degli altri. Tradotto seguendo l’interpretazione di questo saggio: fino a quando i padri pensano i propri figli in termini individuali, personali, familiari, li appoggiano, ma quando è necessario pensare i propri figli in termini collettivi, generazionali, politici, allora scatta una vera e propria guerra fredda. Fra le generazioni si è instaurato una sorta di aparthaid: da una parte stanno i padri con i loro diritti conquistati grazie ai grandi movimenti politici del 900, dall’altra parte stanno i loro figli, a cavallo di una valigia, di un personal computer, di una ideologia che li rende prime e spesso inconsapevoli vittime dei contenuti delle ideologie

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nell’attivare la protesta esplicita attraverso i canali esistenti e cercando di cambiare le scelte; oppure exit, ovvero abbondare l’organizzazione, soprattutto quando esistano altre organizzazioni alternative attraenti. Mentre la fuga solitaria viene presa seriamente in considerazione da molti giovani, l’opzione voice, l’unica che può cambiare la situazione in Italia, in maniera collettiva, è lungi dall’essere immaginata, percorsa, condivisa da quella che potrebbe essere la futura classe dirigente italiana. Questo è un sintomo molto preoccupante. Il dubbio è se i giovani vivano una sorta di Sindrome di Stoccolma, quel processo mentale perverso secondo cui la persona in ostaggio comincia a simpatizzare con la visione del mondo dell’aguzzino. Con la fuga dei cervelli, di persone spesso fra le più capaci e motivate, di fatto si oblia una parte importante dell’élite italiana, che fugge per non combattere. D’altro canto, in un paradigma sociale e valoriale fortemente individualista, come biasimarli? Come biasimare questo semplice e puro esercizio di coerenza con uno spirito dei tempi che ti domina il capo?


paterne, rappresentante dal paradigma della soggettività individuale. Fuori dalle mura domestiche, il giovane vive in un vero e proprio ghetto economico, politico e sociale. In un luogo fatto di liquidità, flessibilità ed incertezza, e definito da regole proprie, particolari, e generalmente restrittive e penalizzanti rispetto a quelle del mondo fuori, da cui solo alcuni salvati riescono ad uscire. Proprio di aparhaid parla il giuslavorista Pietro Ichino (2011). Senza entrare nel merito delle diverse possibilità di riforma, la situazione tratteggiata è molto lucida. Alla progressiva erosione dell’ambito del lavoro stabile tradizionale, che ormai raggiunge solo una quota residuale dei nuovi occupati, ha corrisposto la creazione di un mercato del lavoro parallelo, strutturalmente precarizzato e sottratto al sistema legale di protezione, nel quale oggi rischiano di rimanere confinate intere generazioni di lavoratori. Il costo di questa condizione di apartheid è in primo luogo la sua drammatica iniquità generazionale: a rimanere definitivamente catturati nella trappola della precarietà sarebbero soprattutto i lavoratori più giovani, quelli entrati nel mercato del lavoro negli ultimi dieci-quindici anni. In una sorta di drammatica eterogenesi dei fini, schemi contrattuali che nelle intenzioni dei loro proponenti dovevano funzionare come strumenti inclusivi, di incentivazione e accompagnamento verso il lavoro stabile e regolare, si sono trasformati di fatto in recinti e barriere invalicabili, percepiti e sofferti dalle persone come un vero e proprio ghetto. Secondo Datagiovani (2012), il precariato in Italia registra una crescita costante. Il deterioramento del mercato del lavoro giovanile è rappresentato proprio dalla crescita del precariato, la cui incidenza tra gli Under 35 è raddoppiata in otto anni, passando dal 20% del 2004 al 39% del 2011, e nel primo trimestre 2012 si sarebbe già sfondato il muro del 40%. Non solo: un lavoratore precario, generalmente giovane, percepisce dal 20% al 33% in meno nella retribuzione media netta mensile rispetto a un collega non precario, eppure i giovani sono generalmente più qualificati della

generazioni dei padri. Come mai questo paradosso? La motivazione non può che politica: la distribuzione di diritti e doveri è operata con diversi pesi e diverse misure. Da un lato chi è organizzato e chi ha conquistato determinate posizioni di potere, dall’altro lato chi è solo, è diviso e deve ripensarsi quasi quotidianamente, sotto la spada di Damocle della precarietà e dell’incertezza. Molte volte l’invito fatto ai giovani è quello di non essere bamboccioni, o di non essere choosy, come disse il ministro Fornero. Insomma, l’invito è di uscire allo scoperto, costi quel che costi. Ma come? Accontentandosi di quello che è dato (chi tentenna è - appunto choosy), facendosi strada con il tempo. Tirando fuori il meglio di sé e, ovviamente, competendo. Secondo lo spirito dei tempi, secondo l’ideologia della soggettività individuale, l’individuo è tenuto ad essere performante, a superare gli standard, ovvero a competere, ad ingaggiare una gara con l’Altro. Questo è tutto quello che conta, si sentono ripetere i giovani: rapidità e velocità nell’ottenimento dei risultati costituiscono i valori prioritari dell’agire sociale. Non c’è spazio per rallentamenti, riflessioni, ritardi, gratuità, momenti di socialità. I meritevoli ce la faranno? Certo, i migliori ce la faranno, ma il dramma della competizione fra giovani è di quella di chi si ruba il pane a vicenda. Nel ghetto, nel loro aparthaid. E così i giovani ingaggiano una guerra fra disperati, per uno stage da 400 euro, per un dottorato senza borsa, per delle supplenze a singhiozzo. Dividi et impera. Ecco in cosa sono focalizzate le loro energie: in questo genere di battaglie. Intanto lo scettro politico ed economico è saldamente in mano alla generazione autrice delle due grandi maree politiche della seconda metà del Novecento: il sessantotto e il neoliberismo. Politicamente,non sono certo i giovani a scegliere questa situazione. E così sono i padri i primi difensori politici di quel tipo di rapporto intimo e familiare che evoca il termine “bamboccioni”. Sono i padri, per interesse personale misto ad inconsapevolezza, ad essere i paladini di quei processi che fanno del giovane un bambino, con quelle necessità biologiche,


concrete e disperate (che non derivano da una scelta autenticamente libera) tipica dell’infante che senza la propria madre non riesce a vivere. I propri figli, in fondo, li vogliono eterni bambini.

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Visioni e cambiamenti di paradigma L’individualismo e la sostanziale solitudine dei giovani è il muro contro cui si infrangono le legittime esigenze dei giovani, le loro competenze, i loro sogni e le aspirazioni. Il loro stato di minorità non è legato alle competenze o al carattere, ma è culturale e quindi organizzativo relazionale, fondamentalmente politico. Attualmente il giovane italiano che vuole opporsi allo status quo è costretto alla condizione di kamikaze: non ha il terreno solido per ampliare la sua sfera di azione, non ha reti relazionali forti da cui nascano ideologie nuove, il perimetro della sua battaglia è circoscritto alla sfera del suo corpo, delle sue mani e della sua carne. Al massimo, della sua famiglia o dei social network a cui è iscritto. Come un kamikaze, può andare incontro alle corazzate dei padri e dei nonni usando il proprio corpo come arma. Il giovane italiano è costretto all’inazione perché è, di fatto, un naufrago fra Scilla e Cariddi: ovvero fra la solitudine, fra l’essere individuo nel senso sostanziale del termine, e la società nelle sue molteplici relazioni economiche e di potere da cui è escluso. Esule delle organizzazioni intermedie e reali dominate da un’altra generazione. Senza terra, i giovani non trovano spazio. L’unica speranza di cambiamento non è economica, non è tecnologica, è culturale e politica nel senso più pieno del termine. È necessaria una nuova epocale visione del mondo, che possa permettere ai suoi giovani autori la possibilità di conquistare l’immaginario collettivo, i simboli culturali, e con essi i luoghi del potere politico ed economico. Questa operazione non può essere compiuta dai padri e dai nonni. Non sarebbe loro possibile neanche se lo volessero. La grande sfida dei giovani italiani è riuscire ad immaginare un mondo nuovo. Come ricorda uno dei più grandi filosofi del Novecento, Thomas Kuhn (1969), ogni nuova interpretazione del mondo sorge dapprima nella mente

di un singolo o di pochi individui. Sono essi che per primi imparano a vedere il mondo in maniera differente per due condizioni principali, che non si trovano nella maggior parte dei membri della comunità. Innanzitutto la loro attenzione si è potuta focalizzare sui problemi che provocano la crisi, inoltre essi sono, di solito, così giovani o così nuovi al campo oppresso dalla crisi che la pratica non li ha ancora così profondamente condizionati come la maggior parte dei loro contemporanei alla concezione del mondo e alle regole determinate dal vecchio paradigma. Una volta operato questo sforzo stra-ordinario nel senso etimologico del termine, come convertire la comunità dei propri simili, facendo abbandonare loro una tradizione di pensiero a favore di una nuova visione? È normale aspettarsi una resistenza opposta fra coloro la cui carriera è stata legata alla vecchia visione del mondo. Alcuni membri, particolarmente quelli più vecchi e con maggiore esperienza, possono resistere indefinitamente. Spesso si richiede una generazione per effettuare il mutamento. Di certo valorizzare i giovani non è un gioco a somma zero. Liberare i giovani significa togliere opportunità e risorse ai loro padri nel breve periodo, ma aumentarle nel medio e lungo periodo. Solo una società che permette ai propri giovani di esprimersi, di progettare, ideare, generare, di avere una prospettiva realistica, una meta percorribile, di attivare quell’energia che hanno dentro di loro, ha la possibilità di rinnovarsi nel suo complesso, di svilupparsi nella sua interezza. Altrimenti, parafrasando Keynes, “nel breve periodo saremo tutti morti”. Tutti, sia i figli sia i padri. Non è forse in questo prescindere dai giovani che sta il più preoccupante segno del declino italiano?


Nota biografica Laureato in Filosofia della mente, della persona, della città e della storia all’Università San Raffaele di Milano nel 2011. Da gennaio 2012 è studente di dottorato in Neuropsicologia cognitiva e filosofia della mente all’Università San Raffaele di Milano e all’Istituto di Studi Superiori di Pavia. Ha lavorato alla Scuola Enrico Mattei di Eni Corporate University e ha collaborato con diversi centri di ricerca. Da maggio 2013 è Assessore all’innovazione e allo sviluppo economico della Città di Udine. Sul tema del rapporto fra politica e giovani ha pubblicato con Furio Honsell Prima che sia domani: padri, figli, un’alleanza per ripartire (Mimesis edizioni, 2014).


Documenti

p. 120 ≥ Maria Grazia Turri

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Da una società frantumata alla comunità L’economico “stato di eccezione” come cifra della politica di Maria Grazia Turri

Il potere corrompe sempre, ma qualcuno deve pur governare La talpa, John Le Carré

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1. Memorie rimosse Facciamo il punto della situazione avvalendoci delle parole di un lavoratore manuale: “Il fardello terribile del dissesto minaccia di trascinare in un vicolo cieco l’intera economia nazionale. … Migliaia di fabbriche chiudono i battenti. Il governo si accanisce a tal punto sui cittadini che tanta brava gente per sfamarsi deve ridursi a rubare”. Il perdurare della crisi modifica la sensazione dello stato delle cose e al principio di ogni anno si è ritenuto di aver sfiorato il fondo e sistematicamente l’anno dopo le cose si sono palesate come ancor più gravi. Da dieci anni è in atto una ristrutturazione del debito statale. Siamo in presenza di ventate di licenziamenti da parte di imprese di qualsiasi dimensione. Gli uffici di collocamento registrano 3.218.000 disoccupati, pari al 14% della popolazione in età da lavoro, ma se si tenesse conto dell’orario di lavoro ridotto in molte aziende, il numero si aggirerebbe sui 4 milioni e mezzo. Siamo in presenza di un disoccupato ogni 10 lavoratori. Fra i disoccupati poi, solo 2/3 scarsi possono usufruire delle modeste somme messe a disposizione dai fondi della previdenza contro la disoccupazione, mentre gli altri sono costretti a vivere dell’esiguo sussidio distribuito dall’assistenza cittadina, o a fare addirittura a meno di qualsiasi tipo di ausilio. Il 64% dei disoccupati è al di sotto dei 30 anni e, all’interno di questo gruppo, la fascia più colpita è quella che ha terminato da poco i diversi corsi di studio che da soli

costituiscono il 20% dei senza-lavoro. Le prospettive non sono promettenti neppure per i giovani forniti di istruzione universitaria: ingegneri e architetti o sono disoccupati o si devono accontentare di posti di second’ordine. Ormai è saturo anche il mercato delle libere professioni, tanto che i nuovi medici e avvocati si inseriscono con grande difficoltà nel mondo del lavoro. La caduta della domanda ha messo sul lastrico la gran parte dei gestori di piccoli esercizi commerciali, gli artigiani e le imprese industriali minori. Nell’ultimo anno il consumo di carne della popolazione è sceso del 4% e l’industria automobilistica accusa un calo produttivo del 35%. Produzione industriale, prezzi e salari cadono. L’immiserimento progressivo di operai, impiegati, della piccola borghesia e del ceto medio mette maggiormente in risalto l’ostentata ricchezza di una fetta della popolazione. La cultura non offre stimoli immediatamente tangibili, né sostanze nutritive valorizzanti. La crisi economica, diffondendosi in ogni dove, ha scompaginato le precedenti strutture di vita e toglie il riposo e la serenità. Non solo ci sono tutti questi disoccupati, ma il lavoro ha perso valore anche per la maggioranza della popolazione e questo si accompagna alla perdita dell’autostima e cresce l’amarezza per la sensazione di essere traditi e frustrati. Avanzano così le istanze di rinnovamento e di una società più giusta, nella speranza di non tornare alle vecchie gerarchie sociali del passato, fondate sul rango, sui privilegi e sulla ricchezza di una minoranza. La richiesta è quella di una società che salvaguardi i talenti e le inclinazioni, valorizzi le capacità, supporti lo spirito di iniziativa e la creatività.


Il governo si trova a dover affrontare il problema di un’intera popolazione di contribuenti che dichiarano il falso e questo non è certamente una situazione facile da rimediare. A peggiorarla si aggiunge il fatto che le persone sono sempre più deluse e scettiche nei riguardi della classe politica; si tratta di un sentimento diffuso a tutti i livelli, ampliato dalla dilagante corruzione. Così depressione economica, depressione sociale e depressione nazionale si intrecciano. Più si è allargata la crisi più si è andato restringendo lo spiraglio di strategie politiche e tanto maggiore è stato lo spazio che si è aperto a libere iniziative individuali sul piano politico. Due anni fa si è così dovuto mettere in piedi una sorta di Grande Coalizione, che ha prodotto una rafforzamento dei poteri presidenziali e che ha visto tre partiti stretti nella morsa dei vincoli di austerità imposti dall’esterno per il debito contratto e che ha tentato di far fronte sia a una disoccupazione che aveva già raggiunto i 2,8 milioni, comunque ben al di sotto dei valori attuali, sia all’inconciliabile scontro fra tasse e sussidi per il lavoro. Grande è stato lo stupore della stampa per il fatto che alle ultime elezioni 6.400.000 cittadini abbiano dato il voto “alla ciarlataneria più comune, insulsa e piatta”. E così il nuovo partito ha ben centosette parlamentari e rappresenta il secondo raggruppamento. Da un giorno all’altro il panorama politico è improvvisamente mutato. Ma a causa degli effetti della crisi economica, anche di fronte al nuovo partito i cittadini hanno manifestato perlopiù indifferenza e scetticismo sul fatto che l’ennesimo avvicendamento possa portare a un qualche miglioramento. Eppure il nuovo partito è riuscito a condurre alle urne elettori che da tempo non erano più avvezzi a praticarla, convogliando su di sé un coacervo di motivazioni individuali e facendo breccia sulle dimensioni emotive. Inoltre, gli esponenti della nuova formazione hanno dichiarato che “il nostro partito rappresenta l’unico argine contro la ribellione sociale” e che si tratta di denunciare la “tirannia dei tassi d’interesse” in modo da poter espanderne

benefici effetti sulle piccole industrie e sul ceto medio proprietario. E se non bastasse, la situazione è stata resa ancor più complessa dal fatto che il mandato settennale dell’ottantaquattrenne Presidente della Repubblica è scaduto proprio a ridosso delle elezioni. Così, le condizioni della grave crisi economica e la paura di una furibonda contesa politica hanno fatto sì che i partiti, nell’impossibilità di mettersi d’accordo sul nome di un nuovo Presidente, abbiano chiesto al vecchio di rendersi disponibile per un nuovo mandato e nonostante la sua riluttanza, con una consistente maggioranza questi è stato rieletto. La situazione è così precaria sul piano economico e politico che quando il partito di opposizione presenta una mozione per lo scioglimento anticipato del parlamento gridando al massimo esponente del partito di maggioranza: “Non resti attaccato alla poltrona!”, questi risponde “Vi potete davvero risparmiare questo divertimento a buon mercato. Senza voler fare il superbo, sono seriamente convinto che finché sono rimasto attaccato a questa poltrona, le cose si sono sempre rivolte per il bene del popolo …Se si fossero verificate le stesse crisi di governo a scadenza ravvicinata che hanno turbato… [altri periodi della Repubblica]…, adesso la nostra economia sarebbe peggiorata di molto”. Quella descritta fino a ora non è l’Italia del 2013, bensì la Germania del 1928-19321. Una Germania che dopo il 30 gennaio 1933, il giorno delle elezioni che sancirono la vittoria del partito Nazionalsocialista, non sarebbe più stata lo stesso Paese. Quel giorno segnò una fine e insieme un inizio: da un lato Hitler fece precipitare l’Europa verso una mattanza senza precedenti e di converso Roosevelt accompagnò l’America verso il New Deal, con una politica economica che introdusse come modello di sviluppo sociale ed economico il welfare. La Germania veniva da alcuni anni di prosperità nei quali si era indebitata, prevalentemente con gli Stati Uniti, per pagare le riparazioni della I Guerra mondiale. Anni che avevano alle spalle il lungo periodo di iperinflazione (1919-1923), le cui prime avvisaglie


2. Il realismo dell’incertezza Il susseguirsi delle crisi, che dal 2007 hanno attanagliato prima gli Stati Uniti e poi l’Europa e ora stanno compromettendo i ritmi della crescita dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei loro satelliti latino americani, asiatici e africani, sembrano aver mandato in frantumi un intero pantheon di miti e simboli che da decenni imperversano nei Paesi

occidentali: si cresce ininterrottamente in termini quantitativi, anche se di poco ma si cresce; qualunque bene prodotto verrà sempre comprato a prescindere dalla sua effettiva utilità o necessità poiché è sufficiente con un buon marketing indurne il bisogno; i figli avranno maggiori opportunità dei padri; il numero dei laureati sulla popolazione sarà sempre in espansione; vivremo più a lungo dei nostri predecessori; gli economisti, prima o poi, troveranno soluzioni per far fronte alle disfunzioni che danno origine alle recessioni; le crisi sono temporanee e rappresentano un incidente di percorso nella crescita illimitata; dalla crisi inesorabilmente si esce e si esce rafforzati; la tipologia e qualità dei consumi normano, definiscono e convalidano l’immagine che abbiamo di noi e/o che desideriamo offrire. Tutte queste certezze sembrano essere andate in briciole e con esse anche le nostre identità necessitano di nuovi ancoraggi; assistiamo a una frantumazione dei corpi individuali e dei corpi sociali e a un perturbamento generalizzato3, condizione molto ben ipostatizzata da Thomas Bernhard in Perturbamento: «…Tutti siamo vittime di questi perturbamenti. Viviamo tutti insieme in un edificio che non è grande, come si potrebbe credere, in effetti è angusto, invece, e siamo lontani uno dall’altro centinaia di chilometri. Se uno chiama, l’altro non sente. Per settimane intere le condizioni del tempo opprimono il nostro sistema nervoso in maniera catastrofica, riducendolo a uno stadio primordiale. Finché a un certo punto, arrivati a uno stadio di assoluto abbattimento, solo allora, improvvisamente, ricominciamo a parlare, ci aiutiamo l’un l’altro a riprenderci, cominciamo a capirci, per poi tornare, pochissimo tempo dopo, a non capirci più, a non capir più niente uno dell’altro… »4. Senza ombra di dubbio viviamo in un’epoca in cui l’incertezza domina per una pluralità di ragioni e rappresenta la cifra del nostro tempo: la complessità delle crisi economiche, le scoperte neurobiologiche e genetiche e le nuove tecnologie rappresentano un triangolo intorno al quale

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si ebbero già nel 1915 per una politica del credito espansiva finalizzata al finanziamento della guerra e utile anche a proteggere le riserve auree del Paese. Per dare l’idea dell’imponenza del fenomeno basti pensare che ogni mattina, nel 1923, i giornali pubblicavano la lista dei prezzi del giorno; per qualsivoglia settore commerciale e nell’ambito di ciascuno di essi, per ogni categoria di merci, si doveva moltiplicare per un indice diverso. Per il più banale degli acquisti in un negozio occorrevano due o tre minuti di calcoli e, una volta calcolato il prezzo venivano impiegati altri minuti per contare le banconote necessarie per pagare. All’iperinflazione ha fatto seguito un lungo periodo di stagnazione che aggravò ulteriormente la condizione sociale dell’intero paese, rendendola drammatica. Così gli indumenti per coprirsi divennero più essenziali della democrazia e il cibo più necessario della libertà, tanto che in una lettera del 24 luglio 1933 il cardinale Michael von Faulhaber indirizzata a Hitler, dichiarava: «Quello che il vecchio sistema parlamentare e partitico non è riuscito a compiere in sessant’anni, lo ha ottenuto in sei mesi la Vostra lungimiranza di uomo di stato»2. Non c’è dubbio che l’impressionante parallelo è da un lato un monito e dall’altro ci dice che ciò che deve essere potenziato è una visione non contabile dell’Unione Europea, che rimane la più rilevante ideazione politica, civile ed economica degli ultimi due secoli. Per irrobustire tale ideazione gli Stati membri hanno bisogno di rafforzarne le strutture politiche e gli Stati nazionali devono rinunciare in modo consapevole, con il coinvolgimento dei cittadini, a spazi di sovranità.


si costituiscono gli spazi di democrazia e i caratteri dei diritti e dei doveri e i loro limiti e confini, così come le categorie e i fatti sui quali si definisce la responsabilità individuale, relazionale e sociale. Soltanto nel XVII secolo è avvenuto un analogo salto qualitativo, al tempo della crisi delle strutture agrarie e della manifattura, del cambiamento nei Paesi protagonisti delle relazioni commerciali, degli effetti delle carestie e della guerra dei trent’anni, della bolla speculativa del tulipano, della crisi demografica; ai tempi della scoperta del microscopio, del telescopio e della possibilità data dalla stampa di diffondere la conoscenza e di valutare le sacre scritture con modalità e criteri anche personali. Da un lato, lo sviluppo e la pervasività del sistema finanziario, dall’altro il continuo indebitamento privato e pubblico che ha caratterizzato i paesi occidentali ha reso centrale il termine rischio, che dall’economico si propaga al sociale e dal sociale si riflette sulle e nelle storie individuali. La governabilità del rischio sembra così ricadere sulle spalle dei singoli quando all’evidenza l’essere entrati in questa dimensione appare invece essere una responsabilità di chi detiene le leve del potere5. Quella del rischio6 è una questione riproposta in tempi recenti da Ulrich Beck come chiave generalizzata di lettura della società occidentale7. Il termine chiave intorno al quale ruota la riflessione di Beck è quello di “post”. Ci troveremmo di fronte a una sorta di seconda modernità8, che deve tener conto di un passato non ancora entrato nell’oblio e di uno sguardo sul futuro caratterizzato da una società che già prende piede, votata ai rischi globali, naturali, sociali; percorsa da esigenze di bilanciamento delle contraddizioni, da comportamenti che oscillano fra continuità e lacerazioni generate dallo Stato, dalla scienza e dall’economia: i tre pilastri della sicurezza sociale che dovrebbero essere granitici e che invece sono stati erosi. Vivremmo pertanto dentro a un nuovo “stato di eccezione” con una relativa assenza dei limiti e in presenza di catastrofi intenzionali e inintenzionali e in uno stato rivoluzionario permanente,

nel quale si sovrappongono lo stato normale e lo “stato di eccezione”9, il cui esito è l’insorgere di stati autoritari, anche in occidente; cosicché per la paura del fallimento economico e sociale la dimensione autoritaria è sottilmente dominante. Ingredienti dello “stato di eccezione” sono morte e lutto sin dalla Roma antica10. Una dimensione, quella dello “stato di eccezione”, che in questi anni è stata il leitmotiv di tutti i provvedimenti economici proposti e presi dalle Istituzioni internazionali e nazionali, e anche molte dimensioni politiche sono state il frutto di accorati appelli sempre evocandolo. È indubbio che L’Uomo senza Qualità abbia narrato la rovina e la decadenza dell’impero austro-ungarico a dispetto delle fastose azioni messe in atto per sottrarlo alla morte. Oggi è José Saramago con Lucidità che raffigura le caratteristiche salienti della società attuale e della dimensione fra questa e la rappresentanza politica. Non a caso sono gli stessi protagonisti di Cecità che tornano in campo in Lucidità, visto che c’è un indubbio nesso fra la “rivolta bianca”, narrata in quest’ultimo romanzo, e l’epidemia di cecità che, solo quattro anni prima, si era diffusa come la peste. Le domande a cui questa opera narrativa tenta di rispondere sono: che cosa può capitare in un paese nel quale alle elezioni i cittadini della capitale decidono in massa di votare scheda bianca? e quali meccanismi vengono attivati per contrastarne gli effetti di fronte a un potere arrogante testimoniato dalle relazioni fra i vari rappresentanti del governo, fra il Governo e i cittadini e fra i vari livelli di Governo? Nella Nazione - in realtà la città di Lisbona – in cui il racconto è ambientato la classe dirigente si manifesta come arrogante e bugiarda e così alle elezioni risultano validi solo il 25% dei voti, così distribuiti: Pdd (Partito di Destra) 13%, Pdm (Partito di Mezzo) 9%, Pds (Partito di Sinistra) 2,5%; pochissimi voti sono nulli e pochissime sono le astensioni, ma più del 70% risultano essere le schede bianche. Il potere considera l’accaduto una vera catastrofe e così la settimana successiva vengono realizzate nuove elezioni, nelle quali i partiti perdono ulteriore consenso e le schede bianche


ma che consente il recupero della dignità e il ripristino di regole che non appartengano al presupposto schmittiano. È quindi rilevante costruire un consenso sui principi per dare maggiore spazio al conflitto sulle interpretazioni. Di conseguenza il consenso non rappresenta un totem di per sé, ma solo l’obiettivo della condivisione delle regole e non dei contenuti e questo ripropone la dicotomia valoriale fra posizioni politico-partitiche differenti che chiamano in causa la rappresentatività di valori e interessi15, la rappresentatività di ceti e classi e non l’accettazione acritica del consenso dei “moderati” o del consenso al “centro”16. Lo “stato di eccezione” è un concetto limite che legittima la «sovranità» su cui si fonda l’idea dello Stato nazionale moderno come reale soggetto politico e nella decisione ‘sovrana’ la violenza del potere viene iscritta in un contesto giuridico e la legge rende il legame tra violenza e potere così intrecciato che risulta difficile delineare una netta distinzione tra mezzi e fini. Per Schmitt nel concetto di sovranità il nómos manifesta la sua apertura alla trascendenza, il suo celato presupposto extra-giuridico, che è quello di decidere sulla sua stessa sospensione, palesando così anche l’epicentro della sua debolezza e della crisi dello Stato moderno che su quella si fonda. Pur cogliendo la contingenza a cui, nella condizione di sospensione della regola, l’ordinamento giuridico è esposto e pur essendo consapevole di quell’eccesso del diritto implicito nel nómos, Schmitt continua tuttavia a iscrivere il suo discorso in una logica giuridica, che persegue una determinata forma di diritto. Sposta così l’accento dall’eccezionalità del nómos alla legittimità della decisione sovrana che, per quanto estrema, è sempre il limite ultimo dell’ordinamento giuridico. Ciò che eccede la norma è allo stesso tempo dentro e fuori di essa come ultima forma di autolegittimazione del potere, in definitiva, come possibilità di legittimare la violenza che obbliga alla sottomissione della sua decisione arbitraria. Nella decisione sovrana la violenza del potere viene iscritta in un contesto

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diventano l’83%. L’unica soluzione individuata dal potere è quella di instaurare lo “stato di eccezione”. Una condizione quest’ultima che non può non richiamare la teologia politica di Carl Schmitt, al punto che le categorie di amico e nemico sono state negli ultimi anni rispolverate e utilizzate a iosa e la guerra come situazione limite, evocata dal filosofo politico tedesco come la condizione antitetica e per questo definitoria dello stato di pace, si è trasformata dalla guerra guerreggiata nella guerra economica; una guerra che come quella bellica produce la distruzione di vite umane e modifica in modo sostanziale le condizioni sociali. Una teologia politica quella di Schmitt nella quale allo “stato di eccezione” come sospensione della regola fa da riscontro l’annullamento del conflitto, tanto che egli pone con forza in molti suoi scritti la necessità, vitale soprattutto per le democrazie, di eliminare il nemico politico interno: «Proprio della democrazia è, dunque, innanzitutto l’omogeneità e secondariamente – all’occorrenza – l’eliminazione o l’annientamento dell’eterogeneo»11 e «la forza politica di una democrazia si mostra nel fatto che essa sa eliminare o tenere lontano ciò che, in quanto estraneo e disuguale, minaccia l’omogeneità»12. La guerra economica che in questi anni si sta combattendo ha assunto una fisionomia che ha teso proprio ad annullare il conflitto ed è proprio a partire dal conflitto che è necessario ripartire per modificare la condizione schmittiana e la guerra economica guerreggiata, una guerra che ha la fisionomia riconducibile a ceti e classi sociali che sono le vittime di questa lotta. Si tratta oggi di immaginare il conflitto, in contrasto con le tesi di Schmitt, non come una lotta fra nemici, ma come avversari13 che hanno in comune un medesimo universo simbolico, quello delle regole del gioco democratico e della dimensione procedurale della convivenza. Ed è il riconoscimento di questo patrimonio comune che fa sì che la lotta possa concentrarsi su uguaglianza e libertà, cioè su valori concepibili in molti modi diversi, e ciò conduce a una rivalità che non potrà mai essere risolta razionalmente14


giuridico e così legittimata. In questa direzione si può comprendere la distinzione operata fra «legalità» e «legittimità», connessa al dibattito sulla costituzione di Weimar e al ruolo della burocrazia nel nazionalsocialismo. Egli critica la deriva «legalistica» dello Stato burocratico e amministrativo moderno, che ha la pretesa di regolare per legge anche ciò che, pur essendo «legittimo», per definizione non può essere normato. È interessante per il nostro percorso il fatto che per questa distinzione faccia esplicito riferimento a Max Weber17, palesandosi per molti aspetti suo «figlio legittimo»18. Il sociologo tedesco aveva esaminato la questione del potere politico in rapporto allo Stato, la cui sorte non può che essere la burocrazia; uno Stato individuato come l’istituzione legittimata a monopolizzare la forza fisica come mezzo di potere e il paradigma di riferimento a tal proposito è per Weber l’impresa capitalistica. Una tesi particolarmente attuale dato l’odierno successo della struttura imprenditoriale in tutti gli ambiti della vita sociale e individuale. Dall’analisi weberiana della burocrazia «come destino» dell’Occidente emerge la sottomissione indotta, passiva e intrinseca al potere dello Stato, trasformato in macchina tecnica e amministrativa, su cui anche Schmitt non manca di soffermarsi e che àncora la sua teorizzazione a ciò che caratterizza più di ogni altro aspetto l’elaborazione culturale europea, cioè il concettualizzare per categorie dicotomiche19, fra cui oggi emerge in modo netto quella fra mercato e Stato. 3. Mercato vs Stato L’economics, nelle sue varie articolazioni, insegnata nelle università di tutto il mondo e adottata dalle istituzioni che governano l’economia, si basa perlopiù su assiomi di cui il più noto si fonda sulla metafora della “mano invisibile”, introdotta da Adam Smith - il quale intendeva con questa raffigurare le forze sociali che agiscono sotterraneamente – la quale indica il mercato, che per sua stessa natura è in grado di sanare ogni disuguaglianza e consentire l’efficiente incontro

di domanda e offerta di beni e servizi. L’idea di un mercato come una realtà invisibile einafferrabile implica che il singolo uomo si debba lasciar condurre dalle forze sociali nascoste, pena il rischio di opporsi all’ordine naturale. La nascita del mercato come luogo di scambio si ha nel XIII secolo nel passaggio dall’homo hierararchicus all’homo equalis narrata da Louis Dumont20; un uomo, quest’ultimo che caratterizza la nascita vera e propria dell’individuo che vede nello sviluppo di una metodologia geometricomatematica per misurare le qualità, messa a punto dalla Scuola di Parigi con Nicola Oresme e dalla Scuola di Oxford con Tommaso Bradwardine, i prodromi di una successiva metodologia di calcolo dei comportamenti umani in ambito economico ed è in questa fase che la moneta diventa il principale punto di incontro fra economia e politica, poiché la “misura” diventa centrale nella riflessione filosoficoteologica e giuridica man mano che la dimensione commerciale investe la società europea. Una posizione, quella di Dumont, che diverge profondamente dalla tesi dello storico Fernand Braudel che ha cercato invece di dimostrare l’antichità dell’economia di mercato, dunque la quasinaturalità dell’homo oeconomicus21. Il mercato, così come immaginato dalla mainstream dell’economics, mette al
 centro l’individuo quale cardine dell’agire, un individuo solipsisticamente libero, isolato, irenicamente solo, unica entità che può definire la società nel suo complesso e che prende l’accezione nell’economics di “individualismo metodologico” e l’accettazione della teoria del darwinismo sociale di Herbert Spencer, secondo il quale la concomitanza della legge della sopravvivenza del più adatto, costitutivamente egoistico e della selezione naturale riduce via via il numero dei poveri mentre rafforza la ‘razza’, cioè i discendenti. Spencer coniuga un darwinismo manipolato con l’idea di progresso e con l’antropocentrismo, cosicché l’eredità delle ricchezze viene legittimata dall’eredità biologica, mentre la carità viene ritenuta ammissibile22 poiché nobilita chi la elargisce, anche se è pessima per chi la riceve in quanto


ma obbedisce a ordinamenti spaziali che non hanno limiti e perseguono un’evoluzione che invece tiene in gran conto la variabile “tempo”, in specifico quello futuro26. Schmitt contrappone alle teorie di David Hume - poi sviluppate in modo compiuto da Adam Smith con la tesi della “mano invisibile” -, che si basano su una visione positiva della natura umana, le teorie che si fondano sulla sfiducia nella natura umana e che quindi accreditano la necessità e il ruolo di uno Stato dominante. Egli evidenzia che al posto della politica e dello Stato, il liberalismo pone due sfere eterogenee, la morale e l’economia, dal che ne deriverebbe la riduzione delle categorie politiche a nozioni morali o economiche. A suo avviso il liberalismo giuridico e il liberismo economico, finirebbero per misconoscere la realtà del politico e per mistificare il fenomeno originario della conflittualità interumana. In Il nómos della terra l’argomentazione centrale si poggia infatti sulla considerazione che il liberalismo, in nome del suo individualismo e della sua concezione della politica come prevaricazione e violenza, non è riuscito a elaborare una propria teoria positiva dello Stato, ma unicamente a formulare una critica della politica volta a salvaguardare gli spazi individuali di libertà. L’individualismo si nutre infatti dello sviluppo delle libertà individuali27. Ed è per questo che diventerebbe indispensabile l’intervento dello spirito e del commercio, cioè della morale e dell’economia. Cosicché il fondamento teorico dell’individualismo si muterebbe nel suo opposto, cioè nella critica al liberalismo e al liberismo economico. L’operazione fondamentale oggi appare quella di affrancarsi dall’individualismo metodologico e dall’antropologia che caratterizza l’homo oeconomicus, in modo da creare un sommovimento che smuova alla radice il conservatorismo che caratterizza gran parte della scienza economica e che affonda le sue radici in alcune categorie del pensiero che ha le basi nella cultura europea e che non consente né di dare spazio al conflitto né di ricostruire un orizzonte di senso. La conseguenza di questo movimento

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decelera il processo di eliminazione dei meno adatti. Una tesi questa che sorregge l’impalcatura della teoria economica mainstream secondo la quale a garantire il massimo sviluppo per l’economia non è la redistribuzione della ricchezza a favore delle classi meno abbienti, ma una redistribuzione asimmetrica a favore dei più ricchi, in quanto questi ultimi sarebbero i soli in grado di valorizzare al meglio i capitali di cui dispongono e di garantire, quindi, una rapida crescita dell’economia e le attività economiche statali sarebbero dannose dato che ostacolano l’efficienza spontanea del mercato e il welfare non può che essere privato perché più concorrenziale e quindi meno costoso. Insomma quello che l’economics intende affermare è che il sistema sarebbe in equilibrio per via “naturale”23 e il centro pertanto dell’attenzione dell’analisi teorica è focalizzato appunto sull’equilibrio e non sulla crisi, dove l’equilibrio descrive il bilanciamento fra forze opposte che controbilanciandosi riportano stabilità. Ed è precipuo il fatto che la critica al liberismo economico e ai postulati della teoria economica meanstream e dell’homo oeconomicus – l’idea di un individuo solipsistico, privo di storia e avulso dai condizionamenti storico-sociali e che in ambito economico è mosso dalla razionalità - non sia venuta, negli anni ’50, solo da coloro che si riconoscevano politicamente in una visione marxiana o socialdemocratica, ma proprio da uno studioso come Carl Schmitt, il quale adotta la metafora del mare24, una non-terra, per descrivere i processi economici. Non è un caso, infatti, che il nemico della Germania fosse stata in primo luogo proprio la Gran Bretagna, la Nazione che più di ogni altra ha fatto nascere l’economia dei commerci e del mercantilismo e che è il luogo nel quale ha preso avvio la formalizzazione e la teorizzazione della disciplina economica. Quella del mare è una metafora che calza in modo inequivocabile nel descrive i processi economici attuali poiché «rimane … al di fuori di ogni ordinamento spaziale specificamente statale»25, esattamente come l’attuale cyberfinanza, che non riconosce i confini degli stati-nazione,


comporta il dare spazio alle norme e alle identità sociali, più che a quelle individuali, per l’influenza che queste hanno sui processi economici e per come a loro volta sono influenzate da questi e di mettere sul banco degli imputati anche l’astoricità del modello e l’assenza di un’analisi che tenga conto della omplessità delle motivazioni e dei valori che sottostanno ai comportamenti economici in modo da superare la netta separazione fra economico e politico, quando è qui e non altrove che si annida il problema28, tanto che in molti Paesi la responsabilità dei dicasteri economici viene sempre più attribuita a tecnici che appaiono come ‘neutri’ rispetto al politico, rivelandosi poi portatori invece di una netta visione politica, di parte. La mano invisibile di Smith prenderà poi la forma della “catallaxis”. La catallassi è una categoria introdotta da Ludwig von Mises e ripresa con maggiore autorevolezza da Friedrich von Hayek che tributa su questo piano un omaggio a von Mises29, quella figura che Keynes definì «uno dei cervelli confusi più distinti d’Europa»30. La catallassi si configura come un ordine spontaneo non dissimile ma non più limitato alla sola sfera economica, e che significa non solo barattare o scambiare ma anche ammettere nella comunità e fare di un nemico un amico e che incorpora l’insieme delle attività umane, comprese le attitudini metaconscie, cioè le strutture psicologiche e comportamentali profonde e che deriva dal termine greco utilizzato per scambio, katallagè, che non significa solo dare e prendere, ma anche pacifico accordo, conciliazione e che si avvicina nel suo significato al termine ebraico berit, alleanza. Con questa estensione l’economia assume anche una prospettiva politica e morale e crea i presupposti per permeare nell’ottica della mainstream il dominio culturale e pragmatico della società. L’economia si fa così politica31, invertendo un ordine culturale prima non presumibile. L’ordine, secondo Hayek, coincide con la regolarità del comportamento che gli individui adottano in risposta all’ambiente in cui vivono32 e l’evoluzione culturale non si è prodotta grazie alla formulazione di interdizioni

configurate nella forma di leggi positive. L’«ordine spontaneo del mercato» materializza inoltre il rapporto di condizionamento reciproco fra economia e diritto, ed è proprio il rapporto dialettico fra mercato e Stato che caratterizza il liberalismo classico e che nel neoliberismo si traduce in una totale legittimazione economica dell’istituzione politicogiuridica e riscoprono la Provvidenza di Adam Smith, ma che in questo caso assume un volto maligno, poiché sventa tutti i disegni dell’uomo e questa idea ricompare quando lo stato assistenziale viene denunciato da Milton Friedman e dai neoliberali contemporanei. Il neoliberismo si è ritagliato per questa via lo statuto di filosofia politica: la deregolamentazione economica si è eretta a principio che domina la politica stessa e che auspica la limitazione massima del ruolo dello Stato e dei servizi pubblici da esso gestiti. Le politiche neoliberiste e l’idea di individuo solipsistico a esse ancorato ha toccato l’esperienza soggettiva, gli assetti istituzionali, il piano politico-economico e la sfera culturale33. Attraverso il governo tecnico – massima espressione dell’assenza dello Stato a vantaggio del mercato -, questa crisi ha imposto una ricentralizzazione del comando, una ricentralizzazione dei dispositivi di governance statali e non statali, che mette da parte la “politica rappresentativa” e questo perché dall’epoca della Thatcher e di Reagan assistiamo a una privatizzazione della governamentalità. Il governo tecnico, di cui l’Italia ha rappresentato un laboratorio politico, è il compimento di questo processo di privatizzazione. Alla logica della rappresentanza si sostituisce la logica funzionale, operativa che non passa per la rappresentanza, né per le semiotiche significanti e rappresentative e nemmeno per dei “soggetti” politici e sociali che decidono. Il governo tecnico, massima espressione dell’ideologia del mercato, è un tentativo di trasposizione della logica del “just in time”, dall’impresa alla politica. Il governo deve assicurare che la popolazione risponda in tempo reale e tempestivo alle modificazioni


delle variabili economiche. La dialettica fra soggetti sociali e il conflitto sembrano così scomparire dalla scena politica e non svolgere il ruolo che gli è proprio, che è quello di contribuire all’evoluzione sociale e culturale dei Paesi, delle organizzazioni, dei cittadini. Si perde così il valore della politica, intesa come l’arte massima di una direzione cosciente del vivere insieme e della determinazione delle comunità e del loro futuro, una politica che non dischiude più un “mondo comune” nel quale il soggetto appare agli altri nella sua singolarità irripetibile, ma che se è un individuo “qualunque” si contrappone allo Stato che vorrebbe negarne l’identità34.

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4. Quale soggetto per superare la frantumazione Attualmente avanza un nuovo criterio e modo di forgiare l’espressione politica della democrazia, ed è quello della stabilità. Questa assurge a valore supremo, non negoziabile e indicando il finalismo è necessario disgiungerla da princìpi democratici essenziali come l’imperio della legge, la responsabilità del governare, la sua imputabilità. Sembra quindi che anche in questo caso si viva ormai nel regno della necessità e del sonno e non della libertà e del divenire e l’attenuazione dello scontro politico ne è la condizione, poiché se lo stato di necessità e la stabilità sono le precondizioni per esercitare le proprie scelte politiche lo spazio per il conflitto diventa tendente allo zero. Se così fosse saremmo quindi tout court in una postpolitica35 dominata da un riduzionismo procedurale, esito di una prassi politica sempre più autoreferenziale e prevalentemente oligarchica, un processo iniziato già negli anni Settanta. Se politica invece significa, innanzitutto, riattivare l’aspetto polemico, la parzialità dell’essere-in-comune, la rottura del carattere asimmetrico dei poteri con il riconoscimento di nuovi “soggetti” e il contestuale tentativo di ripartire gli spazi di pubblico e privato rinvia a una concezione della politica come azione e reazione adeguata, trasparente, comunicabile senza resti in una sfera

delimitata, con attori che diventano spettatori, per quanto informati, il cui ruolo si esaurisce, ex ante, nel conferimento di una delega - spesso nella sola forma di approvazione -, ed ex post, nell’esercizio di un verdetto. In questo modello se gli effetti di una pubblica opinione “libera” sono un elemento mai addomesticabile, ed è anzi uno stimolo per “controllare” i governanti, sembra che essi funzionino più come rimodulazione dell’offerta politica, senza tuttavia riformulare significativamente il decision making in un’ottica di riduzione della separazione fra governati e governanti e il conflitto diventa in questo caso un elemento di rappresentazione più che una pratica effettiva, di fatto decentrato rispetto alla rilevanza assunta dalle condizioni della scelta e all’auspicata eventualità che possa esercitarsi in modo chiaro e distinto. In particolare, ricercando un accordo tra tutti i partecipanti, tali esperienze rimuovono la dimensione ontologicamente conflittuale della politica, il nodo ineludibile del potere. Su questo aspetto è centrale richiamare la descrizione della natura del sistema parlamentare, effettuata da Elias Canetti in Massa e potere, come messa in scena di una «forma di combattimento che ha rinunciato all’uccisione»36. Il conflitto non è quindi in sé qualcosa di pericoloso e di moralmente sbagliato, semmai una teoria democratica all’altezza dei propri compiti e capace di interpretare in modo adeguato la situazione contemporanea, sia a livello globale, sia a livello locale, dovrebbe invece realisticamente riconoscere, «il carattere ambivalente dell’associarsi umano e il fatto che reciprocità e ostilità sono inseparabili»37 e la dialettica democratica è «come un dialogo tra individui il cui scopo è di creare nuove solidarietà e di estendere le basi di una fiducia attiva»38. Stiamo assistendo in realtà a una accettazione dello “stato di necessità” di molte forme che il capitalismo ha assunto, il che sembra ostacolare l’espressione dei conflitti, in particolare di quello distributivo e quello ancor prima fra chi il lavoro lo ha e chi non lo ha, poiché lo espunge dalla sfera politica e genera così una dimensione estetica dei


comportamenti, una loro frammentazione e una ipostatizzazione delle soggettività che proprio perché frammentate generano una sorta di autoriflesione del conflitto e una musealizzazione dei conflitti altrui; una estetizzazione proposta e ripropodotta dai mezzi di comunicazione, che sembra soddisfare il processo di identificazione e bloccare la dimensione della condivisione. Frammentare comporta in sé il frangere, cioè rompere, da cui deriva anche infragilire, indebolire, quindi un lungo processo di frammentazione non può che aver indebolito la struttura individuale, sociale e istituzionale. Le tendenze più recenti invece di ancorarsi ai partiti di massa valorizzano il ruolo dei leader e della comunicazione e rievocano gli albori del sistema rappresentativo, fondato sulle persone e sui rapporti diretti, e questo per l’abbandono proprio della dimensione valoriale e le ideologie che li incarnavano. Siamo quindi di fronte a una metamorfosi che ha sicuramente preso avvio con la demonizzazione dello Stato e l’esaltazione del mercato, cosicchè anche la democrazia si è trasformata nel mercato dei voti, dove il pubblico è il consumatore al quale vendere idee e progetti – quando ci sono –, ma soprattutto ‘venderÈ singole personalità. Viene quindi a mancare la cerniera fondamentale nel rapporto fra Istituzioni e società, che vagliavano e convalidavano le classi dirigenti. Cosicchè oggi non fanno più testo nei comportamenti le appartenenze ideali ma anche il voto si frantuma, tanto che nelle urne i singoli individui possono votare partiti diversi a seconda dell’istituzione che istanziano la rappresentanza dei cittadini, si esercita il cosiddetto voto disgiunto. Ma la “fiducia” legata a una singola persona non può che essere più instabile dell’ideologia e dell’identità e questo spiega l’andamento fluttuante verso i partiti politici, che nascono o mutano denominazione con una rapidità un tempo inimmaginabile. I cittadini divenuti spettatori possono persino e istantaneamente diventare “attori”, con un esercizio frantumato del diritto politico di esprimere la rappresentanza, anche grazie alle tecnologie che per molti consentono

un accesso alle informazioni e all’espressione di valutazioni (mi piace, non mi piace, mi soddisfa, mi rattrista, mi rallegra). Avviene così per necessità la “personalizzazione della relazione di rappresentanza” che diventa un paradigma irrinunciabile secondo cui il “pubblico” dei cittadini elettori viene sempre più trascinato da forme di elaborazione e comunicazione diretta. E così si è avviata una riflessione che va sotto il cappelo della “post-democrazia” e si è evocato in molti casi impropriamente la categoria del populismo, che intende nella maggioranza dei casi indicare la disaffezione verso le Istituzioni, il rigetto delle élite politiche e imprenditoriali, il declino nella fiducia nei partiti ma anche in altri organi dello Stato e la crescita del consenso intorno a leader energici e anche abili nell’utilizzare gli organi di informazione. In un certo senso siamo di fronte a un significante effettivamente vuoto e fluttuante e infatti sotto alla voce populismo si configura un accozzaglia di idee contradditorie, tortuose e approssimative, fondate sulla contrapposizione fra popolo ed élite39. Il termine populista ha la stessa etimo di demagogico e forse per questo ne ha perlopiù acquisito anche lo stesso significato. Il secondo è apparso sullo straordinario libretto che il grande storico Jules Michelet scrisse due anni prima la grande onda rivoluzionaria che avrebbe scosso l’Europa nel 1848, e che appunto s’intitolava Le peuple di cui intonava un romantico peana. Il termine populismo viene evocato soprattutto quando si temono rivoluzioni, o si fanno guerre, oppure nel mezzo di una crisi economica che trasforma le nostre esistenze, e quindi quando torna l’antica paura del suffragio universale e del popolo che partecipa alla vita politica, che licenzia i governi inadempienti e ne sceglie di nuovi, che fa sentire la propria voce. Un timore che le classi alte, colte, ebbero già nella Grecia classica. Aristotele paventava la degenerazione democratica, se sovrano fosse diventato il popolo e non la legge. Ancora più perentorio un libello anonimo, La Costituzione degli Ateniesi, attribuita a Senofonte nel V secolo a.C.,


economicosociali dove le istituzioni si sono rivelate non all’altezza di risposte adeguate soprattutto in presenza di problemi di diseguaglianza sociale marcata44. Così il riscatto morale del popolo, il recupero della propria dignità, passa anche attraverso chi al popolo si rivolge in modo diretto. E così i volti della democrazia assumono la raffigurazione del mazzo di carte, per cui alla bisogna si scelgono quelle che possono definire la democrazia in quanto democrazia. Ma qual è il soggetto al quale oggi la politica e la filosofia politica volge lo sguardo? La folla, la massa, la comunità, la società, i singoli individui? Volgono lo sguardo o si legittimano sulla base dello stato di eccezione? e la domanda centrale rimane: “quale volto ha la democrazia oggi?”. 5. Dalla frantumazione alla comunità Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo raffigura una massa di contadini che a ranghi compatti e a file serrate avanza verso il guardante. Ciò che colpisce è che questi contadini sembrano venire incontro a chi guarda il quadro, animati da una comune motivazione, da un compatto slancio verso il futuro, da una condivisa fierezza di classe. Sono solenni, orgogliosi e dignitosi nel loro incedere, hanno la postura delle azioni destinate al lungo periodo e agli importanti momenti dell’esistenza. L’avanguardia di questi contadini vede anche una donna con in braccio un bambino che supplica uno delle persone in primo piano di tornare a casa, ma lui non lo farà perché sa che ha intrapreso per l’appunto insieme ai propri compagni una lunga marcia, un duraturo processo di emancipazione che lo condurrà a una vittoria certa, attraverso un prolungato secolo di lotte. L’idea della lotta è ciò che anima il quadro: l’idea che questi uomini siano uniti da una finalità, che è il loro obiettivo e che è una motivazione giusta. L’idea della lotta è l’idea che la solitudine dell’uomo possa essere vinta attraverso l’unione a tutti quanti gli altri e che la solitudine cessi solo nel momento in cui intraprendi una finalità comune, che ti congiunge all’umanità intera e che costituisce la comunità.

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nella quale viene stigmatizzato il fatto che nel popolo si riscontrano ignoranza, smodatezza e malvagità, come se tutti e tre gli aspetti non trovassero nelle politiche dei governi il loro essere più o meno diffusi. Con la Rivoluzione francese e in special modo nell’800 con l’allargarsi della base elettorale i pericoli provenienti dal suffragio universale vengono evocati e utilizzati quando sorge il timore da parte dei governanti di essere travolti dal popolo elettore e le esperienze storiche del Fascismo e del Nazismo aiutano queste argomentazioni. Il concetto di populismo è sostanzialmente dato per scontato40 e il dibattito iniziato con un convegno inglese nel 1967 ha condotto a definizioni e classificazioni fra le più svariate tanto da renderne sfuggente il concetto stesso e a seconda degli storici i partiti più diversi fra loro attualmente vengono definiti a seconda della propria opinione il nasserismo in Egitto, il kemalismo di Ataturk, il Tea Party in America. Il populismo è una sorta di scarpa per la quale si tratta di recuperare un piede che la calzi e che incarna il cosiddetto complesso di Cenerentola attribuito a Isach Berlin, e così come ricostruisce Marco D’Eramo si è giunti anche alla proposta di bandire il termine dal vocabolario delle scienze sociali41 e per questo insieme di ragioni «il termine populismo definisce chi lo proferisce molto di più di chi ne viene bollato»42 e «l’uso sistematico del termine populismo è un fenomeno del secondo dopoguerra che cresce in modo proporzionale al disuso del termine popolo: più il termine popolo è periferico nel discorso politico e più il populismo diventa centrale»43. Il populismo evoca l’idea di comunità e non di individualismo poiché fa riferimento a un’identità, a un orizzonte di senso, del popolo. Ciò che comunque rimane pericoloso sono quelle posizioni politiche i cui leader descrivono la realtà in modo dicotomico - i buoni dalla parte del popolo e i cattivi contro il popolo - e fanno promesse per acquisire il consenso del popolo già consapevoli di non poterle mantenere e questo è tanto più possible, ed è stato possibile, in presenza di crisi


La consonanza intenzionale è anche ben descritta da Manzoni ne I promessi Sposi, nelle pagine che vedono al centro la peste di Milano, quando narra della moltitudine di uomini «trasportati da una rabbia comune, predominati da un pensiero comune»: si tratta di gocce umane che formano un torrente compatto, una vera marea nella quale ogni movimento si trasmette e si propaga formando una massa liquida, ma non frantumata. Edith Stein ha considerato l’empatia45, cioè la capacità di mettersi nei panni di un altro, come il presupposto teoretico della solidarietà tra gli esseri umani in quanto consente di stabilire un rapporto comunicativo che, pur passando attraverso la corporeità, la supera realizzando la possibilità di un autentico legame di tipo comunitario tra i soggetti coinvolti. Edith Stein valorizza il vissuto comunitario contrapponendolo all’uniformità della massa, il primo caratterizzato da identità, la seconda da un agglomerato indistinto46. Per la Stein nella comunità vivono motivazioni convergenti e la simpatia, nella società – regolata dall’empatia – le motivazioni possono invece essere divergenti. Diversamente dalla comunità e dalla società, la massa non ha un carattere proprio e non può distinguersi da un’altra massa, ma è data semplicemente da una connessione di individui che si comportano con uniformità; manca a essa la vera unità interiore di cui vive il tutto. La massa è dunque un insieme di individui che si comportano tutti allo stesso modo ma senza condividere quel “di più” di senso, caratteristico della comunità e della società. Nella massa non esiste confronto reciproco tra soggetti, non c’è possibilità di sacrificio dell’uno in favore dell’altro, non c’è unità di comprensione dei problemi e delle situazioni, ma non c’è neppure organizzazione. Gli individui sono legati in unità solo esternamente per la comunanza spaziale in cui operano e conseguentemente a essa. Nella massa è possibile cogliere una vita psichica che si manifesta nell’uniformità del comportamento, basato sulla eccitabilità della psiche individuale che produce il fenomeno della suggestione

o dell’autosuggestione e del contagio, come ben descritto nel romanzo di Malika Mokeddem, Gente in cammino, e da Elias Canetti in Massa e potere. La massa si nutre delle idee dominanti e ha quindi bisogno di una guida, ha la necessità assoluta di un capo che rimanga però esterno a essa per non essere frenato nella propria produzione di idee dall’appartenenza alla stessa massa di individui. Tra la guida e la massa deve però sussistere una comprensione reciproca, fino a poter divenire quasi un legame comunitario, un rispecchiamento. Ciò che la Stein sottolinea è che nella società prende corpo la solitudine e l’antinomia con i consimili, in sostanza un altro da noi, che ha assunto nel tempo forme, modalità, oggetti e contenuti diversi. L’altro – benché sia elemento costitutivo dell’identità – è sempre stato accompagnato in maniera indissolubile da un’inquietante carica di minaccia; ciò alimenta la paura dell’estraneo, e la paura in genere diventa strumento facile da utilizzare nel controllo sociale. Tutte le politiche del rifiuto si fondano su questo uso, così come già aveva evidenziato l’analisi simmelliana dello straniero come Exscursus all’interno della Soziologie, poi ripresa in chiave fenomenologica da Alfred Schütz47. È Diotima l’incarnazione dello straniero nella sua accezione più ampia e comprensiva: è di Mantinea e non ateniese, è straniera perché non partecipa direttamente al simposio, è donna, è sapiente, è sacerdotessa, parla di verità non attingendo solo alla logica. Così è per Giobbe, a cui è straniera la ragione del male, colui che per capirlo, deve capire Dio, ma Dio lo aiuta a capire e lui comprende che il primo straniero o barbaro è lo straniero e il barbaro che abita in lui e quindi in noi, divenendo il primo archetipo del fatto che noi siamo estranei ai nostri stessi occhi perché imprevedibili nell’amore, nel parlare, nel reagire, nel fare il bene e il male. La storia della filosofia è ricca di riflessione sull’altro da sé; l’altro è al contempo un’opportunità e una minaccia. È il barbaro della profondità e della superficialità di cui Alessandro Baricco


La comunità deve essere e può essere concepita in modo dinamico, senza rassegnarsi a concepire rigidamente – o, che è lo stesso, in termini statici – l’opposizione dentro/fuori cui il concetto di comunità, legato a quello di identità, ineludibilmente rimanda. Si apre così lo spazio per un altro degli interrogativi: abbiamo a che fare innanzitutto con individui isolati che si uniscono in un secondo momento nella comunità o, al contrario, è la comunità a vantare la precedenza sugli individui? Max Weber la pensava nel primo modo ed Émile Durkheim nel secondo49. Perché ci sia comunità occorre comunque che ci siano uomini che si riconoscano come simili e che quindi si comprendano, proprio nell’ottica proposta dalla Stein. Uno dei temi su cui si fa più pressante la discussione intorno alla comunità oggi riguarda il nesso tra la tendenza ad affermarsi di una idea omologante di eguaglianza, da una parte, e il ritorno di un forte bisogno di identità, proprio nella forma della «comunità escludente», dall’altra. È proprio su tale questione, singolarmente capace di racchiudere in sé istanze a un tempo politiche e gnoseologico-ontologiche. È infatti evidente che il trovarsi, nel volgere di un tempo relativamente breve, ad abitare la «comunità globale», con il conseguente assottigliarsi o addirittura annullarsi delle distanze non solo geografiche, rende quantomai impellente la necessità di pensare sotto una nuova luce termini come identità, appartenenza, accoglienza o esclusione. Ora, la situazione in cui ci troviamo sembra mostrare due volti. Per un verso, l’incalzante processo globalizzante che impone la vicinanza dei diversi va sempre più coniugandosi con un ideale di eguaglianza indifferente alle differenze, dove ogni (o quasi) diversità deve essere accolta come tale, al di là del suo contenuto, purché, beninteso, si sottometta anch’essa all’unico grande principio della non prevaricazione reciproca. Per altro verso, tuttavia, se fino a non più di mezzo secolo fa assistevamo, con il dovuto sconcerto, alla ghettizzazione delle minoranze, ci troviamo oggi ad assistere, in diverse forme, a fenomeni

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ed Eugenio Scalfari hanno per qualche tempo dialogato nel 2010: «Infatti uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità. Ricordo che in un primo momento le menti più avvedute avevano interpretato questa curiosa condizione come un sintomo di decadenza: registravano, non a torto, la sparizione improvvisa di una buona metà del mondo che conoscevano: oltretutto, quella che veramente contava, che conteneva il tesoro. Da qui l’istintiva inclinazione a interpretare gli eventi in termini apocalittici: l’invasione di un’orda barbarica che non disponendo del concetto di profondità stava ridisponendo il mondo nell’unica residua dimensione di cui era capace, la superficialità. Con conseguente dispersione disastrosa di senso, di bellezza, di significati - di vita. Non era un modo idiota di leggere le cose, ma ora sappiamo con una certa esattezza che era un modo miope: scambiava l’abolizione della profondità con l’abolizione del senso»48. La questione della comunità quell’etnocentrismo di cui ha parlato Richard Rorty, cioè la tesi che consiste nell’adesione a un sistema locale di credenze e valori, intrinsecamente legata alla tematica della pluralità - oltre a essere da sempre uno dei principali oggetti dell’indagine filosofica, si presenta in particolare oggi come una problematica che chiede di essere ripensata. La grande varietà di angolature da cui è possibile affrontare il tema della comunità chiama direttamente in causa la differenza fra i termini pluralità e comunità: se ogni forma di pluralità implica il “più d’uno” in un senso meramente quantitativo, e pertanto senza riferimento a una categoria comune, solo la comunità può raccogliere i molti in intero. L’idea stessa di comunità sembra quindi comportare l’inclusione di alcuni di contro all’esclusione di altri. Detto altrimenti, qualsiasi “noi” disegna i confini al di là dei quali si situa il “voi”, come qualsiasi identità si delinea, per differenza, nel contrasto con l’alterità.


di autoghettizzazione che segnalano in maniera talvolta disordinata e confusa un bisogno di identità e di appartenenza. Ma, nonostante l’abitudine non priva di ragioni a leggere solo l’esclusione – e non anche l’inclusione – nel segno della violenza, il fatto che ad una spinta omologante ne corrisponda una identificante non è così stupefacente. Potremmo infatti domandarci: quella forma di inclusione che indebolisce sistematicamente l’identità al fine di poter pienamente accogliere la diversità – esaltata però al prezzo della sua cancellazione – non è ugualmente violenta? E, più profondamente, non nasconde forse una ancor più radicale paura del diverso? Si tratta qui di interrogarsi sulle condizioni a cui solo può darsi una soggettività o una comunità. Si tratta di assumere, con Jacques Derrida50, che non esiste conservazione senza alterazione, identità senza alterità, in un gioco di originaria coimplicazione reciproca, il che consente forse di cogliere le istanze del tempo presente evitando opposti estremismi. La morte della comunità, infatti, si trova allo stesso modo sia dalla parte dell’irrigidimento assoluto dei suoi confini, sia dalla parte della loro eliminazione. L’esclusione, così, non sarebbe più semplicemente l’opposto dell’inclusione, in un quadro in cui la capacità di accoglimento dell’altro crescerebbe proporzionalmente all’affievolirsi dell’identità. Il carattere strutturalmente escludente – vale a dire auto-identificante – della comunità, al contrario, costituirebbe la condizione di possibilità della sua effettiva apertura, capacità di contaminarsi, di entrare in dialogo, dando luogo a una relazione che non necessita per sussistere dell’annullamento delle parti in gioco. 6. Ritorno al futuro La comunità d’altro canto non si sottrae al contagio imitativo. L’imitazione non comporta la pedissequa ripetizione di atti e comportamenti altrui, ma porta in sé uno stile personale, comporta il fatto che si compiano di per sé atti innovativi, che modificano abitudini e norme

consolidate e si generino emozioni inaspettate, ed è grazie a essa che si esce dalle emozioni ricorsive con un mutamento. Il processo e il risultato possono avere un andamento più o meno accelerato e questo dipende dal soggetto e dall’oggetto di riferimento e dalla tipologia di relazioni che con questi si instaurano. Chi davvero ha intuito e congetturato che l’imitazione rappresenta una modalità del funzionamento mentale, permanente lungo l’intero arco della vita, e che essa è una prerogativa della dimensione sociale è René Girard51, colui che sulla mimesi ha fondato tutti i suoi studi e secondo il quale questa rappresenta sia la base dell’intersoggettività che della stessa società. Il lavoro di Girard si fonda su molti scritti di Martin Heidegger52 e Helmuth Pleßner53, ma anche sulle argomentazioni di Alexandre Kojève54. La riflessione di Girard prende avvio dalla tesi che nelle società primitive le rivalità all’interno dei gruppi umani generavano situazioni di violenza indifferenziata, che si propagavano per mimetismo e trovavano soluzione solo in una crisi sacrificale che causava l’estromissione, l’uccisione, di una persona o di gruppi di persone, designate come responsabili della violenza. Con la morte del capro espiatorio la violenza veniva meno e la vittima diventava sacra. L’unica alternativa che Girard intravvede per far sì che non si producano conflitti generalizzati, che prima i miti e poi la storia remota e ancor più quella recente hanno prodotto, è il monito di Paolo di Tarso: «Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo» (1Cor 11,1). Il conflitto trova sempre una vittima sacrificale – come fu il Cristo – individuale o sociale, come le vittime dei totalitarismi (ebrei, zingari, malati psichiatrici e oppositori politici per il nazismo); la soluzione è farsi martire votivo. La rivalità mimetica, quale fondamento mitologico dei reali rapporti umani, è al centro anche delle elaborazione di Károly Kerényi, secondo il quale i miti nascono come racconto spontaneo delle esperienze “eccezionali” della comunità e mettono al centro il passaggio da uno stato di disordine a uno stato di ordine, rappresentano così il racconto della crisi vissuta e della sua risoluzione.


leopardiano, secondo il quale esistono persino le mode nella maniera di soffrire. La stessa molla dell’imitazione, cioè il desiderio, rappresenta però la fonte del conflitto intersoggettivo e sociale. Dal desiderio mimetico viene tutto il meglio e il peggio dell’essere umano. L’imitazione ha quindi due volti, due maschere, tanto che il soggetto si specchia con la stessa ottica con la quale si specchia Grimilde, la matrigna di Biancaneve: «Specchio, specchio delle mie brame chi è la più bella del reame?» E lo specchio risponde: «Biancaneve»; e così il desiderio diventa conflitto e conduce alla smania di annullamento dell’altro. Tutto può essere oggetto di conflitto – oggetti, condizioni emotive e affettive, condizioni materiali, temperamenti, caratteri, comportamenti, abilità –, il quale può prendere forme che vanno dall’invidia alla gelosia. Le rivalità mimetiche possono prendere forma per il desiderio di un posto di lavoro, per la ricchezza, per la visibilità sociale, per il successo a scuola o all’università, per la leadership in un gruppo o in una comunità, o in politica. Nell’ottica di Girard l’imitazione non è una semplice e arida ripetizione passiva, poiché vista alla luce del desiderio mimetico, l’imitazione è un modo di vivere, un modo di essere con l’altro, la modalità che permea e genera la totale trasformazione della vita, il che richiede la partecipazione intensa e libera della volontà. Girard conviene che l’imitazione è alla base della nostra capacità di apprendimento e che l’uomo è ciò che è perché imita intensamente i suoi simili. Per Girard il centro rimane l’io e il criterio dell’imitazione è un criterio morale, dove l’ambizione dell’individuo è imitare coloro che si ritengono essere felici; imiteremmo le persone che stimiamo e rispettiamo, mentre rifuggiremmo dall’imitare le persone che disprezziamo, cioè cercheremmo di fare il contrario di ciò che fanno loro e svilupperemmo opinioni opposte. Il nostro comportamento sarebbe in ogni caso un’imitazione, perché è sempre in funzione dell’altro, nel bene come nel male. Nell’ottica di Girard la nostra smania sarebbe sempre suscitata dallo spettacolo

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È il meccanismo del capro espiatorio che risolve la crisi e che i miti raccontano insieme ai suoi benefici effetti, distorcendone però la realtà, dato che contengono solo la versione della folla, la quale ritiene se stessa innocente e la vittima colpevole. L’essere umano sarebbe caratterizzato, secondo Girard, dal “valore imitativo” delle percezioni – come lo stesso Freud aveva dapprima intuito e poi trascurato – che lo conducono fino all’imitazione vera e propria di un modello, che viene imitato consapevolmente. L’apprendimento imitativo sarebbe la condizione dell’adattamento culturale e sarebbe alla base delle acquisizioni negli esseri umani. Egli sostiene che l’imitazione di un modello crea sentimenti di rivalità e invidia – tesi del tutto consonante con il processo di “idealizzazione” descritto da Melania Klein55 –, sentimenti che danno così vita a un antimodello, un’immagine speculare riflessa del soggetto. La trasformazione da Dottor Jekyll a Mr Hyde è dovuta al fatto che l’imitazione (un meccanismo) non riguarda il modello in quanto tale, ma il suo desiderio (uno stato mentale). È abbastanza noto, a questo proposito, quell’esperimento in cui in una stanza vengono messi diversi bambini e a uno di essi viene regalata una bicicletta, e solo successivamente vengono regalate agli altri bambini delle biciclette identiche, ma che loro rifiutano perché desiderano caparbiamente la prima. La contesa mimetica è ben descritta dalla fiaba nella quale i protagonisti sono Cappuccetto Rosso, la Nonna e il Lupo; fiaba che stigmatizza metaforicamente la triangolazione dei desideri sadicomasochistici dei personaggi – la vittima, il persecutore e il salvatore – al centro delle elaborazioni del cognitivismo evoluzionista, della teoria della narrazione semiotica e della struttura del romanzo di Thomas Bernhard Il soccombente. Secondo Girard noi imitiamo dagli altri i nostri desideri, le nostre opinioni, il nostro stile di vita e il contesto sociale-educativo è il responsabile nella definizione dei desideri. Richiama a suo sostegno una frase di André Gide, evocativa di un testo


del desiderio di un altro per il medesimo oggetto: la visione della felicità dell’altro susciterebbe in noi, che ne siamo consapevoli oppure no, il desiderio di fare come lui per ottenere la stessa felicità, o, ancora più intensamente, susciterebbe in noi il desiderio di essere come lui. I desideri delle persone che stimiamo ci contagerebbero. Ciò che è inconsapevole è quindi il desiderio e siamo quindi noi che, con la nostra libertà, ci rendiamo autonomi dal condizionamento dell’altro. L’altro può fare quello che vuole, ma se noi non abbiamo un desiderio che ci relaziona interviene l’indifferenza e l’imitazione non produce effetto alcuno. Sulla base della constatazione che il desiderio genera la fame bulimica delle menti altrui, Girard individua un altro nesso fondamentale, quello fra cultura individualista e forme corporali. Con un preciso riferimento a Thorstein Veblen, primo economista che abbia tentato di formulare una teoria dei beni di lusso, egli prende come bersaglio le società opulente in cui il desiderio di appropriazione dei beni ne è il cardine e il desidero di magrezza il suo alter ego. Fenomeni come l’anoressia e bulimia, espressioni del desiderio passionale di dimagrire o di rimpinzarsi, di digiunare o di abbuffarsi, rappresenterebbero manifestazioni del legame molto stretto con il desiderio dell’altro: a conferma delle tesi di Girard va il fatto che le anoressiche assai frequentemente cucinano per gli altri in modo che gli altri ingrassino e loro, nella rivalità mimetica, restano magre, così “tentando” il competitor vincono la competizione. Il rapporto tra soggetto e gli oggetti non è diretto e lineare, ma è sempre triangolare: soggetto, modello, oggetto desiderato. Gli oggetti che regolano e determinano l’effetto imitativo, ma l’imitazione, per esserci, necessita della presenza di un altro soggetto che è il modello del comportamento. La rivalità mimetica che si sviluppa a partire dai conflitti per l’appropriazione degli oggetti è in questa ottica contagiosa, cosicché la minaccia all’orizzonte è quella della violenza generalizzata. Le tesi di Girard, per l’aver considerato l’imitazione un meccanismo innato e per il ruolo cruciale a esso attribuito

nelle relazioni intersoggettive, sociali e collettive/cooperative/collaborative, con l’esplicito richiamo alla teoria della selezione darwiniana, sono lette come coerenti con le teorie evoluzionistiche e sono state addirittura accostate al sistema specchio. In realtà si tratta di argomentazioni ben lontane dalle teorie evoluzionistiche e neoevoluzionistiche, almeno per quanto riguarda l’articolazione proposta da Stephen Jay Gould e Richard Lewontin, che si basa su un’analisi puntuale dell’Origine della specie e dei Taccuini di Darwin, poiché viene sottovalutato il ruolo che nel processo evolutivo svolgono sia la cooperazione sia la nicchia ecologica. Se l’identità nasce dalla differenziazione è ovvio che un sociologo così attento alla dimensione comunitaria abbia mosso una critica radicale alla teoria dell’abitudine di Gabriel Tarde56, già avanzata nel 1838 da Félix Ravaisson, che intreccia l’influenza kantiana con il De anima di Aristotele, la Teodicea di Leibniz e lo spirito vitale di Maine de Biran. Tarde fonda il discorso sociologico su basi psicologiche, ed è l’individuo che si configura come il motore primo della dinamica sociale che, per lo studioso francese, non consiste nella ricerca del vantaggio individuale, come nella tradizione utilitaristica, ma nella tendenza innata a imitare la condotta di altri individui, la qual cosa consentirebbe una società a conflitti assenti, o più realisticamente contenuti. Durkheim non nega l’esistenza di un processo imitativo ma lo considera un fenomeno marginale e non un fenomeno sociale primario, in quanto il gioco reciproco di imitazione, opposizione e adattamento conduce, a suo avviso, al caos più che all’ordine sociale, ragion per cui reputa sostanzialmente infondato il modello di società configurato da Tarde, atomistico e meccanico, fondato sul contagio imitativo. Per Tarde l’importanza dell’imitazione nelle società umane consiste nel fatto che essa costituisce un oggetto oggettivo di conoscenza scientifica, poiché la scienza trova il suo fondamento nella descrizione delle uniformità, nella scoperta delle ripetizioni, in quanto ciò che è spontaneo, irrazionale e vivo, non può essere oggetto


si ricongiunge con il leader. Una dinamica ben descritta dallo psicanalista Heinz Kohut nel suo testo sul potere57. Le Bon osserva che l’impunità e la frode sono gli aspetti che consentono alla folla di inferocirsi senza rischiare nulla. E la frode è quell’hegeliana certezza che il presunto razionale sia reale, e il presunto reale razionale, dal che la storia non è un costrutto fabbricato con le nostre mani, perché già è messa nero su bianco, cosicché noi vivremmo nel passato, non nell’oggi dove tutto è ancora possibile e nulla è fatale. D’altronde Hegel stesso è tutt’altro che perentorio: la civetta di Minerva non si appaga della propria saggezza e della propria razionalità di primo mattino, quando ancora le cose devono farsi, ma inizia il suo volo solo al crepuscolo. Il film-documentario di Ana Dumitrescu, circolato in Francia alla fine del 2012, Khaos, che raffigura il pandemonio creato dagli effetti sociali dei provvedimenti economici presi sulla Grecia, ha come sottotitolo “i volti umani della crisi”; volti che sono i nostri e quelli dei cittadini di tutta Europa. Un’Europa proposta come unione democratica di popoli, come una comunità, del resto la sua denominazione era già stata Comunità Economica Europea. Infatti, dopo essersi chiamata per qualche anno Mercato comune e prima di chiamarsi Unione, l’Europa aveva scelto di darsi il nome di Comunità, evocando un concetto più solidale e amichevole di quello espresso da Unione, e forse è il caso di riattribuirle quel nome reimpadronendosi del significato profondo delle parole, e di questa in particolare. È indispensabile pensarla e reinventarla come tale, ma ciò non può avvenire fino a quando i singoli StatiNazione si comportano come sovrani assoluti e ove non sono i cittadini le entità sovrane esercitate a livello comunale, nazionale, europeo, forse domani mondiale. Si è così messo in atto un vero e proprio assassinio del possibile, dell’immaginario e del desiderio ed è chiaro che la reazione alla delusione non possa che essere rabbia e rigetto. Come abbiamo evocato all’inizio di questo contributo l’equilibrio fra le potenze si è infranto nella prima parte del XX secolo, nella guerra di trent’anni

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di conoscenza scientifica visto che il contenuto di ogni scienza è la scoperta di leggi sociali o collettive; l’imitazione realizzerebbe tali leggi nell’ambito della società o della comunità ed è grazie a essa che i singoli diventerebbero particelle di un movimento di massa. Si tratta di una legge senza la quale gli atomi, gli individui, si disperderebbero, una legge comportamentale che consente l’ermeneutica del soggetto e, solo successivamente, della società in quanto sommatoria di individui. Per Tarde l’imitazione prima di imporsi incontra delle resistenze e l’opposizione è parte dell’imitazione, della ripetizione; all’opposizione segue la fase dell’adattamento. Un aspetto accomuna le tesi di Tarde a quelle di Durkheim, ed è l’idea che l’imitazione sia un processo che avviene con l’introduzione dell’individuo in un contesto sociale e sia prettamente un processo intellettivo. I comportamenti che producono integrazione ed esclusione sociale vengono quindi sempre più interiorizzati dai soggetti stessi in una società dove il potere si esercita con le macchine che condizionano direttamente i cervelli (nei sistemi della comunicazione, nelle reti informatiche) e i corpi che li contengono (nei sistemi del welfare, nel monitoraggio delle attività) e che conducono verso uno stato sempre più grave di alienazione dal senso della vita e un estraniamento dal desiderio di creatività. È un potere ben conosciuto da chi ha studiato la potenza delle masse, della pubblicità, della propaganda, così ben descritta nel 1895 nella Psicologia delle folle da Gustave Le Bon, che nel testo indica i tre ingredienti del fascino sprigionato dal trascinatore di folle: l’affermazione che non tollera confutazioni anche se falsa; la ripetizione ininterrotta dell’affermazione; il contagio imitativo. Le Bon spiega come il trascinatore sia a sua volta un trascinato: può esserlo da un’idea fissa e da dottrine politiche ideologiche. La folla, solitamente non mossa da interesse privato - è unicamente il singolo ad avere interessi personali innalza la rivendicazione particolare a interesse collettivo e per questa via


iniziata nel 1914 e è finita nel 1945 con l’esaurirsi della centralità storica del vecchio continente. Oggi possono essere da monito sia il romanzo di Petros Markaris L’Esattore, nel quale si narra di un assassino seriale che elimina uno dopo l’altro grandi evasori e politici corrotti, visto che lo Stato non sa, né vuole agire e l’assassino assurge a eroe nazionale, poiché gli indignados vogliono candidarlo poiché, “L’Esattore nazionale è un Dio!”; dall’altro nel film Khaos dicono: «Il pericolo è che la collera del popolo si trasformi in terribile bagno di sangue, sostituendosi all’azione politica». Per ora questo pericolo si manifesta non nel sangue collettivo in piazza - un tempo era cruciale per l’ipnotizzatore delle masse oggi coinvolge anche la televisione, la rete, la stampa - ma in una società frantumata dove la depressione personale e la perdita di vite individuali si piegano al volere e al dominio del potere. Nota biografica Maria Grazia Turri, filosofa ed economista, insegna Linguaggi della comunicazione e Fondamenti della comunicazione all’Università di Torino. Tra le sue pubblicazioni La distinzione fra moneta e denaro (2009), Gli oggetti che popolano il mondo (2011), Biologicamente sociali, culturalmente individualisti (Mimesis 2012) Gli dei del capitalismo: teologia economica nell’età dell’incertezza (2014); dirige le collane Mimesis Filosofie dell’economia e Relazioni pericolose.


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1 – Il lavoratore manuale è un lavoratore tedesco che si pronuncia nel 1933; l’ultimo governo parlamentare di Weimar - la Grande Coalizione fù diretto dal socialdemocratico Hermann Müller e il Presidente ottantaquattrenne rieletto era Paul von Hindenburg. 2 – M. Broszat (1984), Die Machtergreifung. Der Aufstieg der NSDAP und die Zerstörung der Weimarer Republik (tr. it. Da Weimar a Hitler, Laterza, Roma-Bari 1986, p.73). 3 – Cfr. A. Carotenuto (2002), Freud. Il perturbante, Bompiani, Milano; P. L. Berger, T. Luckmann (1995), Modernität, Pluralismus und Sinnkrise. Die Orientierung des modernen Menschen (tr. it. Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna 2010). 4 – Cfr. A. Carotenuto (2002), Freud. Il perturbante, Bompiani, Milano; P. L. Berger, T. Luckmann (1995), Modernität, Pluralismus und Sinnkrise. Die Orientierung des modernen Menschen (tr. it. Lo smarrimento dell’uomo moderno, il Mulino, Bologna 2010). 5 – P. Amato (2004), (a cura di), La biopolitica. Il potere sulla vita e la costituzione della soggettività, Milano, Mimesis; M. Augé (1992), Non-lieux (tr. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993); M. Benasayag, G. Schmit (2003), Les passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale (tr. it. L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli 2004) ; R. Esposito (2004), Bios. Biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi.

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its meaning in a democracy (tr. it. Teoria economica della democrazia, il Mulino, Bologna 1988). 17 – Cfr. C. Schmitt (1932), Legalität und Legitimität (tr. it. Id., Legalità e legittimità, in Id., Il concetto di politico, cit., pp. 218-220); e Id., Das Problem der Legalität (1950) in “Die neue Ordnung” IV, 3 (tr. it. Id., Il problema della legalità, in Id., Il concetto di politico, cit, pp. 287 e 292). 18 – J. Taubes (1987), Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung (tr. it. Id., In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, a cura di E. Stimilli, Quodlibet, Macerata 1996, p. 23). 19 – Cfr. M. G. Turri (2013), Incertezza in Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano, pp. 45-62; M. G. Turri (2013), Introduzione. Il tempo delle relazioni e del realismo dell’incertezza, in Manifesto per un nuovo femminismo, Mimesis, Milano, pp. 25-36; M. G. Turri (in press), Gli dei del capitalismo nell’età dell’incertezza. Teologia economica, Mimesis, Milano. 20 – L. Dumont (1993), Essais sur l’individualisme. Une perspective anthropologique sur l’idéologie moderne Seuil, Paris (tr. it. Saggi sull’individualismo, Adhelpi, Milano 1993). L’homo equalis, Adelphi, Milano 21 – F. Braudel (1962), Civilisation materiélle, économie et capitalisme(XVe –XVIIIe siècle) (tr. it. Civiltà materiale, economia, capitalismo, secoli XVXVIII, Einaudi, Torino 1993). 22 – Cfr. M. Friedman (1962), Capitalism and Freedom (tr. it. Capitalismo e libertà, Ibl, Torino 2002).

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C. Schmitt, Le categorie del politico, Il Mulino, 1998 G. Ferrara, Costituzione e trattati. Come si è ridisegnato il mondo del capitale, Alternative per il socialismo, n. 3, 2007 M. Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, Rivista di diritto costituzionale, 1996, n.1 P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Vallecchi, 2012

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Y. Sintomer, Il potere al popolo. Giurie cittadine, sorteggio e democrazia partecipativa, Dedalo, 2009 12. GIOVANI SENZA TERRA IL TRIONFO DELL’INDIVIDUALISMO NON-POLITICO Bauman Z. (2002), Modernità liquida, Laterza: Roma-Bari. Bauman Z. (2003), Voglia di comunità, Laterza: Roma-Bari. Boeri T., Galasso V. (2007), Contro i giovani, Mondadori: Milano. Celli P. (2009), Figlio mio, lascia questo paese, consultabile su www.repubblica.it Datagiovani (2012), Il precariato in Italia: una crescita costante, consultabile su www.datagiovani.it Demopolis (2011), I giovani italiani nell’era della precarietà, consultabile su www.demopolis.it Hirschman A.O. (1970) Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States, Harvard University Press: Cambridge. Ichino P. (2011), Inchiesta sul lavoro, Mondadori: Milano.

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Profilo degli autori Marco Assennato, (Palermo, 1978) ricercatore precario, vive e lavora a Parigi. Laureato in filosofia si occupa di teoria politica e architettura. Nel 2011 ha pubblicato per l’editore :duepunti Linee di Fuga. Architettura, Teoria, Politica. Marcello Barison (1984) insegna Estetica presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Ferrara. Dottore di ricerca in filosofia teoretica, ha studiato presso l’Università di Padova, la Humboldt Universität di Berlino, la Albert Ludwigs-Universität di Freiburg im Breisgau e l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Napoli. Tra i suoi principali interessi figurano la filosofia tedesca del Novecento, il pensiero francese post-strutturalista e l’estetica in generale. Ha dedicato alcuni contributi apparsi sia in Italia che all’estero alle possibili convergenze tra prassi filosofica, arte e letteratura contemporanee. Segnaliamo in particolare i volumi La Costituzione metafisica del Mondo (2009), Sulla soglia del nulla. Mark Rothko: l’immagine oltre lo spazio (2011) e i saggi Eterotopie. Gropius – Heidegger – Scharoun (2010) e Seynsgeschichte und Erdgeschichte. Zwischen Heidegger und Jünger (2010). Francesco Bilotta (Sora, 1973) è ricercatore di diritto privato nell’Università di Udine e avvocato in Trieste. Autore di numerosi saggi in materia di diritti delle persone, diritti dei consumatori, responsabilità civile, questioni legate al mondo LGBT. Ha collaborato alla stesura della proposta di legge sul Patto civile di solidarità e unioni di fatto presentata nella XIV Legislatura. È socio fondatore dell’Associazione Avvocatura per i diritti LGBT – Rete Lenford. Damiano Cantone (Udine, 1977) insegna Storia dell’Estetica presso l’Università degli studi di Trieste. Si occupa dei rapporti fra cinema e filosofia, con particolare attenzione al lavoro di Gilles Deleuze. Ha pubblicato, fra gli altri, interventi su Deleuze, Lyotard, Hitchcock, Cronenberg. È traduttore e curatore di numerose opere del filosofo sloveno Slavoj iek; è redattore della rivista Aut Aut. Leonardo Ebner (Treviso, 1986) si è laureato in Filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si interessa di filosofia e pensiero politico

contemporaneo, in particolare di teorie della giustizia e forme d’ineguaglianza sociale. È redattore della rivista interdisciplinare Post, pubblicata da Mimesis. Attualmente studia presso il Collège d’Europe di Bruges/Natolin. Marcello Ghilardi (Milano, 1975) svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Padova e collabora con il Master di Studi Interculturali della stessa Università. È membro del gruppo di ricerca sull’immaginario Orbis Tertius, presso l’Università di MilanoBicocca. Tra le sue pubblicazioni: Cuore e acciaio. Estetica dell’animazione giapponese (Padova 2003); L’enigma e lo specchio. Il problema del volto nell’arte contemporanea (Padova 2006); Giochi di ruolo. Estetica e immaginario di un nuovo scenario giovanile (con I. Salerno, Latina 2007); Una logica del vedere. Estetica ed etica nel pensiero di Nishida Kitaro (Milano, 2009). Teresa Lapis si è laureata in diritto penitenziaro nel 1980. Ex difensore civico della Provincia di Venezia (1997/2001) e del Consorzio Opitergino (2006/2008). Dal 1997 al 2010 é docente a contratto allo Iuav in materie giuridiche e docente in mediazione giuridica, difesa civica e diritti umani all’università di Bologna. Dal 2001 al 2005 è esperta in diritti umani per alcune missioni per la UE nei paesi della cooperazione sui temi Rule of Law, capacity building, violenza domestica contro donne e minori. Dal 2009 ad oggi segue il dottorato in urbanistica allo IUAV. Ha fatto parte della ASGI dell’European Group for the study of social control and deviance dal 1978. Giovanni Leghissa (Trieste, 1964) è Ricercatore confermato presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’educazione dell’Università di Torino. Ha insegnato filosofia presso le Università di Vienna, Trieste, e presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe. Redattore di Aut Aut, ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Blumenberg, Husserl, Overbeck, Tempels e Hall. Tra le sue pubblicazioni: Il dio mortale. Ipotesi sulla religiosità moderna (Medusa, Milano 2004), Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione (Mimesis, Milano 2005), Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità

(Mimesis, Milano 2007). Neoliberalismo. Un’introduzione critica (Mimesis, Milano 2012). Le sue indagini hanno come punti focali: epistemologia critica delle scienze umane (con particolare riferimento all’antropologia, alla storia delle religioni e alla filologia), fenomenologia, psicoanalisi, rapporto tra religione e modernità, filosofia interculturale, Postcolonial e Cultural Studies. Da alcuni anni le sue ricerche mirano a indagare le trasformazioni del rapporto tra razionalità economica e razionalità politica nell’età neoliberale. Anna Longo è dottore di Filosofia estetica università Par is 1-Panthèon Sortone e SUM. Si occupa del rapporto tra conoscenza estetica e conoscenza scientifica. Ha curato per Mimesis il testo il divenire della conoscenza, 2013. Roberto Masiero (Venezia, 1944) è Professore Ordinario di Storia dell’architettura (IUAV-Venezia) e architetto. Studioso della storia delle idee con ricerche attorno alle relazioni tra arte, scienza e tecnica, ha pubblicato tra l’altro: Estetica dell’architettura, Bologna 1999 (tradotto in spagnolo e in turco); Livio Vacchini, opere e progetti, Milano 1999 (tradotto in inglese). Ha curato mostre come Il mito sottile. Pittura e scultura nella città di Svevo e Saba, Triere 1991; Mir. Arte nello spazio (con L. Francalanci) Bolzano 1990; La grande svolta. Gli anni ’60 (con V. Barel e E. Chiggio). Recentemente ha pubblicato una introduzione a T. W. Adorno, Parva Aesthetica (Mimesis, Milano 2012). Alessandro Tessari (Rimini, 1942) docente all’Università di Padova, deputato al Parlamento della Repubblica (VI-X legislatura) vive a Freiburg dove fa ricerca presso il Raimundus Lullus Institut della Facoltà teologica dell’Albert-Ludwig Universität. Maria Grazia Turri, economista e filosofa, insegna Linguaggi della comunicazione aziendale e Fondamenti della comunicazione presso il Corso di laurea in management dell’informazione e della comunicazione aziendale all’Università di Torino. Collabora con il Laboratorio di Ontologia teoretica e applicata (LABONT). Tra le sue pubblicazioni La distinzione fra moneta e denaro, 2009; Gli oggetti che popolano il mondo, 2011; Biologicamente sociali culturalmente individualisti, (Mimesis 2012).


Laboratorio Politico

Fondazione Francesco Fabbri è stata costituita nel 2003 per ricordare Francesco Fabbri, Deputato al Parlamento, Senatore della Repubblica e Ministro di Stato, tramandarne l’alta testimonianza di uomo politico e il suo costante impegno per lo sviluppo sociale, economico e culturale della collettività regionale e nazionale. Non persegue fini di lucro, il suo ruolo è quello di essere strumento di sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità su scala glocale. La missione è perseguita attraverso lo sviluppo di programmi, processi ed azioni da ideare, coordinare e promuovere in una logica di “rete”. Fondazione Francesco Fabbri ha dato avvio nel 2015 ad un nuovo triennio di lavoro che nel 2017 sigillerà le iniziative per il quarantennale dalla morte del senatore e ministro prematuramente scomparso. Lo ha fatto rinnovando profondamente la propria governance interna e individuando un percorso di azioni coerenti con il nuovo mandato finalizzato a produrre processi e non più eventi. Processi di valorizzazione dei territori, di formazione delle nuove classi culturali, di buone pratiche nei contesti amministrativi. Le attività sono governate da un Consiglio di Amministrazione, da una Direzione, da un Comitato Scientifico Territoriale (costituito da sentinelle aventi il ruolo di segnalare i fenomeni territoriali che si possono manifestare con interesse sul territorio nazionale) e da un Comitato Curatoriale (dei soli membri che assumono parte attiva di produzione e coordinamento nelle azioni progettuali).

Il Laboratorio Politico si offre come luogo di riflessione e di incontro attorno alle parole chiave della politica oggi: democrazia, delega, rappresentanza, partito, decisione, governo, sovranità… È rivolto a tutti i soggetti politici, istituzionali, formali e informali che intendono aprirsi al confronto. Il Laboratorio Politico intende proporsi come luogo di interpretazione e di confronto sui dati congiunturali che caratterizzano le dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo. Il Laboratorio politico si propone di verificare le condizioni affinché i territori che caratterizzano l’Alta Marca possano configurarsi progressivamente come rinnovati soggetti politici accompagnando o promuovendo processi di aggregazione politico-istituzionale, di modificazione delle forme della governance e di rielaborazione delle identità locali, non solamente in nome della mera appartenenza. Il Laboratorio politico vuole rivolgere la propria attenzione anche ai fenomeni politici globali, nella convinzione che esistano oggi relazioni tra il locale e il globale che debbano essere non solo continuamente “riconosciute”, ma anche governate sia per ragioni economiche che ideologiche. Il Laboratorio politico intende rivolgersi a tutti quei giovani che non trovano oggi occasione per una riflessione politica libera da vincoli di appartenenza e che vorrebbero dedicare una parte del proprio tempo al bene comune. Il Laboratorio intende diventare un luogo di riflessione attorno ad un problema oggi cruciale: la formazione della classe dirigente.

Presidente Giustino Moro Direttore Claudio Bertorelli

Coordinatore Roberto Masiero

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Fondazione Francesco Fabbri


Colophon Progetto grafico: Metodo studio (Paolo Palma) Editing: Elisa Pordon Catalogo stampato ed edito da: Mimesis Edizioni (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Collana: Quaderni della fondazione, n. 3 Isbn: 9788857531267 © 2015 – Mim Edizioni SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 Ringraziamenti Si ringrazia il festival Comodamente diretto da Claudio Bertorelli per la messa a disposizione di un luogo culturale in cui misurare le istanze e i temi del Laboratorio Politico della Fondazione Francesco Fabbri.

Fondazione Francesco Fabbri Onlus Pieve di Solighetto Tv 31053 Piazza Libertà, 7 m +39 334 9677948 f +39 0438 694711 info@fondazionefrancescofabbri.it www.fondazionefrancescofabbri.it twitter.com/FFFabbri www.facebook.com/ FondazioneFrancescoFabbri



Laboratorio Politico Quaderni #3

Il Laboratorio Politico, piattaforma di lavoro della Fondazione Francesco Fabbri, si offre come luogo di riflessione e di incontro attorno alle parole chiave della politica oggi: democrazia, delega, rappresentanza, partito, decisione, governo, sovranità ‌ Ăˆ rivolto a tutti i soggetti politici, istituzionali, formali e informali che intendono aprirsi al confronto. Il Laboratorio Politico intende proporsi come luogo di interpretazione e di confronto sui dati congiunturali che caratterizzano le dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo.


MIMESIS GROUP www.mimesis-group.com MIMESIS INTERNATIONAL www.mimesisinternational.com info@mimesisinternational.com MIMESIS EDIZIONI www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it ÉDITIONS MIMÉSIS www.editionsmimesis.fr info@editionsmimesis.fr MIMESIS AFRICA www.mimesisafrica.com info@mimesisafrica.com MIMESIS COMMUNICATION www.mim-c.net MIMESIS EU www.mim-eu.com


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