L’ARCHITETTURA DEGLI SPAZI DEL LAVORO NUOVI COMPITI E NUOVI LUOGHI DEL PROGETTO a cura di Sara Marini Alberto Bertagna Francesco Gastaldi
QUODLIBET STUDIO CITTÀ E PAESAGGIO
«E il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva e non giovi a un nobile scopo [...] Il lavoro solo ha trasformato il mondo e siamo alla vigilia di una trasformazione definitiva». Adriano Olivetti, Città dell’uomo, 1960
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L’ARCHITETTURA DEGLI SPAZI DEL LAVORO NUOVI COMPITI E NUOVI LUOGHI DEL PROGETTO a cura di Sara Marini Alberto Bertagna Francesco Gastaldi
QUODLIBET
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CITTÀ E PAESAGGIO L’ARCHITETTURA DEGLI SPAZI DEL LAVORO prima edizione novembre 2012 ISBN 978-88-7462-498-0 © 2012 Quodlibet s.r.l. via Santa Maria della Porta, 43 Macerata www.quodlibet.it
Volume pubblicato in occasione del convegno L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto (Venezia, 16-11-2012, a cura di Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi) con il contributo dell’Università Iuav di Venezia e della Fondazione Francesco Fabbri
La Fondazione Francesco Fabbri non persegue fini di lucro, il suo ruolo è quello di essere strumento di sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità. La missione è perseguita attraverso lo sviluppo di programmi ed azioni da ideare, coordinare e promuovere in una logica di rete orientata alle forme del Contemporaneo. Opera nell’ambito del territorio veneto ma con uno sguardo aperto al sistema nazionale, nei settori dell’assistenza, dell’istruzione e formazione, della promozione e valorizzazione nel campo artistico, culturale, storico, dell’innovazione e, in particolare nel presente periodo, del paesaggio in attuazione della Convenzione Europea di riferimento. www.fondazionefrancescofabbri.it
progetto fotografico Lavoro_Sissi Cesira Roselli_Brescia 2012 (in copertina, pp. xx, xx, xx...) Padiglione olandese_Sissi Cesira Roselli_Venezia 2012 (pp. xx, xx, xx...) progetto grafico Franco Nicole Scitte stampa Bieffe s.p.a.
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INDICE
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Reload: riattivare il capitale territoriale per re-immaginare lo sviluppo Maurizio Carta
Premesse Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi
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Più cose alla volta Mosè Ricci
ARCHITETTURE E COMMITTENZE PER PRODURRE LUOGHI
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Territori ed architetture del Made in Italy Rosario Pavia
Le ali dell’architettura. Spazi del lavoro ed altre alchimie Sara Marini
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Hashima: economie produttive tra rovine post-industriali Giulia Menzietti
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Presentazioni Giustino Moro, Daniele Marini
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I
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Luoghi di lavoro, paesaggi del XX secolo Luigi Latini SSIC, Gordola Durisch + Nolli Architetti Là, dove il Paesaggio si fa. Esperienze e confronti nella terra del lavoro Claudio Bertorelli
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III
Productive Landscapes. Common Grounds Emanuele Sommariva, Jeannette Sordi
IL NORD EST, FRA CRISI E NUOVA DOMANDA DI GOVERNO DEL TERRITORIO
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C’è un Nord Est oltre il mito? Francesco Gastaldi
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Spazi condivisi, luoghi ritrovati Marco Ragonese
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Dopo la crisi, quale modello territoriale? Michelangelo Savino
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Milano e la sfida post-fordista. Logiche localizzative e idee di città Laura Montedoro
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Scenari e territori per un nuovo sviluppo del Nord Est Giancarlo Corò
130
Le ragioni del lavoro artigiano nell’economia globale Stefano Micelli
136
Riqualificare lo sprawl Laura Fregolent
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Oltre il capannone: metamorfosi del Nord Est produttivo Marco Ferrari
II
DALL’IMPRESA NEL TERRITORIO AL PAESAGGIO COME IMPRESA
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Alto lo spread città/territorio. Dettagli in cronaca Alberto Bertagna
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Rigenerare paesaggi in declino: progetti, risorse e strategie per tornare a crescere. Il caso di Napoli est Michelangelo Russo
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PRESENTAZIONI
Giustino Moro, Daniele Marini
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IL PROPRIO, L’ALTROVE La Fondazione Francesco Fabbri si è data il compito di rilevare i processi di trasformazione in atto nei territori (a partire da quelli dell’Alta Marca Trevigiana) in tutti i suoi aspetti, economici, sociali, politici, culturali, per cercare di cogliere contraddizioni e buone pratiche. Le prime per capire collettivamente come superarle; le seconde per diffonderle come esempi positivi. Questo cercando di collocare la propria analisi e le proprie iniziative in un contesto culturale e politico nella scena europea e nei processi della globalizzazione. Si tratta di interpretare “il proprio” conoscendo cosa accade “nell’altrove” e, di contro, di comprendere “l’altrove” per far sì che “il proprio” non si ritrovi “isolato”, “perso”, “emarginato” in questo - permettetemi di affermarlo - nuovo mondo, il mondo postindustriale, digitale, transnazionale, globalizzato. Su queste premesse è inevitabile che Fondazione Francesco Fabbri si ritrovi a misurarsi con la contemporaneità e per la contemporaneità, pensando che se sappiamo progettare e costruire un mondo civile qui e ora stiamo anche mettendo uno sopra l’altro i mattoni per un futuro migliore. È inevitabile che sia per noi sempre presente il tema del lavoro. Perché? Perché è con il lavoro che, oltre a dare senso alla nostra vita e forma alle nostre relazioni sociali, modifichiamo il nostro intorno e con esso il nostro stesso futuro. È il lavoro, nelle sue varie forme, che ha costruito e continua a costruire i nostri paesaggi. E per noi il paesaggio è proprio questa continua trasformazione e questo “deposito” delle nostre azioni sulla nostra terra. Se cambia il modo di produrre cambiano il nostro modo di vivere, le conseguenti relazioni sociali e, inevitabilmente, l’ambiente in cui ciò avviene. E, come viene segnalato più che giustamente dagli organizzatori del Convegno, è in atto un profondo mutamento dei modi di produzione, ma anche dei processi di formazione dei valori nei quali ci riconosciamo e delle “estetiche” portate da questi valori. È fondamentale oggi governare questi processi e un convegno come questo può mettere le basi per cercare di comprendere e mettere a “regime” gli strumenti necessari. È di questi strumenti che Fondazione Francesco Fabbri ha bisogno, perché riteniamo che in questa fase storica essa possa avere un ruolo significativo ad esempio nel rapporto tra la committenza e gli scenari che la progettazione – se attenta ai propri strumenti concettuali e teorici - può aprire. Spesso la committenza pubblica come privata non ha gli stru-
menti per comprendere ciò che viene elaborato nella progettazione, ma altrettanto spesso la progettazione non sa cogliere le difficoltà o ciò di cui la committenza ha effettivamente bisogno per evolversi o per partecipare alle trasformazioni in atto. Ci sembra che un ruolo di terzietà tra coloro che detengono il potere della decisione e coloro che devono costruire gli scenari futuri possa essere utile per gli uni e per gli altri. Ci sentiamo per questo in sintonia con la riflessione che emerge nella prima sessione del convegno dal titolo “Architetture e committenze per produrre luoghi”: va ripensato il rapporto tra modello produttivo e idea di città, tra organizzazione del lavoro e articolazione dello spazio; va ripensata l’idea di paesaggio non più come variabile estetica o come mero supporto delle attività, ma come elemento fondamentale delle possibili trasformazioni, come progetto nella e della nostra contemporaneità. Da qui diventa necessario aprirsi a ciò che propone la seconda sessione del convegno, cioè l’analisi delle strategie che sviluppano lavoro a partire dal paesaggio dato che “Il paesaggio, post-agricolo e post-industriale, nella sua dimensione culturale o ecologica, è assieme nuova forza-lavoro e nuovo contenitore, strumento per una terza via dell’imprenditoria”. È proprio ciò che Fondazione Francesco Fabbri sta registrando giorno dopo giorno con le sue iniziative e con la sua volontà di indicare possibili strade per uscire dalla crisi innovando in modo sistemico il rapporto, appunto, tra attività produttive e territori. Il postindustriale come il digitale vanno considerati come straordinarie opportunità di cambiamento. Il contemporaneo va radicato e non subìto, anzi va continuamente “progettato”. E questo non può che costringerci a riflettere e a prendere posizione rispetto a ciò che il passato ha lasciato come “resto” nei nostri territori (ma sospettiamo anche nei nostri modi di pensare). Gli esempi sono molti: capannoni inutilizzati, periferie inabitabili, interi territori violentati e inquinati, paesaggi letteralmente sconvolti, cementificazione ovunque. È chiaro: c’è l’urgenza di nuove forme di governo del territorio, cioè di nuove politiche, politiche che dovrebbero prima ascoltare le domande che emergono dai territori, le ipotesi che la scienza e la cultura possono elaborare, le richieste che nascono da tutti i soggetti istituzionali privati e pubblici. Proprio per questo siamo qui. GIUSTINO MORO PRESIDENTE FONDAZIONE FRANCESCO FABBRI
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PRESENTAZIONI
NORD EST: LE TRASFORMAZIONI
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Non ha più la corsa slanciata d’un tempo, la locomotiva d’Italia. Ha rallentato. Da diversi anni ne sono arrivate altre in grado di procedere più velocemente e sugli stessi binari. Ha corso velocemente, la locomotiva, ma non ha saputo nello stesso tempo adeguare il motore e le carrozze alle nuove esigenze della competizione internazionale. La locomotiva non è diventata un treno ad alta velocità (anzi, è proprio l’infrastruttura di cui più sente la mancanza). E, in questa lunga crisi economica, è costretta a fare una doppia capriola: trasformare se stessa, mentre cambia il mondo. Parliamo del Nord Est dell’Italia che ha progressivamente allineato le sue performance al resto del Paese. O, in qualche misura, ha nordestizzato l’Italia. Ciò non di meno, le sue performance continuano a essere – seppure leggermente – migliori del resto d’Italia. Anche quando portano il segno meno davanti. Le stime del PIL del 2012 (secondo Prometeia) raccontano di un -1,9%, mentre per l’Italia si attesta a -2,2%. Per il 2013 l’orizzonte sembrerebbe (il condizionale è d’obbligo) migliorare leggermente: per il Nord Est si dovrebbe registrare un +0,5% e per l’Italia +0,1%. Tale risalita della china negativa è trainata dalla presenza di medie imprese divenute leader a livello internazionale: le cosiddette multinazionali tascabili. Soprattutto, dalla grande propensione del sistema produttivo locale a proiettarsi sui mercati esteri e, quindi, ad agganciare il vento della ripresa che soffia oltre i nostri confini. Ma non c’è solo economia. Il Nord Est ha una società dove la coesione sociale presenta ancora caratteri importanti, a dispetto degli stereotipi che gli stessi nordestini non di rado alimentano. La presenza e l’arrivo dei migranti è ben sopra la media nazionale (nel 2010 oltre il 9%, mentre in Italia è il 7%). Eppure, come testimoniano le ricerche Caritas-Cnel e Ismu, le province del Nord Est primeggiano nella capacità di offrire un’integrazione lavorativa e abitativa agli immigrati. Complice una presenza capillarmente diffusa di mondi associativi e volontari che molto si sono spesi per accogliere questi nuovi cittadini. O degli stessi industriali – come nel caso di Treviso – che nella vicenda dei profughi hanno messo a disposizione le loro foresterie. Dunque, il Nord Est nonostante le difficoltà continua a offrire risultati migliori della media italiana. In questo senso, questa parte orientale d’Italia continua a co stituire un territorio che si caratterizza come un vero e proprio laboratorio. Un luogo, distante dal centro (Roma) e dai centri
(Milano, Torino), ma non per questo periferico, dove avvengono processi innovativi. E poiché è nelle periferie che si genera il nuovo, è utile prestare attenzione a quanto si muove al suo interno. Lo è stato nel passato. Pochi rammentano che l’industria italiana ha avuto proprio a Valdagno (Marzotto) e a Schio (Rossi), in provincia di Vicenza, le prime grandi esperienze dell’800. Studiosi (I. Diamanti, La Lega, Donzelli) e giornalisti (F. Jori, Dalla Liga alla Lega, Marsilio) ci ricordano come la Lega, ancora oggi dominata ai vertici dai lombardi, abbia in realtà le sue radici in Veneto, nella marca trevigiana. I temi del federalismo e dell’autonomia, adesso così accettati, devono proprio alla Lega la loro affermazione nel dibattito pubblico. Per non dire della bilateralità nelle relazioni industriali che trovano nel Nord Est le esperienze più avanzate: ancora negli anni ’70 nel campo dell’artigianato, prima, e industriale, poi, si strutturano in enti bilaterali. Non c’è stata assemblea degli industriali recente dove il presidente di turno non abbia pubblicamente ringraziato le organizzazioni sindacali (tutte) per l’atteggiamento responsabile tenuto nelle crisi aziendali. Con relativo scroscio di applausi da parte degli industriali partecipanti. Non siamo alla cogestione in salsa teutonica, ma non siamo molto distanti. E anche oggi possiamo rintracciare fenomeni che sembrano anticipare quanto potrà avvenire in un prossimo futuro. Prendiamo solo due esempi in campo economico. Il primo riguarda una delle conseguenze della attuale crisi. Le imprese per continuare a essere competitive devono essere più solide, più grandi. Però tradizionalmente le aziende sono di natura familiare, tendenzialmente refrattarie a fondersi o ad aprirsi a nuovi soci. E qui scatta la ricerca di un percorso nuovo. Si può essere più grandi senza essere più grossi: alleandosi con altre imprese colleghe della filiera produttiva; innovando i propri prodotti assieme ai fornitori; imprese più grandi che comprano i macchinari più innovativi e li affidano ai propri terzisti; entrando reciprocamente nei consigli di amministrazione, rafforzando le alleanze; formando consorzi fra imprese. In questo modo, ognuno rimane della stessa dimensione d’impresa, padrone a casa propria, ma cresce per linee orizzontali, dando vita a un reticolo stretto di relazioni produttive e commerciali. Sarà una possibile nuova via per la crescita delle imprese italiane? Il secondo esempio riguarda una domanda nuova alle istituzioni e alla politica. Lo scorso anno, dalla marcia silenziosa degli industriali di Treviso, passando per i dibattiti di quelle di Padova e di Venezia, fino a quella di
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Vicenza dove non sono stati invitati sul palco esponenti politici, nelle assemblee degli industriali è emersa con forza la disillusione nei confronti dell’attuale stagione politica. Sbaglierebbe chi pensasse a una riedizione degli anni ’90, quando gli imprenditori, dopo l’esperienza di Tangentopoli, ritenevano che l’economia e la società avrebbero potuto fare a meno della politica. Che la loro discesa in campo avrebbe dato una sferzata e una guida al paese. Non è così oggi. Non sta avanzando nuovamente un contrasto alla politica. È netto, invece, il bisogno di politica. Nel senso di una politica in grado di interpretare il futuro, di prefigurarne i percorsi, di regolare lo sviluppo assieme agli attori sociali ed economici. È la domanda di una politica in cui la coesione sociale, il merito e il senso di responsabilità verso le nuove generazioni deve fare premio. Non è la richiesta di avere professionisti della politica, ma di politici che sappiano fare bene la propria professione. Se il Nord Est continua a essere un laboratorio per l’intero Paese, i segnali sono positivi. DANIELE MARINI UNIVERSITÀ DI PADOVA DIRETTORE SCIENTIFICO FONDAZIONE NORD EST
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PREMESSE
Sara Marini, Alberto Bertagna, Francesco Gastaldi
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COMMITTENZA TOTALE La coincidenza dell'architettura con una precisa funzione rappresenta da sempre un assunto chiave del progetto. Questo assunto oggi viene a mancare soprattutto per quanto concerne gli spazi del lavoro. La mancanza di funzioni chiare, precise, è determinata da decisivi cambiamenti che hanno investito e investono i modelli economici, da evidenti migrazioni di fasi della produzione da un territorio all'altro, da un continente all'altro e da conseguenti, ma anche autonome, modifiche della mappa sociale. Inoltre l'attuale crisi non solo mette in luce un rivolgimento generale del sistema lavoro ma chiede una progettualità totale: non servono solo e semplicemente progetti architettonici ma idee che sappiano coniugare nuove immagini, nuovi prodotti, nuovi processi, nuovi luoghi, il tutto sulla base di un'economia debole e ancora diffusa. Oltre il disegno modernista della città – che ha sancito la chiara suddivisione degli spazi in base alle attività: lavorare, abitare e tempo libero, e che ha determinato la concentrazione del lavoro in aree monofunzionali, con gli scarti di un sistema che è progredito in un'inarrestabile polverizzazione, un sistema in cui ad una singola proprietà ha corrisposto un'attività produttiva e anche quel filamento di città necessario a connetterla – oggi gli spazi del lavoro tornano a strutturarsi come organismi complessi. Non più semplici edifici industriali ma nuove realtà dotate di laboratori, centri studi, spazi di relazione con il pubblico e con il paesaggio, o meglio, questo ci si attende ed è sostenuto da alcuni esempi che hanno accolto e interpretato la possibilità posta dal cambiamento in corso. Già da tempo Saskia Sassen rileva nei territori statunitensi una rinnovata centralità della città per quanto concerne l'efficacia dello spazio del lavoro, sempre più luogo dell'incrocio d'idee e sempre meno, in occidente, ambito della produzione. La riscoperta necessità di condivisione dello spazio potrebbe far presupporre una revisione del modello di città sociale che in Italia ha profondamente segnato la progettazione architettonica e urbana, sulla scia del progetto totale di Adriano Olivetti. Il Diesel Village a Breganze e le diverse Factory, che nascono oggi occupando complessi industriali dismessi, rappresentano il controcampo della crisi dei capannoni diffusi. Rispetto però al modello olivettiano emergono significative differenze: il dato sociale non riporta più categorie chiare quali quella operaia ma comunità costruite sullo scambio del pensiero e
quindi sicuramente più mobili; tale mobilità determina l'impossibilità, se non volutamente temporanea, della coincidenza o della prossimità dello spazio del lavoro con lo spazio dell'abitare; e ancora, non è più l'abitare ad essere concepito in funzione dello spazio del lavoro ma è quest'ultimo che ritorna in città a cercare prossimità con le altre funzioni. Da un lato si assiste ad una rinnovata tensione verso il centro urbano, dall'altro gli spazi abbandonati si offrono come soluzioni economicamente e spazialmente vantaggiose proprio per le nuove formalizzazioni del lavorare assieme. Il vantaggio del riutilizzo di strutture dismesse presuppone però un preciso atteggiamento progettuale, lontano dall'idea di recupero, disponibile ad assumere la condizione della scena trovata, il suo porsi in fieri. La visione di Adriano Olivetti ricorda, ed è un ricordo che potrebbe suonare come monito o anche invito, quanti sono gli "oggetti" possibili del progetto e come questi possono essere considerati "progetti" solo in virtù di un saldo rapporto, o investimento, tra committenza e progettisti. Dalla città, agli edifici, allo spazio aperto, al prodotto industriale, alla comunicazione dello stesso e del suo immaginario, tutto confluiva nell'idea olivettiana a definire un unico progetto e una salda alleanza con i diversi lavoratori coinvolti, compresi gli architetti. Certo lo scenario attuale sembra quasi imparagonabile con quello in cui la Olivetti costruiva i suoi spazi del lavoro: se allora tutto poteva convergere, oggi il sistema si presenta sincopato. La frammentazione e la segmentazione del lavoro pongono appunto il problema della funzione chiara, che può tradursi in pervasività, in ricerca di condizioni flessibili, in ritorno ad una convivenza con le altre attività; ma non si può per questo prescindere dal progetto e dal suo essere progetto sociale cercato dalla committenza e condiviso e gestito dai progettisti. Il destino puramente commerciale che è stato costruito negli ultimi decenni per lo spazio della casa dovrebbe rappresentare l'esempio da evitare, l'errore in cui non incorrere, facendo appello al primo articolo della nostra costituzione che non parla solo di un'attività, di un luogo, ma del lavoro quale fondamento di una società. 13
SARA MARINI
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PREMESSE
TANTO VA IL LAVORATORE ALL’ARCHITETTURA...
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Nel 1963 Tinto Brass realizza forse l’unico film pornografico di tutta la sua produzione, dalle prime esperienze presto virata verso un più semplice erotismo soft, all’italiana. Con “Chi lavora è perduto”, nuovo titolo immaginato per bypassare la censura abbattutasi su “In capo al mondo”, il regista veneziano compone (etimologicamente) il disegno di una vendita. In fondo se qui di “lavoro” si tratta, si parla di conseguenza di “vendita”. Ogni lavoro di fatto realizza una vendita, o si finalizza ad una vendita. Dunque non sembri fuori tema questo incipit. Accettando (il) porno come derivato del verbo pèrnemi, ogni progetto, di architettura di città di territorio di vita, è un progetto pornografico: è il disegno prospettivo di una vendita, o una vendita decisa per un fine. Almeno sin da quando si è iniziato ad intendere il progetto come vettore di materializzazione di un valore. Perché nulla più di una vendita è legato al valore, e nulla più del suo disegno, della sua grafia, la può raffigurare. Dunque il film in questione si presenta come disegno di una vendita: una vendita di sé. Il protagonista (Bonifacio) è dilaniato dal dubbio durante tutto il lungometraggio, senza peraltro che quest’ultimo sia, del dubbio, elogio: vendersi o meno al lavoro è il vero tema che Brass propone. Combattuto e assieme apatico nel suo peregrinare per la città, tra luoghi assolutamente silenti ed inoperosi e spazi del manifestarsi di efficienze, Bonifacio è strattonato da un lato dal fascino della follia dei suoi amici, che per conservare se stessi si nascondono nelle nebbie veneziane del manicomio nell’isola di San Servolo, e dall’altro dalla necessità di produrre un se stesso diverso. Prodursi più ricco, più efficiente, prodursi più nobile (il lavoro nobilita) abbandonando il proprio essere plebeo (per quanto piccolo-borghese), uomo di quel popolo che sta peraltro diventando tutto nobile, che in pieno boom sta entrando tutto tra le fila di una produzione finalmente modernista, prendere congedo da sé all’insegna di un procedere progressista? Accettare il lavoro e dunque un diverso se stesso, per avere un doppio prodotto: quello del proprio lavoro e un diverso io derivato da questo produrre? Un distacco dal proprio essere comunque deve realizzarsi, nella staticità come nel dinamismo: laddove plebeo, uomo comune, non potrà più essere, perché sarebbero tutti gli altri a isolarlo in una condizione a quel punto singolare, perché quella comunanza non ci sarebbe più, sarebbe estraneo rispetto alla massa, alieno, come gli amici nel mani-
comio. Per restare plebeo deve diventare nobile: è tutto qui il conflitto interiore del protagonista, la difficoltà del suo progetto. È tutta qui la pornografia del film: il protagonista si vede costretto a disegnare la vendita di quel che è, a vendersi ad un futuro diverso dal suo essere attuale. Il proprio passato e il proprio presente in conflitto col proprio futuro: è qui il nostro punto d’interesse. Certo non siamo più in ottiche moderniste, e immaginiamo possa essere rubricata ancora come certezza l’ineluttabilità della vendita di sé: sul lavoro come necessità non si agitano dubbi, per non rinnovare quelli di Bonifacio. Sappiamo anche cosa questa logica ha significato per il territorio e per le città. Allora come può essere una pornografia di un nostro disegno, del progetto del nostro futuro, oggi? È un tema sempre più pruriginoso, perché è sempre più osceno, fuori di scena, disegnare il domani, un domani che sfugge ad ogni capacità proiettiva per la decadenza rapidissima delle stabilità che la confortano. Quello che si propone qui è semplicemente una pornografia del piacere. Il piacere – fuori di allegoria – di una indifferenza. Una indifferenza rispetto al passato, a quel che si era, a quel che il territorio è stato ed è in questo stesso istante. Il piacere di non dover scegliere un disegno per il domani rimpiangendo qualcosa. Il piacere di scegliere semplicemente tra piaceri diversi, tutti disegnati nel futuro. Non necessariamente modernisti, non necessariamente frutto di una vendita perché non è messo in discussione quel che si possiede, quel che si è. Un acquisto a cambiale forse, più che una vendita o un baratto, un acquisto che si propone come scommessa e che mette in gioco solo l’energia futura dei territori, più che il ricordo del loro passato. Il piacere di un territorio tutt’altro che modernista: privo di progressi, allora, ma certo non di sviluppo. Perché abbandona l’idea di passato, sul quale il progresso deve innestarsi ma dal quale lo sviluppo può prescindere. Perché se il lavoratore va all’architettura, ovvero se tende alla concretizzazione, alla materializzazione di valore, alla sua espressione tangibile come epifenomeno incrementale, rischia di perdere il senso o la possibilità del senso nuovo che il lavoro può immettere nello spazio di una società. Un lavoro che non sia, come per Bonifacio la vendita di sé, la vendita del territorio al reddito, alla produttività come unico valore. Ma opportunità (non convenienza, bensì motrice) fondata esclusivamente sul piacere di una tensione. ALBERTO BERTAGNA
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LA “RIVOLUZIONE SILENZIOSA” DEL NORD EST A partire dai primi anni Duemila, con fenomeni di globalizzazione sempre più marcati, i distretti produttivi del Nord-Est sono stati esposti in maniera rilevante alle dinamiche internazionali. Con la crisi economica degli ultimi anni, un sistema che sembrava relativamente stabile ha subito improvvise involuzioni; sono in corso ormai da alcuni anni una sorta di “rivoluzione silenziosa”, un processo di adattamento alle difficoltà portate dalla concorrenza e una continua rincorsa a mantenere competitivi i processi di produzione. Nessuno avrebbe potuto immaginare che l’area traino al dinamismo economico del paese, soprattutto nell’export e nei prodotti del made in Italy, potesse avviarsi verso una spirale di crescente debolezza. La coscienza di avere sviluppato forme di successo dal punto di vista imprenditoriale ha fatto sì che si sia creata una sorta di presunzione di essere indenni da problemi, che ha generato isolamento e incapacità nel cogliere segnali di cambiamento provenienti dal mercato. Il Nord Est, sta attraversando una fase di metamorfosi molto profonda che investe non solo il tessuto produttivo, ma anche le comunità locali, quest’ultime da sempre vero “carburante” del successo del sistema distrettuale. Crisi economica, dunque, ma anche crisi sociale, di identità e di ruolo. Parole come “disoccupazione” e “cassa integrazione”, che fino ad ora erano quasi sconosciute, oggi fanno capolino nelle cronache dei quotidiani: ambiti territoriali destabilizzati iniziano a porsi problemi che mai li avevano intaccati nei periodi di sviluppo e crescita. Inoltre, se l’interazione tra sistema economico e sistema sociale, considerata nei suoi aspetti storici, culturali, politici, istituzionali, è stata il punto di forza di questo modello di sviluppo, cosa può accadere se i legami o qualche tassello di tale rapporto saltano? Il dibattito che pare svilupparsi in questi ultimi anni sembra voler indagare come la crisi abbia modificato non solo i comportamenti delle imprese, ma anche il modo in cui conoscenze, valori, istituzioni e mondo della produzione oggi interagiscono fra di loro. Oggi le aree produttive e distrettuali di più antica formazione subiscono processi di parziale dismissione o rilocalizzazione. Le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, trasferiscono la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministra-
tivo. Alcune si spostano all’interno di nuove aree industriali situate in altre città o nuovi territori o in zone meglio servite dal punto di vista infrastrutturale e logistico. La crisi ha fatto emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì al problema della dimissione dei “capannoni” (molti dei quali sottoutilizzati), delle possibili destinazioni d’uso, della limitazione della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi modelli di sviluppo, ma ha visto molti attori di politiche pubbliche del tutto impreparati. L’impressione è che, senza un ruolo guida delle istituzioni locali, difficilmente i capannoni troveranno una spontanea riconversione a causa dei costi e delle procedure particolarmente complesse. Il tutto mentre associazioni di categoria e imprenditori continuano a lamentare l’eccesso di burocratizzazione e di tempi lunghi per le nuove autorizzazioni per costruire magazzini ed edifici produttivi. In attesa di verifiche più approfondite, il dimensionamento di molti Piani di Assetto del Territorio (i vecchi PRG), approvati negli ultimi anni in Veneto, conferma una continua domanda di suolo (soprattutto per strade, case e capannoni) relativamente inelastica rispetto ai prezzi, indifferente ai profili di domanda e indipendente dai cicli di dismissione e riqualificazione. Il consumo di terreno agricolo alimenta il (o è alimentato dal) cosiddetto “delirio delle strade” (spesso progetti di supporto alle nuove lottizzazioni). La situazione deve essere davvero grave se perfino il “governatore” della Regione Veneto, Luca Zaia, nell’estate 2012 si è espresso in questi termini in una intervista, pubblicata ne Il Mattino di Padova: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarsi. Questo vale per i capannoni industriali, ma a maggior ragione per le abitazioni». FRANCESCO GASTALDI
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Il lavoro assume una centralitĂ rinnovata anche per le discipline che si occupano del disegno degli spazi che lo accolgono. Il profondo mutamento dei modelli di produzione apre nuovi scenari con conseguenze dirette nei territori, che necessitano di nuove regolazioni e nuove strategie.
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LE ALI DELL’ARCHITETTURA. SPAZI DEL LAVORO ED ALTRE ALCHIMIE
Sara Marini
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Solo una tenda, anzi una serie di tende, si aggira, mossa da un meccanismo e ancorata al soffitto della stanza, a definire possibili cambiamenti dello spazio. Il padiglione olandese alla Biennale di Architettura di Venezia del 2012, curato da Ole Bouman, è "occupato" dall'opera ReSet. New Wings for Architecture di Petra Blaisse. In un'edizione della mostra in cui si attendevano con ansia risposte alla crisi – del progetto e del ruolo dell'architetto – e modalità per lavorare assieme – Common Ground era il titolo guida dell'esposizione diretta da David Chipperfield – la nazione simbolo di uno degli ultimi eldoradi della costruzione, in Europa, si presenta raccontando la modifica dello spazio con il più semplice, e distante dal muro, degli elementi. ALI Petra Blaisse progetta con differenti "entità", in particolare produce paesaggi nel vuoto con materiali vegetali ed inorganici e definisce paesaggi architettonici negli interni attraverso l'impiego di tessuti. I due termini utilizzati per dar nome al progetto/laboratorio all'interno del quale è stata sviluppata anche la proposta per Venezia, Inside Outside, non richiamano una dicotomia ma una vera e propria alchimia. L'opera Re-Set. New Wings for Architecture, come appunto è sostenuto nel titolo, non si offre solo come visione ma propone una revisione del mestiere del progettista facendo riferimento a delle ali, rimandando ad una struttura in movimento per definizione. I materiali con cui Petra Blaisse trasforma situazioni trovate, già costruite, a volte affrontate in collaborazione con altri progettisti che si occupano della definizione del manufatto, non sono una scoperta ma un ritorno di orizzonti dimenticati. Il pensiero scontatamente va a Mies van der Rohe, alle sue tende che partecipano - ad esempio nel padiglione barcellonese - alla “non definizione” dello spazio, o meglio alla messa in evidenza dello spazio pur nella perdita del confine, concretizzata attraverso la disoccupazione dello spigolo o l'utilizzo dei pilastri a croce specchianti e delle superfici di marmo. O ancora si può ricordare la più recente Curtain Wall House di Shigeru Ban, dove il perimetro della casa è una tenda lasciata in balia del vento a narrare l'incostante conformazione dell'oggetto; tenda che svela, quando raccolta, l'inattesa nudità della casa, il suo far a meno della chiarezza del perimetro. Inside Outside propone non una marcatura di linea ma un'ambiguità tra ciò che sta all'interno e ciò che è fuori, tra ciò che è
immobile, perenne, trovato, ma che poi viene modificato suo malgrado da una presenza apparentemente temporanea, in realtà solo instabile. «Inside Outside takes its motivation from the combination of needs that are inherent to exterior and interior designs. The soft, absorbent requests of inside spaces are traditionally in direct opposition to the hard, durable requirements of public space. This dichotomy becomes the inspiration which leads us to begin a project, at any scale» recita la presentazione della Mentality del laboratorio della Blaisse nel sito on-line dedicato alla sfumata dicotomia tra dentro e fuori. Re-Set suona quindi come una nuova partenza: è un invito a trovare nuove ali in un mestiere – come quello dell'architetto – spesso ancorato al problema di costruire qualcosa di nuovo, qualcosa di più, dei muri. L'opera invece si accontenta di adagiarsi nello spazio del padiglione apparentemente in modo lieve ma alla fine decisivo: il padiglione è modificato, alterato, anche se attraverso un mutamento indotto più che impresso. Dentro l'architettura la luce cambia e continua a cambiare in base al movimento della tenda. Cambia la percezione del suono, cambia il rapporto anche dimensionale tra le parti. Ma poi, se si vuole, tutto può tornare come prima, denunciando un'ospitalità a tempo determinato. Lo spazio così definito, quando viene attraversato, compartimentato dalla tenda, non separa nettamente: pone dei bagliori, dei riflessi, delle ombre percepibili da un lato all'altro: serve quindi disponibilità a condividerlo, serve volontà di accettare altre presenze, serve un moto verso la compartecipazione; tutto questo esclude e supera il senso del muro. Fuori, attraverso il filtro dell'ingresso vetrato, si assiste al moto dell'oggetto. Certo la scena è immobile, ma quel movimento interno enuncia un passaggio continuo, chiede attenzione al dettaglio, chiede all'osservatore di assistere a questo principio di reversibilità. LAVORI E LABORATORI L'opera veneziana di Petra Blaisse, molto site specific, non tratta direttamente il progetto degli spazi del lavoro. Probabilmente però oggi il tema non chiede specifiche risposte o proposte ad hoc, essendo vago il modo di lavorare, sempre più immateriale e contraddittoriamente sempre più debitore di prossimità – ai servizi in senso urbano – della presenza degli altri – in senso architettonico. Il contenitore del lavoro è orfano di precise collocazioni in batteria di macchinari, esule rispetto a
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necessarie prossimità alle fonti di energia naturali – quali sono stati ad esempio i corsi d'acqua – sradicato da collocazioni strategiche e monotematiche o monofunzionali. L'indeterminazione del luogo-lavoro è dettata dalla condizione in cui versa oggi l'Occidente, è definita dal mutamento degli strumenti, che solo parzialmente hanno decretato la fine delle reti fisiche a favore di quelle immateriali, ma che sicuramente hanno modificato lo spazio del singolo e il suo essere "portatile". Si producono idee o prototipi in cui l'immagine del prodotto deve essere chiara e cangiante al tempo stesso per accogliere interesse e consenso da parte di una società esplosa, moltiplicata nei suoi desideri e nei suoi immaginari. Al tempo stesso vedendo l'opera Re-set non si può evitare di pensare alle difficoltà che incontra oggi il progetto nel modificare l'esistente: perché le economie e le tecnologie della costruzione hanno inseguito per decenni il miraggio del nuovo, perché il termine restauro non può essere associato solo al monumento quando si rilevano sul territorio e nelle città ingenti quantità di strutture ordinarie inutili e inutilizzate la cui revisione, la cui trasformazione appare complessa, proprio perché completamente da impostare. Si tratta forse di ripartire da quelle esternalità dell'architettura, o meglio da quegli spazi, quelle presenze considerate altro dall'architettura che però ne sono il segno primigenio – basta pensare alla tenda di lecorbuseriana memoria – per non rinunciare al progetto. Come un vestito, o a monte come un cartamodello, l'architettura di tela si conforma al corpo che la ospita ma lo interpreta, se ne distacca per raccontarne il carattere che non può essere fisso ma deve esplicitare i movimenti di chi la "indossa". Non a caso negli ultimi decenni moda e architettura hanno disegnato un terreno comune dettato da quell'industria dell'abito che non si è semplicemente fermata alla produzione dell'oggetto ma che ha investito su ogni aspetto della progettazione cercando di ancorare la realtà, il territorio, la città e i suoi spazi a quel sogno di trasformazione e interpetazione perenne che le è proprio per definizione. Resta però chiaro un punto di partenza, una coordinata che è appunto il corpo, presente nel progetto sì con le sue misure ma non solo: c'è anche il movimento, c'è il carattere, c'è sostanzialmente il senso del segno, ma anche l'instabilità dettata dall'incontro tra un materiale vivo, il corpo appunto, e una materia inorganica, come il vestito o l'architettura.
Forse si tratta di riscoprire quello che oggi è solo standard e giudicato ininfluente perché non sostanziato da muri: le superfici esterne e i paesaggi dell'interno ricordano, nella loro inconsistenza, il senso dello spazio, quello stesso senso dimenticato dall'Architettura, preoccupata di conquistare suolo e aria, di utilizzare tutta la cubatura possibile, dimentica del proprio virtuoso sodalizio con la struttura, ansiosa di sostanziare confini piuttosto che articolare luoghi. Interni di stoffe ed esterni di vegetazione, o viceversa, palesano la possibilità che il vuoto venga articolato da dispositivi in movimento, perché meccanici o vivi, dispositivi e non compartimentazioni perché il cambiamento è in agguato, il volume non è definito solo dal perimetro ma commentato e articolato dalle ombre, dalle disposizioni, dagli usi, dalle percorrenze. L'architettura è chiamata a contestualizzarsi, non rimandando al luogo che la ospita ma carpendo le regole o le alchimie del territorio, della città, le economie dell'oggi e anche del domani, rinunciando finalmente al sogno di eternità oggettuale e offrendosi invece quale spazio eterno, capace di accogliere e orchestrare i mutamenti. Precisa Petra Blaisse sempre rispetto alla Mentality del suo laboratorio: «Inside Outside remains responsive to the general cultural and economic situation of the site – to the client's position in both a practical and a political sense – to the building or the site's history and future – the cultural and visual expectation of users, visitors and sponsors – and to the educational and economic expectations of the city, region, or country." ALCHIMIE Il processo alchemico presuppone che da materiali poveri si possa arrivare ad ottenere oro. Questa sorta di magia è ciò che oggi viene chiesto al progetto, e la richiesta non investe solo il come ma anche il con che cosa è possibile procedere in tal senso. Si assiste sostanzialmente ad una revisione generale del processo progettuale, una discussione sicuramente fertile nel momento in cui si vanno cercando le nuove ali dell'architettura. Ma la fertilità di tale dibattito necessità di due sostanziali condizioni: una posizione propositiva da parte della committenza a cui corrisponda una disponibilità di considerazione complessiva del contesto da parte del progettista, del contesto economico e sociale. Nell'opera di Petra Blaisse non c'è alcuna differenza d'approccio tra i diversi suoi progetti: l'idea che ricorre è quella della perdita della scala, della perdita di confine, del confondersi degli spazi: si tratta di dispositivi.
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L'opera The First Investigation (Art as Idea as Idea), di Joseph Kosuth, riporta con inchiostro bianco su una superficie nera la definizione del termine device: «Device [di'vais] n. Expédient, moyen, truc m. // Stratagème m.; combine f. (fam.). [trick]. // Dispositif, système, appareil m.; invention f. (contrivance). // Blas. Devise f. // Arts. Dessin ornamental m. // Pl. Fam. Plans m. pl.; activités f. pl.; to leave s.o. to his own devices, livrer qqn à lui-même; laisser qqn se dépatouiller (fam.)». L'importanza dell'opera Re-set è forse in gran parte nel suo essere un dispositivo, nell'offrire un'idea ripetibile – sempre in altri termini, in altre condizioni – nel suo offrirsi come stratagemma e non come figura o forma, nel suo essere un meccanismo e in questo anche nello sfruttare un'invenzione, ad esempio quello del semplice movimento di una tenda dentro uno spazio, nel suo essere al tempo stesso un oggetto ornamentale non perché abbellisca in sé ma perché dà nuovo senso e nuova logica all'esistente, compresi gli elementi che definiscono l'atmosfera del padiglione, nel suo essere un piano, una pianta, nel suo lasciar tirare avanti quello che c'è. Le nuove ali dell'architettura sembrano ritrovare un sogno antico in meccanismi semplici che però riportano in essere la complessità dell'interno, superando la mera nozione di funzione e allontanandosi dalla dittatura della misura e da possibili logiche automatiche: il dispositivo si adatta al vuoto ma ne modifica il senso, ne mette in essere nuovi cicli di vita. L'utilizzo di logiche che prescindono dalla dimensione, o che anzi sono tese a commentarla e rivederla, non esonera il progetto dal declinarsi in base alle esigenze, alle situazioni con le quali si trova ad operare. Le stesse logiche possono raccontare mondi individuali in cui l'architettura di stoffa gestisce il confine tra chi abita e il paesaggio esterno, piuttosto che narrare spazi collettivi in cui le condizioni sono mutate artificialmente per avvicinarle al mondo naturale, per favorire differenti modi di lavorare. Nella Maison Floirac (1998), progettata da OMA, tende e tappeti dialogano con le impronte dell'architettura, negandole o commentandole: ne rappresentano un ulteriore elemento, connivente e autonomo al tempo stesso. I teli mettono in crisi la statica del manufatto: posti sul piano terra, in parte svuotato, ne sottolineano la sospensione e ne marcano nuove geometrie, non più e non sempre ortogonali al suolo. Le fessure imposte sulle tele chiedono da un lato di vivere lo spazio della casa come quello di una barca in mutamento perenne, in viaggio, dall'altro le feritoie sono poste ad altezze tali che non
offrono nuovi modi di guardare l'esterno ma denunciano la fragilità della struttura, la sua precarietà, il suo non voler agire come un muro, ma appunto come un velo. In UPC Office Building (Schiphol, 2011) gli spazi ampi e open sono commentati e connotati attraverso l'immissione di teli gestiti da binari a soffitto che disegnano nuove "stanze circolari" – circolari come i cambi di tessuto che permettono di vedere meglio e oltre le tende – e, attraverso l'alloggiamento di grandi tappetti dove fili d'erba macroscopici chiedono una perdita di scala dello spazio, riducono le dimensioni dell'architettura, che al confronto con la "vegetazione" sembra costretta e costrittiva. I principi che governano gli archetipi degli spazi del lavoro non sono differenti da quelli appena enunciati. Gli studioli rinascimentali erano sostanzialmente la risultante di progetti d'interni per introiettare il mondo, le grandi fabbriche conventuali erano architetture fatte di paesaggi in cui gestire, circoscrivere il lavoro comune ma anche impiantare l'effimero, il cangiante, il vivant nella struttura perenne. Le fabbriche rinascimentali, dove si producevano cose e dove si costruiva pensiero sembrano vicine allo scenario della contemporaneità, paiono offrirsi ancora come dispositivi di progetto, mentre la macchina fordista con il suo paesaggio monotono, con la semplicistica regola della ripetizione e della statica organizzazione appare distante. Come lontane appaiono le forme del post-fordismo costruite sulla singolarità, sull'isolamento del capannone, sul suo negare ogni contesto sia fisico che sociale, il suo esserci e basta, senza risvolti, solo in virtù di un procedere qui e ora. Sostanzialmente Inside Outside ricorda la necessità di travaso degli elementi, la possibilità del loro passaggio di stato o la prospettiva che il dislocamento e il nuovo posizionamento degli stessi elementi possa gestire i mutamenti: l'architettura diventa così un processo alchemico. Un fare con quello che c'è, appunto l'oro prodotto da materiali poveri; ma non per questo l'ambizione di fondere, di procedere viene meno. Non è infatti un caso che Petra Blaisse ondeggi nella propria ricerca dagli interni al paesaggio, senza porsi problemi di scala ma affermando ed esplorando problemi di mescolamento tra due ambiti solo all'apparenza distanti: che non negano la necessità dell'architettura, il suo costruire lavoro e spazi del lavoro, ma la richiamano alle sue origini nobili quando coincideva con il progetto di civitas, quando l'alchimia con il mondo era il suo fine.
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LUOGHI DI LAVORO, PAESAGGI DEL XX SECOLO 1
Luigi Latini 1 Ulla Bodorff, giardino La fabbrica di cemento, Stora Vika a Nynäshamn, Svezia («Il Giardino Fiorito», n. 10, 1951)
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GIARDINI DI FABBRICA Tra le carte e i volumi che popolano l’archivio di Pietro Porcinai a Fiesole, una striscia di carta fuoriesce da un libro con la scritta «giardini di fabbrica». Il volume dal titolo Olivetti 19081958 (Ivrea 1958), edito in occasione dei cinquant’anni dell’avventura olivettiana, si presenta in questo luogo come richiamo a un capitolo avventuroso e inedito del paesaggio italiano del Novecento, quello di un landscape architect nato sulla collina fiorentina, “inventore” di un mestiere allora inedito in terra italiana, che matura nell’arco della sua vicenda professionale autorità e carisma presso molte delle grandi famiglie industriali italiane. Famiglie, e cioè figure appartenenti a una committenza lungimirante che riconosce anche nella sfera del giardino e del paesaggio l’espressione di un’ambizione culturale e di una visione sociale aperta. Porcinai si presenta con un bagaglio di conoscenza tecnica e finezza intuitiva che riversa nell’intero campo di azione di tali “famiglie”: dall’allestimento di un matrimonio (si pensi all’ingente lavoro svolto per le famiglie PiaggioAgnelli a Varramista nel 1959) al progetto di giardini per le residenze, fino alle fabbriche e ai luoghi di lavoro, o di svago in genere. Vale la pena ricordare a questo proposito, in Veneto, il ruolo esercitato dai coniugi Brion, Rina specialmente, per i quali Porcinai progetta paesaggi che accompagnano l’intero ciclo della loro esistenza: le case (in particolare il giardino ligure di San Michele di Pagana), il luogo di lavoro (la fabbrica Brionvega di Caselle d’Asolo, con Marco Zanuso), sino all’ultima, ambiziosissima dimora e cioè il recinto funebre di San Vito di Altivole nel quale Porcinai presta la sua collaborazione nel campo botanico1. Ci sono aspetti singolari in questa vicenda, che travalicano il binomio apparentemente banale che accomuna la figura del committente industriale perennemente alla ricerca di scenari di pura rappresentanza e del giardiniere di talento, ma entrano – negli anni del cosiddetto boom economico, nel vivo di questioni che riguardano la reale qualità dei luoghi di lavoro: progetti che sono espressione di un luogo specifico, di un’idea di adesione tra l’uomo e le forme di un paesaggio che accompagna il tempo del proprio lavoro, esplorazioni di una reale misura ecologica imprescindibile da quella estetica, rapporto paritetico con l’architettura, valutazione economica dei progetti che non perde mai di vista il ruolo del tempo e delle cure manutentive.
Tutto questo avviene sulla scorta di un doppio registro che caratterizza il lavoro di Porcinai segnato da un’istruttiva chiarezza di ruoli e di missioni: altissima preparazione tecnica e convincente padronanza nel campo botanico, fine curiosità intellettuale che, fin dagli esordi, gli consente di portare il suo contributo tecnico sul piano dei contenuti e dei principi progettuali essenziali2. Questa curiosità si nutre del suo costante desiderio di andar lontano, carpire i temi e le figure che rappresentano la professione e la “missione” sociale del paesaggismo nel campo internazionale, soprattutto, in questo caso, la familiarità con il mondo scandinavo, nel quale la ricca produzione di progetti di paesaggio che accompagna la migliore stagione del sistema politico socialdemocratico non manca di addentrarsi nel mondo dei complessi industriali: dalla fabbrica Marabou (1937-1945), a Sundbyberg (Svezia) dove Sven Hermelin costruisce un paesaggio di grande finezza, aperto anche a finalità didattiche, fino al caso danese di Herning dove C.Th. Sørensen coniuga in un unico progetto di paesaggio, negli anni Sessanta, il disegno della fabbrica, dei giardini e quello degli spazi per una grande collezione d’arte3. Da questa incessante attività di aggiornamento e autopromozione, Porcinai matura una posizione di riferimento sia nel mondo degli architetti che in quello della committenza proveniente dal mondo industriale, un mondo che sembra voglia riconoscere anche nelle forme del paesaggio il veicolo espressivo di un processo di rinnovamento anziché il fondale scenico estraneo se non addirittura l’ostacolo all’attuazione di un disegno innovativo. Ecco che, già all’inizio degli anni Cinquanta, Pietro Porcinai e Luigi Cosenza, due figure di orientamento molto diverso, maturano a Pozzuoli un’appassionata discussione comune come quella, ad esempio, di trovare sotto il sole spietato del golfo flegreo un punto di incontro tra architettura, microclima e vegetazione che converge su un obiettivo che travalica la sola qualità estetica del progetto ma guarda alla dignità degli spazi di lavoro delle officine Olivetti. La discussione, in questo caso, emersa tra i due a proposito di guardare al “pioppo con la vite a festoni” del paesaggio campano come punto di partenza per inventare modalità ottimali di schermatura delle pareti vetrate delle officine e condizioni di lavoro in armonia con l’ambiente progettato, esprime il senso di un lavoro orientato alla visione di una fabbrica che si è «elevata in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno (…) concepita nella misu-
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ra dell’uomo perché questo trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza»4. Potremmo sintetizzare questa sbrigativa introduzione al rapporto tra Porcinai e il mondo dell’industria in questo modo: da un lato egli trasmette il senso di un’educazione al saper riconoscere i luoghi e saperli guardare da lontano (da un orizzonte internazionale dal quale attinge temi e tecniche innovative), dall’altro una padronanza di conoscenze tecniche (soprattutto nel campo botanico) che lo rende carismatico agli occhi del committente e nel mondo degli architetti. Com’è noto, Porcinai è figlio di giardiniere, nato addirittura dentro i confini in un giardino notissimo, la Gamberaia di Settignano; è figura di formazione pratica, cresciuto sui banchi della Scuola agraria fiorentina e subito avventuratosi nel mondo, oltre i confini di una mediocrità che negli anni Trenta caratterizza il panorama italiano nel campo del giardino. Difficilmente avrebbe accettato il ruolo di uno specialista che mitiga le imperfezioni o corregge visuali con l’uso del verde. L’immagine di una fabbrica svedese che Porcinai pubblica nel 1951 sulla scorta di una sua partecipazione al convegno INU dello stesso anno, s’inquadra nel ruolo di divulgazione di nuovi temi dettati dal desiderio di far conoscere all’interno dei confini italiani una diversa mentalità considerata risolutiva nella progettazione dei luoghi di lavoro5. La foto di Ulla Bodorff, paesaggista svedese, ci mostra una scena inedita, quella di un gruppo di persone che vivono un momento di quiete immerse in un parco: una scena quasi pastorale, nello stile compositivo di un Humphry Repton, ma che insiste su uno skyline di edifici industriali a sottolineare la sfida di una mentalità socialdemocratica che da subito riconosce nel paesaggio – anche quello dei luoghi di lavoro – una delle sue manifestazioni pubbliche più convincenti. Da qui si sviluppa una visione articolata della costruzione di un paesaggio che, nell’estendersi del raggio professionale di Porcinai, possiamo seguire anche attraverso il lavoro svolto nell’ambito dell’industria: dall’eroico episodio delle officine Olivetti a Pozzuoli negli anni Cinquanta - il «giardino di fabbrica» del quale si parlava in apertura - sino a una piantagione di querce che trent’anni dopo Porcinai dispone ai bordi della fabbrica Nardini di Bassano. Solo querce, un progetto che non porta una “firma”, ma esprime il senso di un obiettivo condiviso e innesca un processo temporale che descrive spazi e for-
me con la vegetazione, scena di vita dei lavoratori di una fabbrica. La carriera di Porcinai è testimoniata da un numero di progetti (realizzati e non) che sfiora i 1400. Emergono da questo patrimonio molte e originali esplorazioni nel mondo dell’industria, corrispondenze con una committenza attenta a un qualche ruolo che il paesaggio può esercitare nei luoghi di lavoro. Da questo mondo, ancora tutto da mettere a fuoco e che travalica l’interesse circoscritto al lavoro del paesaggista, emergono un panorama e una stagione italiana di committenza di vedute larghe e di curiosità per il modo in cui un paesaggista può dar forma a un ideale sociale nel campo specifico del lavoro. Porcinai ragiona in modo paritetico su questioni tecniche, esigenze economiche e sociali, natura dei luoghi, dimensione ecologica delle trasformazioni. Forse l’unica voce nel suo campo a chiedersi in che modo il paesaggio possa assumere un ruolo espressivo nella tensione verso la trasformazione che attraversa la cultura del suo tempo. POZZUOLI, TRIVERO, ASOLO, BASSANO: ESPLORAZIONI DEL PAESAGGIO ITALIANO Nel 1952 Adriano Olivetti decide il trasferimento a sud di una parte della produzione degli stabilimenti di Ivrea, e per questo incarica Luigi Cosenza del progetto di una fabbrica che nella mente dell’ingegnere napoletano non si delinea come «luogo del lavoro alienante, ma al contrario diviene per l’operaio un potente fattore di sviluppo della coscienza e della conoscenza»6. Insieme a Cosenza, Olivetti convoca nello stesso anno Porcinai per gli aspetti paesaggistici. Da questo momento vediamo l’idea di unità architettura-paesaggio presente nella pratica e nella poetica di Cosenza e il senso di mediterraneità che pervade il suo lavoro, nutrirsi in modo crescente del dialogo e della collaborazione con il paesaggista fiorentino. Nelle memorie dell’ingegnere napoletano si avverte la perfetta consapevolezza della sostanziale struttura paesaggistica di un edificio: «... tutta questa composizione richiedeva una integrazione ambientale per la regolamentazione climatica e per il completamento compositivo dell’intera struttura e questo si definì proporzionando le dimensioni e selezionando l’ubicazione di tutte le strutture a verde, dai prati agli alti fusti, dai cespugli ai rampicanti per consentire nel tempo una strutturazione ambientale strettamente legata alle preesistenze, anzi ad una loro integrazione ed al loro completamento»7.
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Da questo dialogo nasce il lavoro di Porcinai, orientato alla qualità e dignità di un ambiente di lavoro al pari di altri contributi che convergono nel progetto della fabbrica di Pozzuoli. L’edificio industriale, adagiato su un pendio ai bordi del golfo flegreo, si trova immerso in una vegetazione di pini e carrubi che il progetto coinvolge e arricchisce nella sua articolazione. Nella trama degli spazi aperti il “giardino” di Porcinai costruisce ambienti, introduce tecniche e disegna forme che si integrano con l’architettura e ne accompagnano le fasi costruttive: dune tappezzate da arbusti, masse vegetali e lievi terrazzamenti, schemi di piantagioni idonee alla schermatura delle pareti vetrate, uno specchio d’acqua collocato nella depressione dell’area centrale, che servirà da riserva di acqua per necessità impiantistiche, di antincendio e di irrigazione. Vengono sperimentate tecniche inedite nella realizzazione e manutenzione di verde pensile che ricopre le sottili coperture dei parcheggi o nel disegno di lunghe aiuole che seguono il profilo dei parapetti delle terrazze. A Trivero, defilata località del biellese posta a 700 metri di quota, luogo natale di Ermenegildo Zegna, il lanificio Zegna conferma qui negli anni di espansione la localizzazione dei propri stabilimenti e costruisce nell’arco di alcuni decenni un microcosmo nel quale convivono la residenza, la produzione, gli spazi del tempo libero e un vasto progetto di valorizzazione di un territorio attorno che intende confermare e rinsaldare il rapporto tra i lavoratori della fabbrica e il presidio stesso della montagna. Qui Porcinai dal 1959 viene coinvolto dalla famiglia su più fronti, con una quindicina di progetti che interessano il tema del giardino, degli spazi di rappresentanza, degli edifici industriali e del paesaggio, fino ai memoriali, sulla scorta di un obiettivo costante che guarda al “rilancio” del paesaggio della montagna (in primis un progetto di valorizzazione della montagna inaugurato nel 1938 con la “Panoramica Zegna” proseguito da Porcinai) come fattore imprescindibile dello sviluppo dell’azienda. A metà tra il tema dell’abitazione e le necessità di rappresentanza dell’azienda, si collocano negli anni Sessanta (19611967), due progetti di “giardino d’inverno” nei quali Porcinai trasferisce sia la sua perizia nel campo botanico che lo spirito di un garden design pienamente acquisito, immesso nella severa compagine delle abitazioni e degli stabilimenti della famiglia. Prima sul tetto della fabbrica, con la progettazione di un vasto spazio inondato da vegetazione esuberante che riceve
luce dall’alto (soggiorno di una delle abitazioni e poi spazio di rappresentanza per l’azienda), preceduto da un giardino pensile con pergolati e diaframmi che schermano la vista sugli edifici industriali (oggi sede del Centro Zegna). Un progetto analogo, ancor più sorprendente, viene proposto in un’altra residenza, a Villa Il Roc (1967), abitazione di uno dei due figli di Ermenegildo, per la quale Porcinai progetta una sorta di serra, coperta con la stessa modalità dell’edilizia industriale del biellese, memoria «delle vecchie fabbriche a conduzione familiare che contemplavano un saloncino di lavoro annesso all’abitazione»8 ma rivestita in pannelli di sughero e rampicanti. Uno spazio di accoglienza che si sposta radicalmente dal tema della valorizzazione del paesaggio locale e immette nella rete delle relazioni familiari e aziendali uno scarto di esotismo e uno spazio di rappresentanza per il quale il paesaggismo diventa espressione di un comfort e di un gusto imprescindibile dall’orizzonte internazionale di un garden design nel quale Porcinai è ormai radicato. Ai piedi delle colline asolane, in pianura ma in una condizione di visibilità diretta sul profilo seducente dei rilievi verso nord, Porcinai interagisce con la costruzione, a Caselle d’Asolo tra il 1966 e 1967, degli stabilimenti Brinar (poi Brionvega), chiamato a disegnare il vasto spazio aperto che circonda lo stabilimento e gli uffici. Il rapporto con Marco Zanuso, autore del progetto della fabbrica e degli uffici, è essenziale ed efficace: i lavori del “giardino” procedono di pari passo a quelli degli edifici, le molte foto di cantiere e gli scatti ripresi anche all’interno dell’edificio testimoniano un’evidente, comune preoccupazione rivolta alla costruzione di un paesaggio che al tempo stesso s’interroga sia sulle qualità degli spazi che interferiscono con il lavoro, sia sulle potenzialità visive dell’intorno: la collina e i campi coltivati9. Il progetto di Porcinai si accorda con il rigore geometrico della fabbrica, e su un terreno in lieve pendenza traccia il perimetro di vasti spazi liberi punteggiati da alberi isolati, disegna strade e parcheggi, piccoli giardini in prossimità degli uffici. Una grande riserva d’acqua, necessaria all’irrigazione e alle misure antincendio, s’inserisce con la sua figura rettangolare, delimitata ai lati da un bordo di pietra e dal taglio netto del tappeto erboso; fioriere galleggianti con piante acquatiche avrebbero popolato il bacino, adattandosi così alle oscillazioni di quota dell’acqua. Ad una estremità una duna rialzata, piantata a lecci, costituisce l’unico confine netto, mentre all’interno dei
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“campi”, nei quali si suddivide l’area, prendono posto esemplari isolati di Liriodendron tulipifera e Albizia julibrissin. La fabbrica prende posto all’interno di un disegno di paesaggio che ne amplifica i caratteri e ne accompagna i movimenti: soprattutto in senso orizzontale, e in modo analogo a quanto avviene nel paesaggio agricolo, ma con un magistrale controllo degli scarti di quota e delle diverse modalità di delimitare con la vegetazione i confini, soprattutto quando essa lascia spazio all’orizzonte visivo di chi, nello spazio del proprio lavoro si confronta con lo scenario del paesaggio circostante. Nel quadro di una numerosa committenza che nell’area bassanese sviluppa un forte interesse per Porcinai (autore, tra l’altro, di uno Sporting Club voluto dallo stesso gruppo bassanese), nasce nel 1981 da parte di Giuseppe Nardini l’affidamento di un incarico per la progettazione degli spazi esterni alla nuova fabbrica della ditta “Bortolo Nardini” a sud di Bassano, in un terreno pianeggiante ancora caratterizzato da un paesaggio agricolo aperto, alle soglie di una sua sistematica devastazione9. L’intervento apparentemente semplice consiste in una piantagione di querce che formano una cintura vegetale intorno all’edificio industriale. Un’idea che si sviluppa sul filo di una tenace azione di convincimento da parte di Porcinai su Giuseppe Nardini: il progetto consiste infatti nell’innescare un processo per il quale l’investimento iniziale (un notevole importo economico per l’acquisto di numerosi esemplari arborei maturi) appare esorbitante rispetto all’assenza di un apparente disegno e di forme in prima battuta seducenti di sistemazione a verde. Il tempo, invece, ha dato ragione alla mentalità con la quale si è inteso un «paesaggio di fabbrica» come un meccanismo temporale che immette nel contesto (non solo quello interno al recinto degli stabilimenti) uno spazio di transizione: niente a che fare con ciò che oggi si chiama “mitigazione”, tantomeno azioni di risarcimento di forme distruttive del paesaggio. Un bosco invece di querce, querce di pianura (Quercus robur); individui che stabiliscono con la loro crescita relazioni reciproche di spazio, luce, ombra che accompagnano la vita di chi lavora in questo luogo. La conoscenza profonda del mondo vegetale porta Porcinai a delineare strategie di autentico rispetto per il paesaggio e dell’uomo che lo abita, del tutto estranee al misero frasario sulla “mitigazione” e all’ossessione per la “percezione” che segnano il linguaggio dei nostri giorni. I riferimenti sono ancora nordici, comunque appartenenti a
una mentalità che Porcinai considera condivisibile anche in un contesto come la pianura veneta. Il richiamo più vicino è Sørensen, che nel progetto per il campus di Århus, non pianta ma semina querce, intese come individui che in questo modo, nel tempo e in un tempo lungo, avrebbero raggiunto il massimo della loro bellezza e stabilità. Piantare querce, paradossalmente, diventa un esercizio di “sottrazione”, innescare cioè un processo che nel tempo disegna radure, stanze all’interno di una struttura vegetale matura che diventa spazi di vita e di lavoro. Porcinai sembra condividere in pieno una mentalità percorsa per tutto il xx secolo dai maestri scandinavi: «Nelle loro opere la vegetazione e la forma del terreno appaiono naturali e non certo moderni. Ma il loro approccio alla funzione e al fine sociale attesta una mentalità moderna – anche se i paesaggi che ne risultano non sono improntati a un linguaggio modernista»10.
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2 Pietro Porcinai, spazi di rappresentanza a Villa Il Roc (lanificio Ermenegildo Zegna), Trivero (foto Luigi Latini)
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1 Luigi Latini, Porcinai a San Vito di Altivole. Il contributo del paesaggista fiorentino, in Memoriæ Causa. Carlo Scarpa e il complesso monumentale Brion 1969-1978, Fondazione Benetton iniziative culturali, Treviso 2006, pp. 24-25. All’interno della vasta bibliografia su Pietro Porcinai mi limito a citare la monografia comparsa a pochi anni dalla sua morte di Milena Matteini, Pietro Porcinai architetto del giardino e del paesaggio, Milano, Electa 1991. I rapporti con l’architettura e l’industria vengono in parte indagati nel recente Pietro Porcinai. Il progetto del paesaggio nel XX secolo, a cura di Luigi Latini e Mariapia Cunico, Marsilio, Venezia 2012. 2 Basti pensare alla sua presenza nel volume di Luigi Figini, L’elemento verde e l’abitazione, Editoriale Domus, Milano 1950 (Quaderni di Domus, 7) e al precedente lavoro di diffusione di nuovi temi che Porcinai insieme a Maria Teresa Parpagliolo svolge sulle pagine di «Domus» intorno agli anni Trenta con la rubrica “La campagna di Domus per il verde”. 3 Su Hermelin vedi Thorbjörn Andersson, Sven A. Hermelin (1900-1984), in Scandinavia. Luoghi figure gesti di una civiltà del paesaggio, a cura di Luigi Latini e Domenico Luciani, Canova, Treviso 1998, pp. 214-216. Il progetto per la fabbrica di cioccolato Marabou di Sundbyberg presso Stoccolma (Sven A. Hermelin a Inger Wedborn, 1937-1945) viene per la prima volta pubblicato in Peter Shepheard, Modern Gardens, The Architectural Press, London 1953, pp. 114-115. Sulla fabbrica di Herning di veda Sven-Ingvar Andersson, Steen Høyer, C.Th. Sørensen landscape modernis, Arkitektens Forlag, Copenaghen 1993, pp. 68-75. 4 Discorso pronunciato da Olivetti nell’aprile 1955 in occasione dell’inaugurazione della fabbrica, riportato in Luigi Cosenza. La fabbrica Olivetti a Pozzuoli. The Olivetti Factory in Pozzuoli, a cura di Gianni Cosenza, Clean edizioni, Napoli, 2006. Le stesse parole sono incise nella lapide commemorativa posta nel 1960 nel giardino della fabbrica. La lettera di Luigi Cosenza a Porcinai a proposito di problemi di insolazione e schermature sul lato di ponente della fabbrica è del 24 settembre 1952 (Archivio Pietro Porcinai, Fiesole, fasc. 383). 5 Pietro Porcinai, Il verde nell’urbanistica, «Il giardino fiorito», n. 10, 1951, pp. 227-229. Sintesi della relazione presentata da Porcinai al convegno INU del 20-23 settembre 1951. 6 Giorgio Ciucci, Un sognatore razionale, in Luigi Cosenza. Scritti e progetti di architettura, a cura di Francesco Domenico Moccia, Clean, Napoli 1994, p. 18. Sul tema Pozzuoli si veda Franco
Panzini, Progetto di paesaggio e architettura moderna. Porcinai e il caso della fabbrica Olivetti a Pozzuoli, in Pietro Porcinai. Il progetto del paesaggio nel XX secolo, op. cit, pp. 56-77 e Luigi Latini, Tra archivio e giardino: percorsi di lettura del lavoro di un paesaggista del XX secolo, in Natura, scienza, architettura. L’eclettismo nell’opera di Pietro Porcinai, a cura di Tiziana Grifoni, Polistampa, Firenze 2006, pp. 143-155. 7 Luigi Cosenza, Le mie opere, in Luigi Cosenza. Scritti e progetti... op.cit, p. 224. 8 M. Matteini, op. cit, p. 108. 9 Una interessante documentazione fotografica è conservata presso l’Archivio Pietro Porcinai, Fiesole, Fasc. 1537. 10 Marc Treib, Porcinai e il suo contesto. Correnti dell’architettura del paesaggio moderna, in Pietro Porcinai. Il progetto del paesaggio nel XX secolo, op. cit., p. 95.
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3 Veduta della fabbrica Brionvega a Caselle d’Asolo a lavori ultimati (Archivio Porcinai, Fiesole)
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SSIC, GORDOLA 1
Durisch + Nolli Architetti
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Il progetto per i nuovi laboratori di formazione professionale della SSIC (Società Svizzera Impresari Costruttori) nasce dall’esigenza primaria di mettere in sicurezza i laboratori dalle esondazioni del Lago Maggiore, che negli anni precedenti, dal 2000 al 2004, avevano ripetutamente distrutto i moderni macchinari a controllo numerico del Centro, causando ingenti danni economici. Dal concorso su prequalifica per il nuovo masterplan del Centro e per la costruzione del nuovo padiglione per la formazione di falegnami, metal costruttori e lattonieri installatori idraulici, organizzato congiuntamente dalla SSIC e dalla Divisione della formazione professionale del Canton Ticino, è scaturito come vincitore il progetto di Durisch + Nolli Architetti denominato “Arca”. Uno dei fattori vincenti è dato dal fatto che a differenza degli altri progetti, tutti disposti su terrapieni, il progetto vincitore era disposto su una piattaforma fondata su pilastri, come una palafitta. Questa soluzione offre vantaggi sostanziali sul piano funzionale e urbanistico, con la disposizione dei posteggi e dei depositi per il materiale inerte sotto l’edificio, permettendo al stesso tempo al grande manufatto, grazie alla sua tipologia, di non interrompere la piana alluvionale di Magadino, che scorre sotto l’edificio. Mentre i nuovi volumi completano e ordinano l’impianto esistente, il padiglione principale delimita verso la campagna l’area dedicata alla formazione professionale, completando l’insieme urbanistico creando un nuovo e sostanziale equilibrio tra esistente e nuovo. Nasce un nuovo organismo urbanistico: il Campus SSIC. Il grande volume principale del padiglione “Arca” è finalizzato ad un utilizzo parsimonioso del territorio. Ne derivano ampie zone verdi, dedicate alle attività formative e ricreative all’aria aperta. La sopraelevazione del corpo principale crea posto per i posteggi e per i depositi del materiale, limitando l’impatto ambientale del nuovo centro. Tutti i contenuti richiesti per la formazione professionale sono disposti nell’unico, grande edificio di tipo industriale a shed. Tutta la tipologia dell’edificio è caratterizzata dal corpo di fabbrica posto sopra la piattaforma sopraelevata. È un organismo semplice, costituito da pochi elementi costruttivi identici e definiti in modo esatto, ripetuti in serie. L’edificio è come un banco di lavoro su cui è posto il pezzo lavorato con precisione. Tutto l’edificio è costruito su una modularità di 3m in senso
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1-3 Centro di Formazione Professionale SSIC, 2008-2010, Gordola © Durisch+Nolli Architetti © David Willen
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longitudinale, un modulo che corrisponde in modo esatto allo spazio di lavoro ai banchi. A ogni modulo di lavoro corrisponde uno shed orientato esattamente verso nord, in modo da illuminare diffusamente ogni spazio di lavoro in modo ideale. Ogni postazione di lavoro ha in dotazione, oltre alle attrezzature di lavoro, la propria luce naturale, diffusa e senza ombre. La grande piastra su cui poggia la struttura modulare è concepita come soletta in calcestruzzo armato di circa 45 cm di spessore, alleggerita con sfere di plastica riciclata (sistema Cobiax) ed è dimensionata in modo da permettervi tutte le attività, garantendo una grande flessibilità funzionale e una disposizione libera degli elementi divisori. Nelle zone a due piani, il livello inferiore è in costruzione massiccia in calcestruzzo e contiene i servizi, gli spogliatoi e gli uffici degli istruttori. Al piano superiore, sotto lo shed, sono disposte le aule per la formazione teorica e le postazioni per il disegno tecnico. La carpenteria reticolare metallica a forma di shed corre come un pizzo modulato in modo regolare sopra la struttura in calcestruzzo e ha un’unica portata che copre tutta la larghezza dell’edificio, 27m, sviluppandosi in modo regolare, ma ritmato dalle doppie altezze, su tutti i 140m di lunghezza dell’edificio. La ripetizione coerente di elementi identici semplifica la costruzione e si ripercuote in maniera positiva sui costi. L’edificio è caratterizzato da materiali e lavorazioni analoghe alle professioni alle quali è dedicato. La struttura della piattaforma sopraelevata è semplice e razionale, in calcestruzzo faccia a vista. Alla sottostruttura grezza è sovrapposta la carpenteria metallica leggera, che permette di limitare al minimo i pesi sulla piattaforma fondata su un terreno sabbioso e alluvionale. La carpenteria è completata da serramenti e rivestimenti interni in costruzione metallica leggera. La facciata e la copertura degli shed è concepita come una sottile pelle in lamiera grecata di acciaio inox semilucido, che riflette il contesto favorendo l’inserimento quasi mimetico del grande volume. I rivestimenti interni delle facciate e delle coperture sono costituiti da un semplice sistema di cassette metalliche industriali bianche, perforate nelle superfici, in modo da garantire un’acustica idonea per le officine e le aule al livello superiore. Gli spazi illuminati dai lucernari in vetro acrilico alveolare opaco risultano luminosi e permeati da una luce diffusa.
L’edificio può essere definito, parafrasando Le Corbusier, «une machine a travailler», dove perfino le installazioni e le infrastrutture tecniche (gas tecnici, aspirazione polveri, illuminazione, riscaldamento, allacciamenti elettrici) sono integrate in modo organico nel progetto architettonico della struttura, offrendo ad istruttori ed apprendisti le condizioni ideali per l’apprendimento e lo svolgimento del loro mestiere.
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4 Centro di Formazione Professionale SSIC, 2008-2010, Gordola © Durisch+Nolli Architetti © Walter Mair
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LÀ, DOVE IL PAESAGGIO SI FA. ESPERIENZE E CONFRONTI NELLA TERRA DEL LAVORO 1
Claudio Bertorelli 1 Workshop “A destinazione”, 2012
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PAESAGGIO AS FOUND Quanta confusione nel rapporto tra produzione e cultura, specie a Nord Est. Alcuni elementi della produzione materiale (come il vino) sono già riconosciuti anche come elementi culturali, ma ciò è ancora difficile per i luoghi in cui questi elementi si producono. Perché accettare che essi si trasformano sotto la mano dell’uomo richiede un atto di reinvenzione, innovazione e valorizzazione più complesso che non cantarli acriticamente. Richiede immaginari e rotte contemporanee. Ma il Nord Est è «uno, nessuno e centomila», quindi quasi impossibile da governare; è terra di storia patria, inviolabile, e terra di conquista ogni qual volta il vincolo paesaggistico interrompe la sua sfera di tutela. Forse una soluzione vi è là dove il paesaggio si fa, nelle fasce di territorio che si son messe a disposizione di quello che Andrea Zanzotto chiamava «progresso scorsoio»1, autodeterminandosi attraverso un paesaggio che appariva violato ogni qual volta nasceva, quasi fosse affetto da un difetto originale. A quel difetto originale (anzi un peccato) si sono appoggiati molti esponenti del dibattito alto in questi anni, vincendo sì la battaglia di imporlo come tema di agenda politica, promuovendo azioni di tutela e denuncia su di esso, ma sostanzialmente consegnandolo a una deriva ambientalista nostalgica e salottiera che fa sì che oggi si discuta di paesaggio come di calcio, ma senza aver mai rincorso un pallone. Ecco che il ritardo accumulato ci porta oggi a confondere i termini Ambiente-Paesaggio-Territorio, ad usarli abusarli e rapinarli in nome di una tutela che non trova risultato non certo solo a Nord Est. Eppure nulla dovrebbe essere maneggiato con cura quanto il paesaggio, che secondo la Convenzione Europea in vigore rappresenta il più alto elemento di sintesi di un processo virtuoso tra progetto, cultura e comunità. Il paesaggio non è il villaggio con le casine, ma lo straordinario meccanismo sociale ed economico che si rappresenta in quelle casine; non è la vista della campagna coltivata, ma la relazione percepita che passa tra il contadino e i suoi mezzi di lavoro. Appunto, di lavoro. Ed invece il più delle volte viene evocato per nobilitare un percorso di indagine senza prove certe, come sinonimo di ambiente e territorio, cosa questa tipica della sindrome di Sherlock Holmes al contrario (quella giusta l’ha elaborata Franco Zagari) che fa procedere con idee poco chiare e confuse.
In modo semplice potremmo dire che il territorio si fa con le regole amministrative e le infrastrutture, l’ambiente con la chimica degli elementi cosmogonici e artificiali, il paesaggio con la cultura dell’uomo; che i tre producono effetti diversi ma restituiscono, se indovinati, la capacità dell’uomo di rappresentare la storia del proprio tempo. Nel 2010 “The 6th Annual World in Denmark Conference” tenutasi a Copenaghen lancia il tema dell’As Found, del “come trovato”. È un chiaro invito su scala internazionale ad uscire dalla stagione del lutto a patto che il cieco processo di erosione dei terreni agricoli che danno vita a progetti di taglia XXL lasci spazio ad una nuova politica di riuso dei suoli, che può divenire uno strumento non solo culturale ma anche economico (perché obbliga a immaginare progetti che procedono omeopaticamente, per piccoli passi e condivisi dalle comunità interessate). Sono riflessioni analoghe a quelle ricorrenti in Juan Manuel Palerm, quando richiama l’urgenza di “rinegoziare” il sistema di relazioni tra una comunità abitante e il proprio paesaggio attraverso nuovi atteggiamenti. Innanzitutto serve un nuovo senso collettivo, per cui il paesaggio diviene bene comune riproducibile grazie alle buone pratiche dell’uomo; il paesaggio si manifesta attraverso una dimensione intangibile fatta di suoni, luci e colori, non necessariamente di fatti costruiti; produce un’immediata dimensione culturale nel suo intorno che la comunità abitante deve saper riconoscere, tutelare (ora sì…) e gestire. Non ha quindi vincolo di destinazione d’uso e nemmeno limiti, ma un concreto bisogno di progetti critici capaci di modificare il punto di vista sui luoghi che abitiamo. Senza questo continueremo a produrre musei sulle grandi figure territoriali lasciate dalla storia e a lasciare vacante il nostro contributo2. IL CASANNONE NON È UN INTRUSO Giustino Moro lo ricorda nel suo intervento iniziale: «È il lavoro, nelle sue varie forme, che ha costruito e continua a costruire i nostri paesaggi». Ciò accade soprattutto a Nord Est, dove già nel Dopoguerra Governo e Confindustria si misero d’accordo per distribuire ricchezza favorendo lo sviluppo pulviscolare dei piccoli presidi produttivi; nasceva in quegli anni quella che ho già definito in altre sedi la «stagione dei casannoni»3, una fase non di abu-
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sivismo privato (come alcune sirene di oggi lo vorrebbero marchiare) ma assolutamente pubblico e frutto di una lucida scelta politico-economica. Anche alcune e recenti leggi governative degli anni 2000 hanno aperto finestre di occupazione, più dei suoli che di persone, dotando le amministrazioni locali di un formidabile strumento (spesso il solo) per fare cassa e pareggiare i bilanci. Su quella stagione lascio voce allo scrittore Vitaliano Trevisan: “Non ci si pensa, ma tutti questi capannoni, anonimi e senza storia, subito abbandonati, a volte prima ancora di essere ultimati, qualcuno li ha costruiti. Spesso in fretta. Sempre in fretta. A volte addirittura più in fretta ancora, perché il mercato ha le sue esigenze, e a volte si dà il caso che si aprano in esso finestre temporali che vanno a tutti i costi sfruttate. Nella mia pur breve carriera di lattoniere, che si esaurì nell’arco di un paio d’anni, mi ritrovai nel pieno della corrente prodotta dall’improvviso spalancarsi di una di dette finestre – la famosa “prima legge Tremonti”4. Benvenuto capannone o casannone quindi? Tipologia che non esiste? Il casannone trova luogo in un territorio che ha scoperto la periferia ed oggi si interroga, tra il nostalgico e l’azzardato, su quale sia il paesaggio da creare. Nasce senza ordine ai piani bassi del fare, ma ciò nonostante sovverte e rende obsolete in pochi decenni le regole insediative e spaziali che per secoli avevano misurato l’organizzazione dei suoli. È stato “casa e bottega” a gestione familiare e perno vitale di quella figura sociale che con straordinaria intuizione Ulderico Bernardi definì “metalmezzadro”. Con il casannone è come se yin e yang si fossero avvicinati oltre il limite che fa gridare al bello consolidato. Perché? Può invece, questa figura ritenuta responsabile dello scempio ai paesaggi di Cima e Bellini, questo luogo di metri cubi senza forma, in cui si è vissuto e prodotto senza sosta, rappresentare l’unità minima su cui fondare un generale rilancio della creatività progettuale? Enzo Rullani ricorda che spesso “il nuovo nasce in periferia ma si riconosce in città”, e se ciò è valso per marchi ormai divenuti planetari (Benetton, Diesel, Geox sono solo i primi e i più noti di una lunga lista) altrettanto può valere per la terra dei casannoni. PAESAGGIO AL LAVORO Sullo sfondo di questi scenari si colloca il percorso di buone pratiche che Fondazione Francesco Fabbri ha scelto di in-
traprendere affrontando l’organizzazione di un ciclo di workshop dedicato al tema dei capannoni a Nord Est, con la volontà di dare un contributo concreto al programma di paesaggio nell’ambito della candidatura di “Venezia Nord Est Capitale Europea della Cultura 2019”. Un ciclo che ha già visto svolgersi le prime due edizioni nel 2011 e 2012 e che rinnoverà, ampliandola, la ricerca nel 2013. Nel 2011 Fondazione Francesco Fabbri ha promosso il workshop “Capannone senza padrone”, in collaborazione con Centro Studi Usine, comune di Pieve di Soligo, Festival delle Città Impresa, Unindustria Treviso e molti altri partner territoriali. Vi hanno partecipato Università di Alghero, Università di Ferrara, Politecnico di Milano, Seconda Università degli Studi di Napoli, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria, Università di Siracusa, Università di Trento, Università di Trieste, Università IUAV di Venezia, LO-FI Architecture, Cibic Workshop. Le aree di studio ricadevano nei comuni di Codognè, Colle Umberto, Conegliano, Follina, Pieve di Soligo, Sernaglia della Battaglia, Tarzo, Villanova di Camposampiero e Vittorio Veneto. Il titolo “Capannone senza padrone” ha cercato di fugare ogni dubbio su quale sia l’attuale condizione. Il passaggio all’economia dei saperi si è sommato alle crisi incrociate degli ultimi anni e ciò ha messo fuori gioco moltissimi volumi industriali; la recente crisi del manifatturiero ha aggravato ancor più la delicata convivenza tra le comunità locali e i luoghi della produzione. Vi erano presenti casi di capannone rurale in area collinare, capannone periurbano cinto da edilizia consolidata, capannone che impedisce il completamento dei tessuti sociali, capannone inadeguato a raccogliere le sfide in materia di risparmio e razionalizzazione energetica. Tutti capannoni senza padrone, dismessi in età troppo giovane per essere accettati da una cultura che li rifiuta e li denuncia; eppure così flessibili da accogliere un alto paniere di funzioni. Nel 2012 si è tenuto il workshop “A destinazione”, finalizzato allo studio dei pezzi di territorio che possono assumere valore lavorando su politiche di riuso e atteggiamenti critici di matrice Lo-Fi (a bassa definizione), azioni di omeopatia e non dosi massicce di medicinali o chirurgia invasiva. Oggi scegliamo una destinazione non solo per le bellezze che quel territorio ospita ma soprattutto per la vocazione di senso che esso esprime; e siccome il riflusso della crisi ci lascia in dote, come trovato, un territorio né urbano né rurale del quale definire caratteri misure e connotati, ora siamo obbligati ad interro-
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garci sulle nuove relazioni che possono determinarsi. Del resto dietro al paesaggio zanzottiano non si torna, ma nemmeno ci aspetta un territorio blade-runneriano, per cui può aver senso riflettere su un noto aforisma snozziano: «Ogni atto di costruzione prevede un atto di distruzione, distruggi con senno». Pensare criticamente alla distruzione significa quindi pensare criticamente anche alla costruzione. Il workshop “A destinazione” ha rappresentato il giusto rimbalzo e da esso sono emersi filoni di ricerca già oggi ad una fase successiva (penso al lavoro di IUAV, coordinato da Renato Bocchi e Luigi Latini, finalizzato a definire un sistema di porte sul paesaggio dell’Alta Marca collocate lungo l’asse viario che accompagna il Piave a nord del Montello). È stato nuovamente promosso in sinergia ancor più stretta con i soggetti territoriali. Vi hanno partecipato gruppi di lavoro provenienti da Cibic Workshop, Università di Camerino, Università degli Studi di Trieste, Università IUAV di Venezia, Seconda Università degli Studi di Napoli, Università ULPGC ETSA Las Palmas de Gran Canaria e Università di Trento, Università di Catania, Politecnico di Milano, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria. Le aree di studio sono state: area ex Zanussi a Conegliano, ex Alumetal-Montecatini a Rovereto Sud, tracciato della superstrada Pedemontana Veneta, strada provinciale da Vidor a Pieve di Soligo, tenuta H-Farm a Ca'Tron, Quadrante Tessera. È emerso che la destinazione deve essere prima di tutto «umana, cioè personale»5, come la descriveva Pier Paolo Pasolini. E il futuro? Valgono ancora le parole di Franco Zagari: «È finita l’era del capannone? No. Lo abbiamo, ora dobbiamo evolverlo. Dove sarà utile lo demoliremo, in qualche caso lo sostituiremo con un suo parente più consono ai tempi. Nella maggioranza dei casi, almeno in principio, si tratterà di adeguarlo a principi energetici attivi e passivi, e di renderlo più decoroso, con progressivi trapianti di pezzi o anche solo con interventi di lifting». Nel 2013 Fondazione Francesco Fabbri intende quindi rinnovare l’appuntamento di riflessione sul tema dei capannoni, perché è evidente che essi rappresentano un nervo scoperto nel paesaggio ancor più di tanti lotti residenziali venuti su con il senno di ieri pensando che il suolo del Nordest avrebbe subito un incremento demografico da accasare. Ma la casa è pur sempre e ancora un prodotto di scambio al mercato delle famiglie, mentre i capannoni trovano senso se una comunità
operosa li riempie di senso; ed ora è proprio questo a mancare, e quella comunità a sbandare lungo una strada che si è fatta tortuosa. Proprio una strada, la nuova Pedemontana Veneta attualmente in costruzione nel punto in cui il Nord Est si fa contado di Venezia capitale (A. Bonomi), rappresenta oggi un campo di prova eccezionale su scala nazionale se solo si vorrà ascoltare cosa chiede la sua Comunità. Il suo tracciato attraversa la fascia veneta dal vicentino al trevigiano come un destino, ma ciò non è bastato ad allocare nemmeno l’1% del suo budget per progetti di paesaggio. Eppure il costo è a oggi di 2.130 milioni di euro, e dare soluzione al ruolo dei capannoni lungo la Pedemontana Veneta potrebbe rappresentare un impatto culturale paragonabile a quello che si insegue da anni con la Metropoli d’Olanda (un dottorato di ricerca del XVI ciclo al Politecnico di Milano ne ha tracciato i tratti). Già i contenuti di Dietro il Paesaggio che sempre Andrea Zanzotto licenziò nel 1957 anticiparono la percezione del fenomeno sprawl, ma rimasero lettera morta sotto una spinta che voleva-doveva modernizzare il contado ed affermare, lo abbiamo già detto, la stagione dei “casannoni”. Che fare dunque? Oggi «non è più attuale occupare spazio, occorre liberarlo» (P. Ceccon)6, e infatti sono in itinere nuovi percorsi normativi finalizzati a congelare l’erosione di suolo agricolo (proposta del Presidente della Repubblica) e verifiche su una possibile legge dei “capannoni zero” (in Regione Veneto). Ma probabilmente servirà un concorso di antidoti, perché nonostante tutto proprio lungo la Pedemontana Veneta vi sono categorie economiche che, forse a ragione, dichiarano ancora esistente un fabbisogno di capannoni. Ma che fare se lo strumento del credito edilizio o la presenza di una Borsa che ne regoli l’uso sembrano essere ormai superati da una crisi immobiliare che li ha svuotati di valore? Che fare se né può più essere evocata la forza di intervento del soggetto pubblico né vale affidarsi ai volti solitari di nuovi impresari/imprenditori/immobiliaristi da Far West che hanno avuto strada facile con amministratori in cerca di quadrature di bilancio? E se l’unica alternativa economicamente possibile fosse lasciare tutto com’è e governare rovine contemporanee? Ecco allora che in questo deserto di occasioni tradizionali sembra avanzare una nuova stagione di ricerca, aperta coral-
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mente a tutti gli stakeholders che sono in filiera: imprenditori, progettisti, amministrazioni locali, istituti bancari, fondi di private equity, società di gestione del risparmio e di recupero crediti. Essa può ambire a riprendersi il destino che un project financing (e una politica miope) gli nega. Certo è complesso, ma il paesaggio, come la cultura, si offre come grande e unico strumento di manipolazione del senso che vogliamo dare al nostro tempo.
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WORKSHOP 2011 “CAPANNONE SENZA PADRONE” 2 Presentazione ufficiale dei risultati del workshop
1 Si veda Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Garzanti, Milano 2009. 2 Ricordo come ad esempio l’affascinante territorio del Camposampierese si sia dotato di un museo intitolato al graticolato romano ma nessuna forza politica è in grado realizzare progetti di spazio pubblico, con il risultato che in quei luoghi i cittadini confondono quest’ultimo con strade e parcheggi. 3 Si veda Il casannone non è un intruso, di Claudio Bertorelli, in «! – The Innov(e)tion Valley Magazine», n. 2, giugno 2009: «…Cos’è un casannone? È la tessera di un Lego nel disegno urbano legato alla fortuna del miracolo veneto degli ultimi anni, un modello del tutto originale di insediamento che fonde, come già nella storia, la casa con l’officina in un singolare modulo flessibile. La formula casannone, casa + capannone, ha avuto un costo sociale molto alto, comportato una radicale semplificazione del paesaggio e una forte dissipazione di risorse ambientali; ma del resto il paesaggio è il nostro linguaggio, racconta lo stato dei luoghi, la fatica, le sconfitte e il coraggio con cui essi si trasformano…». 4 Si veda Tempo. E metodo, di Vitaliano Trevisan, saggio realizzato in esclusiva per workshop “Capannone senza padrone 2011” e Fondazione Francesco Fabbri. 5 Si veda Lettere Luterane, di Pier Paolo Pasolini: «…Siamo due estranei: lo dicono le tazze da tè…». 6 Si veda Paesaggi in produzione, a cura di Paolo Ceccon e Laura Zampieri, Quodlibet, Macerata 2012.
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WORKSHOP 2011 “CAPANNONE SENZA PADRONE” 3 Il progetto di Cibic Workshop guidato da Aldo Cibic e Tommaso Corà sulla ex porcilaia di Vittorio Veneto 4 Il progetto di Università “Mediterranea” Reggio Calabria guidato da Franco Zagari e Vincenzo Gioffrè sui capannoni di Fregona 5 Il progetto dI Università di Trieste guidato da Giovanni Damiani sui capannoni di Colle Umberto
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WORKSHOP 2011 “CAPANNONE SENZA PADRONE” 6 il progetto di Università di Siracusa guidato da Marco Navarra su Area Diwar a Villanova di Camposampiero 7 il progetto di Università IUAV di Venezia guidato da Sara Marini sul Lanificio Paoletti a Follina
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WORKSHOP 2012 “A DESTINAZIONE” 8 Il gruppo di Gianmaria Sforza in sopralluogo al comparto dismesso della ex Zanussi di Conegliano Veneto
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WORKSHOP 2012 “A DESTINAZIONE” 9 Il progetto di IUAV Venezia guidato da Renato Bocchi e Luigi Latini sul percorso da Valdobbiadene a S. Pietro di Feletto lungo la direttrice del Prosecco 10 Il progetto di Politecnico di Milano guidato da Gianmaria Sforza sull’area ex Zanussi di Conegliano
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WORKSHOP 2012 “A DESTINAZIONE” 11 Il progetto di Università di Camerino guidato da Pippo Ciorra sul tratto ad est della superstrada Pedemontana Veneta
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SPAZI CONDIVISI, LUOGHI RITROVATI
Marco Ragonese
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All'inizio degli anni Novanta la convinzione che, grazie allo sviluppo tecnologico legato alle reti di telecomunicazione, gli spazi del lavoro si sarebbero progressivamente polverizzati sembrava dovesse segnare una svolta epocale capace di ribaltare tutti i paradigmi consolidati. La virtualità avrebbe consentito la smaterializzazione di dati, spazi e relazioni in favore di una maggiore accessibilità e immediatezza. I fratelli Wachowsky – nel film simbolo di quel periodo, Matrix – rendevano evidente questo passaggio facendo fuggire il programmatore Thomas Anderson da un ufficio a cubicoli, simbolo dell'omologazione e della gerarchia, verso un mondo sconosciuto fatto di connessioni e flussi di dati. Non era lontanamente prevedibile l'imminente esplosione della cosiddetta bolla informatica che, insieme a ingenti quantità di denaro, avrebbe eroso l'inossidabilità prematura di alcune certezze. In maniera simile, nei primi anni del Duemila, i teorici del lavoro legato al decentramento e alla delocalizzazione in favore di una maggiore produttività completamente decontestualizzata, non avevano considerato che l'imminente crisi economica avrebbe sconvolto gli equilibri globali provocando un fenomeno inverso. Le città sono ritornate a essere il terreno su cui impiantare le nuove realtà produttive, soprattutto nei settori legati alla creatività e alla ricerca, ovvero alla produzione di beni intangibili1. A un'attenta analisi, entrambe le visioni contenevano dei germogli che hanno potuto svilupparsi nel tempo. VIRTUALITÀ E PRODUTTIVITÀ La dissoluzione di luoghi fisici in favore di autostrade informatiche a cui
accedere senza sosta da qualsiasi punto della città, in una sorta di postpanottismo lavorativo che svincolava il dipendente dal proprio posto di lavoro, si è avverata solo in minima parte. Lasciava presagire, però, come il passaggio da un modello lavorativo chiuso verso una polverizzazione di soggetti lavorativamente attivi fosse ormai inevitabile. Architettonicamente le conseguenze non sono state così immediate. Già William Mitchell, nel suo entusiastico e in parte profetico testo, diceva che «forse non è ancora arrivato il tempo di dire addio a quei vertiginosi e vanagloriosi monumenti alle aziende che hanno improntato il carattere dei grandi centri urbani del novecento, ma essi non appaiono già più così inevitabili» (Mitchell, 1996). Ammettendo come le estreme possibilità offerte dal progresso tecnologico non avrebbero avuto un’immediata ricaduta in architettura. Esplosa la bolla informatica, la riflessione su come stesse cambiando il modo di lavorare era ormai avviata. L'idea che l'ambiente di lavoro dovesse trasformarsi stava facendosi largo nella ricerca architettonica – soprattutto in alcuni paesi quali il Giappone e gli Stati Uniti – segnando due approcci diversi ma con una finalità analoga. Ovvero rendere familiare e piacevole il posto di lavoro affinché contribuisse ad aumentare la produttività dei dipendenti e limitasse i rapporti con il mondo esterno, ricco di tentazioni e distrazioni. Il primo approccio mirava a raggiungere una maggiore domesticità mediante un aspetto amichevole e informale dell'ambiente lavorativo. Una versione riveduta e corretta dell'organizzazione taylorista2, con spazi che trasmettono il piacere di lavorare piuttosto che il dovere. Il secondo cercava di definire nuove tipologie in cui
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l'abitazione e il posto di lavoro fossero collegati e dipendenti l'uno dall'altro. Un progetto che esemplifica il primo tipo è la sede dell'agenzia pubblicitaria TBWA\Chiat\Day a Los Angeles realizzata nel 1998 dallo studio americano Clive Wilkinson (Fig.1). In questo intervento gli undicimila m2 dell'edificio sono trasformati in un enorme “esterno”, con un campo da basket, un giardino, tavolini per il relax e una main street su cui prospettano cataste di container che ospitano gli uffici dei creativi (Fig.2). Il nuovo paesaggio lavorativo appare familiare e invoglia gli «eremiti, antisociali e paranoici»3 che vi lavorano a non cercare in città i servizi e gli svaghi disponibili all'interno. Un falansterio contemporaneo con colori accesi e luci al neon, dove il paternalismo padronale è appena visibile ma sempre presente. Un approccio antitetico è dato dalla ricerca di Riken Yamamoto che individua una nuova tipologia abitativa – SoHo, ovvero Small Office-Home Office4 – in cui un ambiente della casa, in diretto contatto con il corridoio di distribuzione dell'edificio, è destinato «a uffici, esercizi commerciali, piccole aule per la didattica, come essere parte integrante della pianta di ciascun alloggio. La stanza SoHo è l’ambiente filtro di interfaccia con il mondo esterno, sia dal punto di vista spaziale-organizzativo, sia dal punto di vista sociale»5. Caratterizzato da una parete vetrata, la stanza denuncia l'abbattimento della tradizionale barriera tra pubblico/privato, lavoro/casa e sottolinea come sia necessario metabolizzare il cambiamento in corso nel mondo del lavoro. Yamamoto definisce un campo di possibilità in cui poter modulare le proprie esigenze, mediando tra affetti e lavoro, professionalità e disponibilità, senza disattendere alcun obiettivo legato alla produttività. POSTI DI LAVORO VS. LUOGHI DI LAVORO Come la crisi energetica del 1973 decretò la fine del modello di ufficio legato alla teoria del burolandschaft6, la crisi economica protagonista dei primi dieci anni del ventunesimo secolo ha prodotto cambiamenti radicali in alcuni settori produttivi della società (soprattutto, ma non solo, italiana) e nell'organizzazione del lavoro. Esternalizzare è diventata la parola d'ordine per quelle aziende che hanno ridotto, se non eliminato del tutto, gli investimenti nei settori ricerca e sviluppo a causa di scarsa liquidità e del rischio di impresa che essi comportano. Questo fenomeno ha provocato una dispersione dei lavoratori legati alla ricerca e alla creatività e ha immesso sul mercato soggetti disponibili a fornire servizi come freelance o a fondare start-up, ovvero aziende ad alto contenuto di innovazione. Consapevoli della crescita esponenziale della richiesta. Le esigenze dei nuovi attori stanno velocemente prendendo forma, evidenziando alcuni aspetti rilevanti dal punto di vista architettonico: la mancata necessità di una sede stabile e fortemente rappresentativa, l'impossibilità di definire una tipologia di spazio lavorativo, l'inurbamento come opportunità. Uno dei sistemi di lavoro che hanno saputo meglio interpretare le istanze appena descritte è il coworking. La filosofia su cui si fonda questo tipo di organizzazione – dal carattere dichiaratamente open-source – consiste nel permettere a diversi soggetti con professionalità non necessariamente convergenti di condividere un luogo di lavoro la cui proprietà appartiene a terzi. L'incremento di questo tipo di spazi è in netto aumento in tutto il mondo – il 20% negli ultimi sei mesi del 20117 – grazie all'opportunità che offre di
superare le consuete difficoltà incontrate da coloro che accedono al mondo del lavoro per la prima volta. Ovvero avere la disponibilità economica e logistica per impiantare un ufficio dotato di quei servizi e attrezzature necessari a mantenere un livello di produttività elevato, in modo da fronteggiare una concorrenza sempre più agguerrita. A questo aspetto basilare è stato dato un valore aggiunto: l'opportunità di incontrare persone con cui fare rete e generare opportunità di lavoro e collaborazione. È apparso subito chiaro come il mix di casualità e professionalità, sistematicità e creatività – vero carattere del coworking – potesse trovare terreno fertile soltanto nella stratificazione del tessuto urbano consolidato. Abbandonando gli efficientissimi campus tecnologici, dove la specializzazione e la vicinanza tra simili erano considerate qualità fondamentali. L'interrelazione di conoscenze, la frizione caratteriale, la casualità degli incontri diventa una ricchezza da coltivare e i committenti iniziano ad apprezzare la multidisciplinarietà disponibile e difficile da riscontrare in ambienti tradizionali. La trasformazione principale è quella che coinvolge l'accezione di ambiente lavorativo che si trasforma da posto di lavoro in luogo di lavoro, riattivando quelle relazioni con l'esterno azzerate dalla concezione taylorista. Come se le iscrizioni del Larkin Building di F.L. Wright lasciassero il posto a graffiti colorati e a cesti da pallacanestro8. All'inizio del fenomeno, l'occupazione riguarda porzioni di edifici abbandonati o in dismissione che vengono recuperati mediante operazioni di ristrutturazione e arredamento, finalizzate a rendere adeguati gli spazi alla filosofia di base. Un'attenzione particolare è rivolta alla dotazione tecnologica fornita (velocità della connessione, reti senza fili, numero di postazioni, ecc.). È questa la fase in cui il sistema lavorativo del coworking si diffonde e diventa in alcuni casi un marchio, la cui cessione in franchising è subordinata al rispetto di standard legati al comfort degli utenti e alla qualità architettoniche dello spazio di lavoro. Quest'ultimo aspetto rappresenta il punto nodale che caratterizza il passaggio successivo nell'evoluzione degli spazi condivisi, legato soprattutto alla ricerca di edifici da recuperare e sui quali operare una risignificazione all'interno della città. Il sistema risulta vincente tanto da essere mutuato da aziende strutturate che vedono nell'interazione con soggetti esterni un'opportunità di crescita e scambio. Un esempio è dato dal Google Campus progettato da Jump Studios nel centro di Londra nel 2011, un edifico preesistente ripensato come incubatore per start-up del settore IT. L'intervento prevede che il livello dell'ingresso e quello del piano inferiore ospitino spazi destinati al pubblico9 come un bar, una sala per le conferenze e degli spazi di coworking disponibili per gli utenti non registrati. La presenza di un half-pipe per skaters è pensata per rendere più ammiccante e amichevole un ambiente di per sé molto domestico. I cinque piani superiori ospitano gli open space per gli start-uppers e sono caratterizzati dalla presenza di un modulo – con la foggia del container, come nel TBWA\Chiat\Day – in cui è posizionata una cucina a servizio del piano (Fig. 3). Negli ultimi anni anche una parte del mondo accademico italiano ha mostrato interesse per il fenomeno del coworking. Le diverse ricerche condotte hanno il comune denominatore di volere codificare una tipologia di approccio piuttosto che una tipologia di spazio. Dati per acquisiti
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gli standard minimi che un tipo di struttura del genere deve garantire, i progettisti si concentrano sull'aspetto site specific del progetto affinché l'intervento proposto possa costituire un attrattore di interessi e un catalizzatore di utenti mediante soluzioni spaziali che non isolino l'edificio, ma lo trasformino in un polo capace di riattivare una porzione di città. In questa direzione si muove la ricerca proposta dallo IED di Roma10 in cui i progetti Coworking al Trullo e Palazzo della Creatività mostrano come sia necessario confrontarsi con temi attuali, alla ricerca di una compartecipazione pubblico-privato – non è un caso che siano stati redatti in collaborazione con la provincia di Roma – che eviti la formazione di ulteriori enclaves all'interno del tessuto cittadino. Per dimostrare l'importanza dell'individuazione di un approccio comune, gli interventi hanno come oggetto due luoghi molto diversi di Roma, per localizzazione e condizione urbana: un edificio dismesso nella periferia sud e tre edifici adiacenti a una scuola superiore nelle vicinanze della Stazione Termini. In un'altra, ma complementare, direzione si muove la tesi di laurea di Federica Raffin presentata all'Università di Trieste. Il progetto, approfondendo la proposta presentata per un concorso internazionale, elabora una nuova tipologia di spazio connettivo all'interno del coworking, nella convinzione che il passaggio successivo in questo modello lavorativo risieda nel liberare i dispositivi di distribuzione dalla mera funzionalità per donargli una qualità ancora disattesa11.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Mitchell W.J. (1996), City of Bits: Space, Place, and the Infobahn (On Architecture), MIT Press. Pregnolato Rotta Loria F. (1998), Gli spazi del lavoro intelligente. Una ricerca di prossemica in un villaggio elettronico, Alinea. Qualizza G. (2010), Transparent factory. Quando gli spazi del lavoro fanno comunicazione, Franco Angeli. Sennett R. (2000), The Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W Norton & Company.
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CONDIVIDERE PER RITROVARE La virulenza dell'attuale crisi economica, insieme a uno sviluppo tecnologico legato allo condivisione e all'accessibilità delle reti di socializzazione, ha favorito la crescita di una generazione di lavoratori che cercano fuori dall'ambito produttivo un terreno di confronto e crescita. Queste energie creative hanno trovato in nuove organizzazioni lavorative, aperte, la possibilità di mettere in rete professionalità e saperi. La città, con le sue parti prematuramente abbandonate, è tornata finalmente una realtà da cui sembra difficile prescindere e un nuovo inurbamento è in atto soprattutto nei paesi nordeuropei e negli Stati Uniti. Le attuali proposte di smart city, open city, ecc. si nutrono di aspetti della vita urbana - l'intrinseca capacità di attrarre diversità, produrre eventi e facilitare gli scambi interpersonali - che vengono riconsiderati come qualità necessarie al benessere dei lavoratori, in termini simpatetici e non performativi. Il posto di lavoro diventato luogo di lavoro si trasforma in uno spazio condiviso che si libera dall'introspezione e permette di ritrovare all'interno della città alcune relazioni smarrite. La ricaduta sulla città si manifesta in un recupero graduale del patrimonio edilizio e, in alcuni casi, nella comparsa di nuove centralità che fungono da catalizzatori per il pubblico. In questa direzione, il ruolo del progettista non si limita più soltanto alla definizione dell'oggetto architettonico, ma diventa strategico nella localizzazione delle aree (o degli edifici) su cui intervenire e nella costruzione di scenari capaci di suggerire al committente sviluppi inaspettati. Contemporaneamente gli strumenti urbanistici sembrano inadeguati a rispondere in maniera efficace alle nuove esigenze, rallentati da una burocrazia non sincronizzata alla velocità di banda con cui i lavoratori 3.0 sono soliti muoversi. Non resta che rimanere in attesa del prossimo upgrade.
1-2 Clive Wilkinson, TBWA\Chiat\Day, Los Angeles, 1998. Foto: Benny Chan
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1 Vedi A.Volpicelli, L'ingegnere va in città, in «D La Repubblica», n. 813, 2012, pag. 74: «l'identikit è quello del nuovo clan […]: i tech gig, giovani e talentuosi guru della tecnologia che oggi alla “solita” Silicon Valley, cattedrale nel deserto della tecnologia, preferiscono ritornare in città […] per lanciare la propria start up o lavorare in quelle già affermate». 2 L'organizzazione scientifica del lavoro di stampo taylorista è esemplificata da due edifici di Frank Lloyd Wright, il Larkin Building del 1904 a Buffalo e il Johnson Wax Administration Building del 1939 a Racine, in cui i rapporti con l'esterno erano totalmente esclusi e il controllo dei lavoratori avveniva dagli uffici posti sui ballatoi. 3 Definizione di Lee Clow, direttore creativo dell'agenzia. Riportata nella relazione di progetto. 4 La tipologia SoHo è stata utilizzata da Riken Yamamoto nei progetti Jian Wai SoHo a Pechino del 2003 e Codan Shinonome a Tokyo del 2004. 5 E. Salsa, Una dimensione del Comfort Urbano. SoHo tra casa e città, in «QA. Casa e Città», n. 24, 2009, pag. 180. 6 Tra i pilastri che sostenevano i ballatoi vi erano iscritti i valori fondamentali del lavoratore del tempo: altruismo, sacrificio, generosità, integrità, fedeltà, lealtà, giudizio, fantasia, entusiasmo, intelligenza, controllo, collaborazione, industria, economia. 7 In Germania nel secondo dopoguerra, in risposta all'organizzazione scientifica del lavoro di stampo taylorista, venne identificato un nuovo layout in cui l'obiettivo era mitigare la politica di controllo in favore di un ambiente lavorativo non-gerarchico. Lo spazio unico, però, si rivelò insostenibile e incapace di tutelare il benessere dei singoli dipendenti così da spingere verso altri modelli (ufficio combinato, di gruppo, business club). 8 Il dato è disponibile su L. De Pellegrin, C. Foertsch, GCS11. Global Coworking Survey, 2012, a cura del sito web www.deskmag.com e dell'Università di Berlino. Dal documento emerge come i soggetti coinvolti in questo tipo di esperienza lavorativa appartengano per il 38% al settore IT e per il 50% siano freelance, laureati, con un reddito in linea con quello della media nazionale del Paese in cui vivono. 9 «L'aspetto su cui si è focalizzato maggiormente il progetto è consistito nel collegare il piano terra e quello inferiore affinché giocassero un ruolo socializzante, a partire dalla reception fino all'auditorium, al caffè e agli spazi di lavoro», tradotto dal comunicato stampa a cura di Jump Studios.
10 La ricerca è stata coordinata da Gianfranco Bombaci, Laura Negrini, Pietro Cagnazzi (Coworking al Trullo) e Gianfranco Bombaci e Laura Negrini (Il Palazzo della creatività). 11 F. Raffin, COBmadrid. Una nuova tipologia di spazi per il lavoro in periodo di crisi globale, tesi di laurea specialistica, anno accademico 201112, Facoltà di Architettura di Trieste, relatore Marco Ragonese. L'aspetto interessante del lavoro risiede nella relazione di progetto in cui viene fatta una lettura parallela della trasformazione del luogo di lavoro in termini tipologico-spaziali mediante una ricerca storica e nell'immaginario visivo grazie all'iconografia cinematografica.
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3 Jump Studios, Google Campus, Londra, 2011. Il modulo cucina degli uffici
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Laura Montedoro
MILANO E LA SFIDA POST-FORDISTA. LOGICHE LOCALIZZATIVE E IDEE DI CITTÀ MILANO LOCUS INDUSTRÎUS: UN TOPOS VACILLANTE Milano 2012: la “città del lavoro”, simbolo della modernità e della produttività nazionali, registra una crisi senza precedenti. Le retoriche sullo sviluppo della città sono chiare: perseguire l’obiettivo di una città più attrattiva per abitanti e investimenti e più forte nell’ambito della competizione territoriale, valorizzando e mettendo in rete le risorse già in campo e potenziando alcuni settori strategici. Tuttavia tali indicazioni risultano del tutto prive di politiche adeguate e di supporto operativo, nella sostanza, e ignorate nelle previsioni, se non con vaghi auspici. Eppure indicazioni strategiche assai simili sono contenute nei rapporti a cura dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico1, negli studi per la revisione del Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia2 e dell’Osservatorio Economico e Territoriale3. D’altro canto, la “perdita di terreno” di Milano nella competitività territoriale con aree urbane analoghe è costantemente sancita dagli studi svolti su tale tema4: aziende internazionali lasciano le proprie postazioni ambrosiane per delocalizzare uffici e produzione altrove, senza che a queste si sostituiscano nuove attività. Se si osserva una mappa di Milano oggi, quale geografia del lavoro ci restituisce? È opportunamente interpretata nelle sue risorse? Alla luce di un bilancio di oltre un secolo di architettura milanese per il lavoro e attraverso l’osservazione di alcuni recenti casi di importante concentrazione produttiva, il contributo intende mettere in evidenza le difficoltà del soggetto pubblico a governare – o quanto meno ad orientare – i processi di insediamento delle nuove attività e la frequente incongruenza delle scelte localizzative, con gravi ricadute sulla qualità dello spazio urbano e della vita degli abitanti. D’altra parte, alla scala della fisicità dei manufatti e dei luoghi, l’architettura si mostra spesso debole e incapace di interpretare i contesti. I LUOGHI DEL LAVORO «I lombardi si sentono trascinati all’atto, al lavoro, da una forma di passione morale. Le recenti e folte immigrazioni interne dicono che la Lombardia ha creato tanto lavoro buono per poter chiamare altre braccia e intelletti a secondare le sue genti nell’opera» (Carlo Emilio Gadda). Sulla disponibilità del lavoro Milano ha storicamente costruito la propria identità, il proprio primato nel Paese, la propria immagine5. L’architettura destinata ad ospitare gli spazi per il lavoro vanta pertanto a Milano una lunga tradizione, ricca e articolata. Che si tratti di edifici destinati alla produzione industriale o a dare rappresentanza al sistema della finanza e delle banche, già il periodo post-unitario offre alcuni esemplari sistemi di luoghi che presto candidano il capoluogo lombardo ad affermarsi come capitale del lavoro e degli affari sulla scena nazionale, legan-
do indissolubilmente la propria immagine urbana alla produttività. Ne è prova evidente la centralissima zona di piazza Cordusio6, esito delle prime campagne di trasformazione del nucleo storico, dove l’architettura per le sedi bancarie mette a punto la propria persuasiva retorica7. La geografia di tali luoghi resta, almeno nell’ambito dello sviluppo della città fordista, immutata per molti decenni: edifici di rappresentanza all’interno dei bastioni spagnoli (con una spiccata preferenza per il tessuto al di qua della cerchia dei Navigli) ed edifici per la produzione materiale nell’hinterland o nei comuni di prima cintura, dove le opportunità localizzative offerte dal sistema ferroviario e dagli scali merci, nonché la massiccia disponibilità di forza lavoro proveniente dalle campagne e dalle valli, favoriscono il radicamento dei grandi stabilimenti industriali a corona attorno alla città8. L’architettura offre, adatta e reinventa i propri modelli per rispondere alle richieste di una committenza che esprime la doppia necessità di un’estrema funzionalità degli spazi e di un’efficace rappresentatività dei manufatti. Un’importante distinzione da operare per osservare i luoghi del lavoro è pertanto quella tra gli spazi destinati alla produzione di beni materiali e quelli progettati invece per i servizi9. LA PRODUZIONE MATERIALE, E/O QUEL CHE NE RESTA Quanto al primo tema, Milano fino alla metà degli anni Settanta poteva vantare uno straordinario patrimonio di fabbriche e di aree produttive che, con la progressiva e inesorabile dismissione, avrebbe potuto offrire oggi notevoli occasioni per il riuso, senza rinunciare a suggestivi percorsi di archeologia industriale. Tale opportunità è stata in larga parte mancata e al progressivo smantellamento del sistema ha spesso corrisposto una quasi completa cancellazione della memoria dei luoghi, con l’eccezione di alcune esperienze interessanti. Si pensi all’Headquarters Pirelli alla Bicocca di Gregotti Associati International (1999-2004) o al recente progetto di Renzo Piano per la nuova sede del Sole 24 Ore sull’area occupata dalla fabbrica Siemens-Italtel in viale Monte Rosa (1999-2004): edifici in cui la sperimentazione sul riuso si afferma come pratica inventiva, tra restyling e costruzione del nuovo. Eppure, se per apprezzare le grandi strutture produttive della prima industrializzazione è doveroso un percorso nella periferia e nel territorio (spingendosi fino alle rive dell’Adda), numerosi erano gli esempi pregevoli del secolo scorso proposti anche in città. Si ricorda infatti che il “professionismo colto” milanese si era cimentato anche con questo tema: la tipologia della fabbrica è stata oggetto di un’interessante ricerca compositiva, sia per le mutate modalità produttive che per la riflessione sul rapporto col contesto nella città consolidata. Ne sono esempi significativi il razionalista Stabilimento Italcima in via Legnone 4, di Luciano Baldessari e Gio Ponti (1932-’36) e la Ditta Loro Parasini in via Savona, di Luigi Caccia Dominioni (1951-’57),
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solo per citarne alcuni. Un’ulteriore importante declinazione dei luoghi del lavoro si incontra nelle aree in cui fenomeni di bottom up hanno riscritto la geografia dei luoghi: l’area Porta Genova ed ex-Ansaldo è stata infatti oggetto di un interessante fenomeno di trasformazione diffusa e radicale che ha modificato i caratteri di un intero comparto urbano. La città, lì morfologicamente assai connotata dai grandi isolati produttivi, ha assistito a un processo di rivitalizzazione attraverso l’insediamento di diverse attività umane e modi d’uso. Case editrici, studi fotografici, gallerie d’arte, laboratori, show-room di design e atelier di moda hanno colonizzato l’interno dei grandi edifici, dando luogo a un microcosmo dove consumo e produzione si tengono strettamente legati10. L’altero aspetto della città industriale si mantiene immutato all’esterno, e solo negli interni rivela la nuova identità e i nuovi caratteri. Il teatro di Tadao Ando per Giorgio Armani in Borgognone (2001), il restyling di un edificio storico per la nuova sede della Deloitte di Mario Cucinella in via Tortona (2001-2004), la Fondazione Pomodoro nelle ex officine Riva & Calzoni in via Savona dello Studio Cerri Associati (2001-2005) sono solo gli interventi più noti e dimensionalmente significativi che si possono incontrare qui e la cui sinergia è pienamente visibile nella settimana del Fuori salone. In attesa che il progetto di Chipperfield per l’Ansaldo trovi realizzazione. Un fenomeno analogo, ma di dimensioni più contenute, ha interessato anche l’area di Lambrate oltre la ferrovia dove, con un processo costante e capillare di rifunzionalizzazione dei vecchi manufatti produttivi, si è assistito negli ultimi anni ad una trasformazione profonda del quartiere senza che ciò sia rilevabile a livello morfologico. Il trasferimento della casa editrice Abitare Segesta nella fabbrica dell’ex-Faema in via Ventura, su progetto di Mutti&architetti (2000-2003), ha rappresentato una tappa fondamentale di questa mutazione metamorfica che candida il quartiere di Lambrate a diventare un cultural custer. LA PRODUZIONE IMMATERIALE E LA FISICITÀ DELL’ARCHITETTURA. STORIA E ATTUALITÀ È soprattutto il secondo tema, quello dell’architettura per il terziario, a fornire numerose occasioni progettuali di verifica e di sperimentazione, importanti e per quantità e per qualità, intensificandosi negli ultimi decenni in risposta alla progressiva e incalzante smaterializzazione dei beni. Talune risalgono al periodo tra le due guerre e meritano una lettura attenta ancora oggi per la carica simbolica e l’accento monumentale con cui declinano il tema, o per la loro capacità di fare da modello per le esperienze successive. È il caso, ad esempio, dell’austera monumentalità del Palazzo della Borsa in piazza degli Affari, di Paolo Mezzanotte (1928-1931), e del Palazzo dei Giornali in piazza Cavour di Giovanni Muzio (1938-1942) – che rispondono a esigenze rappresentative nel solco della già ricordata tradizione dell’architettura ottocentesca inaugurata da Beltrami e Broggi per le sedi bancarie – o della sobria eleganza del palazzo per gli Uffici Montecatini in via Moscova, di Gio Ponti e Antonio Fornaroli e Soncini (1936-1938). L’insediamento di tali edifici nel tessuto storico della città compatta comporta interessanti implicazioni di rapporto con il contesto urbano che mette alla prova la sensibilità dei progettisti. Nel secondo dopoguerra, le cospicue occasioni di costruzione nelle aree centrali, rese libere in seguito ai danni bellici o all’applicazio-
ne delle previsioni di Piano, offrono un terreno fecondo proprio per la riflessione sul rapporto con le rogersiane preesistenze ambientali. Tra gli edifici testimoni della ricerca sul tema, “costruire nel costruito”, deve essere ricordata almeno la Chase Manhattan Bank in piazza Meda dei BBPR (1969). All’insegna di una continuità più diretta con le ricerche razionaliste precedenti, si realizzano invece numerosi edifici per uffici schiettamente moderni, ma di tono discreto, come quelli di Gigi Gho in via Solferino (1950-1951), di Roberto Menghi e Marco Zanuso in via Senato (1947), di Gian Antonio Bernasconi, Annibale Fiocchi, Marcello Nizzoli in via Clerici (1952-54), di Pietro Lingeri in via Paleocapa (1949-1953) e di Luigi Figini e Gino Pollini in via Hoepli (1955-57). Anche gli edifici vicino a piazza Missori di Mario Asnago e Claudio Vender possono essere ricondotti a questo filone di ricerca, ma la contiguità degli interventi – in un’area profondamente trasformata dalla parziale realizzazione del piano della cosiddetta Racchetta – li rende particolarmente evocativi di un’immagine di Milano, come se questi frammenti avessero un riverbero urbano più potente. Di fatto, questi edifici danno il volto a un pezzo di città – sulla via Albricci – non diversamente da quanto accade nel vicino corso Europa; ed è interessante sottolineare che queste due anime della cultura architettonica milanese – Regionalismo critico e International Style, così diverse, ma anche così profondamente intrecciate – si fronteggiano direttamente in via Velasca. La misurata asciuttezza dell’ampliamento della sede del Corriere della Sera11 in via Moscova/via Solferino, di Alberto Rosselli (1960-1965), nel dialogo stringente con il vecchio edificio di Luca Beltrami e Luigi Repossi (1903-1904), mostra come entrambe le tensioni vadano via via componendosi nel corso degli anni Sessanta in una curiosa sintesi nelle ricerche e nelle esperienze degli architetti più attenti alla tradizione del moderno e al contesto. IL TERZIARIO ALLA CONQUISTA DELLA PERIFERIA METROPOLITANA Tentata senza successo la strada del “centro direzionale”12 nella zona Garibaldi-Repubblica-Melchiorre Gioia, come stabilito dal Piano Regolatore Generale del 195313, con pregevoli esempi di architettura per il lavoro, come il notissimo Grattacielo Pirelli di Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli, Giuseppe Valtolina ed Egidio Dell’Orto (mentre le strutture sono di Arturo Danusso e Pier Luigi Nervi (1953-1960, oggetto di un restauro conservativo piuttosto discusso tra il 2003 e il 2004), col finire degli anni Sessanta si afferma progressivamente la logica insediativa degli headquarters (letteralmente “quartier-generali”) non più all’interno della città consolidata, ma progressivamente sempre più distanti dal centro storico, a segnare spesso il paesaggio in una nuova strategia comunicativa e rappresentativa ad un’altra scala. Tra i primi esempi14, non a caso legato ad uno dei settori di punta della produzione milanese come l’editoria, è la sede della Mondadori progettata a Segrate da Oscar Niemeyer. L’intervento, interessante per l’architettura originale e virtuosistica del Maestro brasiliano, è significativo perché è in certo modo inaugurale della nuova politica di decentramento più radicale e di localizzazione di grandi contenitori monofunzionali, opportunamente insediati (dal punto di vista economico) all’esterno della città consolidata, ma in larga misura traditori di quel rapporto casa-lavoro oggetto attento della cultura urbanistica e del Movimento Moderno. Diverso, in questo
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senso, il caso di San Donato15 dove l’ENI, a partire dal 1953, concentra uffici, abitazioni dei dipendenti e servizi a costruire una vera e propria cittadella (una piccola company town). Spesso si tratta di luoghi sprovvisti di supporto infrastrutturale per il trasporto pubblico, accessibili dunque esclusivamente con mezzi privati, che solo molto tardivamente giungono a supporto delle attività. La logica del decentramento conosce poi un’ulteriore declinazione nella strategia di presidio di nuove parti di città rese disponibili dalla dismissione dei grandi comparti industriali posti a corona della città, ottenute in luogo dei grandi recinti produttivi: è il caso, ad esempio, della sede della Deutche Bank alla Bicocca dello Studio Valle Architetti Associati (1997-2005). Rispetto alla proliferazione di anonimi contenitori genericamente destinati a “terziario” che connotano fortemente la città in espansione, questi edifici indicano una strada per la ricerca di un’espressione dei luoghi del lavoro nella metropoli in relazione con altre attività e all’interno di un disegno urbano controllato. Si registra tuttavia una continuità nell’esperienza di costruzione nel «cuore della città»: interventi operati o per sostituzione puntuale o per saturazione degli isolati. Tra questi si ricorda il complesso per uffici in via Olona/via De Amicis, dello studio Monti G.P.A. e Valentino Benati (1986), e consistenti interventi nella periferia storica come quelli di Mario Bellini per gli Uffici di via Kuliscioff (1984-1988) nell’area sud-ovest, e la nuova sede della Fiera al Portello (1987-1997). Se una trasformazione invisibile, perché tutta introversa, interessa la città consolidata e le sue gravitazioni, la geografia dei luoghi del lavoro alla scala metropolitana è invece investita da una nuova campagna di edificazione che riscrive le gerarchie territoriali. LA SFIDA POST-FORDISTA: L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA DEL TERZIARIO Le grandi operazioni appena concluse o in via di realizzazione – la nuova Fiera a Rho Pero (Massimiliano Fucksas, 2002-2005), la nuova sede del Palazzo della Regione (Pei-Cobb-Freed & Partners, progetto del 2004), il polo Garibaldi-Repubblica (studio Pelli Clarke Pelli Architects, 2005-2012), il Maciachini Center (Studio K Consult, Scandurra Studio, Sauerbruch+Hutton, 2008-2010), l’insediamento MilanoFiori Nord ad Assago (masterplan di Erick van Egeraat, 2003-2009), e i previsti Centro Europeo per la Ricerca Biomedica Avanzata (CERBA) nel Parco Agricolo Sud Milano (Stefano Boeri, progetto del 2009) e l’Expo – che topografia del lavoro restituiscono? In una lettura sistemica non si dà un senso, quanto l’esito di una sequenza di occasioni, talvolta conclusione di processi avviati più di vent’anni fa, talaltra effetto di quella liberalizzazione funzionale introdotta con la Legge 12 della Regione Lombardia nel 2005, anticipata nelle linee programmatiche dal documento Ricostruire La Grande Milano del 2001. Non si contesta qui la necessità di superare talune rigidità della prassi urbanistica tradizionale, quanto si afferma, con la medesima urgenza, la necessità di una regia pubblica e di un progetto strategico, reso tanto più opportuno dalla crisi economica diffusa. In altre parole, «occorre comprendere bene quali sono le risorse in campo, quali gli eventuali progetti già in corso, quali links potrebbero essere inventati o attivati, mettendo insieme competenze che sono attive ma che non hanno ad oggi interlocuzione. Una volta costruita questa mappatu-
ra di potenzialità, l’ultimo passo riguarderebbe le scelte localizzative delle attività per utilizzare appieno l’effetto virtuoso di prossimità. Laddove sono già presenti gangli produttivi, si potrebbero allocare funzioni sinergiche così da rafforzare la massa critica di questi settori»16. E se, come recita il Documento di Piano del PGT milanese, «appare velleitario determinare nella fase di elaborazione del piano lo sviluppo di progetti destinati a portare nuove funzioni qualificanti per la crescita della città (ad esempio, laboratori scientifici, poli del terziario avanzato, centri di ricerca pubblici e privati)»17, è urgente comprendere e definire gli strumenti che l’Amministrazione intende mettere in campo per «più credibilmente, determina[re] le opportunità che il mercato, le amministrazioni e il terzo settore potranno cogliere»18. È dunque difficile, ad oggi, proporre un bilancio critico, definitivo ed esaustivo, del nuovo paesaggio dei luoghi del lavoro – peraltro assai dinamico – nel capoluogo lombardo. È però senz’altro possibile sottolineare alcune tendenze e alcune contraddizioni. Con riferimento all’insediamento delle attività terziarie, ad esempio, è utile ricordare che si è registrato il rischio di quella stessa sovrapproduzione edilizia temuta, anche, per la residenza19. Recentemente, l’occupazione illegale di uno stabile – un palazzo per uffici in disuso ormai da 15 anni in un contesto urbano consolidato – ha sollecitato la città a ragionare su un notevole patrimonio di immobili inutilizzati (invenduti, sfitti, o abbandonati) che costella (e spesso deturpa) il paesaggio urbano. Solo per citare i casi più macroscopici, si ricordano quelli legati al gruppo Ligresti: le cinque torri di via Stephenson, gli uffici di via Virgilio Ferrari a ridosso del Parco Sud, i palazzi ex-Enpam a Pieve Emanuele demoliti lo scorso settembre. L’occupazione della Torre Galfa, ben nota ai cinefili per l’ambientazione de “La vita agra” (il film di Lizzani del ’64, tratto dall’omonimo romanzo di Luciano Bianciardi), ha avuto il merito di sollevare la riflessione circa il destino di questi immobili e, di conseguenza, anche circa i progetti di ulteriore costruzione della città. Che il progetto della città futura, attraverso le politiche e gli strumenti dell’urbanistica, debba farsi carico di un’idea per questa città inutilizzata inizia a farsi largo: l’aggiunta di nuove volumetrie deve fare i conti con la realtà e il consumo di suolo deve essere contenuto e controllato con decisione. È poi interessante notare che il “Torracchione” è stato occupato dai “lavoratori dell’arte”, o comunque da una componente significativa di quella creative class che la città ambirebbe ad attrarre e su cui la città dovrebbe investire. Dal punto di vista localizzativo, si è già richiamata la necessità di un capillare studio diagnostico per avanzare ipotesi strategiche alla scala metropolitana, riaffermando la necessità di una regia lungimirante. Quanto ai singoli episodi architettonici nelle realizzazioni recenti, invece, è riconoscibile una diffusa propensione a non farsi carico del rapporto con la città e a lavorare all’interno di una logica introversa e antiurbana. Molti interventi recenti, infatti, tendono a caratterizzarsi per una spettacolarità e una forza iconica – spesso sgraziata, quando non aggressiva, esibita e ostentata – che si impone ai contesti, ma spesso li ignora nel sistema delle relazioni urbane. Confermano una volta di più che il frammento, da solo, non fa la città, senza una vision.
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1 OECD,Territorial Reviews, Milan, 2006. 2 PTCP, Il fattore territorio nel sistema economico milanese, 2008. 3 OET, Rapporto 2009 di Fondazione Fiera Milano. 4 Si confronti, ad esempio, con rapporto Ecosistema Urbano – di Legambiente, Ambiente Italia e il Sole 24Ore – che vede scendere Milano di ben 17 posizioni nel confronto tra il 2009 (46°) ed il 2010 (63°); anche gli indicatori dello European Cities Monitor 2010, elaborati da Cushman & Wakefield, mostrano che Milano, pur guadagnando posizione nella percezione di città dove potenzialmente localizzare la propria attività, perde posizioni dove gli indicatori verificano gli elementi oggettivi di competitività territoriale, passando così nell’indicatore globale dalla 9a posizione del 2009 alla 10a nel 2010. 5 L. Montedoro, A. Saibene, Milano nello sguardo del cinema, in Id. (a cura di), Una scelta per Milano. Gli scali ferroviari e la trasformazione della città, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 323-331. 6 La piazza faceva parte del sistema assai più complesso Foro Bonaparte-via Dante-Cordusio, «cardine ed elemento qualificante del piano regolatore Beruto»; cfr. M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Edizioni Libraccio, 2008, (edizione ampliata del volume Zanichelli 1980), p. 67. 7 Cfr. S. Pace, Un eclettismo conveniente. L’architettura delle banche in Europa e in Italia, 17881925, Franco Angeli, Milano 1999. 8 G. Tonon (1982), La fondazione di una città. Piero Bottoni a Sesto San Giovanni, in «Casabella», pp. 24-29. 9 Per una documentata analisi storica del sistema produttivo lombardo vedi O. Selvafolta (a cura di), Costruire in Lombardia: industria e terziario, Electa, Milano, 1987 e G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187. 10 M. Bolocan Goldestein, Geografie milanesi, Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2009. 11 L’edificio è stato poi oggetto nel 2005 di una discussa «ristrutturazione», curata dallo Studio Gregotti Associati International. 12 «Le intenzioni e i fallimenti dell’urbanistica milanese del dopoguerra hanno il loro riepilogo più significativo, probabilmente, nella vicenda del Centro direzionale». Cfr. M. Grandi, A. Pracchi, Milano. Guida all’architettura moderna, Edizioni Libraccio 2008, (edizione ampliata del volume Zanichelli 1980), p. 321.
13 L’ipotesi però si era manifestata già sul finire della guerra, quando il Piano AR per Milano e la Lombardia (1945) propone un “nuovo centro” in un’area pressappoco coincidente, ma più vasta, con la Fiera Campionaria. 14 Le aziende «cercano nella concentrazione stabile dei propri uffici la realizzazione di economie di scala e una soluzione “brillante” per i propri problemi di rappresentanza». Cfr. G. Consonni, La «questione del terziario», in «Casabella», n. 451-452, ott.-nov. 1979, p. 84. Tra le sedi direzionali che scelgono di decentrare i propri uffici in aree suburbane, anche l’IBM e la 3M si collocano a Segrate. 15 Su questo, vd. S. Guidarini, Anatomia urbana di Metanopoli, in M.C. Loi, R. Neri, Anatomia di un edificio, Clean, Napoli 2012, pp. 42-55. 16 L. Montedoro, R. Camagni, Economia urbana e sostenibilità, in Id. (a cura di), Una scelta per Milano. Gli scali ferroviari e la trasformazione della città, Quodlibet, Macerata 2011, p. 289. 17 PGT di Milano, Documento di Piano, pag. 66. 18 Ibidem. Osserva l’INU: «Occorre comunque chiedersi che senso possa essere riconosciuto ad un’azione di pianificazione che non risulti contraddistinta anche da previsioni, sia pur non rigide ma di massima, relative alle varie funzioni insediative»; Cfr.: Il Pgt di Milano. Un piano che non vuole essere un Piano, documento a cura dell’INU, Sezione Lombardia, pag.7. 19 Cfr. M. Bolocan Goldstein, L. Gaeta (a cura di), Mercato urbano e trasformazioni dell’ambiente costruito. Geografie di Milano verso Expo 2015, Ricerca della Camera di Commercio Industria Agricoltura e Artigianato Milano, aprile 2012.
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Il paesaggio, urbano e non, post-agricolo e post-industriale, nella sua dimensione culturale o ecologica, è assieme nuova forza-lavoro e nuovo contenitore, strumento per una terza via dell’imprenditoria
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ALTO LO SPREAD CITTÀ/TERRITORIO. DETTAGLI IN CRONACA 1
Alberto Bertagna 1 Gustav Metzger, Acid Action Painting, South Bank, London, 1961
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SALE LA TENSIONE TRA GLI OPERATORI È un periodo lungo quello in cui abitiamo e in cui si stanno ridefinendo le priorità, i modi e le direzioni di sviluppo del Territorio-Italia: lungo rispetto al tempo “rapidissimo” cifra della contemporaneità con il quale eravamo ormai assuefatti a confrontarci; lungo perché moltiplica le sue ore per tutto lo spazio che avvolge, raggiungendo progressivamente la totalità degli ambiti; lungo quasi anche come tempo assoluto. Non ci sono più beni-rifugio (spaziali): non il residenziale, non il produttivo, non il commerciale, non il terziario, né il direzionale o qualsivoglia altrimenti specificata tipologia più o meno à la page. Il nuovo non emoziona più, o addirittura spaventa; il recupero trova impreparati o timidi, per quanto speranzosi, quanti non si sono mai per questo attrezzati. I piani regolatori che si stanno completando in questi mesi – senza fretta, peraltro, o, e contrario, con l’urgenza di chi attende messia salvifici – sono forse i primi, almeno dalla promulgazione della Legge Urbanistica Nazionale, per la composizione dei quali non vengono spese nottate a ridefinire bordi di espansione sempre più ampi o a combattere, da fronti opposti, per limitarli. Salvo che per i grandi investimenti, i medio-piccoli accordi tra pubblico e privato, che ormai gestiscono il quotidiano del fare urbanistica, sono sempre più rimessi in discussione al ribasso dagli operatori, che necessitano di volumi sempre minori rispetto a quelli magari inizialmente preventivati e concordati: la domanda non copre più l’offerta. O forse non l’ha mai esattamente coperta: oggi solo si teme maggiormente il freddo di una stagione invernale forse, come da nostro incipit, troppo lunga. È salita progressivamente insomma, e ancora continua a salire, la tensione, ed è una tensione tutta negativa: non è una tensione in grado di produrre sollecitazioni, è piuttosto una tensione paralizzante, una tensione effetto dello stress ma incapace di produrne, dettata dal timore di affrontare scelte perché non riescono ad essere evidenti rischi e rese degli investimenti. Poco valgono, per ora, rassicurazioni, buoni esempi d’importazione o buone pratiche locali, accenni o annunci di nuove politiche virtuose di aiuto o incentivo. Senza trasformazione non c’è produzione e senza sviluppo la trasformazione rallenta, fino a fermarsi. Se uno dei principali luoghi del lavoro in Italia è sempre stato il cantiere, direttamente e ancor più indirettamente attraverso gli spazi che riuscivano a metterlo in essere e condurlo ad una conclusione; e se dunque il cantiere di-
ventava di conseguenza – non da ultimo con il famoso e/o famigerato e iterato Piano Casa – il soggetto che riusciva a farsi carico dei massaggi capaci di allentare ogni tensione, oggi nel ragionare attorno agli spazi del lavoro non si può prescindere dall’immaginare quali possano essere, nel futuro, gli spazi dove trovare lavoro o dove produrre lavoro. Non certo da prospettive socio-economiche, ovverosia sindacali o imprenditoriali, nel nostro caso; ma da quelle di chi ormai deve fare i conti simultaneamente con sensibilità attente anche alla tutela e alla valorizzazione del territorio residuo, del territorio ancora non occupato e in difficoltà per altre ragioni, in primis di gestione. Il mediatore, ormai, non è più la figura che riesce a fare incontrare domanda e offerta sulla piazza di una vendita comunque prima o dopo certa; è chi riesce piuttosto a costruire offerte in grado di rispondere a differenti e apparentemente opposte domande, o chi, ancor prima, riesce a progettare offerte mediate tra esigenze inconciliabili. È tutto in questo rapporto, in questo bilancio da fare, in questa relazione tra lavoro e ambiente – con città e territorio immobili sulla scena in attesa di ricevere il copione – che si giocano le prospettive di rilancio economico e prima, o assieme, occupazionale; e che ancora, per chi fa progetto – di architettura, di città e di territorio e non solo d’impresa o di società – può esserci spazio per una dimensione programmatica di trasformazione dei paesaggi italiani. È solo su queste basi che può svilupparsi una tensione produttiva. È sulla capacità di immaginare nuovi nessi logici tra capitale economico, territoriale, sociale, che si rende necessario investire. Si è postulata poco sopra, o – esagerando – asserita, l’inesistenza, nel contesto e nel contempo attuali, di beni-rifugio. Ma ci si rivolgeva lì al costruito, allo spazio delimitato e dunque anche a quello “limitato” che abbiamo ancora a disposizione, libero dal costruito. Forse invece, come da più parti si chiede, l’immateriale, o meglio il materiale-immaginario, il paesaggio, potrebbe ancora essere una riserva dove depositare liquidità (baumaniane, potremmo dire), certi di poter un giorno prelevare (valori), magari con i dovuti interessi. Vediamo come. 57
CHE COS’È LO SPREAD, NELL’ECONOMIA DELLO SPAZIO? In finanza, l’ormai frequentatissimo termine “spread” – nel momento in cui si scrive nuovamente relegato dalle prime alle pagine economiche dei quotidiani, grazie alla notevole riduzione della tensione tra i valori monitorati da mesi, ma certo
DALL’IMPRESA NEL TERRITORIO AL PAESAGGIO COME IMPRESA
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pronto ad essere da lì riammesso agli onori delle copertine – assume diversi significati. Tra questi, lo vedremo brevemente, almeno un paio sono in qualche misura traslabili entro quanto qui interessa. Il differenziale (questo il significato del lemma, volendo essere autarchici) può essere quello tra offerta minima di vendita e offerta massima di acquisto di un titolo; in buona sostanza: l’andamento di un solo titolo preso in esame. Oppure quello tra il tasso di rendimento di due titoli ad una determinata scadenza, tasso di rendimento che è funzione del rapporto tra domanda e offerta e in ultima istanza del diverso grado di fiducia che i due titoli in oggetto stimolano, grado di fiducia che ovviamente si parametra sulla affidabilità dei due emettitori, sul rischio e sul rendimento dell’investimento nel periodo in cui questo si rende attivo, ovvero tra acquisto e scadenza di uno dei due titoli. Qui ora non interessa tanto ricordare come lo spread reale, ovvero quello finanziario, riesca di fatto ad influenzare le trasformazioni del territorio – in periodo di crisi quale quello attuale in maniera certo più evidente – attraverso l’influenza che esercita sulla liquidità (ora monetaria e non come prima baumaniana) degli operatori (imprese, industria delle costruzioni, immobiliaristi ecc.) e dunque sulle loro capacità di accedere a prestiti, di movimentare denaro ecc. Qui, e il titolo di questo punto lo enuncia, interessa un altro tipo di economia. Qui si parla dell’economia dello spazio, di quella direttamente attiva sulle conversioni d’uso, di senso o di forma dello spazio, e non di quella necessaria per attivare tutto ciò. E dunque se per “economia” intendiamo amministrazione, gestione, risparmio, struttura, impostazione dello spazio, o in ultima istanza sua architettura, sinonimi tutti – almeno per esteso – del lemma, risulta evidente la rilevanza della locuzione usata nel contesto di questo scritto. Perché, di converso, un uso anti-economico dello spazio, un suo dispendio, un suo spreco, una sua dilapidazione, è sicuramente – a maggior ragione in questa fase – non solo contrastato da più parti, ma anche di certo (in realtà da sempre, di fatto) poco produttivo. Snodo logico fondamentale, per spiegare meglio cosa dunque si intende qui con “economia dello spazio”, è intanto richiamare il concetto di “bilancio”, pure derivato, se vogliamo, dallo stesso ambito semantico, quello economico. E decisamente connesso, ai nostri sensi, con il primo significato del termine “spread” tra i due richiamati. Perché un bilancio, una valutazione della distanza (del differenziale) tra le soglie-limite, mi-
nima e massima, di trasformabilità ammissibile, ad esempio, di uno spazio, può essere per noi un buon indicatore di “mercato”. Se entriamo in casi quali quelli della contrattazione tra pubblico e privato, vediamo, a dimostrazione, come perequazione, compensazione, premialità diventino fondamentali strumenti di bilancio (qui anche “bilancio” di un Comune): se per semplificare escludiamo l’eventualità in cui si dissolva in una negoziazione ogni margine di trattativa, uno spread in ribasso può essere la contrazione progressiva del differenziale tra disponibilità del possessore di un bene (nel caso del territorio diciamo “delle popolazioni in quel bene insediate o che su quel bene si attribuiscono o riconoscono diritti”) a ridurre la propria domanda su quel bene, fino ad alienarlo (offerta minima di vendita), e disponibilità di chi manifesta interesse su quel bene a fornire una elevata quantità compensativa o una notevole qualità aggiunta al bene stesso (offerta massima di acquisto). Ancora, a parità di titolo, ovvero sempre nella valutazione di uno stesso spazio, l’oscillazione della sua “vendibilità”, della sua “collocabilità” sul mercato nell’arco temporale preso in esame, ci può fornire il grado della sua rilevanza progressiva (in diminuzione o crescita) all’interno di un sistema urbano o territoriale. Possiamo insomma fare un bilancio delle capacità del progetto perché, controllandone l’andamento evolutivo, conosciamo le potenzialità di quello spazio di sopportare la nostra proiezione, la sua progettazione. Tanto minore è stata la “fortuna” di quello spazio, o tanto maggiore è il disequilibrio della sua capacità nel tempo di “fare città” o di porsi come elemento strutturante un territorio, tanto più il progetto che vorrebbe intervenire su di esso sarà, per passare alla tecnica delle costruzioni, “a sbalzo”. Insomma in questo primo significato traslato del termine possiamo avere – limitandoci a due soli esempi – uno spread alto, ovvero una forte oscillazione nel tempo delle “capacità del bene” e dunque un rischio forte nella sua trasformazione. O uno spread basso o che tende ad azzerarsi, in un processo perequativo o compensativo in grado di innescare una trasformazione almeno condivisa, se non virtuosa. Ma tutto ciò pone una questione particolarmente interessante, da sottolineare: se in economia e finanza pochi sono i dubbi al riguardo, e abbiamo tutti compreso che un basso livello di spread è, almeno per l’Italia, una buona cosa, quale è la sua dimensione ottimale, se inteso nel campo del progetto dello spazio? Per sciogliere il dubbio vediamo il secondo significato del lemma.
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È centrale, nella seconda accezione che abbiamo isolato in questo nostro sconfinamento disciplinare, il concetto di “scadenza”. Lo spread, in questo caso tra due titoli, è misurato abbiamo detto con un confronto esattamente parallelo tra loro: quale dei due, in uno stesso tempo di validità, quello della durata dell’investimento, rende maggiormente; o almeno quale sembra rendere maggiormente. Qual è allora ad esempio, solo per fare un accenno a quanto si intende, la scadenza di un progetto? O dell’uso di uno spazio? Che siamo nelle ipotesi di valutazione di scenari alternativi prefigurati per uno stesso spazio (scenari progettuali, gestionali, o altro) o che siamo all’interno di una scelta localizzativa, della valutazione del più congruo tra due o più spazi per la stessa ipotesi di intervento, l’impasse si può ugualmente produrre. Se il tempo di persistenza della validità di ogni soluzione vacilla, perché sollecitato sempre più anche da fronti tradizionalmente non influenti, è difficile commisurare lo spread tra due tipi di investimento, e di conseguenza affrontare un acquisto o una vendita, scegliere quale tipo di intervento adottare o dove adottarlo. Bot senza scadenza, in pratica, i “valori spaziali” di cui qui si tratta, non perché gli investimenti che li riguardano sono senza limiti ma perché è difficile prevederne una durata: per quanto tempo uno spazio rimarrà centrale all’interno di una economia urbana? Quanto tempo un progetto in quella determinata area risponderà alle necessità rilevate al momento della sua scrittura e dunque manterrà efficacia? Domande queste da sempre sollevabili nel nostro specifico disciplinare come in molti altri; ma certo con l’aumentare non solo della dinamicità ma soprattutto della caducità, al diminuire delle connessioni o delle relazioni tra le parti capaci comunque di garantire una tenuta sistemica, diventano oggi questioni particolarmente sensibili. È chiaro che se i tempi finanziari sono esattamente coincidenti, o addirittura regolano essi stessi la volatilità dei titoli, e dunque non si fermano di fronte all’accelerazione dei cambiamenti delle condizioni di vendita o di acquisto (in buona sostanza della trasformazione di un valore), nel caso di strutture meno “maneggevoli”, come lo spazio da trasformare appunto, la resistenza degli operatori di fronte ad uno spread del quale è impossibile determinare estremi e sostanza diventa totale, e ogni trasformazione si arresta. Dunque più che soluzione ai dubbi posti dalla prima traslazione semantica, il secondo significato analizzato del termine in un suo uso possibile all’interno della definizione concettuale
che si stava provando diventa ulteriore fattore di destabilizzazione. Abbiamo trovato infatti, in questa riflessione rapida sull’economia dello spazio, spread positivi, spread negativi, spread non valutabili: forti oscillazioni di senso. È PREFERIBILE UNO SPREAD ALTO O BASSO, TRA CITTÀ E TERRITORIO? Tutte queste puntualizzazioni, queste contaminazioni di linguaggi, dalla finanza alla progettazione, trovano un senso solo nella misura in cui si evidenzia attraverso esse una questione probabilmente ineludibile, ovvero l’interrogativo da porsi oggi sul ruolo delle due entità messe qui in oggetto, ammesso che siano isolabili tra loro, in un mercato globale; globale non tanto nella sua internazionalizzazione ma piuttosto nella sua pervasività, nel suo essere motore imprescindibile di ogni azione, o se non altro, almeno nei riflessi, sua direzione ultima. Nessuna possibilità se non revanscista di affrontare la contemporaneità in qualsivoglia contesto o da qualsiasi approccio che non sia ideologico muovendo un ragionamento esterno alle ragioni o alle logiche del mercato: senza dialogo con l’economia, ogni economia dello spazio non può che smarrire i propri obiettivi. Allora, dicevamo, la domanda sempre più da porsi è quella che si chiede quale possa essere il ruolo, e dunque il rapporto reciproco, di città e territorio. Perché se entrambi mostrano il passo rispetto ad una società che si muove per loro troppo rapidamente, la città sembra avere, proprio per massa, proprio perché comunque sempre più detiene al proprio interno la maggior parte del capitale umano, e dunque il motore primo di sviluppo, o il più efficiente, maggiori possibilità di traghettare o di farsi traghettare in una fase post-emergenziale. Mentre il territorio, svuotato di ogni senso che non sia molto banalmente quello di luogo-rifugio, di luogo-ricordo, o di luogo-monumento, ha perso ogni dimensione di produttività, dunque di mercato. Perché se è vero che, come ci ricorda Aldo Bonomi (L’impresa rilanci la “missione sociale” come leva di crescita, Il Sole 24 ore, 14 ottobre 2012), quello italiano «è un capitalismo di territorio. Un modello che tenta di trovare soluzioni in grado di coniugare le lunghe derive antropologiche della cultura di impresa legata al territorio con la simultaneità della globalizzazione. Un modello di sviluppo che fin dalla sua genesi ha fondato la sua legittimità sul coniugare sviluppo e mantenimento della coesione sociale nelle comunità locali»; e se, diciamo noi, questo «capitalismo di territorio» deve fare i
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DALL’IMPRESA NEL TERRITORIO AL PAESAGGIO COME IMPRESA
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conti con la realtà di flussi economici che lo intercettano sempre più occasionalmente in situ, oggi si impone sulla scena (della “finanza” dei nostri paesaggi) uno iato fortissimo tra le due realtà. Da una parte una tradizione e un tessuto – economico, sociale, produttivo – con inerzie ancora vischiose; dall’altra un movimento sempre più rapido in attrito con quella stessa tradizione. Una tradizione che comunque, sulla scia olivettiana, si rinforza di singolarità pronte a trainare (Barilla, Technogym, Novamont, Guala Closures, Noberasco, metteva ad esempio in fila – tra le aziende intenzionate a invertire la tendenza alla delocalizzazione – il Corsera Economia di lunedì 15 ottobre 2012 sotto il titolo “L’Italia che crede nell’Italia”), più che di territori che (come soggetti) trainano se stessi. In fondo lo sforzo prima internazionale e ora anche italiano è tutto concentrato sulle Smart Cities: Smart Territories è locuzione probabilmente ancora libera da copyright, probabilmente perché prima di poter pensare di renderli “smart”, i territori andrebbero ricostruiti come entità. Ma dunque se, abbiamo detto, di mercato dobbiamo parlare, questo spread evidente tra città e territorio sembra, così come il suo omologo finanziario, così come ad esempio il differenziale tra i titoli italiani e tedeschi, un problema anzitutto da risolvere (se il nostro vuole essere ancora un capitalismo di territorio); e in secondo luogo un problema che solo un tecnico, solo i tecnici della progettazione, dalla nostra prospettiva, possono risolvere. E qui già un primo punto, che continua questo parallelo che stiamo tracciando, sembra rilevante. È sì vero che solo a tecnici può essere demandata la soluzione, ossia il rientro ad una dimensione meno preoccupante di questo spread? Non è forse il caso di ritornare – come a più voci si chiede alla politica; e come del resto molte delle linee interpretative più avvedute, non certo da oggi, dicono con forza anche per quanto riguarda le discipline del progetto – ad una democraticità che sia anzitutto condivisione delle scelte, ma anche, o forse soprattutto, condivisione delle responsabilità? Non è forse il caso che a gestire questo differenziale, a riportare il territorio ad una sua centralità non siano tanto i tecnici quanto le quotidianità delle popolazioni che lo abita(va)no? Non è dunque il caso anzitutto che il mito della città ceda parte della propria autorevolezza ad una nuova narrazione, quella del territorio? Una centralità non certo fondata sulla sua amenità, ma su una sua rinata o rigenerata capacità di prodursi come attore protagonista.
Non stiamo certo suggerendo scenari di olmiana memoria (“L’albero degli zoccoli” continua ad essere terrifico come sfondo, e lungo è stato il percorso del suo superamento). Ché l’agricoltura, anche se privata di ogni mezzadria, sta piuttosto entrando dentro il corpo vivo della città, e una controtendenza non è prevedibile né auspicabile, date anche le limitate economie che è in grado di sviluppare, utili solo come elementi di tenuta del sistema ambientale. Potrebbe essere, molto semplicemente, che il baricentro, per riequilibrare l’alto spread tra città e territorio, in termini di investimenti, di flussi di popolazione, anche solo immigrata, prenda a spostarsi verso il secondo, fino a costruire un sistema omogeneo in cui la città torni ad essere inclusa entro il concetto di territorio, in cui territorio sia veramente termine in grado di coprire un se stesso esteso all’ambito urbano. Se la tenuta dell’economia in Italia passa – lo si dice ovunque a gran voce – anche o prima di tutto a partire da una permanenza in suolo patrio delle aziende, capaci così di portare con sé, con il proprio sviluppo, quello della società, e in fondo già Olivetti lo aveva ben compreso e messo in atto oltre un cinquantennio fa; e se il nostro è davvero un capitalismo che deve continuare ad essere un «capitalismo di territorio»; non si dovrebbe banalmente puntare in primo luogo ad un ritorno della centralità dei territori, per riassegnarli come polarità parallela a quella delle città nello schema della geografia economica? Certo si tratta di una tendenza che almeno dalla rivoluzione industriale si mostra inarrestabile, quella della concentrazione negli ambiti urbani delle energie. Né i tentativi alternativi più o meno consapevoli come quello di distribuzione in Veneto di imprese, possono essere d’esempio. Ma prima di questo, prima di aprire un fronte certo difficile da concretizzare: è proprio necessario, siano “governi (del territorio) tecnici” o una democratica partecipazione a farlo, che questo spread, questo differenziale tra città e territorio, diminuisca? È preferibile – per il mercato, il mercato dello spazio che gestiamo, tecnici e popolazione – rientrare in una condizione di equilibrio; oppure, recuperando le ambiguità del punto precedente, o forse più scientificamente ricordando quanto ci insegnano gli economisti stessi ma non solo, le condizioni di disequilibrio sono alla lunga maggiormente “produttive”, e l’aumento di entropia un movimento spontaneo troppo difficile (e dispendioso) da affrontare? Forse il persistere di una frattura può essere maggiormente efficiente.
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Forse, una volta prodotto, questo scarto tra le diverse dimensioni, tra le due realtà e tra le loro velocità, questo distacco, questo intervallo tra città e territorio non va ricomposto. Forse l’alto spread tra città e territorio può continuare o persino aumentare senza problemi, anzi piuttosto con profitto. E forse il termine “paesaggio”, lasciato fino a questo punto solo aleggiare tra le righe, è termine capace di intervenire, pur in presenza o proprio in virtù di questa distanza, a ridurre quella tensione ricordata all’inizio, quella tensione che sta sempre più traducendosi come imbarazzo di fronte alla necessità di produrre novità, di produrre innovazione. Forse il passaggio dall’impresa nel territorio, dal capitalismo di territorio, al paesaggio come impresa può essere davvero soluzione della crisi ma soprattutto vera costruzione di una diversa architettura degli spazi del lavoro. Una differente costruzione del modo stesso di intendere gli spazi del lavoro. Non in termini di linguaggio o di struttura logica o fisica, degli oggetti e dei loro rapporti reciproci. Non con una semplice riconfigurazione dell’assetto territoriale nell’ottica di una sua ottimizzazione sempre più modernista, o dell’immagine e della forma degli edifici in quella di una loro riaggiornata espressività o funzionalità. Né, nella nostra locuzione “paesaggio come impresa”, “paesaggio” va certo inteso come territorio vergine, come ambito da vedutista sul quale investire in un’ottica conservativa, o come territorio ancora qualificato da sfruttare come estrema risorsa: “paesaggio” non può essere solo una nuova quinta, né una nuova facciata; ma, come abbiamo detto prima, “paesaggio” va denotato come “spazio dell’immaginario”, spazio ascalare, spazio a-temporale. Quello che semplicemente e finalmente è necessario affrontare è un investimento sullo spazio culturale del sistema città/territorio. Il paesaggio non ha scadenza, è un Perpetual Bond, direbbero gli agenti di cambio; è un concetto che si riferisce a qualcosa che si trasforma: è vero, ha continue oscillazioni, ma queste oscillazioni non costituiscono problema, anzi ne costruiscono il senso e il valore. Nell’economia dello spazio il paesaggio è forse l’unico, ultimo, vero bene-rifugio.
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2 Gustav Metzger, Acid Action Painting, South Bank, London, 1961
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RIGENERARE PAESAGGI IN DECLINO: PROGETTI, RISORSE E STRATEGIE PER TORNARE A CRESCERE. IL CASO DI NAPOLI EST 1
Michelangelo Russo 1 Napoli, Ambito 43 del Prg, ex Magazzini di approvvigionamento ferroviario, veduta degli spazi aperti centrali. Foto: A. Formisano
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Il ruolo del paesaggio nel trattamento delle aree urbane in declino si afferma come criterio guida e come materiale strategico per progetti mirati a recuperare tracce di identità di intere parti di città che hanno perso il loro uso originario, e devono ridefinire il loro ruolo nel contesto urbano e metropolitano. Il recupero del paesaggio nelle politiche di riqualificazione dei territori post-industriali rappresenta una pratica diffusa e sperimentata1: tuttavia l’ipotesi che si vuole qui sostenere è che il paesaggio – come termine ampio e comprensivo che include i significati di landscape e di environment2 – rappresenta un riferimento essenziale per concepire la trasformazione di un’area urbana, in un’accezione sempre site specific, anche quando il contesto non sia connotato da specificità paesaggistiche. Il paesaggio, cioè, configura quei caratteri strutturali della trasformazione urbana, talvolta latenti, che riguardano la storia di un sito e possono essere colti dalla capacità di leggerne le stratificazioni e la provenienza, ma anche di immaginarne il futuro, i suoi assetti potenziali ed il ruolo che l’area, rinnovata, giocherà a partire dalla sua specifica posizione nel sistema delle reti e delle connessioni territoriali. RIGENERAZIONE: UNA PRATICA MULTIDIMENSIONALE ED INCLUSIVA Per argomentare questa ipotesi è utile partire da una duplice considerazione. La prima è che l’uso del paesaggio come materiale di progetto moltiplica le sue valenze in una interpretazione della trasformazione urbana come regeneration piuttosto che renewal. La “rigenerazione del territorio” riguarda un insieme di pratiche connaturate allo sviluppo e alla crescita di una comunità che interviene sulla forma del suo ambiente insediativo, ed è orientata a ridefinire quegli aspetti immateriali che attengono alla forma delle relazioni sociali, agli aspetti culturali ed ambientali della trasformazione urbana. La rigenerazione non coincide solo con la riqualificazione fisica della città, ma riguarda uno spettro molto più ampio di effetti sullo spazio fisico e sociale: la crescita economica e l’offerta di lavoro e di occupazione, la mobilità e la mixité sociale degli abitanti, la produzione di cultura e l’affermazione dell’immagine territoriale, i valori ambientali e della sostenibilità, l’identità territoriale locale nei processi dello sviluppo. Il termine “rigenerazione”3 indica le possibili forme di azione volte ad attivare4 risorse locali, anche in ambito urbano, attraverso processi che legano ine-
vitabilmente le trasformazioni fisiche con la crescita sociale ed economica di un territorio. Si tratta di un modello di intervento sulla città in cui l’integrazione tra gli aspetti sociali, culturali, economici, ambientali, e gli aspetti fisici e quantitativi dello spazio urbano, misura l’efficacia di una politica o di un progetto, rendendo il concetto di rigenerazione dinamico e legato alla capacità di elaborazione di una vision strategica come idea guida e percorso metodologico per trasformare la città. La seconda considerazione riguarda il tema della crescita, nelle condizioni attuali. Il territorio, la sua trasformazione, la realizzazione di nuove infrastrutture e di azioni più complessive di riconversione urbana, rappresenta il settore d’intervento trainante a cui, nei periodi storici di crisi più profonda, le economie nazionali hanno fatto ricorso per far fronte al declino economico e produttivo: cioè per “tornare a crescere”. Nei periodi più difficili di recessione e di crisi economica e sociale si è tradizionalmente fatto ricorso a politiche espansive del territorio, attraverso la costruzione di grandi opere, come avvenne nelle politiche keynesiane del new deal successive alla grande depressione del ‘29, o nella ricostruzione post-bellica in Italia, in cui l’industria delle costruzioni ha trainato lo sviluppo economico e sociale degli anni ‘50 e ‘60. Oggi ci sono segnali, alla scala nazionale come a quella sovranazionale, di una ripresa di attenzione per le politiche territoriali, mirate alla sua trasformazione e al suo sviluppo5. In quei precedenti, il territorio è stato tradizionalmente oggetto di un’attenzione legata prevalentemente ad una dimensione quantitativa dello sviluppo: questo approccio, poco sensibile ai valori del patrimonio territoriale come “bene comune”, ha condotto alla depauperazione dei suoi caratteri ambientali, storici, paesaggistici, insediativi, come ad esempio nel boom edilizio in Italia degli anni ‘60. Questi due aspetti, la trasformazione territoriale in chiave di rigenerazione e l’esigenza di tornare a crescere con modalità sostenibili e progressive per i valori del territorio, sono lo sfondo per affermare l’attualità di una concezione del paesaggio come principio guida, struttura del progetto contemporaneo. Il territorio contemporaneo non ha la resilienza per sopportare gli errori del passato. La città contemporanea mostra sempre più l’urgenza di occuparsi degli spazi-residuo delle civiltà industriali e fordiste, e delle politiche settoriali che hanno disgregato l’unità tipologica e funzionale generando gli spazi disarticolati delle città che viviamo. È un territorio che ha biso-
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gno di cura, di interventi e di politiche di rigenerazione, nel quadro dei principi più generali di continuità ecologica e del trasferimento dei valori alle generazioni future. Il territorio, la città, gli spazi pubblici sono attraversati da un degrado fisico che si accompagna a marginalità e segregazione sociale, a fenomeni di dismissione e di abbandono di intere porzioni di territorio, dovute anche alla dismissione industriale, come esito dei processi globali di ritrazione funzionale e di contrazione delle grandi aree urbane (fenomeni di shrinkage6 della città). Investire nel territorio per uscire dalla crisi può costituire un’occasione per affermare una nuova centralità delle discipline del progetto urbanistico, e per ridisegnare valori e riferimenti tecnici e culturali alla base della sua azione; ma, in particolare, è l’occasione per pensare nuove politiche urbane che riescano a rilanciare, attorno all’idea di rigenerazione, i temi dell’abitabilità e della sostenibilità: nessun consumo di suolo, arresto della dispersione insediativa, razionalizzazione e integrazione dei sistemi a rete, forme di mobilità integrate, attenzione ad una nuova ecologia del progetto della città e delle sue strutture, che vuol dire sensibilità per il suolo, per gli effetti dei cambiamenti climatici, per i temi dell’acqua e dei suoi regimi, dell’energia, del riciclo, e così via. Temi che reclamano non solo un nuovo modo di pensare al progetto, ma anche nuove forme di elaborazione politica e nuove formule di governance dei processi territoriali. Tornare a crescere vuol dire produrre nuove condizioni di sviluppo, creare economia e occupazione attorno a strategie virtuose di trasformazione dell’habitat, rinnovare forme di welfare, con effetti di riqualificazione dello spazio urbano e di interconnessione con il territorio e con l’ambiente per favorire l’integrazione degli assetti territoriali. Crescere non vuol dire necessariamente incremento esponenziale dei bisogni7 e avvio del circolo virtuoso consumo-produzione, ma capacità di ripensare un’ecologia della città in grado di interessare e modificare culture e stili di vita delle comunità urbane. Ciò implica la necessità di ampliare la gamma dei materiali del progetto (infrastrutture, ambiente, verde, paesaggio), di migliorare gli assetti insediativi della “città senza luoghi” per dare senso ai frammenti e agli scarti delle città, delle parti che progressivamente perdono ruolo e funzione. Richiede riferimenti cognitivi e tecnici da offrire ai paradigmi del riciclo8, del recupero materiale e simbolico dell’edilizia esistente, dei quartieri, di intere parti di città, ma anche dei paesaggi abban-
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2 Vista esterna dei capannoni dismessi. Foto: A. Formisano
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donati, degli spazi interclusi, dei brownfields, dei drosscapes, intesi come luoghi che generano una prospettiva che incide sulle decisioni pubbliche oltre che sulla forma dei progetti e dei piani. PAESAGGI DELLE AREE DISMESSE: UNA NUOVA GENERAZIONE DI IDEE Il tema delle aree dismesse rappresenta un topos del dibattito disciplinare9 che, a partire dai primi anni ’80, si è incentrato sulle opportunità offerte dalla progressiva ritrazione delle funzioni produttive, nelle grandi aree industriali consolidate nel Novecento (secondo il modello della fabbrica fordista). Le occasioni e i contesti che oggi rilanciano i temi volti al rinnovo della città a partire dalla dismissione pongono nuove questioni e richiedono di innovare i modi di analizzare i fenomeni, il ruolo dei soggetti attuatori e delle amministrazioni, i principi e le forme del progetto. La dismissione non riguarda più e solo la grande industria: è un fenomeno più complesso che vede la città attraversata da flussi e cambiamenti che investono parti discrete e differenti del territorio. Alla macroscala i fenomeni di shrinkage producono obsolescenza di intere parti di città, residenziali e terziarie, commerciali e produttive. Altre funzioni costellano il territorio di vuoti da riempire di un nuovo senso progettuale: aree militari, infrastrutture lineari, mall e centri per la grande distribuzione; ma anche aree agricole, paesaggi dello scarto e spazi di risulta nelle aree urbane più dense. Esiste una dimensione concettuale del paesaggio, nel tema del recupero delle aree dismesse, non retorica. Un’idea, cioè, la cui validità non è legata esclusivamente ai casi in cui il paesaggio è la memoria di un sito10 come nel caso di produzioni che sfruttano le risorse ambientali, ad esempio nelle aree minerarie11. L’idea di paesaggio vale ad individuare la specificità del rapporto tra produzione e territorio, nel definire la dismissione12 come figura di una nuova identità. Il paesaggio è un approccio complessivo al progetto, arricchito dalla possibilità di usare i suoi materiali per un’idea di città dove la forma non sia definita solo dallo spazio, ma da nuove relazioni ecologiche, a diverse scale e con diverse componenti, e da nuove connessioni con le reti. L’area dismessa non può essere altresì trattata come oggetto: è un’area di potenziale reinserimento ecologico, attraverso strategie di valorizzazione di risorse esistenti, non ultima la
memoria materiale dell’architettura. Le risorse sono il suolo e la sua stratigrafia; il sistema idrografico e le acque di falda; l’agricoltura, la vegetazione e le relazioni ecologiche; gli spazi di relazione con la città. Sono risorse che richiedono (e orientano) azioni specifiche: le tecniche di bonifica e di compatibilizzazione con le funzioni previste; la ridefinizione delle regole ecologiche; la conservazione degli ecosistemi, come la permeabilità dei suoli, la raccolta delle acque e il drenaggio urbano; la conservazione delle emergenze vegetazionali; l’attenzione ai “nuclei” di alta valenza ecologica. Le aree dismesse non sono neutrali: per storia e geografia possono assumere un profondo valore paesaggistico, avendo forte influenza sulle funzioni ecologiche e dunque sociali13 del paesaggio complessivo. La loro importanza consiste nell’occasione che offrono di ricostituire qualità ecologiche (legate anche, ad esempio, alla presenza della fauna) in connessione con il sistema di spazi aperti e delle aree verdi, secondo quei principi della landscape ecology che suggeriscono la più ampia ed eterogenea interconnessione tra reti e habitat, e la cura degli “ambiti omogenei”14, come unità di base del paesaggio, che facilitano appunto tali interazioni. I siti dismessi, i browonfields in contesto urbano e periurbano, rappresentano spesso ambiti in fase di cambiamento che moltiplicano queste potenzialità15. Il paesaggio dunque non è da considerarsi solo come un riferimento culturale nel progetto: la sua rivitalizzazione e il suo sviluppo diventano valore aggiunto di politiche che contribuiscono al rilancio dell’economia del territorio. L’idea dei “multifunctional landscape”16, ad esempio, richiama quella dimensione economica legata all’utilizzabilità di un paesaggio derivante dalla sua attrattività e dalle sue potenzialità d’uso. Così le aree abbandonate, in una logica di ridisegno delle matrici paesaggistiche e ambientali ma anche di costruzione di spazio pubblico, consentono di ridefinire la morfologia e la valenza paesistica dei siti17 e di “fare sistema” tra gli obiettivi promuovendo la sostenibilità, migliorando la compatibilità con le funzioni e riducendo gli impatti sull’ambiente, favorendo la crescita economica e la creazione di una molteplicità di funzioni attrattive, oltre che di occasioni di inclusione sociale, migliorando così la qualità della vita. IL PAESAGGIO DI NAPOLI EST: UNA RETE LATENTE Napoli Est, una grande area produttiva in declino, rappresen-
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ta il caso emblematico di come una visione urbanistica - ad oggi sfocata - costituisca il motore senza il quale non esiste sviluppo. E questo appare tanto più grave in quanto il destino di quest’area è profondamente legato al futuro della più grande città ed area metropolitana del Mezzogiorno d’Italia. Napoli si è rivolta a est per orientare i processi di crescita industriale fin dai primi anni del ‘900: a est infatti, a partire dalla fine degli anni ’20, assecondato (e incentivato) dalla pianificazione urbanistica, si è sviluppato un intenso tessuto di aree per la produzione industriale, definita e disegnata nel quadro di una strategia territoriale di ampia scala ideata da Luigi Piccinato con il suo piano regolatore degli anni ’30, e sostenuta dai disegni territoriali di Luigi Cosenza, di cui è realizzato solo il frammento del piano della Marittima degli anni ’40. Il tessuto industriale si è espanso fino a comprimere tutti gli spazi liberi a ridosso dei confini comunali, interrompendo le reti di continuità urbana, paesaggistica, ambientale che caratterizzano questo territorio, fatte salve le reti infrastrutturali che sono i corridoi di ingresso alla città, all’area industriale e al porto commerciale di Napoli. Attualmente nell’area est di Napoli la prospettiva produttiva è ormai in profondo declino – anche per la concorrenza delle aree industriali cresciute negli ultimi decenni nella corona urbana esterna, più accessibili sia dal punto di vista della mobilità che dei costi insediativi – e lo spazio urbano è un coacervo di degrado, marginalità dei luoghi, delle funzioni, delle condizioni generali di abitabilità. Un territorio intercluso, separato e frammentato dall’attraversamento delle infrastrutture, dagli impenetrabili recinti industriali che si alternano a spazi della dismissione e dell’abbandono, in adiacenza ai grandi quartieri di edilizia popolare carenti nel trasporto collettivo, nelle attrezzature pubbliche, nel verde urbano, nelle attrezzature per il tempo libero. Napoli Est è uno spazio emblematico delle patologie urbane della contemporaneità: ma è anche uno spazio fortemente potenziale. La sua riqualificazione è il caposaldo di una nuova idea di città, innovativa per il futuro di Napoli; è un’area in cui risulta possibile una profonda rigenerazione urbanistica con la radicale conversione delle funzioni d’uso, con la bonifica dei siti e dei suoli, con il recupero di quei caratteri ambientali che potrebbero recuperare una straordinaria identità anche dal punto di vista ecologico, in relazione al regime delle acque, al ripristino di usi agricoli degli spazi interstiziali, alle connessio-
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3 Vista interna dei capannoni dismessi. Foto: A. Formisano
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ni reticolari con il sistema dei terreni e dei paesaggi agrari, a scala urbana e metropolitana. È un ambito urbano di cui si può pensare una profonda rigenerazione: che non riguarda solo la dimensione fisica, ma anche quella sociale della civitas, interpretando e assecondando alcuni fenomeni in atto, ripensando il sistema delle relazioni con la città, rifondando i principi di una sua “abitabilità”. Napoli Est è regolata da uno strumento urbanistico che, approvato nel 2004, prevede per quest’area una trasformazione graduale delle strutture produttive, attraverso l’immissione di aree miste costituite da nuova residenza, legando maggiormente la produzione al commercio e al terziario. L’emergente domanda di città abitabile e il declino della produzione industriale in quest’area sono elementi che emergono con chiarezza dagli orientamenti attuali della pianificazione e del mercato: alcuni piani attuativi in itinere affermano nuove logiche insediative che privilegiano insediamenti integrati con una forte componente residenziale e con una impostazione strutturalmente ecologica. Tre progetti paradigmatici nell’area orientale di Napoli affermano queste istanze: il progetto per l’ambito 13 (ex raffinerie, in parziale dismissione)18 di Carlo Gasparrini, incentrato sul tema del disegno di suolo, del parco e dell’agricoltura; il progetto della Manifattura Tabacchi di M. Cucinella e Land (A. Kipar), fortemente tematizzato sul disegno dello spazio pubblico, e delle public amenities; e il progetto dell’ambito 43, di Uap Studio, per un’area ferroviaria dismessa a ridosso della città consolidata, che ridefinisce i principi insediativi del quartiere utilizzando le sue valenze di “fossile urbano”.
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L’AMBITO 43: UNA NICCHIA ECOLOGICA COME OCCASIONE DI NUOVA POROSITÀ Attraverso l’analisi di questo progetto è possibile verificare la tesi di partenza di questo scritto, e cioè che seguendo le tracce e i percorsi di una rigenerazione in grado di partire dal paesaggio sia possibile creare trasformazione e sviluppo facendo leva non solo sulle preesistenze ma anche sulle relazioni tra l’area di progetto e la città. L’area misura 25 ettari circa e interessa un sito utilizzato come Magazzini Ferroviari, un tempo di proprietà delle Ferrovie dello Stato, realizzato nei primi anni del ‘900 come deposito destinato alla manutenzione dei treni che provenivano in quest’area dalla Stazione Centrale di Napoli. Il sedime attuale è stato ricavato dallo sbancamento di
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4 Vista interna dei capannoni dismessi. Foto: A. Formisano
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una collina tufacea, di cui permane una formazione che fa da quinta ai capannoni disposti linearmente per accogliere i treni. Una sequenza significativa di edifici degli anni ’20 in muratura di tufo e intonaco, con capriate metalliche, abbandonati ormai da più di trent’anni, costituisce un micro tessuto urbano attualmente invaso da una vegetazione che – proprio a partire dalla collina – fa di questo sito un frammento di terzo paesaggio19. Quest’area è un fossile urbano: sui margini si sono addensati frammenti di edilizia moderna, spesso in abbandono, edifici multipiano, recinti industriali, piazzali abbandonati o usati come spazi di deposito. In questa nicchia, un vuoto nella compatta densità edilizia, esistono numerosi e ricchissimi valori di paesaggio e di patrimonio storico; ma anche potenziali valori relazionali con il contesto, consistenti in ambiti di permeabilità verso porzioni di tessuto urbano che deperiscono nel loro isolamento. La città è alcuni metri più in alto: il salto di quota definito dalla collina rappresenta la barriera naturale del recinto che ha contribuito a preservarne l’integrità; in alto, la via Nazionale delle Puglie, asse storico che esce dalla città da est, costituisce una strada su cui si sono addensati tessuti edilizi scomposti, capannoni produttivi e commerciali, rotatorie e rampe di immissione autostradale, quartieri di edilizia pubblica. Per quest’area esiste un PUA (Piano Urbanistico Attuativo), già approvato nel 2011, per la realizzazione di un distretto produttivo e di una piastra commerciale: per densità volumetrica, per superficie coperta, e per impatto delle infrastrutture sul suolo, il PUA vigente comporta la completa rimozione dei valori del sito, trattando le preesistenze paesaggistiche e architettoniche come una tabula rasa. La variante urbanistica ridefinisce sostanzialmente il mix funzionale dell’area, ma anche il ruolo urbano e le relazioni con il contesto, recuperando la collina, il parco e le preesistenze ambientali, le strutture e la legacy architettonica dei capannoni. È un progetto che nasce da un’istanza economica: la produzione industriale prevista dal piano precedente non è sostenibile per gli elevati costi insediativi. Pertanto si determina l’interessantissima condizione che vede la nuova prospettiva ecologico paesaggistica come traino economico della trasformazione dell’area: il mix di residenza, commercio e terziario, la valorizzazione delle relazioni con i residui di paesaggio esistenti nell’area, la migliore accessibilità dalla città divengono il volano economico che ne rende la realizzabilità appetibile sul mercato.
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5 Uap Studio, Studi per il Masterplan dell’ambito 43 6 Concept: ecological landscape, infrastructural landscape, open spaces landscape
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Il progetto prevede di conservare e valorizzare alcune risorse che sono sembrate strategiche per affermare l’identità dei luoghi: la conservazione di parte delle architetture novecentesche e dei residui di paesaggio sono i principi di relazione del nuovo quartiere con la rete di spazi agricoli circostanti e con un sistema idrografico ricco e complesso come quello del bacino del Sebeto. La natura funzionale dell’intervento riconfigura le componenti del sito: la parte commerciale utilizza i vecchi capannoni trasformando la tipologia della grande piastra artificiale e termoregolata (come un mall dell’Ikea) in un’idea di micro città, con strade, giardini e orti. I parcheggi sono organizzati in un “suolo artificiale” che rappresenta la parziale riconfigurazione della topografia della collina per accogliere i parcheggi ipogei e per rafforzare la continuità dei parterre verdi. Le case sono nel parco, in rapporto con l’acqua e gli spazi aperti pubblici e accessibili: l’area residenziale, incentrata sullo studio della tipologia a blocco, è disegnata sull’idea di un cluster di edifici intorno a piccole corti aperte (urban villas) che rappresentano lo spazio di mediazione con le aree verdi del parco. Tutte le funzioni sono collegate tra loro attraverso boulevard e piste ciclabili trasversali che rendono le diverse parti del quartiere continue e polarizzate intorno alla presenza delle piazze e dello spazio pubblico aperto. Questa trama di relazioni poggia su due criteri-sfondo che sorreggono il sistema: accessibilità e continuità ecologica. Infatti, il quartiere da una parte rappresenta una strada che viene riaperta alla città: da Via Nazionale delle Puglie, attraverso un sistema meccanico si supera il salto di quota e si arriva allo spazio tra gli antichi capannoni che si configura come asse urbano multifunzionale e attrattivo, che porta in pochi minuti alla stazione ferroviaria della Metropolitana Regionale. Inoltre la logica attuativa del piano è improntata alla cessione di significative di quote di ERS (Edilizia Residenziale Sociale) alla pubblica amministrazione, delineando quindi un progetto di inclusione e di integrazione sociale, oltre che di riqualificazione funzionale e ambientale. Il parco individua e preserva le patches attualmente presenti, attraverso un lavoro minuto di recupero della vegetazione e delle acque con la prefigurazione di un sistema di drenaggio per recuperare e riutilizzare le risorse idriche raccolte in va-
sche che divengono il cuore del parco. Il progetto garantisce che gli effetti del recupero di quest’area vadano molto oltre i suoi confini proprietari: attraverso una rigenerazione orientata alla riconnessione di parti di città storicamente separate, ma anche con una strategia di ricucitura tra la città e la natura che interessa le diverse scale del progetto. Questo esempio di rigenerazione urbana attraverso i materiali del paesaggio è promosso e sostenuto dal settore privato, dove la landscape ecology è un riferimento per il progetto, visibile nella forma dell’insediamento ma anche in alcune scelte come quella della presenza dell’agricoltura integrata nel parco. L’agricoltura, gli orti e i giardini attraversano la rigida organizzazione delle strutture commerciali con finalità divulgative e con il tema della filiera corta e rappresentano un dispositivo comunicativo, oltre che commerciale, ma più in generale un principio che conferisce forma e carattere allo spazio e al complessivo intervento di trasformazione. CONCLUSIONI Il territorio e la città, la loro trasformazione e il loro progetto, appaiono sempre più un potenziale motore della crescita, campo di opportunità e di occasioni per uscire dalla crisi. La rigenerazione urbana, come strategia dinamica di natura territoriale, sociale, culturale e ambientale, è volta alla valorizzazione - oltre che alla conservazione - del capitale territoriale, costituendo un programma dove il progetto urbanistico gioca un ruolo centrale. Il paesaggio costituisce un “mezzo continuo di scambio” tra il milieu territoriale e i suoi aspetti visibili radicati nella “soggettività collettiva”, e rappresenta – per il progetto urbanistico – un riferimento essenziale20 di materiali, criteri, valori e tecniche in grado di ridefinire le relazioni tra spazio e società. In particolare nelle aree dove tali relazioni si sono dissolte, come negli spazi residuali dei territori in declino, nelle aree dismesse e abbandonate, scarto dei fenomeni contemporanei di mutazione urbana. Insediamenti, infrastrutture, paesaggi, spazi aperti pubblici, nella loro integrazione, possono considerarsi come componenti strutturali di una nuova idea di città abitabile, per rilanciare la qualità della vita oltre che della spesa pubblica, a condizione che i principi dell’ecologia del paesaggio siano considerati fondativi di una vision di futuro, come riferimento costante del progetto.
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La rigenerazione del territorio, privilegiando i temi del riuso e del riciclo nel quadro dei valori del paesaggio, delinea i principi di una nuova crescita sensibile alle risorse locali, in grado di determinare una equilibrata relazione tra sviluppo economico e valorizzazione di quel patrimonio comune fatto di connessioni tra città ed ecosistema. L’urbanistica può fare da snodo di questo processo: come contenuto ma anche come percorso attuativo di una politica che veda il paesaggio – nei suoi molteplici significati – come elemento di radicamento ai contesti oltre che come potenziale e innovativo fattore di sviluppo.
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1 Un esempio paradigmatico è il recupero della regione mineraria della Ruhr, un progetto che si è affermato come pratica di riferimento dagli anni ’90 in poi. 2 James Corner nel definire «the landscape idea» ne sottolinea gli aspetti di innovazione legati al costruito; riferibile cioè alle valenze complementari di spatial milieu, le caratteristiche di un luogo plasmate dal rapporto tra spazio e società, e cultural image. J. Corner (editor), Recovering landscape. Essays in contemporary Landscape Architecture, Princeton Architectural Press, 1999. 3 Nel campo delle politiche, in particolare quelle culturali, la nozione di rigenerazione viene accuratamente distinta da quella del rinnovo (regeneration Vs. renewal, revitalisation) per gli aspetti multidimensionali che il termine implica: economico, culturale, sociale, ambientale. La rigenerazione interessa territori in declino, in termini sociali ed economici, e i suoi effetti riguardano naturalmente anche la forma dello spazio urbano. La rigenerazione è intesa obiettivo complesso di strategie in grado di portare “nuova vitalità” in comunità in difficoltà che hanno necessità di un miglioramento delle condizioni economiche e sociali, ma anche ambientali. Evans, G.L. and Shaw, P. (2004), A Review of Evidence on the Role of Culture in Regeneration, Department for Culture Media and Sport 2004; Evans, G.L. (2010), Cities of Culture and the Regeneration Game, Journal of Policy Research in Tourism, Leisure & Events. (Special ‘European Capital of Culture’ Issue). 4 P. Casavola, C. Trigilia (a cura di), Fondazione Res, La nuova occasione. Città e valorizzazione delle risorse locali, Donzelli 2012. 5 Dall’Agenda Urbana incentrata sulle politiche del “piano città” per riqualificare le aree urbane degradate, dalle smart cities, dai “piani grandi opere” e dalla costruzione delle città metropolitane, sostenuti dall’attuale Governo in Italia, fino ai programmi innovativi in ambito comunitario europeo per la ricerca e l’innovazione improntati sulle questioni territoriali del trasporto, dei cambiamenti climatici, dell’energia e della sicurezza urbana, come in Horizon 2020. 6 Oltre alla più consolidata letteratura sull’argomento (il cui esempio più interessante è Atlas of Shrinking City, esito di un intenso lavoro di ricerca elaborato in un progetto triennale che, a partire dal 2002, è stato finanziato e condotto dalla German Federal Cultural Foundation e diretto da Philipp Oswalt), si fa qui riferimento agli studi contenuti nella ricerca, AA.VV. The Future of Shrinking Cities - Problems, Patterns and Strate-
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gies of Urban Transformation in a Global Context, Center for Global Metropolitan Studies, Institute of Urban and Regional Development and the Shrinking Cities International Research Network, UC Berkley, February 2007. 7 «Anche se la popolazione si riducesse considerevolmente, la crescita infinita dei bisogni comporterebbe un’impronta ecologica eccessiva. L’Italia è un buon esempio di questa situazione paradossale. La popolazione diminuisce, ma l’impronta ecologica, la produzione, il consumo, la distruzione della natura e dei paesaggi, l’erosione del territorio da parte delle costruzioni, la cementificazione, non smettono di crescere». S. Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri 2012 (pag. 104). 8 M. Ricci, Nuovi paradigmi: ridurre riusare riciclare la città, in P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa 2011 (pag. 64-77). 9 M. Russo, Aree dismesse. Forma e risorsa della città esistente, Esi 1998. 10 L. Coccia, M. D'Annuntiis, Paesaggi postindustriali, Quodlibet 2008. 11 L. Stanganini, Nuovi paesaggi per le aree minerarie dimesse. Il caso della Lusazia Inferiore (Germania orientale), in «Rivista Geografica Italiana», 3/2009, p. 515-516; e Dal paesaggio della dismissione alla ridefinizione di nuovi paesaggi: il caso della Lusazia Inferiore (Germania Orientale), in L’Universo (in corso di pubblicazione). 12 «I paesaggi della dismissione sono noti. La loro presenza è diffusa e costante. La dismissione coinvolge tutti i settori, da quello industriale, ai servizi, all’agricoltura». «La loro conoscenza, interpretazione, classificazione, offre uno straordinario campo di ricerca progettuale». «Le aree di dismissione rappresentano una riserva per il futuro». R. Pavia, Babele. La città della dispersione, Meltemi 2002. 13 R. Lafortezza, G. Sanesi, B. Pace, R. C. Corry, R. D. Brown, Planning for the rehabilitation of brownfield sites: a landscape ecological perspective, in A. Donati, C. Rossi, A. Brebbia, Brownfield sites II, WIT Press 2004. 14 Nel lessico della landscape ecology tali ambiti sono definiti come patches, che hanno un valore relazionale nell’immagine dei mosaic. Forman R.T.T., Land Mosaics: The Ecology of Landscapes and Regions, Cambridge University Press 1995. 15 R. Lafortezza et al., op. cit. 16 T. Panagopoulos, From Industrial to postindustrial landscapes – brownfield regeneration in shrinking cities, Proceedings of the 2nd WSEAS International Conference of Urban Planning and
Transportation, 2009; S. T.Lovell, M. J. Douglas, Creating multifunctional landscapes: how can the field of ecology inform the design of the landscape?, «Frontiers in Ecology and Environment», Vol. 7, No. 4, 2009. 17 Esempi noti e di grande interesse sono i progetti di siti dismessi e inquinati che vengono trasformati in parchi urbani e amenities per il tempo libero come nei casi del Parco di Fresh Kills di J. Corner, o degli interventi per il Landschaftspark Duisburg Nord (Latz+Partner) per l’Emscher Valley of Germany nel bacino della Ruhr, Downsview Park a Toronto di OMA/Bruce Mau Studio, o del Park Tejo-Trancão realizzato per l’Expo 98 a Lisbona. 18 Un’ampia descrizione del progetto e della sua impostazione anche in relazione ai temi progettuali che Carlo Gasparrini sviluppa nella sua ricerca progettuale sono in A. Franceschini, Studio Gasparrini, Interview e Zone 13 (“ex-Refinery”), «Monograph.it» n.2/2010, (pag. 194-207). Inoltre, C. Gasparrini, Riciclo. Bonifica e progetto di suolo nell’area orientale di Napoli, in R. Lucci, M. Russo (a cura di), Napoli verso Oriente, Clean Edizioni (in corso di stampa). 19 G. Clément, Manifeste du Tiers paysage, editions Sujet/Objet, 2004 (trad. it. G. Clément, Manifesto del Terzo Paesaggio, Quodlibet 2005) 20 «Il landscape urbanism ha fatto emergere nuove visioni che ci consentono di riformulare i quadri cognitivi sull’esistente e di tematizzare in modo innovativo le strategie della pianificazione e della progettazione urbana» verso la costruzione di «assemblaggi relazionali virtualmente aperti». A. Clementi riflette sugli apporti che la nozione di landscape in chiave di progetto urbanistico apporta alla cultura e alle nozioni tradizionali di paesaggio, ambiente e urbanistica, nel saggio Landscape Sensitive Urbanism. Prove di innovazione, in Eco-Logics. Progetto ed Ecologia, «PPC» n.25/26, 2012 (pag. 120-131).
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RELOAD: RIATTIVARE IL CAPITALE TERRITORIALE PER RE-IMMAGINARE LO SVILUPPO 1
Maurizio Carta 1 Nantes, il Quartier de la Création
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NUOVI PARADIGMI PER L’AGENDA URBANA EUROPEA Il ritorno della priorità urbana al centro dell’agenda europea costituisce l'occasione per ridefinire i profili di competitività, di sostenibilità e di coesione delle nazioni travolte dallo tsunami della crisi. Il fallimento dei protocolli finanziari dello sviluppo sollecita la necessità di “re-immaginare il capitalismo” non solo verso una dimensione più democratica che muti priorità, regole e valori, ma soprattutto verso una maggiore "territorializzazione", verso un ritorno a politiche di sviluppo fondate sui capitali territoriali, prime fra tutti le città. La popolazione mondiale, infatti, ha progressivamente modificato le sue scelte insediative, diventando sempre più urbana: siamo entrati nella Urban Age caratterizzata da città come centri pulsanti di un sistema globale, nodi di un’armatura di comunità che si riconosce sempre più nel vivere, nel fare e nell’appartenere urbano. La prevalenza insediativa della città ne aumenta la responsabilità, assegnandole sempre più il ruolo di growth machine, motore dell’evoluzione e del dinamismo delle comunità, innovatrice di stili di vita. L’interazione esplosiva tra aumento dell’impronta urbana sul pianeta e crisi di un modello finanziario di sviluppo, tuttavia, ci impone di rivedere i paradigmi che guidano le politiche urbane non più in termini esclusivi di crescita, accumulo e consumo, ma programmando e regolando anche la decrescita e il riuso. La città espansiva tendeva infatti ad incorporare le aree marginali nell'organismo della città, adottando misure per regolamentare la marginalità (introduzione di servizi pubblici, strade, social housing, ecc.) che spesso hanno contribuito ad aggravare il problema, incentivando l’effetto attrattore e il consumo di risorse (prima fra tutte il suolo). La città che si ricompatta (Shrinking City), invece, richiede che le nuove morfologie insediative siano individuate attraverso uno sforzo creativo di interpretazione delle identità e delle risorse, di integrazione delle azioni e di riconfigurazione degli spazi liberati dal processo di riduzione, producendo tessuti urbani più “relisienti”, "addattativi" e "fluidi" (Coyle S.J., 2011). E pertanto chiede di essere progettata e regolata con nuovi strumenti di pianificazione e progettazione. Nell’attuale situazione di crisi – ormai non più solo finanziaria – con il Pil mondiale in calo e con il ripensamento dei modelli di sviluppo e dei profili di welfare, anche la città soffre di crescenti spinte antiurbane che ne frammentano la configurazione e ne dissipano l’energia, indebolendone il ruolo (Boeri,
2011). Anche i poderosi flussi di capitali finanziari, sociali e relazionali che hanno alimentato la rigenerazione urbana nell’ultimo quindicennio non sono più disponibili ad essere intercettati in maniera indiscriminata. La rigenerazione delle città non è più facile mercato delle plusvalenze finanziarie delle multinazionali o dei fondi sovrani, ma la rigenerazione urbana dovrà essere motore di sviluppo sostenibile, offrendo preziose occasioni di sviluppo non solo quantitativo, ma sempre più qualitativo, producendo effetti sia nel dominio dei beni collettivi che nel dominio dei capitali privati, garantendo un campo di sperimentazione all’innovazione. Le città più dinamiche del futuro prossimo, tuttavia, non saranno solo le megalopoli capaci di attrarre iconici progetti urbani alimentati dal mercato immobiliare e “decorati” dalla cultura, ma saranno quelle città medie detentrici di reali risorse culturali ed identitarie e capaci di metterle a base non solo della creazione di nuova cultura, ma soprattutto della generazione di nuovi valori urbani. Il recente rapporto del McKinsey Global Institute (2011) sulle City 600 – le città mondiali che più contribuiscono alla crescita del Pil globale, ospitando un quinto della popolazione e generando il 60% dell’economia – mostra l’emergere di numerose città del Sud e dell’Est (nel 2025 entreranno 136 nuove città di cui 100 cinesi), ma soprattutto le 23 megalopoli produrranno solo il 10% della crescita globale, mentre il 50% della propulsione sarà prodotto dalle 577 middlecities, le piccole capitali globali che si alimentano della loro cultura e creatività. Il secolo urbano quindi non è abitato solo dalle hypercities, ma è animato da metropoli intermedie, da conurbazioni diffuse e da reti di mesopoli. Soprattutto in Europa, all’armatura delle “città globali” si sta affiancando quella delle città di secondo livello produttrici di visioni alternative – qualitativamente fondate e culturalmente alimentate – rispetto alle patologie delle megalopoli. Le città medie nell’ultimo decennio hanno puntato sulla creatività come risorsa attrattrice di poderosi flussi di “classe creativa” che le hanno attraversate e ne hanno alimentato la rigenerazione e la competitività (Florida, 2005). Tuttavia, esaurita la prima fase in cui il dinamismo si identificava con la presenza della classe creativa – con un fin troppo facile sillogismo – oggi appare necessaria un’evoluzione verso i fattori che permettono alla creatività urbana di diventare alimentatrice di un nuovo “patto sociale”, generatrice di nuove economie e creatrice di un nuovo modello di sviluppo (Carta, 2007).
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Al ripensamento del modello di sviluppo non può non corrispondere un new deal per l’urbanistica, un rinnovamento dei suoi protocolli e dei suoi strumenti, per tornare ad essere “essenziale” allo sviluppo piuttosto che ancillare rispetto all’economia o alla gestione delle emergenze. Abbiamo vissuto da tossicodipendenti entro uno sviluppo “dopato” dalla finanza globale e dalla spesa pubblica che hanno nascosto le vere capacità dei territori, erodendo risorse e riducendo opportunità. La modificazione dei cromosomi dello sviluppo può sperimentare nuove “catene di valore” che riconnettano il capitale territoriale delle qualità, il capitale culturale delle identità, il capitale umano delle capacità, il capitale sociale delle comunità, il capitale produttivo delle competitività e il capitale finanziario delle fiscalità. Ma è soprattutto nell’arena delle città che va svolta la battaglia: ripensando la loro funzione di motrici della coesione territoriale, aggregatrici di intelligenze, catalizzatrici di risorse e milieux innovateurs. Oggi i paradigmi urbani richiedono un salto evolutivo: la sostenibilità ecologica, la creatività urbana e la smartness devono concorrere a forgiare nuovi strumenti operativi perché siano in grado di produrre effetti qualitativi, moltiplicativi e rigenerativi sullo sviluppo delle città. La “creatività urbana”, in particolare, non può essere solo una categoria interpretativa degli economisti e dei sociologi (la prima generazione), o una retorica del progetto urbano (la seconda generazione), ma chiama all’azione i decisori e chiede un vigoroso impegno politico e progettuale (la terza generazione). Sulla capacità della Città Creativa 3.0 di affrontare il global change politico, economico e sociale si misurerà lo sviluppo delle nazioni e il benessere delle comunità, poiché secondo il Better Life Index dell’Oecd (2011), nei prossimi 20 anni i settori dominanti dell’economia non saranno le automobili, le navi o l’acciaio, ma l’industria creativa. Nella città creativa di terza generazione i fattori competitivi e di generazione di valore sono la Cultura capace di attivare le risorse sia identitarie che innovative, la Comunicazione come potente strumento strategico e la Cooperazione in grado di stimolare la comunità ad un processo di corresponsabilizzazione (Carta, 2009). In tale scenario di città fondate sull’armatura culturale e capaci di interpretare le dinamiche del mutamento, diventa necessario soprattutto riconoscere il ruolo degli “agenti di creatività” nel loro sviluppo, e della stessa creatività urbana come fattore primario dell’evoluzione delle comunità e dello svilup-
po economico. La città deve tornare a “generare valore” a partire dai propri capitali territoriali, culturali, sociali e relazionali, riattivando il rapporto tra creatività e capitalismo manifatturiero (Bonomi, 2010). LA CREATIVITÀ COME PROGETTO Nella Zero Budget Age, caratterizzata dall’assenza di risorse pubbliche per investimenti e per politiche di stimolo, lo scenario che si prospetta davanti alle amministrazioni richiede la forte consapevolezza della necessità di intraprendere politiche “creative” contro il declino e comunque legate allo sviluppo in un contesto di innovazione dei processi decisionali, di valutazione permanente degli effetti, di concertazione delle scelte e co-pianificazione delle azioni. Da una visione delle politiche pubbliche che prevedeva l’uso di risorse pubbliche per stimolare l’attivazione di relazioni economiche che a loro volta avrebbero rigenerato gli spazi urbani, occorre passare a politiche urbane che sappiano “riattivare i capitali territoriali” (qualità dell’ambiente, cultura, efficienza energetica, mobilità sostenibile, paesaggio) in modo che essi fungano da propulsori di nuove relazioni economiche – anche sovralocali – che siano in grado di rialimentare la costituzione di risorse pubbliche necessarie a ricomporre lo stato sociale, frantumato dalla crisi e da una visione erosiva delle risorse. La città creativa deve essere “produttrice” di nuova identità, di rinnovata sostenibilità ecologica ed energetica, di nuove economie della conoscenza ma anche di nuove geografie sociali: una Città Eco-Creativa capace di generare soluzioni, di catalizzare culture e alimentare economie. L’impegno è quindi quello di “attivare la città” attraverso strategie, politiche e progetti che sappiano interagire moltiplicando gli effetti e producendo dinamismo, innovazione e trasformazione urbana. Possiamo individuare sei assi strategici da perseguire perché la creatività si trasformi in un necessario moltiplicatore delle risorse urbane (Carta, 2011). Il primo asse richiede di adottare un approccio transcalare capace di combinare una visione olistica e globale con una necessaria azione operativa e locale in grado di selezionare gli strumenti più efficaci per conseguire risultati concreti: l’integrazione tra visioni di futuro e risposte ai problemi è oggi l’arena più importante e la frequente adozione di piani strategici integrati con progetti urbani è una delle soluzioni che sta producendo risultati di maggiore interesse.
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In secondo luogo, le città eco-creative, per la loro intrinseca matrice culturale, devono garantire l’equilibrio tra la conservazione dell’identità e la promozione dell’innovazione attraverso l’uso di “piani d’interpretazione” che sappiano caratterizzare la competitività con un sapiente gioco di invarianti e condizionanti per alimentare un progetto urbano non solo efficace e di qualità, ma soprattutto in empatia con il palinsesto storico e con la ricchezza e la specificità del capitale culturale. Il terzo asse di creatività consiste nell’incentivazione di soluzioni progettuali capaci di alimentare la diversità urbana – culturale, sociale, etnica e funzionale – in un mix fecondo di linguaggi, usi e stili di vita, che sfugga alla ripetizione manierista dei progetti delle “archi-star” e che invece produca soluzioni creative alimentate dal talento dei luoghi e che attui politiche di genere o generazionali per ridurre la conflittualità sociale e generare il necessario senso di cooperazione. Il quarto obiettivo di una città eco-creativa è quello attivare ed alimentare la sua funzione di commutatore territoriale intercettando le energie delle persone, dei know-how e dei beni che attraversano il pianeta e di trasformarle in risorse locali, attraverso la stipula di patti, di accordi strategici e di processi di clusterizzazione in grado di connettere l’economia dei flussi con la produttività dei distretti. Il quinto asse riguarda la promozione di processi decisionali multiattore e multilivello, capaci di essere sia razionali, organizzando le risorse materiali, che istintivi, mobilitando le risorse umane e relazionali e facendo interagire competitività e coesione sociale. Numerose città, ad esempio, hanno saputo catalizzare in maniera efficace i grandi eventi attraverso la capacità di realizzare in tempi brevi aree di riqualificazione urbana utilizzate come attivatori creativi delle qualità locali. Infine, l’ultimo asse della creatività urbana di nuova generazione chiede che le trasformazioni avvengano alimentando la sostenibilità ecologica ed energetica, integrando le diverse comunità sociali nella realizzazione di una città in cui la creatività diventa un potente strumento per riattivare il “metabolismo urbano” in un nuovo equilibrio tra efficienza energetica e qualità ambientale, tra riduzione dei consumi e aumento del benessere, tra innovazione e creazione di nuovi posti di lavoro.
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RELOAD 1: RIATTIVARE LA CITTÀ PER GENERARE CITTÀ INTELLIGENTI, SOSTENIBILI E SOLIDALI L’impegno progettuale verso la città eco-creativa richiede,
2 Gli assi strategici per attivare la eco-creative city
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quindi, di non limitarsi alla identificazione dei caratteri del milieu creativo, ma ci sfida ad un ripensamento complessivo, a “ricaricare il sistema operativo” (Reload) per produrre nuove metodologie e forgiare nuovi strumenti di rigenerazione urbana fondata sull’armatura culturale e ambientale. Nell’ambito degli stimoli per rimettere in moto l'economia, il Programma Europa 2020 ci impegna ad individuare adeguate misure per creare nuove opportunità economiche a partire dal riconoscimento di “assets di vitalità” nel patrimonio urbano, di cellule di sviluppo ancora attive che tuttavia necessitano di essere reimmesse nel ciclo dell’evoluzione attraverso una riconfigurazione e una ricomposizione delle loro componenti. Lo sviluppo di una nuova Europa richiede un cambio di paradigma in cui il territorio venga inteso quale risorsa primaria, non solo in termini di riduzione del suo consumo, ma soprattutto considerandolo un detentore di "cromosomi di sviluppo" spesso sottoutilizzati o mistificati rispetto alle reali potenzialità d'uso. Alla città della rendita fondiaria occorre sostituire la città della "rendita sociale", in grado di agire con maggiore efficacia sulla sua stratificazione. Città che sappiano riciclare il suolo già utilizzato per evitare di disperdere energia, per costruire città intelligenti, non solo in senso "tecnologico", ma nel più ampio senso di città più sapienti, capaci di attivare intelligenze collettive e, quindi, più responsabili. In tale ottica, le aree di trasformazione urbana, oltre al recupero della qualità fisica, ambiscono a diventare veri e propri “cluster creativi”, in cui le iniziative economiche, sociali ed infrastrutturali, a partire dalle attività preesistenti, siano in grado di realizzare progetti innovatori (Caroli, 2004; Chapain et al., 2010), implementati all'interno di adeguate strategie pianificate di sviluppo locale fondate sulla soft and experience economy prodotta dalle qualità territoriali e dalle eccellenze locali (Pine, Gilmore, 1999). L’economia in crisi potrà utilizzare lo swing power della città creativa: quel valore aggiunto che produce un effetto di accelerazione della sua potenza inerziale e che è in grado di farla agire come una global cultural growth machine. È necessario agire sul capitale sociale, sia in termini di miglioramento dell'offerta di lavoro qualificato e sull’assistenza al mercato locale del lavoro, in modo da accompagnare la trasformazione verso i settori delle creative and innovative industries, sia attraverso un più forte collegamento al sistema formativo e professionale, agendo per la localizzazione di “magneti” sovralocali
legati alla ricerca, all’innovazione, all’alimentazione dei talenti e all’attrazione delle competenze. Sulle Smart Cities si giocherà un’importante partita del futuro solo se, oltre ad essere motrici della competitività e coesione, sapranno essere “aggregatrici di intelligenze”, “generatrici di creatività” ed “ambienti di innovazione”. Una Smart City, infatti, non è solo una città più intelligente che aggiunge tecnologia ed efficienza al suo organismo tradizionale, ma è una città che innova profondamente le sue dinamiche di sviluppo, che rivede il suo modello insediativo e che ripensa il suo metabolismo. La nuova intelligenza urbana non deve essere esclusivamente fondata su una maggiore conoscenza (scambio di informazioni, condivisioni di dati, etc.), perché – come ci ricorda Thomas Hobbes – una conoscenza condivisa genera una maggiore “consapevolezza” delle persone che abitano la città, la quale si traduce in maggiore responsabilità e genera qualità. La città intelligente è quindi una città più “consapevole” che genera smart citizens investendo nel capitale umano e sociale, nei processi di partecipazione, nell’istruzione, nella cultura, nelle infrastrutture per le nuove comunicazioni, che innova il software e non solo l’hardware, che rielabora un modello di sviluppo sostenibile, garantendo un’alta qualità di vita per tutti i cittadini e prevedendo una gestione responsabile delle risorse attraverso una nuova governance. Possiamo definirle Creative and Smart Cities poiché dovranno essere capaci di innovare settori ad alto impatto: la pianificazione, progettazione e gestione territoriale, il ciclo produzione-distribuzione-consumo energetico, il trasporto di merci e la mobilità delle persone, l’efficienza energetica degli edifici. Dovranno innovare ambiti complessi e multi-attore quali l’educazione, la sanità e i rifiuti, fino a quelli strategici come la valorizzazione e fruizione del patrimonio culturale e l’attrattività turistica1. La Smartness urbana, quindi, non deve essere un aggettivo che si applica a modalità tradizionali di governo, progettazione e gestione delle città, ma deve essere una sfida ad estrarre intelligenza tacita, e generare nuova sapienza, creatività e innovazione. Lo sviluppo sostenibile di una Smart City si fonda sul complessivo ripensamento del suo “metabolismo”, adottando una visione strategica dello sviluppo e centrando la sua crescita sull’implementazione della qualità della vita dei cittadini, investendo sulla qualità dei servizi e dello spazio pubblico, sulla sicurezza, su modelli e stili di vita innovativi e flessibili. Città
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che adottano un modello di sviluppo basato sul “risparmio di suolo”, sulla “rottamazione” e sul “riciclo” di aree dismesse: città non più debit-based o consumer-oriented, ma basate su un nuovo patto sociale. Esse posseggono i cromosomi per ricombinare e rafforzare il genoma dello sviluppo, per agevolare lo start up di attività creative, a patto che sappiano focalizzare una visione collettiva attraverso strategie che facciano aumentare la massa critica, anche sul piano simbolico e comunicativo, e siano in grado di orientare le iniziative fondate sulla smartness. ESPERIMENTI: NANTES METROPOLI ECO-CREATIVA Nel panorama europeo delle città medie in competizione virtuosa per sperimentare il nuovo paradigma della Città Creativa 3.0 emerge Nantes, capitale della Loira, per chiarezza di visione, qualità degli esiti e lungimiranza delle prospettive. Negli ultimi anni la comunità urbana di Nantes Métropole ha lanciato una grande sfida per l’innovazione del modello di sviluppo attraverso numerose iniziative nel segno della sostenibilità ecologica, della innovazione e della valorizzazione culturale, ma soprattutto investendo nella dimensione culturale ed ecologica per generare nuova forza-lavoro e nuovi luoghi del lavoro, e proponendosi come strumento per una “terza via” dell’imprenditoria. Più rilevante ai fini del nostro ragionamento è il grande programma di rinnovamento urbano dell’Île de Nantes: un’isola nel cuore della città, ex zona industriale e portuale molto vitale e propulsiva, dagli anni Settanta progressivamente urbanizzata e degradata alla fine del secolo scorso. Dagli inizi del XXI secolo questo territorio è oggetto di uno dei più grandi progetti urbani in Europa per costituire una nuova centralità urbana contenente un mix di abitazioni e servizi pubblici, ma soprattutto nuove attività produttive e commerciali caratterizzate dalla innovazione tecnologica, dalla creatività e dalla sostenibilità e capaci di alimentare le politiche pubbliche. Per l’attuazione del progetto nel 2003 è stata creata SAMOA (Société d'Aménagement de la Métropole Ouest Atlantique), una società mista per la redazione del masterplan, affidato ad Alexander Chemetoff, fondato su tre assi principali: la priorità degli spazi pubblici, la valorizzazione della Loira e soprattutto la valorizzazione dell'eredità culturale, integrata nella stessa sostanza dei nuovi spazi pubblici e dei nuovi edifici. L'intervento riguarda 337 ettari, di cui 160 ettari di nuovi spazi pubblici o
recuperati, e coinvolge 13.000 abitanti e 15.000 lavoratori in una mixité di funzioni urbane: residenza (di cui il 20% di social housing), attività economiche, istituti di ricerca e accademie, negozi, trasporti pubblici, servizi sociali, attività culturali e per il tempo libero. Entro il grande progetto di rigenerazione dell'Isola, il vero propulsore per la città eco-creativa è il Quartier de la Création: 9 ettari dedicati alle industrie culturali e creative, fusione di cultura, formazione, arte, innovazione, ricerca ed imprese. Il progetto prende avvio nel 2009 nella punta occidentale dell'isola, ed è basato su una visione chiara: concentrare nello stesso luogo istituzioni educative e di ricerca ed imprese agevolandone le mutue spinte di innovazione e di creazione. Visione concretizzata dalla presenza dell’Università attraverso la nuova École Nationale Supérieure d'Architecture, e di numerosi istituti di formazione come l'École des Beaux Arts, Sciences Com', l’École de Design e l’École des Métiers de l'imprimerie. Anche la configurazione architettonica degli edifici concretizza il carattere aperto e condiviso del quartiere: la nuova sede della Facoltà di Architettura, progettata dagli architetti Lacaton e Vassal recuperando un edificio industriale in vetro, cemento e acciaio grezzo, è uno spazio aperto e flessibile circondato da una rampa che conduce ad un ampio terrazzo come spazio pubblico. Anche il Pôle des Arts offre, su una superficie di 11.000 m2, uno spazio per liberare la creatività degli allievi delle scuole di arti applicate, offrendola permanentemente alla città e contribuendo alla “perturbazione culturale” della metropoli. Si stima che nel 2014 il polo educativo avrà più di 5.000 studenti e oltre 160 docenti. Il carattere creativo è rafforzato dalla presenza della Mediateca, della Sede dell’Ordine degli Architetti con annessi spazi culturali, da La Fabrique, un luogo dedicato alla musica contemporanea, e da un centro per le arti grafiche. Elemento di rilievo del Distretto è l'edificio Eurêka, che sorge ai margini dell'area per diventare un potente motore economico. L'edificio, ormai un'icona del quartiere firmata dallo studio Lipsky e Rollet, contiene un incubatore d'impresa dedicato soprattutto allo sviluppo delle innovative and creative industries. Realizzato in stretta collaborazione tra Nantes Métropole e il gruppo immobiliare Giboire, è sede della stessa SAMOA. La combinazione di numerosi creative player sullo stesso sito si propone di sviluppare nuove attività, favorendo la nascita di
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nuovi progetti nati dall'incontro tra artisti, operatori culturali, studenti, ricercatori e imprenditori. Riuniti in un cluster saranno in grado di scoprire, condividere, costruire relazioni e sviluppare nuove idee, combinando competenze e approcci diversi. Nantes ambisce a diventare una delle capitali europee dell’industria culturale e creativa, ed attraverso il Quartier de la Création intende mantenere il territorio in uno stato di costante “perturbazione creativa” e di proiezione internazionale attraverso la forza propulsiva generata dalla cooperazione tra imprenditori, talenti creativi e progettisti, accreditandosi come una metropoli creativa e sostenibile: un esempio concreto di eco-creative city.
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RELOAD 2: RICICLARE LE CITTÀ Pianificare città più sostenibili per generare comunità intelligenti richiede nuovi modelli organizzativi e di pianificazione capaci di ridurre la pressione urbana e diminuire le diseconomie. La necessità di comprensione del funzionamento degli ecosistemi urbani, delle loro interazioni con i sistemi sociali e del ruolo che essi svolgono nel sostenere l'economia e il welfare può trovare una risposta efficace nel recupero creativo dei materiali urbani. In altre parole occorre “riciclare le città” per sperimentare una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, sia utilizzando il potenziale delle "miniere delle città" che agendo sulla innovazione degli stili di vita, dei comportamenti e dei valori socioeconomici sostenibili e soprattutto sulle modalità di regolazione, di progettazione e controllo degli insediamenti2. “Riciclo” è oggi una delle principali parole chiave e uno dei più ricorrenti pensieri-guida per le trasformazioni urbanistiche delle città che vogliano percorrere la strada della sostenibilità, della qualità e della creatività (Ciorra, Marini, 2011). La necessaria rigenerazione – architettonica, sociale ed economica – degli insediamenti urbani deve avvenire attraverso una immissione in “nuovi cicli di vita” dei complessi urbani, dei tessuti insediativi e delle reti infrastrutturali in dismissione, in mutamento o in riduzione funzionale. Nell'era della crisi ecologica ed economica le città decrescono, si contraggono producendo "lacerti" urbani, “trucioli” funzionali e "rottami" di sviluppo che solo attraverso un processo di riciclo possono tornare ad essere le componenti di nuovi cicli di vita capaci di generare rinnovati paesaggi urbani. Nuove parti di città fondate sul riuso creativo dell’abbandono, della dismissione, del declassa-
mento o della modificazione d’uso dei tessuti insediativi tradizionali. Il riciclo urbano deve riguardare i numerosi materiali in disuso o in dismissione sia abitativi (i quartieri della periferia degradata), sia produttivi (aree in deindustrializzazione), sia logistici (aree ferroviarie e portuali) che militari (le grandi caserme urbane). Ma occorre lavorare non solo sulle loro potenzialità materiali (aree, cubature, infrastrutture) ma soprattutto su quelle legate alle memorie e alle identità contenute nelle aree da riciclare. È da queste aree che le città del nuovo secolo dovranno “ricaricare il sistema”, per produrre nuova intelligenza urbana, a partire dalla riscrittura di “righe di codice” dismesse (le funzioni), “banchi di memoria” non utilizzati (le aree), "routine" urbane ancora efficienti (le infrastrutture). Le città del futuro - soprattutto le città medie mediterranee, vero antidoto alle megalopoli mondiali – dovranno agire entro un “Capitalismo 3.0” (Barnes, 2006), un nuovo capitalismo ecosofico e responsabile che produca riusi, ricicli ed evoluzioni creative e che sia capace di fornire una guida permanente dei processi insediativi attraverso una forte integrazione con la sostenibilità ecologica, con la pianificazione territoriale, con la gestione dell’uso dei suoli, con l’efficienza energetica, con la progettazione di morfologie senza sottrarsi dalla produzione di valore. Una città regolata e guidata da un nuovo “sistema operativo” rigenerato dall’uso creativo delle Tre R: riduci, riusa, ricicla. L'impegno dei nuovi amministratori, degli urbanisti più sensibili e degli architetti più capaci sarà quello di lavorare su insediamenti urbani caratterizzati dalla "eccedenza" e "sovrapproduzione" (complessi urbani in mutamento, tessuti insediativi in dismissione e reti infrastrutturali in trasformazione), che dovranno essere affrontati attraverso azioni di modifica, o di rimozione, o di reinvenzione. Nel mondo sono sempre più frequenti procedure progettuali che si riferiscono al cosiddetto “up-cycling” (la rottamazione), attraverso cui le componenti vengono ricreate, senza distruggerle ma mutandone le funzioni perseguendo un’ottica creativa ed aumentando la loro “resilienza, cioè la capacità di resistere alle crisi, di riprendersi, di ripensarsi e di ripartire. L’etica di una rinnovata responsabilità del progetto per città vivibili, accoglienti, attrattive e solidali ci impone che vengano selezionate azioni orientate al riciclo attraverso la riattivazione delle risorse latenti o escluse dalle precedenti scelte prodotte dal modello di sviluppo “dopato”.
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Ed è importante che in questa direzione si sia mosso recentemente anche il Governo Italiano, con un provvedimento mirato a garantire l'equilibrio tra i terreni agricoli e le zone edificate o edificabili, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate. Scrive Richard Sennett (2008) che «per fare fronte a questa crisi ci corre l'obbligo di modificare sia gli oggetti che produciamo sia l'uso che ne facciamo. Dovremo imparare modi diversi di costruire gli edifici e di organizzare i trasporti, dovremo inventare rituali che ci abituino al risparmio. Dovremo diventare bravi artigiani dell'ambiente».
1 Non è sufficiente, tuttavia, che le città incrementino la loro intelligenza infrastrutturale, ma devono concorrere ad incrementare il tasso di “intelligenza collettiva”. Una città intelligente che voglia essere anche solidale deve sostenere, attraverso il cloud communiting, i comportamenti virtuosi dal basso dando visibilità ai vantaggi individuali e collettivi. Deve agevolare le decisioni degli attori istituzionali e imprenditoriali, ad esempio rendendo condivisa la conoscenza del suolo ed agevolando il fast-tracking per le procedure amministrative. Deve agevolare il partenariato pubblico-privato degli interventi e il project financing distribuendo dati, informazioni e studi di fattibilità in possesso degli uffici tecnici, o assicurare il contributo delle multiutilities alla realizzazione. Infine può promuovere la partecipazione di partners locali o l’apertura internazionale attraverso l’esercizio di un potere pianificatorio e regolatore sempre più condiviso (smart planning). Deve essere in grado di agire sulla filiera della riduzione dei rifiuti, della differenziazione della loro raccolta e della loro valorizzazione economica e sulla riduzione drastica delle emissioni di gas serra tramite la riorganizzazione del traffico privato e l’ottimizzazione delle emissioni industriali. 2 Chi scrive partecipa ad una rete di ricerca sul riciclo delle città, dei territori e dei paesaggi che coinvolge 11 atenei italiani e numerose istituzioni straniere, coordinata da Renato Bocchi dello IUAV, che ha partecipato al bando del MIUR per i progetti di rilevante interesse nazionale nell’ambito della piattaforma di ricerca europea Horizon 2020 e che ha recentemente ottenuto il cofinanziamento ministeriale.
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3 Nantes, il Quartier de la Création come incubatore urbano di creatività e sostenibilità
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aber J. (2009), The Future of Shrinking Cities. Problems, Patterns and Strategies of Urban Transformation in a Global Context, in Pallagst K. (et al.), Center for Global Metropolitan Studies, Institute of Urban and Regional Development and the Shrinking Cities International Research Network. Barnes P. (2006), Capitalism 3.0. A Guide to Reclaiming the Commons, San Francisco, Berret-Koehler. Begg I., ed. (2002), Urban Competitiveness. Policies for Dynamic Cities, Bristol, Policy Press. Boeri S. (2011), Anticittà, in «Abitare», n.513. Bonomi A. (2010), La città che sente e che pensa. Creatività e piattaforme produttive nella città infinita, Milano, Electa. Caroli M.G., a cura di (2004), I cluster urbani, Milano, Il Sole 24 Ore. Carta M. (2007), Creative City. Dynamics, Innovations, Actions, Barcelona, List. Carta M. (2009), Creative City 3.0. New scenarios and projects, in «Monograph.it», n.1. Carta M. (2009), Culture, communication and cooperation: the three Cs for a proactive creative city, in «International Journal of Sustainable Development», Vol. 12, No.2/3/4. Carta M. (2011), Città creativa 3.0. Rigenerazione urbana e politiche di valorizzazione delle armature culturali, in M. Cammelli, P.A. Valentino (a cura di), Citymorphosis. Politiche culturali per città che cambiano, Firenze, Giunti. Chapain C., et al. (2010), Creative clusters and innovation. Putting creativity on the map, London, NESTA. Ciorra P., Marini S., a cura di (2011), RE-CYCLE. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Milano, Electa. Coyle S.J. (2011), Sustainable and Resilient Communities: A Comprehensive Action Plan for Towns, Cities, and Regions, Hoboken, John Wiley and Sons. European Commission, KEA (2006), The Economy of Culture in Europe. Florida R. (2005), Cities and the Creative Class, New York, Routledge. Institute for Metropolitan and International Development Studies (2006), Accommodating Creative Knowledge. Competitiveness of European Metropolitan Regions within the Enlarged Union, Amsterdam, University of Amsterdam. Landry C. (2007), The Art of City Making, London, Earthscan. Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino, Bollati Boringhieri.
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PIÙ COSE ALLA VOLTA 1
Mosè Ricci 1 RICCISPAINI architetti associati, Arianna Scaglione. Ghella Eco_Office
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VALORI VS. MISURE Le architetture degli spazi del lavoro rimandano ad un’idea di territorio che progressivamente svanisce. Aree industriali, piattaforme produttive, assi attrezzati, infrastrutture pesanti, di tutto questo il paesaggio della città infinita è saturo. Sempre più spesso le architetture del lavoro si localizzano al di fuori degli spazi specializzati, dove il suolo costa di meno e dove ormai si godono le stesse possibilità di connessione alle reti materiali e immateriali. Se alle logiche di settore si sostituiscono i nuovi paradigmi della sostenibilità, del paesaggio e del riciclo, le nostre architetture per il lavoro diventano più semplicemente luoghi per vivere e lavorare insieme piacevolmente. Sono spazi ecologici che usano il paesaggio come infrastruttura principale e sono già pronti ad altri usi. La loro figura architettonica deve essere tale da esprimere queste qualità perché in fondo sono quelle che meglio esprimono il senso del prodotto del lavoro in quegli spazi e più lo fanno vendere. Il geografo Franco Farinelli scrive nel suo ultimo libro che il territorio è finito. Che non c’è più bisogno di misurare lo spazio che abitiamo per capire come è fatto. Nel luglio del 1969, il giorno dello sbarco sulla luna, mentre tutti guardavamo il cielo, la cosa più importante stava succedendo sulla terra dove due computer cominciavano a parlarsi e a condividere le informazioni in tempo reale tra Cape Canaveral e San Francisco. Da quel giorno la nostra vita è diversa. Con lo sviluppo dei mezzi di istantanea adiacenza artificiale e delle reti immateriali, che mettono realtà differenti in comunicazione immediata o che creano nuove realtà, i mondi virtuali condizionano il nostro modo di vivere, di lavorare, di fare economia. Le città tendono a perdere una precisa connotazione fisica e diventano sempre più campi di relazioni. Forse non abbiamo più bisogno del territorio per muoverci e comunicare, come dice Franco Farinelli, ma abbiamo sempre più bisogno dei paesaggi e dei luoghi per vivere e riconoscerci. Tutto questo cambia in maniera decisiva il nostro modo di pensare il futuro e le sue forme. E credo che debba cambiare anche la nostra maniera di fare i progetti. L’idea di territorio chiedeva all’architettura stabilità e persistenza nel tempo – l’architettura in fondo lotta contro il tempo – e preferiva i progetti come decisione autografa, che misurassero la competitività tra i luoghi attraverso la firma d’autore. L’idea di paesaggio invece apre all’architettura dei tempi non definiti, quella che chiede di poter invecchiare o di svanire, di cambiare continuamente come continuamente i paesaggi
cambiano. E chiede al progetto di essere poliarchico, deciso da molti, condiviso da tanti, di contribuire alla costruzione di quel paesaggio-ritratto della bellissima immagine di João Nunes, che è il ritratto di una società e non di un autore. II passaggio da un sistema di misure (il territorio) a un sistema di valori (il paesaggio), rappresenta lo sfondo concettuale e l’obiettivo generale delle nostre ricerche. Nel paesaggio ci riconosciamo, descrivendolo raccontiamo noi stessi. Ci identifichiamo. Diamo valore e senso alle cose che facciamo. In questa accezione interpretiamo il paesaggio nei nostri progetti. Il paesaggio è, in qualche maniera, la categoria descrittiva all’interno della quale le nostre architetture prendono forma e trovano significato. Nella nostra interpretazione il paesaggio non è un contesto naturale, ma culturale. È un punto di vista sul cambiamento. Se il territorio non serve più a descrivere la realtà, per interpretare la nostra condizione insediativa resta il paesaggio. Che è quello che io riesco a osservare di uno spazio fisico abitato, o naturale, ed anche – come scriveva Lucio Gambi – quello che ho dentro i miei occhi: la mia cultura, il mio punto di vista, il modo in cui lo guardo. Il paesaggio nella sua dimensione narrativa e semantica è allo stesso tempo territorio come spazio fisico e ambiente come spazio della vita. Il paesaggio mette insieme queste due categorie e attraverso i progetti che si realizzano racconta la nostra società e il nostro tempo. I nostri progetti cercano di fare più cose allo stesso tempo, non valgono mai come segno in sé, ma come catalizzatori di un sistema di relazioni e di tensioni che nel contesto è già presente. Questo è il senso del nostro lavoro. Noi cerchiamo di proporre sul luogo progetti come dispositivi che lo interpretino e lo ripresentino. Sono strutture narrative che raccontano i contesti con forme che, ovviamente, devono essere caratterizzate e affascinanti, ma che nella sostanza fissano in una figura architettonica un sistema di relazioni e di valori che già esiste. Non ci interessa costruire segni in grado di dare qualità ai luoghi. I contesti contengono già tutte le potenzialità. A noi interessa il lavoro di investigazione, di scavo, di messa in valore. I nostri progetti tendono a svelare nei luoghi le relazioni architettoniche e spaziali che esprimono già il senso del cambiamento. Il progetto ecologico, sostenibile e sensibile al paesaggio mette in discussione i ruoli e i tipi. Non esprime l’assoluto della forma architettonica, ma mette in forma i processi e il senso – non solo gli elementi fisici e materiali, ma anche i mo-
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ci, le officine e il confezionamento dell’officina farmaceutica, mentre il laboratorio di massima sicurezza è isolato con accesso autonomo dal lato Ovest. Il secondo corpo volumetrico del fabbricato è il “concourse”, uno spazio fluido centrale che stabilisce il luogo delle connessioni interne nello spazio tra le diverse funzioni del centro. Nel cuore del concourse gli spazi dell’interazione tra gli studiosi, con la sala lettura, l’internet point, un piccolo bar, le sale per le riunioni e i workshop. Tutti gli ambienti per il lavoro di ricerca sono disposti nel “nastro” perimetrale panoramico che corre lungo le dita del pettine. All’interno del nastro tutti gli spazi operativi possono comprimersi o dilatarsi a seconda della necessità. Siano essi uffici o laboratori dei vari livelli, godono tutti della stessa qualità dello spazio, con vista, illuminazione naturale, accessibilità diretta a balconi e terrazze. Il nastro dei laboratori è verso l’esterno un’unica ininterrotta facciata suddivisa in tre fasce di cui quella centrale è una fascia continua in vetro per massimizzare l’apporto di luce naturale e la visione del panorama dall’interno dei laboratori. Per regolare la luce naturale e l’irraggiamento sulle superfici vetrate una controfacciata a lame orientabili è appoggiata alla superficie vetrata.
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di d’uso, le economie, i significati, le storie, ecc. – e i materiali dell’architettura possono cambiare o assumere significati diversi. La mia ricerca sperimentale con RICCISPAINI architetti associati negli ultimi anni ha avuto diverse occasioni di affrontare il tema del progetto degli spazi per il lavoro. In tutti i casi, come in quelli qui di seguito descritti, abbiamo assunto un sistema di obiettivi che fa appartenere ai paradigmi dell’ecologia, della sostenibilità e della sensibilità paesaggistica ogni decisione, ogni materiale e ogni azione progettuale. Chiaramente alla fine si disegnano sempre forme e spazi. Nella realtà del progetto tutto diventa forma. Una forma che però tende a esprimere le prestazioni e i significati nuovi dell’architettura ecologica, sostenibile e sensibile al paesaggio.
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IZS TERAMO1 La nuova sede dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale sorgerà sull’area di Colleatterrato alla periferia di Teramo. L’area è a cavallo tra due versanti: quello meridionale è aggredito dalle frange marginali dell’espansione della città di Teramo, come piccoli campus residenziali fatti di edifici in linea con il lato lungo adagiato sulla curva di livello. Da sud la città sale squallida e scomposta. Il nostro progetto interpreta le caratteristiche del paesaggio rurale della fascia collinare della città adriatica e lavora sulla dimensione geografica del parco. La nuova sede dell'Istituto Zooprofilattico è un parco agroscientifico. Le funzioni di ricerca e formazione sono accorpate in un edificio compatto su un impianto a pettine, che si inserisce nel versante settentrionale della collina creando una sorta di smottamento della topografia, come fanno i calanchi. La disposizione planimetrica fa assomigliare l'impianto dell'edificio ad una mano appoggiata sul terreno, con il palmo contro terra e le dita leggermente divaricate disposte lungo il declivio secondo la linea di massima pendenza. Il fabbricato si compone di tre figure, o corpi volumetrici: la barra, il concourse, il nastro. La distribuzione delle funzioni nell’edificio si basa sul principio di un passaggio graduale da spazi di uso pubblico a spazi ad accesso riservato. Verso monte vi è una “barra” vetrata pluripiano, parallela alla strada, inserita nel pendio, che contiene gli spazi di comunicazione e di relazione dell’Istituto: le strutture di accoglienza, quelle per l’insegnamento e la formazione, per i convegni e i seminari, le attrezzature collettive. Al piano interrato il parallelepipedo contiene i locali tecnologi-
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2 RICCISPAINI architetti associati. IZS Teramo. Padiglione, Concourse, Nastro
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3 RICCISPAINI architetti associati. IZS Teramo. Plastico
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CAMPUS AUTOMOTIVE DELLA VAL DI SANGRO2 L’area per la realizzazione del Campus dell’Innovazione Automotive e Metalmeccanica ha un paesaggio unico. Si trova su un altopiano che domina la Valle del Sangro, a mezza strada tra il crinale delle colline con gli insediamenti più antichi e il fiume. A nord est lo sguardo arriva, con il Sangro, fino al mare. Verso ovest il panorama della valle si raccoglie nel grembo della Majella Madre. Si tratta di un paesaggio spettacolare e produttivo. È una macchina disegnata dall’acqua. Le cime della Majella definiscono un invaso naturale che filtra e convoglia l’acqua dalle montagne fino al fiume Verde nel territorio di Fara San Martino dove con quell’acqua si produce la pasta più famosa del mondo… e poi all’Aventino e al Sangro. È un’acqua purissima, che fa la fortuna di un territorio e racconta il funzionamento di questo paesaggio, dai pastifici di Fara San Martino alle città, dai terreni fertili ai calanchi, dai fiumi all’Adriatico. Il progetto per il Campus Automotive della Val di Sangro lavora sull’immagine del Campus come ecosite o ecoparco. Un grande catalizzatore ambientale e di paesaggio, che usa fonti energetiche rinnovabili, punta alla ottimizzazione dei consumi e all’abbattimento degli impatti ambientali. Un parco produttivo che considera i caratteri di manutenzione e gestione inclusi in una logica di progettazione integrata, rendendoli indicatori per la definizione delle qualità dell’intervento alla scala paesaggistica, e non come fasi operative di un processo post-progettuale. Questo lavoro interpreta il Campus come figura ambientale e di paesaggio, che prende forma dalle relazioni che instaura nei suoi spazi vuoti. I materiali del paesaggio del Sangro-Aventino – gli alberi, la terra, i panorami e l’acqua – realizzano l’immagine del Campus con i laboratori come calanchi, la piazza come un fiume e il circuito per le prove di vetture e pneumatici che diventa una topografia che filtra gli agenti inquinanti. Credo che siamo riusciti a dimostrare che è possibile inserire anche un elemento di rischio così importante in un paesaggio tutto sommato integro, attraverso un’operazione progettuale consapevole. Il WWF Abruzzo e le altre organizzazioni ambientaliste che avevano il compito di fare le osservazioni e i rilievi al progetto non ne hanno prodotta nessuna. E questo ci sembra già un buon risultato. Il Master Plan ecologico del Campus è proposto come paradigma per declinare le trasformazioni previste e quelle future. Le
singole architetture del Campus hanno un valore concettuale e modellistico. Tutte sono concepite in base a criteri bioclimatici. Quelle più legate al suolo (come i laboratori, il centro espositivo e di comunicazione, il centro per la formazione e quello per lo spin-off), che per la funzionalità del lavoro hanno bisogno di essere a contatto con il terreno e la strada, tendono a mimetizzarsi nel paesaggio. L’obiettivo è anche quello di evitare l’immagine degradata e impattante tipica dei siti industriali, come un insieme di scatoloni di cemento che galleggiano nello spazio delle infrastrutture. Il progetto, esposto nel Padiglione Italia della Biennale di Architettura di Venezia del 2012, è stato concepito insieme a Consuelo Nava con la quale da tempo lavoriamo sull’ecological design. Questo progetto è suo quanto nostro.
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4 RICCISPAINI architetti associati. Campus Automotive. Vista dall’ingresso
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5 RICCISPAINI architetti associati. Campus Automotive. Sezioni sui laboratori
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GHELLA ECO_OFFICE3 Il progetto consiste nel riciclo di un edificio esistente, per accogliere la sede di un gruppo imprenditoriale leader nel suo settore. Si interviene con standard di qualità nel rispetto del forte carattere architettonico originario, della qualità dell’ambiente di lavoro, dei principi di contenimento dei costi energetici e della possibilità di produrre energia da fonti rinnovabili. In estate Ghella Eco_Office produce più energia di quanta gli serva per funzionare. D’inverno il contributo energetico esterno è ridotto al minimo dai dispositivi passivi. Il nostro intervento si è concentrato sugli spazi vuoti. La tecnologia originale adottata per le facciate è da considerarsi obsoleta, sia per lo stato di manutenzione che per le pessime prestazioni isolanti. Si è proceduto dunque alla sostituzione dei serramenti e alla rimozione dei brise-soleil esistenti, in modo da migliorare la percezione dell’esterno, e ridurre l’“effetto gabbia” dall’interno. Le nuove facciate vetrate sono pensate con la struttura portante e di tamponamento opaco in legno (la struttura di sostegno è in larice lamellare). La scelta del legno mitiga la durezza del c.a. a vista e restituisce un prospetto contemporaneo senza tradire l’immagine “brutalista” originale. La modalità di lavoro genera lo spazio; il modello tipologico a cui ci siamo riferiti è quello dell’ufficio combinato sviluppato in Scandinavia negli anni ’80: questo modello miscela i vantaggi delle celle e quelli dell’open space. Le celle sono poste tutte lungo le facciate e si relazionano con lo spazio centrale tramite pareti vetrate a tutta altezza. Ogni postazione di lavoro dispone così di una possibilità di riunione, di una vista diretta verso l’esterno, con possibilità individuali di regolazione delle condizioni ambientali. Ogni piano è concepito come uno spazio unico, le pareti di separazione interna sono tutte in vetro, lo spazio di questo open space virtuale è scandito da tre bolle luminose che occupano la spina centrale e portano luce naturale/artificiale agli spazi interni meno illuminati. Per portare luce a questi spazi oltre a massimizzare la trasparenza delle partizioni interne sono stati pensati dei camini di luce nello spazio degli attuali cavedi che captano la luce in copertura e la trasportano all'interno di condotti opachi con superficie interna riflettente. Gli attuali cavedi sono utilizzati in parte anche per le canalizzazioni degli impianti. Le pareti in vetro hanno la duplice funzione di permettere il passaggio della luce agli spazi interni e di vedere ed essere visti mantenendo un contatto visivo tra i singoli ed il
gruppo assicurando il comfort acustico per favorire la privacy e la concentrazione. Inoltre le chiome degli alberi del quartiere Prati a Roma che entrano attraverso il vetro danno agli uffici una dimensione paesaggistica – da piattaforma nel bosco – che allontana lo spettro della metropoli e può favorire la concentrazione e il dialogo.
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6-7 RICCISPAINI architetti associati. Ghella Eco_Office. Facciata. Old > New
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VALAGRO ECO_FACTORY4 Si tratta del progetto di riciclo della sede principale di una delle più grandi industrie di produzione di fertilizzanti nel mondo che da qualche anno sta attuando una svolta ecologica sia nei processi produttivi che nei concimi realizzati organicamente. Il progetto riguarda una proposta di interventi dispersi in tutta l’area della fabbrica e in particolare l’ampliamento del fabbricato uffici esistente, che con una nuova pelle vegetale filtrante diventa l’icona del prodotto industriale stesso. La matrice di sostenibilità che integra il concept architettonico e di paesaggio, le soluzioni di efficienza energetico-ambientale per la riqualificazione dell’edificio per uffici della Valagro Spa si realizzano secondo il metodo progettuale del Total Design, che prevede un approccio integrale al progetto sui temi del risparmio delle risorse materiali, dei flussi energetici, dell’ottimizzazione degli impianti attivi. Si tratta di veri e propri obiettivi-strategie (e-tools), in grado di comunicare tra loro attraverso la fisicità delle scelte operate in termini di tecniche, dispositivi con i livelli di funzionamento operativi nelle differenti performances stagionali. Ciò si rende ancora più necessario per un edificio per uffici che deve ospitare un aumento del numero di addetti e di utenza con un adeguamento in retrofit dell’edificio esistente ad opera dei nuovi corpi annessi, un parassitismo sostenibile capace di assorbire il cambiamento del modello d’uso iniziale anche con una funzione di produzione energetica, oltre che di funzioni per un nuovo programma.
1 Progetto vincitore di concorso internazionale in due fasi (2005); progetto definitivo approvato (2010). Con RICCISPAINI architetti associati e Gabriele del Mese – ARUP Italia. 2 Progetto vincitore di concorso internazionale in due fasi (2008); progetto definitivo approvato (2011). Con RICCISPAINI architetti associati, Consuelo Nava, Stefan Tischer e Cooprogetti. 3 Progetto vincitore di concorso internazionale a inviti (2007); primo lotto esecutivo completato (2010), secondo lotto esecutivo in costruzione (2012). Con RICCISPAINI architetti associati. 4 Progetto di concorso internazionale a inviti, in attesa di giudizio (2012). Con RICCISPAINI architetti associati.
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8 RICCISPAINI architetti associati. Valagro Eco_Factory
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TERRITORI ED ARCHITETTURE DEL MADE IN ITALY
Rosario Pavia
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Il Made in Italy non è solo una componente centrale della nostra economia industriale1, la sua nozione è in realtà più complessa rappresentando, per molti versi, l’immagine culturale e sociale del nostro paese. La storia del Made in Italy ha confini mobili, le sue radici possono essere rintracciate lontano nel tempo e, senza retorica, potremmo risalire al nostro Rinascimento attraverso la figura del mercante imprenditore che riusciva ad organizzare e diffondere la produzione di un artigianato di qualità e di un’attività artistica senza pari. Ma più propriamente è nel corso del ‘900 che la storia del Made in Italy prende forma, legandosi all’organizzazione capitalistica della produzione industriale. Un’organizzazione complessa dove, fin dall’inizio, le grandi fabbriche sono fortemente legate al territorio e a una rete di piccole e medie imprese fornitrici; e dove, se non c’è la grande fabbrica urbana, l’industria si lega alla presenza di un artigianato evoluto, in grado di utilizzare la disponibilità di una forza lavoro ancora in buona parte sostenuta dall’economia agricola. Adriano Olivetti coglie per primo il radicamento dell’impresa sul territorio e il suo costituirsi come matrice di una filiera produttiva e sociale. Il progetto olivettiano di una fabbrica che s’irradia orizzontalmente nel territorio, promuovendo non solo il lavoro, ma servizi per la cultura, la coesione e l’emancipazione culturale si esaurisce agli inizi degli anni ’60. Olivetti rappresenta un passaggio chiave, interpreta e delinea uno scenario avanzato, ma nello stesso tempo la sua scomparsa coincide con un arretramento dell’Italia da tutti i settori emergenti dell’industria: dall’elettronica, all’energia, alla chimica, alle grandi infrastrutture, alla ricerca applicata. È in questa fase di transizione e ridimensionamento, ma di forte crescita della domanda interna, che lentamente si organizza l’industria del Made in Italy. La piccola impresa incontra il design per il suo prodotto e l’architettura per la sua fabbrica. Se volessimo trovare un’immagine icona per questa fase inaugurale dovremmo pensare alla fabbrica di Paolo Soleri per Vincenzo Solimene, industriale artigiano delle ceramiche di Vietri, oppure all’incontro tra Dino Gavina, Carlo Scarpa e i fratelli Castiglioni e alla loro collaborazione per produrre oggetti di design ma anche stabilimenti di produzione e negozi di distribuzione. È un inizio lento, ma che negli anni ’70 diviene sempre più consistente ed aggressivo. Si apre la fase del decentramento produttivo, del ridimensionamento della grande fabbrica, dell’affermazione dei distretti industriali.
È anche la fase della diffusione del capannone industriale senza qualità e senza cura per l’ambiente e il paesaggio. DECENTRAMENTO INDUSTRIALE E CITTÀ DIFFUSA A partire dagli anni ‘70 si passa dalla grande polarizzazione urbana, dall’economia della città fabbrica, dalla verticalizzazione del ciclo produttivo, ad un’economia che si esternalizza, delocalizzandosi in una pluralità di piccole e medie imprese. Il decentramento produttivo, l’affermarsi in molte regioni del paese dei distretti industriali, il recupero economico delle città intermedie e minori, insieme ad un sostenuto decentramento residenziale hanno prodotto l’immagine di un territorio che si riorganizza per sistemi urbani diffusi e filiere produttive e decisionali orizzontali. Alla diffusione urbana corrisponde una organizzazione orizzontale dell’impresa e della società. Il processo produttivo si decentra, si mette in rete, allo stesso modo si espande e assume autorevolezza il sistema delle autonomie locali e il protagonismo dei sindaci. Le immagini ricorrenti sono l’Italia delle cento città, la rivincita delle città intermedie, della piccola città che Giuseppe De Rita vedeva «come presidio di vitalità territoriale e centro di nuove micro regioni». Al monocentrismo delle grandi città e alla centralizzazione dei poteri decisionali si sostituiscono il policentrismo e la poliarchia. Il territorio molecolare della piccola e media industria è il motore della tenuta economica e dell’affermazione del Made in Italy. La via allo sviluppo della Terza Italia, prefigurata negli anni ‘80 da Giorgio Fuà e Arnaldo Bagnasco diviene un modello diffusivo da sostenere in realtà diverse, non solo nel Nord Est e nel Centro, ma anche nel Nord Ovest e nel Meridione. La tenuta sociale del paese è affidata alla vitalità dei distretti industriali, alla loro flessibilità, ma anche al loro legame con la cultura e le risorse endogene del territorio locale. L’immagine del processo di urbanizzazione diffusa ha assunto nei diversi contesti territoriali forme specifiche d’insediamento a seconda della specializzazione funzionale delle imprese e la diversa combinazione tra industrie manifatturiere e territorio. Da un’urbanizzazione periferica dai caratteri informali e individualistici, che via via si espandeva nei territori ancora rurali dei centri intermedi e minori, si è passati ed una organizzazione urbana più strutturata, al punto da apparire non più come anticittà, ma città a tutti gli effetti con crescenti dotazioni di servizio (i centri commerciali, gli outlet, i cineplex e i par-
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chi tematici collocati alle intersezioni delle grandi reti stradali hanno finito presto per divenire i nuovi luoghi del collettivo territoriale). La diffusione urbana si è legata sia alle dinamiche del mercato immobiliare e ai nuovi stili di vita (il minore costo delle abitazioni e l’attrattività della casa unifamiliare), sia ai processi del decentramento produttivo. La diffusione delle attività produttive, come risposta alla crisi della grande industria, si legava a sua volta alle risorse di particolari contesti locali in cui una tradizionale vocazione manifatturiera, una relativa dotazione infrastrutturale, una radicata cultura del lavoro, insieme ad una economia agricola sufficiente ad integrare i salari industriali, avrebbero consentito alle piccole e medie imprese di affermarsi rapidamente. “L’industrializzazione senza fratture” delle Marche, del Veneto, dell’Emilia Romagna, della Val d’Arno divenne presto un modello da promuovere e sostenere sull’intero territorio nazionale. Il distretto industriale si affermò negli anni ‘80, la sua evoluzione condizionerà in gran parte le trasformazioni insediative delle città intermedie e minori. Le filiere produttive inglobando in maggiore misura le attività di servizio produrranno nel territori una sorta di direzionale diffuso. Nel corso degli anni ’90, infatti, il distretto si terziarizza: aumentano gli addetti ai servizi alle imprese, diminuiscono quelli direttamente occupati nell’industria manifatturiera. È in questa fase che la diffusione urbana si struttura in forma più compiuta, diviene città, assume una conformazione più stabile, si radica al territorio, alle comunità locali, acquisisce identità, spessore. In qualche misura si storicizza, cessa di essere l’atopico territorio dei non luoghi. L’economia dei distretti industriali si è sensibilmente contratta negli ultimi anni, la sua cultura si è tuttavia trasmessa ad altri settori dal turismo, ai beni culturali, all’enogastronomia, alla nautica. La stagnazione economica, la competizione internazionale, hanno innescato un processo di trasformazione del modello tradizionale del distretto industriale. Si sono rafforzate le imprese leader, è aumentato il peso delle attività di servizio a forte valore aggiunto (dalla progettazione, al design, alla ricerca), nel contempo molte attività lavorative sono state decentrate nei paesi fornitori o direttamente in quelli destinatari dell’export. Nelle aree più attive del Centro Nord le imprese leader sono il motore di processi di concentrazione aziendale con effetti di densificazione delle reti locali, le quali, per la prima volta, in-
teriorizzano i flussi finanziari, informativi, conoscitivi e di relazione del circuito globale. LE ARCHITETTURE DELLA DIFFUSIONE PRODUTTIVA Cosa ha significato l’architettura della diffusione produttiva e l’affermarsi del Made in Italy su piano insediativo e della qualità urbana e del paesaggio non è facile a dirsi. Manca una riflessione sul ruolo dell’industria, sia all’interno della città diffusa, sia nella riorganizzazione della città consolidata. A guardar bene, mentre conosciamo l’architettura industriale della grande fabbrica e delle company towns (da Torino, a Ivrea, a Maranello, a Bergamo a Terni, a Sesto S. Giovanni), la nostra conoscenza del periodo relativo ai decenni più recenti è limitata agli interventi di architetti di fama chiamati da imprenditori di successo (da Renzo Piano per B&B e FIAT, Tobia e Afra Scarpa per Ferrari, Tadao Ando per Benetton, a Massimiliano Fuksas per Nardini e Ferrari, a Jean Nouvel per Ferrari e Km Rosso e Kengo Kuma per Casalgrande Padana...). La ricerca avviata per il Padiglione Italia per la 13a Mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, anche se per grandi linee, dimostra la consistenza degli interventi progettuali promossi dagli imprenditori del Made in Italy per i loro stabilimenti e uffici direzionali. Il successo del Made in Italy e la sua affermazione sul mercato interno e internazionale è documentato dal diffuso investimento in opere d’architettura. Il rinnovo del patrimonio immobiliare degli imprenditori si concentra negli anni ’80-’90, ma continua, nonostante la crisi, anche nel corso del 2000. Attraverso le architetture del Made in Italy è possibile leggere le trasformazioni di un comparto industriale che si consolida nel tempo e che, superando l’essenzialità del capannone, organizza il suo spazio produttivo e direzionale in strutture più complesse attente alla qualità architettonica, al rapporto con il contesto, all’immagine dell’azienda veicolata dall’architettura. Ovunque in Italia dalle province dell’arco alpino, alla periferia delle grandi città del Nord Ovest, alle regioni della città diffusa, alle aree metropolitane di Napoli e Roma, fino ai distretti industriali della Puglia e della Sicilia, troviamo tracce consistenti dell’impegno delle committenze industriali nei confronti dell’architettura. Nella diffusione urbana e produttiva le nuove architetture emergono come grumi di qualità che rompono l’uniformità del paesaggio delle zone industriali.
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Accanto a studi professionali affermati e legati da tempo a gruppi industriali di primo piano (da Antonio Citterio, a Guido Canali, a Cino Zucchi a Mario Cucinella, a Dante Benini, a Michele De Lucchi, a Piero Lissoni, a Pierpaolo Ricatti...), troviamo una molteplicità di studi professionali meno noti, ma di notevole interesse che hanno saputo dialogare con intelligenza con committenze esperte ed esigenti. Ne emerge uno spaccato di un mondo professionale radicato sul territorio, capace di presidiare i propri ambiti regionali, ma anche di espandersi sul mercato nazionale e internazionale, seguendo, in questo, un modello di comportamento culturale e imprenditoriale proprio del Made in Italy. Stabilimenti, uffici direzionali, ma anche laboratori, centri di ricerca e negozi: nelle aziende leader il progetto di architettura si diffonde su tutto il sistema: dalla ricerca e programmazione, alla produzione, alla distribuzione. Il sistema è divenuto complesso, la sua gestione richiede un’organizzazione manageriale avanzata in grado di controllare le diverse fasi del processo, non solo quelle relative alla progettazione e produzione, ma anche quelle proprie della logistica. Il sistema appare sempre di più una rete di relazioni tra nodi operativi e flussi. Non più una filiera interna ai distretti, ma una rete che dal territorio locale si espande all’esterno. Le aziende leader hanno oggi una dimensione globale, la loro sfera operativa si articola sia su reti territoriali nazionali sia su filiere radicate nei paesi d’esportazione. La logistica è entrata decisamente nell’organizzazione nell’economia del Made in Italy, introducendo nuovi temi per il progetto di architettura. Il sistema degli hub, dei poli logistici per lo smistamento delle materie prime, l’assemblaggio dei semilavorati e la distribuzione dei prodotti verso le aree di mercato e i clienti è divenuto già ora, una realtà di notevole impatto urbanistico e architettonico. Le architetture del Made in Italy con la loro qualità testimoniano che nella diffusione produttiva è in corso un processo di riconcentrazione: le aziende leader estendono il loro spazio locale, rinnovano architettonicamente sia gli uffici che gli stabilimenti realizzando veri e propri headquarters con caratteristiche e servizi aperti alla città e al territorio. Gli insediamenti della Diesel di Renzo Rosso a Breganze (Vi) vanno in questa direzione, riprendendo un aspetto importante del progetto olivettiano. La qualità architettonica promossa dagli imprenditori leader
ha un effetto diffusivo, innescando sul contesto locale un processo di apprendimento e di imitazione da parte di altri operatori. L’architettura promuove così altre architetture, attivando a suo modo una sorta di nuova filiera. Accanto a questo processo di densificazione ne troviamo un secondo, più consistente e articolato, legato ai parchi tecnologici promossi fin dagli anni ’80 come spazi dedicati alla ricerca applicata e all’innovazione, come aree attrezzate per favorire lo scambio di conoscenza tra operatori industriali, istituzioni scientifiche e società di ingegneria e design. I poli e i parchi tecnologici, promossi da operatori privati e pubblici, sono distribuiti su tutto il territorio nazionale: nel cuore della città come l’Environmental Park di Torino; in corrispondenza di aree industriali ed alta concentrazione di aziende leader come il Km Rosso di Bergamo, non a caso in prossimità di un grande snodo autostradale; lungo le vie di accesso alle grandi città come il Polo Tecnologico Tiburtino alle porte di Roma; negli spazi dismessi di antiche strutture industriali come l’Arsenale di Venezia, che accoglie importanti istituti di ricerca; in aree industriali meridionali in declino come la Valle del Sangro dove il futuro del settore dell’automotive, con i grandi stabilimenti per la produzione di veicoli pesanti e leggeri (Sevel e Honda) e il loro esteso indotto, può essere sostenuto da uno specifico campus per l’innovazione. I parchi tecnologici seguono un passaggio importante nel processo di trasformazione del sistema industriale manifatturiero. La competizione internazionale, lo sviluppo tecnologico, la ricerca di innovazione di prodotto e di processo spingono gli imprenditori più avanzati e le istituzioni scientifiche pubbliche e private a coordinare le loro attività di ricerca e di sperimentazione. I nuovi insediamenti si pongono come centralità territoriali di rango superiore. La loro dimensione instaura inediti rapporti spaziali con il paesaggio e il sistema insediativo, nuove relazioni sociali e di governance con le istituzioni politiche, economiche e culturali di un sistema territoriale che ha ormai superato i confini amministrativi del distretto industriale. Tutto il territorio italiano porta i segni di un processo di dismissione di aree e di strutture industriali. Il decentramento e la delocalizzazione produttiva hanno accompagnato la dismissione delle industrie localizzate nelle aree centrali e periferiche della città consolidata. L’ampiezza del processo di dismissione ha condizionato profondamente le recenti politiche urbanistiche.
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Molte aree industriali dismesse hanno cambiato destinazione d’uso, realizzando nuovi plusvalori immobiliari e nuove rendite urbane. Anche per questo la riorganizzazione funzionale e qualitativa dei sistemi urbani procede a fatica, molto spesso con effetti negativi e distorcenti (congestione, mancanza di infrastrutture e spazi pubblici, eccesso di edilizia residenziale e commerciale), nello stesso tempo è assente una politica urbanistica attenta al lavoro e allo sviluppo delle attività produttive. In tal senso assumono un particolare significato gli interventi di riconversione con fini produttivi delle infrastrutture industriali e il recupero del patrimonio edilizio storico per nuove iniziative imprenditoriali. Le realizzazioni e i progetti in questa prospettiva non sono numerosi, ma tracciano un percorso di grande rilievo: si pensi al recupero di borghi storici, come il nucleo di Solomeo in Umbria, riconvertito da Brunello Cucinelli come fabbrica-store per l’abbigliamento, all’esperienza dell’albergo diffuso di S. Stefano di Sessanio, vicino a L’Aquila, realizzata dall’imprenditore italo-svedese Daniele Kihlgren, alla riconversione di grandi complessi industriali come l’ex Snia Viscosa di Torviscosa, dove la Bracco Group ha promosso l’insediamento di attività produttive direzionali e laboratori di ricerca, alla difficile riqualificazione delle aree industriali di Bagnoli, dove solo la città della Scienza di Massimo Pica Ciamarra è stata realizzata, fino ai progetti per il recupero della ex cartiera di Pompei come centro per l’artigianato e il commercio e della Manifattura Tabacchi di Bologna promosso dalla Regione Emilia-Romagna per farne un tecnopolo. Riconvertire il patrimonio esistente mantenendone la destinazione produttiva, o utilizzarlo per servizi di utilità pubblica, delinea una prospettiva strategica tesa a contrastare il consumo di suolo e la dispersione di un patrimonio industriale sottraendolo alle logiche speculative della rendita urbana. Il settore agro-alimentare fa parte integrante del Made in Italy. Le colture del vino e dell’olio si sono imposte in molte regioni italiane. La qualità del prodotto coincide spesso con quella del paesaggio e delle strutture produttive. Cantine e frantoi sono divenuti in breve tempo un banco di prova della ricerca progettuale per un’architettura integrata nel paesaggio agricolo. Anche qui, accanto a interventi “immagine” affidati ad architetti di fama, troviamo una pluralità di iniziative di aziende vinicole impegnate a promuovere progetti di architettura (si pensi per esemplificare alle cantine di Mezzacorona progettate da Alberto Cecchetto , a quelle di Tramin affidate a Werner
Tscholl, di Antinori con Archea, di Feudi San Gregorio con Hikaru Mori e Maurizio Zito, di Donna Fugata con Gabriella Giuntoli o alle Cantine Moltibuono realizzate dallo studio Sartogo Architetti Associati...). Le cantine si inseriscono nei fondi agricoli, orientano la percezione del paesaggio, ma nello stesso tempo disegnano un itinerario, rimandano ad altre aziende ad altri vigneti, dialogano con i centri storici vicini ponendosi anch’esse come nodi di una rete territoriale. I prodotti tipici del Made in Italy hanno trovato negli anni più recenti una loro originale forma di distribuzione e di consumo nella rete dei centri enogastronomici di Eataly che l’imprenditore Oscar Farinetti da Torino, dove per l’occasione lo studio Negozio Blu Architetti associati ha progettato la riconversione dell’ex stabilimento Carpano, sta estendendo in numerose città italiane e nelle principali capitali internazionali. Da Torino, a Milano, a Bologna, a Genova, a Roma, fino a New York e Tokio la valorizzazione dei prodotti eno gastronomici di Eataly si coniuga con la riqualificazione e la riconversione di strutture esistenti, sottolineando ancora una volta il ruolo del progetto di recupero nella cultura del Made in Italy. Una ricerca più approfondita, utilizzando cartografie appropriate e uno sguardo dall’alto, potrebbe rivelare l’effettiva portata delle trasformazioni del territorio nazionale indotto dalle architetture del Made in Italy. Ne ricaveremmo un quadro più preciso del loro ruolo nelle maglie della città diffusa, nei recinti delle zone industriali; del loro impatto nelle periferie delle città; dei loro effetti di centralità e di aggregazione quando la loro dimensione da puntiforme si fa complessa e areale; della loro influenza nei processi di riconversione produttiva e di riqualificazione urbana. OLTRE LA FABBRICA Il Made in Italy come nozione è in continua trasformazione, non solo sul piano merceologico, ma di contenuto. I settori tradizionali: la casa e l’arredo, l’agroalimentare, il tessile e l’abbigliamento, la meccanica, il calzaturiero, il cartario, si sono arricchiti di altre presenze, dal turismo al biomedico, al farmaceutico, all’elettronica, all’aerospaziale, alla bioingegneria, alle biotecnologie, alla robotica, alla fotonica, alle energie rinnovabili al risparmio energetico, al riciclo. Il Made in Italy sembra cogliere l’emergenza ambientale ed energetica, si sta facendo carico di una produzione rivolta alla
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sostenibilità ambientale, ma nello stesso tempo non può non confrontarsi con una crisi che sta cambiando la domanda e contraendo i consumi. Il Made in Italy si è aperto al sociale, ai servizi e all’assistenza sanitaria. In un sistema in cui i costi della salute riducono il welfare pubblico si aprono per l’imprenditoria nuove prospettive di intervento. La tradizione italiana ed europea nel welfare può coniugarsi con la capacità imprenditoriale e organizzativa del Made in Italy, trasformandosi in un nuovo progetto in grado d’intercettare una crescente domanda sociale di servizi e costi accessibili. L’impresa ha oggi una connotazione più ampia, va oltre la fabbrica, entra nel sociale e nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nel settore museale promuovendo iniziative imprenditoriali in cui sono coinvolti operatori privati e istituzioni pubbliche. L’impresa si lega sempre di più alla ricerca, al ruolo promozionale e conoscitivo degli eventi e delle fiere. Il nuovo Made in Italy è in corso, le trasformazioni sono in atto e delineano un sistema produttivo che per le sue maggiori aperture nel sociale, nella cultura e nelle istituzioni, ha dilatato i suoi confini; mantenendo le sue radici locali, ha espanso la sua rete in territori sempre più vasti, dove le filiere comprendono non solo attori industriali, ma centri di ricerca, università, camere di commercio, società di certificazione, istituti di credito, amministrazioni locali e centrali, studi professionali, società di consulenza e assistenza per l’internazionalizzazione. Il ricorso al termine «piattaforma produttiva», di Aldo Bonomi, allude ad un sistema di relazioni complesse, sia sociali che economiche, ma anche a un sistema di reti e di flussi che si materializzano in infrastrutture e nodi logistici, in attrezzature efficienti per la mobilità delle persone e delle merci, in reti immateriali per la comunicazione e l’informatica e in reti infrastrutturali-ecologiche per l’equilibrio e la stabilità dell’ambiente. Il territorio italiano, dobbiamo riconoscerlo, non è un sistema efficiente di reti, è piuttosto un intreccio di reti sconnesse e insufficienti. È questo il nodo che rende ancora più grave l’attuale, perdurante, condizione di crisi economica. Trasformare questo territorio sconnesso e a rischio, partendo dalla sua economia reale, dalla trama dei suoi nodi di qualità e di eccellenza, significa riprendere un discorso interrotto, riavviare un progetto di sistema territoriale fondato su reti infrastrutturali, conoscitive e di governance efficienti, sostenibili, solidali. Non sarà facile. Forse proprio per questo l’eredità culturale di Adriano Olivetti ci può essere ancora di aiuto.
1 Secondo il rapporto della Fondazione Edison e di Symbola (Fondazione per le qualità italiane), Italia. Geografie del Made in Italy, Maggio 2009, il valore aggiunto del Made in Italy è stato di 142 miliardi di euro, pari al 65% del valore aggiunto complessivo del manifatturiero nazionale. Secondo l’ ICE (Istituto nazionale per il Commercio Estero) il contributo del Made in Italy alle esportazioni italiane è stato, tra il 2000 e il 2007, dell’ordine del 37%.
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HASHIMA: ECONOMIE PRODUTTIVE TRA ROVINE POST-INDUSTRIALI
Giulia Menzietti
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Hashima è un’isola della costa di Nagasaki che nel 1890, per via della presenza di giacimenti minerari, viene acquistata dalla ditta Mitsubishi Motors. A partire da questa data, in circa 84 anni di attività, il sito produce 16.5 milioni di tonnellate di carbone. L’impiego sempre più diffuso del petrolio nella produzione di energia, alla fine degli anni Sessanta, provoca l’interruzione dell’attività estrattiva nei giacimenti di Hashima. Nel 1974, dopo la cerimonia ufficiale per la chiusura della miniera, l’isola viene completamente abbandonata e torna allo status originario, come si presentava prima di divenire proprietà della Mitusbishi: un piccolo promontorio di roccia emerso dal mare e completamente disabitato. La differenza rispetto a tale condizione iniziale è nell’attuale presenza di edifici vuoti e abbandonati, e di tutti quei tentativi di trasformazione del suolo che testimoniano dell’enorme sforzo del volere sfruttare l’isola ad ogni costo. L’attuale situazione di Hashima e la sua breve storia ne fanno un caso significativo nell’indagine sugli spazi nati esclusivamente per scopi produttivi, e sulla prefigurazione dei possibili scenari che si aprono una volta che tali attività si interrompono definitivamente. HASHIMA. STORIA DI UN’ISOLA DIVENTATA MINIERA Hashima si trova nel Mar Cinese Orientale ed è una delle 505 isole disabitate della Prefettura di Nagasaki. La vicenda del sito si lega alla presenza di giacimenti minerari. Già nel diciottesimo secolo la popolazione di Takashima, un’isola limitrofa, estrae il carbone per poi venderlo all’estero. Nella seconda metà del diciannovesimo secolo, grazie alla po-
sizione strategica rispetto alla Cina e alle rotte commerciali, il porto di Nagasaki assume una rilevante importanza nei traffici marittimi. In questo stesso periodo vengono costruite le prime navi con i motori a vapore, che in breve tempo si sostituiscono alle imbarcazioni a vela e incrementano notevolmente la domanda di carbone. Nel frattempo i sistemi di estrazione diventano più sofisticati, e nel 1869 un’équipe di ingegneri meccanici britannici viene chiamata a Takashima per scavare a 45 metri nel sottosuolo, realizzando così la prima miniera di carbone del Giappone. Il successo economico garantito dall’attività estrattiva di Takashima e la richiesta di combustibile per i commerci navali spingono la famiglia Fukahori, che all’epoca amministrava l’isola e le rispettive miniere, ad espandere l’attività nelle isole limitrofe. Nel 1887 per la prima volta viene scavato un pozzo ad Hashima, fino ad allora mai abitata da presenze umane. Tre anni dopo, nel 1890, l’isola viene acquistata per 100.000 yen dalla Mitsubishi Motors, un’azienda di costruzioni navali nata nel 1873, che nel 1881 aveva già comprato le miniere di Takashima. La ditta lancia una campagna produttiva per sfruttare al massimo le risorse del sito, e in meno di tre anni costruisce due pozzi profondi ciascuno 200 metri. Il suolo del promontorio roccioso viene plasmato utilizzando le scorie della miniera e viene ricavata una porzione piana su cui costruire gli impianti per la lavorazione del carbone e i dormitori per i minatori. Intorno al perimetro dell’isola viene costruito un muro, una sorta di fortificazione contro tifoni e inondazioni, e da qui il soprannome Gunkanjima per la somiglianza ad una nave da guerra.
1 Isola di Hashima, in http://abandonedkansai.wordpress.com
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Hashima non è altro che un agglomerato di rocce carbonatiche e l’impresa Mistubishi si trova a dover costruire ogni elemento funzionale all’attività estrattiva. Oltre agli impianti industriali e ad una prima struttura per dormitori, si rende necessario un altro edificio per soddisfare la richiesta di alloggi della manodopera in aumento: nel 1916 l’isola produce annualmente 150.000 tonnellate di carbone e la sua popolazione è di oltre 3000 abitanti. Nello stesso anno viene costruito ad Hashima il primo palazzo in cemento armato del Giappone. Si tratta di una sorta di condominio che si sviluppa in altezza per alloggiare il maggior numero possibile di lavoratori in una porzione di territorio assolutamente inadatta e insufficiente ad ospitare così tante persone. Questo primo edificio, alto sei piani, si dispone attorno ad una corte e ospita stanze di 9,9 metri quadri con sei posti letto nei tatami a terra. Due anni dopo lo spazio di questo grande condominio non riesce più a contenere il numero crescente delle famiglie dei minatori: un altro edificio in cemento armato viene eretto ad Hashima, e i nove piani d’altezza ne fanno, in quel periodo, la costruzione più alta del Giappone. Se prima e durante la Seconda Guerra Mondiale la produzione edilizia in Giappone sembra interrompersi definitivamente, ad Hashima, per far fronte alla continua domanda di carbone, si continua a reclutare personale e a costruire alloggi e servizi per i lavoratori. In poco tempo nella ristrettissima superficie dell’isola, lunga 490 metri e larga 160 metri, vengono costruiti scuole, palestre, negozi, un ospedale, una piscina, un cimitero, un tempio buddista ed un santuario shintoista. Nel 1941 si producono 410.000 tonnellate di carbone. Buona parte della popolazione maschile giapponese è impegnata sul fronte militare, e i minatori di Hashima vengono reclutati tra prigionieri coreani e cinesi. Nonostante gli sforzi nel garantire alloggi e servizi, nell’isola si registra un alto tasso di mortalità, dovuto alle condizioni lavorative nelle miniere e ad una densità abitativa che nel 1959 raggiunge la media di 835 abitanti per ettaro, ovvero 83.500 abitante per Km2. La piccola città che si genera dall’attività della Mitsubishi riflette in ogni aspetto la sua genesi e la sua natura di ambiente costruito esclusivamente per consentire l’efficienza produttiva dell’estrazione nelle miniere. La piattaforma ricavata nel territorio di Hashima, l’unica porzione pianeggiante dell’isola, è pari al 40% della sua estensione totale e viene completamente dedicata agli impianti industriali. I condomini, gli uffici, i servizi e tutto quello che può garantire la sopravvivenza dei minatori viene posposto alla dimensione lavorativa e addossato ai fianchi dell’isola, nelle pareti scoscese degradanti verso il mare, in un processo di organizzazione del suolo che rispecchia in maniera evidente la vocazione produttiva dell’isola. Tale aspetto si riflette anche nella condizione sociale della comunità di Hashima, sensibilmente condizionata dalla suddivisione della gerarchia lavorativa in caste. I lavoratori non sposati e i dipendenti di ditte in subappalto vivono in stanze singole con dimensioni minime; gli operai con famiglia condividono appartamenti da sei posti letti con bagni e servizi in comune; i docenti e gli impiegati di alto livello risiedono in dignitosi appartamenti di due posti letto con bagni e cucine private, e i manager della ditta hanno diritto a residenze private, costruite in legno e simbolicamente collocate nel punto più alto dell’isola.
Il lavoro e la provenienza del salario costituiscono i caratteri d’identificazione sociale tra gli abitanti dell’isola. La condivisione di un obiettivo comune genera tra i minatori un senso di affiatamento e appartenenza alla comunità di Hashima. Nonostante le pessime condizioni lavorative gli abitanti accettano di sottostare al controllo e alle politiche della Mitsubishi, proprietaria unica di tutto quello che si trova nell’isola; con la garanzia di lavoro e alloggio assicurato, gli operai si dividono in turni per mantenere funzionanti e puliti i servizi e le attrezzature pubbliche. Si tratta di un insediamento e di una comunità artificiali, interamente costruiti dalla mano dell’uomo ed esclusivamente dettati dall’esigenza di lavorare per poter sopravvivere. Ogni cosa nasce e si trova ad Hashima per consentire il funzionamento dell’attività estrattiva. La condizione d’isolamento intensifica questo status di città laboratorio. Nell’isola si produce solo carbone, e la comunità è completamente dipendente dall’esterno per cibo, acqua, vestiti ed utensili per la lavorazione nelle miniere. Soltanto nel 1957 vengono usati dei tubi che corrono sotto il fondo del mare per prendere acqua dai serbatoi della terra ferma. L’approvvigionamento degli abitanti è qualcosa di totalmente avulso dal sito che si abita, e come ogni aspetto della vita di Hashima, dipende da fattori esogeni. Il suolo è costituito da un ammasso di scorie addossate ad un promontorio di roccia, con un’estensione di circa 180.000 m2. Lontana dalle possibilità di espandersi in un insediamento più grande, sia per mancanza di superfici che per la totale assenza di contatti e vie di comunicazione con la terraferma, l’isola si trova in poco tempo invasa da masse incontrollate di operai e da un’edificazione massiva che nel 1959 registra il più alto tasso di densità abitativa nel mondo. La legge del mercato è l’unico motore della colonizzazione del sito. Lo sfruttamento del suolo e delle risorse avviene nella totale assenza della prefigurazione di scenari futuri o di una logica controllata di trasformazione delle risorse a disposizione. Negli anni Sessanta il petrolio diventa il pilastro della produzione energetica, cancellando quasi definitivamente il carbone dai mercati mondiali. Quasi tutte le attività estrattive del Giappone vengono interrotte e la Mitsubishi trasferisce progressivamente le masse di operai in altri settori. Nel 1974 una cerimonia ufficiale svolta nella palestra di Hashima annuncia la chiusura definitiva dei giacimenti minerari. A partire da questo momento l’esodo degli abitanti si consuma in tempi brevissimi e in pochi mesi l’isola torna ad essere nuovamente disabitata. Il sito nasce come luogo per il lavoro e, una volta esaurite le risorse minerarie e cessata l’attività estrattiva, perde ogni ruolo, ogni valore e si spegne senza prospettive di futuro o trasformazione. Dal 1974 ad oggi Hashima si trova in uno stato di totale abbandono. Nel 2002 la prefettura di Nagasaki ha comprato l’isola dalla Mitsubishi e, per via delle gravi condizioni di degrado degli edifici, ha proibito per oltre 30 anni l’attracco delle navi. I pescatori possono soltanto avvicinarsi all’isola, sostando esclusivamente sul muro perimetrale e rischiando altrimenti di essere puniti con un mese di carcere e l’espulsione dal territorio municipale di Nagasaki. Soltanto nel 2005 viene consentito ad alcuni giornalisti di visitare il sito e da questo momento in poi le foto dell’isola abbandonata si diffondono rapidamente registrando elevati indici d’interesse in tutto il mondo.
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HASHIMA, DA GIACIMENTO MINERARIO AD ICONA POP L’immagine di rovina emersa dall’oceano ha reso Hashima un’icona del web. Haikyo, che può essere tradotto come rovina, è il nome di una corrente fotografica nata recentemente in Giappone, che sceglie come soggetti le rovine e i ruderi delle costruzioni giapponesi moderne. L’atmosfera spettrale, i rimandi a scenari futuristici e gli accenti romantici della vegetazione sulle macerie rendono l’isola un soggetto ricorrente nelle opere degli artisti di questo movimento. Un fotografo giapponese, Saiga Yuji, descrive le trasformazioni di Hashima immortalandola immediatamente prima dell’esodo degli abitanti e, successivamente, dopo dieci anni di abbandono. L’autore partecipa alla cerimonia di chiusura della miniera, nel 1974, per poi tornare a fotografare il sito nel 19841. La presenza dei minatori prima, e le condizioni di degrado poi conferiscono un’aura mitica alla vicenda dell’isola. Un altro artista che lavora con i temi dell’Haikyo, il fotografo giapponese Shinichiro Kobayashi, racconta quel che resta di Hashima negli scatti di No man’s land2 ed espone l’opera in occasione dell’ononima mostra tenuta nel 2004 ad Osaka. Il lavoro sull’isola fa parte di una serie più ampia, chiamata Deathopia3, che raccoglie le foto dell’autore su siti abbandonti e dismessi. Nel 2002 due artisti svedesi, Carl Michael von Hausswolff e Thomas Nordanstad, rispettivamente un compositore di musica elettronica e un regista di cortometraggi, scelgono l’isola abbandonata come soggetto per il video Hashima, Japan 2002. Nella prima parte dell’opera, con un taglio documentaristico, la telecamera si muove tra le costruzioni in rovina seguendo i percorsi e i racconti di un ex minatore, nato e vissuto nell’isola fino al 1974. Nella seconda parte prevale una dimensione onirica, percepibile in una lenta sequenza di inquadrature sui resti immobili e abbandonati, privi di vita e di movimento ad eccezione delle onde del mare. Le immagini vengono accompagnate da oscillazioni sonore impercettibili, tracce elettroniche che restituiscono una dimensione minimale del suono, che sembra riprodurre le atmosfere silenti dei ruderi in abbandono. A partire dal 2003 Hashima entra nell’immaginario collettivo del Giappone, conosciuta dalle grandi masse come set del film Batlle Royale II: Requiem4. Si tratta del seguito della prima serie e racconta di un gruppo di studenti rapiti e costretti a rimanere sull’isola per combattere in una carneficina in cui l’unico obiettivo è uccidere. Il successo della rappresentazione di Hashima come teatro di guerra e campo di battaglia viene confermato anche dall’impiego nel videogioco Killer75, in un episodio della serie manga Get Backers6 e nel videogioco Forbidden Siren7, ambientato nell’isola, rinominata Yamijima, nella quale i personaggi restano intrappolati in seguito ad uno tsunami che ribalta il traghetto sul quale viaggiavano. Nel 2005 il paesaggio sonoro di Hashima diviene materiale dell’opera della musicista finlandese Mika Björklund. I rumori registrati nell’isola vengono riprodotti insieme a sonorità provenienti da altri luoghi, a frammenti di musica concreta e a suoni elettronici. L’opera Gunkanjima si articola in una serie di tracce audio in cui la dimensione acustica, amplificata dai titoli dei brani8, restituisce in chiave descrittiva immagini e atmosfere dell’isola in rovina.
Nel 2009 due artisti tedeschi, Nina Fischer e Maroan el Sani, realizzano Spelling Dystopia9, una video installazione sull’isola di Hashima. L’opera si basa su una narrazione a più voci delle vicende del sito: il racconto di un ex minatore, le immagini degli edifici in procinto di crollare ed un video ispirato al set di Battle Royale. I due artisti indagano il cambiamento di ruolo dell’isola nel corso del tempo: un giacimento minerario andato in disuso simbolo dell’industrializzazione del Giappone, un rudere emerso dal mare dall’immagine perturbante e altamente seduttiva, un singolare set usato per ambientare manga e videogame. Questa visione multipla mette in luce le storie e i diversi livelli di percezione che si hanno oggi dell’isola. Nel 2009 il gruppo pop giapponese B’z usa una riproduzione 3d dell’isola come set per il video clip del brano My Lonely Town. Con una grafica da video gioco i musicisti vengono ripresi mentre si esibiscono nella piattaforma degli impianti industriali usando come palco un tappo di Pepsi sovradimensionato. L’immagine di Hashima e la sua rappresentazione diventano un fenomeno popolare, esteso a tutti i livelli della cultura sia a scala nazionale che internazionale10. Il governo di Nagasaki intuisce il potenziale dell’isola e si muove per realizzare servizi e mettere in sicurezza i percorsi per turisti. Da luogo proibito e sconosciuto l’isola diviene in poco tempo meta di tour organizzati di gruppi disposti a pagare 4500 yen per visitare i resti abbandonati di un singolare paesaggio industriale (Fig. 2). Nel 2002 un ex abitante dell’isola, Doutoku Sakamoto, fonda The Way to World Heritage Gunkanjima, un’organizzazione no-profit per promuovere la conservazione del sito e renderlo accessibile ai visitatori. I membri dell’associazione scrivono diversi testi sulla storia di Hashima e nel 2005 pubblicano il libro Legacy of Gunkanjima (Goto, Sakamoto, 2005), che dà inizio alla campagna per la candidatura dell’isola alla tentative list dell’UNESCO. Gli autori del testo considerano il sito idoneo alla richiesta in base ad alcuni criteri di selezione stabiliti dalla Convenzione del Patrimonio Mondiale dell’Unesco: in quanto capolavoro del genio creativo umano (I criterio), eccezionale esemplare urbano che segna una tappa significativa nella storia delle costruzioni (IV criterio), esempio singolare dell’interazione dell’uomo con l’ambiente nell’uso del suolo e del mare (V criterio)11. Hashima viene inclusa nel gruppo di siti industriali del Giappone coinvolti nella richiesta di candidatura Modern Industrial Heritage Sites in Kyushu and Yamaguchi. Nel 2008 il Ministero dell'Economia del Commercio e dell’Industria del Giappone decide di sostenere la domanda nel tentativo di salvaguardare il patrimonio industriale, promuovendone l'utilizzo come risorsa turistica. Nuovi modelli di sviluppo: dalla produzione del carbone all’impresa del paesaggio Nei 40 anni trascorsi dalla chiusura dei giacimenti ad oggi l’isola subisce diversi cambiamenti. Non si tratta di trasformazioni fisiche, a parte i fenomeni di erosione e degrado il sito è rimasto pressoché invariato, ma del mutamento di senso e di ruolo che Hashima ha assunto una volta abbandonata. Nata come sito produttivo, l’isola interrompe il suo ciclo vitale con la chiusura delle miniere, per poi spegnersi e ridursi nel tempo ad un cumulo di rovine. Una volta resa nuovamente accessibile, Hashima si trasforma in un’icona, in un simbolo capace di generare un interesse condiviso e declinato in vari livelli di lettura, con
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una nuova vocazione che si traduce sostanzialmente nel valore rappresentativo della sua immagine. Il fascino generato dalle rovine contemporanee, la testimonianza dello sviluppo industriale del Giappone e dello sfruttamento lavorativo dei prigionieri coreani e cinesi, la potenza del sito nelle rappresentazioni dei manga, dei videogames o nei set dei film, la curiosità dei turisti e le attenzioni degli organi deputati alla tutela rendono Hashima un’ingente risorsa per il governo di Nagasaki. Dopo la dismissione delle miniere e in seguito alla riapertura del sito l’isola conserva una dimensione di sviluppo, pur se sostanzialmente modificata: dalle tonnellate di carbone si passa a una produzione di tipo intellettuale, con un’economia reale ed efficiente, pur se immateriale e senza opera. La storia attraversa Hashima facendo del sito un dispositivo di lettura dei cambiamenti e delle trasformazioni che si sono succedute nel sistema produttivo del Giappone. L’isola nasce quando il carbone detiene il primato nei mercati energetici; il crollo di questo sistema causa il fallimento del sito, che si dimostra incapace di superare la crisi e di trasformare le risorse aprendosi a nuove economie. Hashima ha la fortuna di rinascere, dopo 30 anni, grazie ad una nuova strategia che inserisce il sito in un altro tipo di mercato, trasformandone sia il contesto produttivo, che entra in una dimensione intellettuale, sia le modalità di sviluppo: l’isola oggi non è più il soggetto e il motore attivo della produzione, ma diviene l’oggetto, la scena fissa intorno alla quale si muovono interessi culturali e investimenti finanziari. L’eccezionalità del sito e della breve storia che lo coinvolge salva Hashima da un destino di oblio e demolizione. L’isola resiste ai cambiamenti del sistema produttivo grazie alle tracce e ai resti di uno sfruttamento economico intensivo che nel tempo l’ha resa un luogo unico per due motivi fondamentali. Il sito rappresenta oggi un lascito della storia dello sviluppo industriale del Giappone, e la presenza di rovine contemporanee inserite in quel tipo di contesto naturale fa di Hashima un paesaggio singolare e di grande interesse. L’isola si inserisce in un processo di sviluppo altro, rispetto a quello iniziale, e si apre a nuove forme di economia che promuovono il paesaggio stesso come prodotto finale. Il turismo, gli interessi della tutela e la curiosità di artisti e giornalisti trasformano il sito in impresa, in una nuova formula che non investe più nella produzione di carbone o di beni materiali, quanto nello sviluppo di realtà stratificate e complesse, come un paesaggio di rovine post-industriali abbandonate in un’isola deserta.
1 Y. Saiga, Gunkanjima. Views of an Abandoned Island, Shinchosha, Tokyo 1987. 2 S. Kobayashi, No Man’s Land Gunkanjima, Kôdansha, Tokyo 2004. 3 S. Kobayashi, Deathopia, Media Factory, Tokyo 1998. 4 K. Fukasaku, Battle Royale, 2000, tratto dal romanzo di K. Takami, Battle Royale, Mondadori, Milano 1999. Dal film nel 2004 è stato tratto il manga BR II - Blitz Royale, scritto da K. Takami e disegnato da H. Tomizawa. 5 Killer7 è un videogioco d’azione prodotto da Grasshopper Manufacture e pubblicato dalla Capcom nel 2005 per il Nintendo GameCube, successivamente per Sony Playstation 2. 6 Y. Aoki, R. Ayamine, Get Backers, in «Shonen Magazine», Kodansha, Giappone 1999-2007. 7 Forbidden Siren 2 è un videogioco horror sviluppato dalla Sony Computer Entertainment per PlayStation 2 nel 2006. 8 I titoli di alcune tracce sono: Birds in Fog, City of Dust, Skeletal Structures, Sound of Solitude. 9 L’opera è stata esposta nella mostra Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città, il pianeta, a cura di Pippo Ciorra, presso il Museo MAXXI di Roma, Dicembre 2011 - Aprile 2012. 10 Alcune scene del film Skyfall, l’ultima serie di James Bond in anteprima a Londra il 23 Ottobre 2012, sono ambientate ad Hashima. 11 K. Goto, D. Sakamoto, Legacy of Gunkanjima, Shinbunsha, Nagasaki 2005, pp. 208, 209. 2
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2 Turisti in visita ai resti di Hashima, in http://www.colorfulwolf.com/
Emanuele Sommariva, Jeannette Sordi
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PRODUCTIVE LANDSCAPES. COMMON GROUNDS 1
Negli ultimi decenni la diffusione dei sistemi di trasporto e di comunicazione, la globalizzazione dei mercati e delle risorse hanno proiettato la città su scala planetaria. Il progetto del paesaggio, più che di architettura, diventa il mezzo per leggere e modificare queste nuove geografie; un paesaggio che da categoria estetica diventa uno strumento performante, operativo, dal punto di vista economico, ecologico e sociale. Questo è ancora più evidente dove le logiche di produzione e controllo delle risorse, il mercato del lavoro, erano tanto centralizzati, monofunzionali e inflessibili (in altri termini, “moderni”) da entrare in crisi in modo quasi irreversibile, a meno di un cambiamento radicale. Il saggio presenta i casi di Detroit e Havana come esempi, tanto opposti quanto simili, di questo processo. A Detroit più che altrove i “vuoti” – i lotti vacanti risultanti dal collasso della città industriale e dal conseguente dimezzamento della popolazione – definiscono la forma urbana più di quanto faccia il costruito. Il paesaggio e l’ecologia diventano i mezzi per progettare la rinascita economica e formale della città, un nuovo modello urbano e uno stile di vita. All’Havana, con la fine della Guerra Fredda l’intera isola fu chiamata a confrontarsi con urgenza con problemi legati all’autosufficienza energetica, alla sicurezza alimentare e alla chiusura dei mercati internazionali. L’agricoltura urbana (granjas urbanas) quale strumento di ridefinizione dei tessuti edilizi, le politiche sociali come programmi per la mobilitazione di base e l’occupazione sono diventati i principali elementi di riattivazione del paesaggio urbano cubano.
DETROITWORKS Detroit, al contrario di ogni altra città, non si misura in termini di densità di popolazione, funzioni, destinazioni d’uso. Il numero di lotti vacanti, le disfunzioni e il disuso sono le variabili con le quali, da un paio di decenni, la città si descrive e riprogramma il suo futuro. Nell’agosto del 1990 la City Planning Commission presentò un documento tanto significativo quanto inusuale: Detroit Vacant Land Survey. Il report prendeva atto del processo di spopolamento e abbandono iniziato negli anni ‘50, processo che non si è ancora arrestato, anzi. Tra le proposte effettive del piano vi era l’invito a dismettere e abbandonare i lotti vuoti, spostando la popolazione di queste “zone morte” verso quelle aree con ancora una parvenza di vita1. Le case vuote sarebbero state demolite, i lotti vuoti recintati; questi ultimi sarebbero stati trasformati in paesaggi o autorizzati «a tornare natura»2. Questo suscitò una forte reazione da parte della pubblica opinione ma, di fatto, la dismissione, l’abbandono, la demolizione erano operazioni già in corso, avviate più o meno spontaneamente ma in ogni caso senza l’intervento o la supervisione di architetti e pianificatori. Forse, ancor più sorprendente è proprio questo. La dismissione, l’abbandono, la demolizione erano per la prima volta stati sottoposti all’attenzione pubblica, dichiarando la necessità di programmare una strategia che in qualche modo gestisse questo processo. Il fatto che la città stesse ufficialmente decostruendo se stessa rendeva il piano impossibile alla progettazione urbanistica e architettonica, pratiche tradizionalmente pensate per la crescita. Serviva un nuovo piano che riparasse i danni di decenni di pianificazione «di successo» (Waldheim, 2004).
1 Organoponicos, Havana
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Nel processo di evoluzione delle tecnologie Detroit si è reinventata di volta in volta; sempre ripensando il proprio spazio, la propria cultura e architettura nella forma dell’ultima idea di produzione (Hoffman, 2001). Durante la prima metà del secolo scorso, Detroit costituì l’esito e il modello della pianificazione fordista. L’industria e l’architettura, Henry Ford e Albert Kahn, modellarono lo spazio della città determinandone le trasformazioni sociali ed economiche3. Ford ottimizzò la produzione nello spazio e nel tempo; gli edifici di Kahn offrirono la liberta di movimento e flessibilità necessarie alle diverse linee di produzione. Nel frattempo Ford trasformò produzione e consumo di massa in un sistema unico e autoalimentante. Il nuovo compito di Kahn fu quello di progettare siti di produzione specializzati diffusi nel territorio, ora reso accessibile dall’automobile, e di connetterli attraverso le reti infrastrutturali. La seconda metropoli fordista consisteva in un urbanesimo decentralizzato: la crescita e l’espansione di Detroit erano nell’interesse di tutti i cittadini. Negli anni ‘60 il declino dell’industria pesante, principale e pressoché unica attività della regione, segnò la fine di Detroit. Disoccupazione, spopolamento e diminuzione delle entrate fiscali, con i conseguenti aumento della criminalità, emigrazione verso i sobborghi della popolazione benestante e difficoltà a mantenere le infrastrutture urbane, hanno fatto sì che si avviasse un processo di abbandono e dismissione dello spazio urbano che non si è ancora arrestato. La recente crisi economica e finanziaria, la decrescita dei redditi e della popolazione ci hanno riportati a guardare a Detroit con interesse e con un certo timore. In fin dei conti non è tanto diversa da molte aree che oggi vengono abbandonate perché non più sostenibili o appetibili: Detroit diventa un caso paradigmatico anche per la situazione italiana ed europea (Ricci, 2011). Detroit, così come Los Angeles, Houston, Atlanta4 e altre grandi città nord americane, mostra l’esito spaziale delle idee e dei sistemi economici e sociali che l’hanno costruita, oggi rappresentati dalla mobilità del capitale, dalla speculazione, dalla proprietà privata e dalla dispersione delle infrastrutture (Soja, 1989). L’abbandono dei centri industriali non dovrebbe quindi essere considerato come un “fallimento” per le discipline del progetto, ma piuttosto dovrebbe essere compreso come l’esito del processo industriale stesso (Waldheim, 2004). Arretrando – Decamping5 – Detroit costruisce immensi spazi vuoti. Questi spazi non sono immediatamente rinaturalizzati ma piuttosto rimangono in uno stato di attesa. In questo contesto, sostiene Waldheim, il paesaggio diventa l’unico mezzo capace di affrontare contemporaneamente decrescita e indeterminazione, sostituendo l’architettura come elemento capace di organizzare lo spazio urbano. Il Landscape Urbanism nasce qui, come l’ultima teoria per la città contemporanea – un «manifesto retroattivo» per Detroit6. Landscraping, Erasing, Decamping diventano strategie operative per lavorare sullo spazio dilatato e frammentato, costruendo un programma e un processo di riappropriazione e connessione prima che una forma. James Corner propone Landscraping (da landscaping, progettare il paesaggio, e scraping, raschiare) come una soluzione per la sparizione (disappearance) della città: i vuoti risultanti sono costruzioni prodotte dalla logica industriale e diventano luoghi di azione potenziali. Queste azioni future, “logistiche e performanti”, dovranno essere rappresentate come programmi organizzativi che metta-
no in relazione interessi pubblici e privati, e costruiti come infrastrutture del paesaggio urbano e della società (Corner, 2001). Oggi il nuovo piano strategico7, emblematicamente chiamato Detroit Works, si propone di risolvere il problema della crisi dell’industria e dei posti di lavoro a partire da ciò che c’è già e in abbondanza: il paesaggio inutilizzato. In un’area dove soltanto il 26 per cento di residenti ha un impiego, la creazione di nuovi posti di lavoro, più che l’aumento di popolazione, costituisce il vero obiettivo del processo di pianificazione. Il lungo termine stabilito vuole consentire ai progettisti e agli investitori privati non solo di rafforzare quelli che sono gli ambiti già presenti sul territorio – la medicina, l’educazione, la new economy e l’imprenditoria locale – ma soprattutto di immaginare scenari alternativi, costruiti sul paesaggio e l’ecologia. Crescita economica, riqualificazione dei quartieri, infrastrutture, progetto urbano e servizi pubblici sono le strategie di azione. I 150.000 lotti vacanti, di cui il 40% di proprietà pubblica, costituiscono il mezzo per attuarle. I parametri sono la non-densità, l’inutilizzo, la disfunzione, esplicitamente classificati in low vacancy, moderate vacancy e high vacancy. Contesti questi che ricordano quanto profetizzato da Koolhaas: «If there is to be a “new urbanism” […] it will no longer be concerned with the arrangement of more or less permanent objects but with the irrigation of territories with potential; it will no longer aim for stable configurations but for the creation of enabling fields that accommodate processes that refuse to be crystallized into definitive form» (Koolhaas, 1995). Nel momento in cui la città fallisce, il paesaggio ne diventa la vera infrastruttura. Mentre le infrastrutture tradizionali vengono implementate o mantenute soltanto nelle aree in cui si prevede un aumento o una stabilità della popolazione, nelle aree in recessione si prevede che siano sostituite da foreste, orti urbani, laghi superficiali, centrali diffuse di raccolta, depurazione e distribuzione dell’acqua. Questi sistemi, da realizzarsi in principio sui lotti pubblici con investimenti privati, offrono la possibilità di ridurre i costi di mantenimento, creare nuove forme di occupazione e produzione, migliorare i quartieri più poveri, conservare l’acqua piovana, decontaminare i suoli e migliorare la qualità dell’aria e dell’ambiente. Il progetto del paesaggio e delle infrastrutture – dell’acqua e dei rifiuti, l’agricoltura, la mobilità – è chiamato a reinventare lo spazio urbano. L’ecologia diventa un possibile motore economico e un mediatore sociale. Ancora una volta Detroit prova a costruire un piano che sia uno stile di vita, un modello da imitare. HAVANAESPECIAL L’agricoltura urbana a Cuba è sempre stata una questione di necessità. All’Havana la presenza di agricoltori nelle zone abitate, così come nella prima campagna extraurbana, fa parte della memoria collettiva dell’intera popolazione. Questa pratica fino alla seconda metà del XX secolo ebbe un rilievo modesto, più come risposta ai problemi di approvvigionamento alimentare delle popolazioni locali (creole) o delle comunità minori (cinese, africana) che a quelli di controllo delle terre da parte del monopolio nordamericano. Infatti, durante il protettorato statunitense (fino al 1952) il modello più diffuso era quello estensivo a latifondo, in cui
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DALL’IMPRESA NEL TERRITORIO AL PAESAGGIO COME IMPRESA
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grandi aziende legate alla raffinazione dello zucchero e del tabacco, spesso a capitale misto, gestivano più del 70% dei territori rurali (Rosset, 2000). Dopo la rivoluzione socialista del ‘59 e il conseguente embargo ad opera degli Stati Uniti, Castro promosse da subito una riforma del sistema economico ed agricolo, espropriando i latifondi e riunendo in cooperative le piccole aziende. L’industria venne nazionalizzata, e il sistema manifatturiero cubano si sviluppò attraverso un rapporto di stretta partnership con l’Unione Sovietica. Tuttavia, basandosi ancora su una intensa meccanizzazione, sistemi irrigui su vasta scala e abbondante uso di fertilizzanti, il mercato locale risultava fortemente dipendente dalle importazioni di petrolio, prodotti chimici e componenti semilavorate a prezzi di favore. Quando il crollo del Blocco Sovietico mise in crisi l’intera struttura economica dell’isola, la popolazione locale fu chiamata a confrontarsi con urgenza con problemi legati all’autosufficienza energetica, alla sicurezza alimentare e all‘ulteriore chiusura da parte dei mercati internazionali. La crisi alimentare che seguì non dipese solamente dall’improvviso crollo delle importazioni, che tra il 1993 e il 1994 si ridussero del 67%, ma soprattutto dalla mancanza di disponibilità di carburante, risorsa principale per il funzionamento dei trasporti e delle aziende agricole (DPPFA, 2000; González Novo and Murphy, 1999). Se da un lato la monocultura si rivelò come uno degli elementi di principale debolezza nei territori rurali, dall’altro gli effetti più ampi di questa crisi vennero registrati in ambito urbano, specialmente nella regione metropolitana dell’Havana, che conta più di 2.1 milioni di abitanti, pari al 20% dell’intera popolazione cubana. La criticità della situazione richiedeva interventi immediati, che non prevedessero un aumento delle importazioni di prodotti alimentari e che potessero, invece, essere strutturati a partire dai territori locali. Il governo cubano, pertanto, avviò un programma politico d’emergenza basato sui concetti di autonomia e autosufficienza, e promuovendo allo stesso tempo l’adozione di un modello energetico nazionale differente, meno dipendente da fonti fossili (Murphy, Morgan, 2004). Alcune tra le principali azioni del piano sono la decentralizzazione dei servizi essenziali, la riduzione delle filiere di produzione, il potenziamento del trasporto pubblico, il superamento della monocultura attraverso la diffusione di Unità Produttive di Base (UBP)8, il riciclo e il riuso come strategie per la ri-organizzazione degli spazi urbani esistenti e come politiche sociali per la riduzione dei consumi delle famiglie (Pena Diaz, 2001). In questo quadro di radicale cambiamento, denominato non a caso Periodo especial, è stata sviluppata all’interno del più recente Schema d’Ordenamiento Territorial una strategia agricola per le aree periurbane dell’Havana. Un progetto di paesaggio che prende a modello il piano per la Green Belt dell’Havana del 1964, e ne sviluppa le potenzialità latenti. In questo modo gli spazi aperti si configurano come le matrici strutturanti dei sistemi ortivi pubblici, degli spazi agricoli condivisi, delle attività di acquacoltura e silvicoltura, dei servizi suburbani decentrati, nonché dei mercati rionali per la distribuzione dei prodotti, atti a ridurre la dipendenza alimentare della città dalle granjas rurali. L’estensione e la rilevanza del fenomeno in atto sono testimoniate dai
dati del rapporto territoriale 2009 promosso dal Ministero dell’Agricoltura cubana. Circa 35.000 ettari di terreno abbandonato o sottoutilizzato sono stati riconvertiti ad uso agricolo, 5.032 nuove aree sono state destinate alla pastorizia e all’allevamento, 16.533 alle piantagioni di caffè, canna da zucchero e alberi da frutto; più di 180 km di strade rurali, 1.000 case coloniche e 160 fattorie suburbane sono state recuperate all’interno delle 8 circoscrizioni intercettate dal Green Belt (Koont, 2009). Per la prima volta l’agricoltura urbana è entrata a far parte non solo di un programma sociale e occupazionale, come occasione di riscatto per i piccoli coltivatori suburbani dell’Havana, ma anche di un piano di governo del territorio, come funzione strutturale permanente. Inoltre, il regime pubblico di buona parte dei suoli ha permesso un rapido adattamento alle nuove esigenze attraverso la concessione delle terre inutilizzate a chi ne facesse richiesta per coltivare; politica che ha riguardato anche i terreni privati: sui quali il proprietario, qualora non esercitasse il proprio diritto a produrre, doveva dare in concessione il suo terreno a chi ne aveva fatto richiesta (Altieri et al., 1999). Si sono così create le condizioni favorevoli a supportare l’intensa e l’autonoma mobilitazione della popolazione, che si è manifestata attraverso il moltiplicarsi di iniziative di autoproduzione, quale risposta di emergenza al problema della sicurezza alimentare delle aree urbane. Ma ciò che è effettivamente interessante nel caso cubano è come il carattere urbano di questi processi e le sostanziali trasformazioni degli spazi coinvolti assumono una differente configurazione a seconda che si ci riferisca a contesti intra-urbani o peri-urbani, piuttosto che al trasferimento di attività prettamente rurali all’interno di insediamenti periferici. Esperienze che, una volta nate in forme spontanee, si sono sviluppate e strutturate a livello nazionale, grazie al supporto del Ministero dell’Agricoltura e del Grupo Nacional de Agricoltura Urbana (GNAU), oltre alla rappresentanza di diverse associazioni e stakeholders a livello locale, per la mobilitazione di base e la supervisione delle attività sul territorio. Questi osservano le prestazioni di ciascuna area urbana attraverso indicatori di produzione che variano tra 6 Kg/m2 anno a 28 Kg/m2 anno e l’implementazione di 26 sotto-programmi ambientali. Ciascuno dei cosiddetti sotto-programmi si riferisce a particolari temi (come il controllo del settore floro-vivaistico, la zootecnia, le coltivazioni organiche, la tutela delle risorse forestali, del ciclo delle acque e dell’irrigazione, delle bonifiche ambientali, la formazione tecnica, ecc.) il cui raggiungimento viene valutato in funzione delle esternalità positive ridistribuite sul territorio (il livello dei costi/benefici degli operatori, la qualità e la commercializzazione dei prodotti, i servizi diffusi, il benessere ambientale, ecc.). Elementi principali di questo modello autarchico sono le diverse forme di agricoltura urbana che si ritrovano nel contesto dell’Havana, tra cui hanno grande risalto gli Organopónicos (popular organic orchards) e la loro versione ad alto rendimento di proprietà statale (OAR – Organopónicos de Alto Rendimiento), nonché le forme ibride come gli orti o le parcelle agricole popolari (huertos populares y parcelas). Queste, insieme ad altri servizi preposti all’agricoltura (consultorios agricolos, centros per la producción de la materia organica, casas de posturas), costituiscono una rete di strutture cooperative che si inseriscono all’interno delle trame esi-
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stenti, come veri e propri catalizzatori urbani (rigenerazione dei contesti, presidio sociale, partecipazione pubblica, promozione di eventi, etc.). L‘esperienza di Cuba, in particolare della sua capitale, costituisce un contributo significato per gli studi sull’agricoltura urbana: un laboratorio attivo in cui osservare gli usi alternativi, le forme di organizzazione spaziale, le trasformazioni in atto e speculare sul futuro dei paesaggi produttivi nelle città (Bourque, Canizares, 2000).
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Attribuzione: J. Sordi, DetroitWorks; E. Sommariva, HavanaEspecial.
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1 The Economist, 1993, pp. 33-34, citato in Waldheim (2004), p. 79. 2 Ibid. 3 Vedi P. Schumacher, C. Rogner, After Ford, in G. Daskalakis, C. Waldheim, J. Young (eds.), Stalking Detroit, Actar, Barcelona, 2001. 4 Su Los Angeles vedi E. Soja, Postmetropolis: Critical Studies of Cities and Regions, Blackwell Publisher, Oxford, UK, Cambridge, Mass, 2000); su Houston, L. Lerup, After the City, MIT Press, Cambridge, 2000; su Atlanta R. Koolhaas, Atlanta (1987), reprinted in Koolhaas R., OMA, Mau B., S, M, L, XL, Monacelli Press, New York, 1995, pp. 833-859. 5 Decamping significa letteralmente “levando le tende,” il riferimento è a “Decamping Detroit” (Santos-Munné, Waldheim, 2001) 6 Charles Waldheim sostiene (intervista personale, Harvard GSD, ottobre 2011) di avere cominciato a pensare al Landscape Urbanism lavorando su Detroit. Il termine di “manifesto retroattivo” allude a Delirious New York. A Retroactive Manifesto for Manhattan, teoria metropolitana che Koolhaas (1978) costruisce per New York ma in fondo per la metropoli in generale. Allo stesso modo possono essere letti Learning from Las Vegas (Venturi, Scott-Brown, Izenour, 1972) o Los Angeles. The Architecture of Four Ecologies (Banham, 1971) 7 www.detroitworksproject.com. Detroit Works Project Long Term Planning è il nuovo piano strategico per la città di Detroit, che rivendicando i lotti vacanti ricostruisce la città futura sulle risorse umane e del suolo puntando su aziende e infrastrutture diffuse e multifunzionali, paesaggi urbani operativi e performanti. 8 La rivalutazione del modello di cooperative su piccola scala, promossa a partire dalla crisi degli anni '90, ha permesso la transizione verso produzioni agro-ecologiche urbane. Nel 1993 si assiste alla riorganizzazione radicale del settore agricolo per l'autoconsumo, attraverso la formazione delle cosiddette unità produttive di base (UBP), riunite a loro volta in aziende cooperative di stato. Attraverso questa politica la proprietà, pur rimanendo pubblica, viene concessa in usufrutto gratuito ai lavoratori, che gestiscono in piena autonomia le produzioni e vengono incentivati a rivendere le quote eccedenti nei mercati locali. Vedi J. M. De La Salle, Growing Cities: Cuba's Experiment with Urban Agriculture during the 'Special Period', in N. Bakker, M. Dubbeling, S. Gündel, U. Sabel-Koschella, H. Zeeuw, Growing Cities, Growing Food: Urban Agriculture in the Policy Agenda, Deutsche Stiftung für internationale Entwicklung, Feldafing, 2000.
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Il “modello� del Nord Est sembra aver perso una parte del suo slancio. Quali sono le ricadute territoriali dei processi di deindustrializzazione? Quali le proposte di trasformazione e riqualificazione?
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C’È UN NORD EST OLTRE IL MITO? 1
Francesco Gastaldi 1 Edificio a funzione abitativa nel villaggio artigiano di Modena (progettista Vinicio Vecchi). Foto: Andrea Costa
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A scatenare il dibattito nell’estate 2011 è stata la dichiarazione fatta a Padova (alla presentazione del rapporto annuale realizzato dalla Fondazione Nord Est) dall’ex premier Romano Prodi che ha affermato: «Il Nord-Est non è più un fenomeno, tutti i miti calano. Trent’anni fa inseguivamo il modello dell’Emilia Romagna, quindi è stata la volta di quello del Veneto. Oggi siamo tutti sulla stessa barca. Qui c’è un problema di cultura d’impresa familiare che è drammatico, siamo in una continua situazione di fibrillazione delle aziende. Serve incoraggiare, anche in modo fiscale, le aggregazioni, perché altrimenti così in giro per il mondo non ci andiamo più […] Se il Nord-Est vuole tornare ad avere un peso, deve puntare sull’internazionalizzazione e sull’aggregazione delle piccole imprese, anche se forse tutto ciò non servirà a far rinascere il mito, quello ormai è tramontato»1. La netta presa di posizione dell’ex presidente del Consiglio ha suscitato una serie di reazioni a catena con due fronti contrapposti che sono intervenuti sui principali quotidiani locali nei giorni successivi: coloro che, sostanzialmente, hanno sposato l’analisi di Romano Prodi e coloro che invece hanno teso a sottolineare come l’area sia ancora lontana dal declino e sia prematuro stilare un de profundis. Secondo questi ultimi andrebbe rilevato, più prudentemente, il fatto che il dinamismo dei sistemi locali non è esaurito (specie in alcuni comparti quali alimentare, arredo casa, abbigliamento, automazione industriale) e che la sfida che li attende oggi è quella di soddisfare l’esigenza di una sempre maggiore specializzazione, sebbene, al contempo, sia necessario mantenere una versatilità aperta a nuovi settori e nicchie di mercato. Nell’ambito del dibattito che si è sviluppato2, le due fazioni sono apparse però concordi sulla necessità di valutare con attenzione le condizioni indispensabili affinché il modello produttivo del Nord-Est possa ancora fare da traino all’economia italiana. L’ex presidente della regione Veneto, Giancarlo Galan, si è spinto ad evidenziare un «problema nord»3 riprendendo un tema che per tutti i primi anni duemila è stato fortemente dibattuto intorno alla «questione settentrionale»4. Tutti gli osservatori (critici e non) riconoscono come la produzione del Nord-Est sia ancora una parte quantitativamente, e più ancora strategicamente importante del sistema produttivo italiano: quest’area realizza articoli di consumo durevoli nei settori dell’abbigliamento, della lavorazione del legno, delle pelli e del cuoio e beni strumentali per questi articoli;
senza dimenticare il ruolo del settore meccanico. Infatti, in molti casi, nei distretti, vengono fabbricati i macchinari per la lavorazione e il trattamento di altri prodotti (macchine tessili, per il legno, per il cuoio, per l’imballaggio). Se poi andiamo a vedere chi produce il saldo attivo ancora esistente, vediamo che lo creano soprattutto i distretti, non certo “imprese senza territori”. In alcuni distretti le specializzazioni tradizionali si abbinano o a settori complementari o strumentali, a nuovi settori particolarmente innovativi nel campo dei servizi alle imprese e della commercializzazione dei prodotti. Naturalmente, non tutti i distretti vanno bene, alcuni hanno reagito positivamente perché si sono internazionalizzati (es. meccanica). Un fenomeno rilevante è certamente l’affermazione di “medie imprese” leader dentro i distretti, che hanno avuto un effetto trainante. Ci sono però produzioni più in difficoltà, si pensi al tessile, all’oreficeria, a molti distretti dell’abbigliamento e delle calzature. Bisogna tenere in ogni caso presente che, nel complesso, i distretti restano il motore principale che tiene in piedi la bilancia commerciale costituendo oltre il 70% della occupazione manifatturiera. Oggi le aree produttive e distrettuali di più antica formazione hanno subito processi di parziale dismissione o rilocalizzazione. Le imprese che non attraversano segnali di grave crisi, spesso già internazionalizzate e con una dimensione aziendale consistente, hanno scelto di trasferire la produzione all’estero, sperando in vantaggi sotto l’aspetto dell’ambiente fiscale e amministrativo, infatti molti imprenditori si sentono abbandonati dallo Stato italiano e lamentano la mancanza di riforme strutturali. Sebbene sia indubbio che la crisi economica abbia investito le imprese impreparate al dialogo con l'estero e chi non ha attuato processi di innovazione, questa ha anche promosso nuove nicchie e alleanze tra imprese che fanno massa critica. L’EREDITA DEL DINAMISMO IMPRENDITORIALE E DEL “DISORDINE PUBBLICO” Lo sviluppo economico del Nord-Est è sorto in forma spontanea, senza interventi di sostegno svolti da azioni di politica economica nazionale o dal ruolo di enti locali e senza un’esplicita politica di sviluppo; nessun economista era stato in grado di prevedere le grandi e durature potenzialità delle risorse territoriali presenti5. Il successo delle aree caratterizzate da queste forme di organizzazione socio-economica è stato
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inaspettato, sorprendendo osservatori e protagonisti; le organizzazioni sindacali e parte della sinistra politica, ancorate alla difesa delle classi operaie del nord-ovest, hanno avuto per molti anni difficoltà a riconoscere il significato e la rilevanza del fenomeno. A lungo i distretti sono riusciti ad abbinare (e conservare) efficienza economica e coesione sociale, a mantenere elevati livelli competitivi e a instaurare rapporti di collaborazione e rappresentanza locale. Questo è potuto avvenire grazie ad una «serie di passaggi tra cui il part-time, il lavoro a domicilio, il lavoro in fabbrica come operaio nell’edilizia, il lavoro artigiano»6 che hanno permesso a molti lavoratori di riuscire a conciliare la loro attività principale in azienda con altre attività legate all’organizzazione economica tradizionale. Il successo è incomprensibile se non viene analizzato anche attraverso le relazioni sociali all’interno delle quali l’economia è radicata. Le forme di consumo, di produzione, di accesso al credito, di mobilitazione di risorse, delle relazioni familiari mostrano peculiari regolarità. I fattori che hanno generato e consolidato nel tempo i vantaggi competitivi dei distretti sono: la tendenza a raggiungere efficienza e competenza attraverso la specializzazione, l’elevata disponibilità di saperi tecnici locali che si autoriproducono, un clima sociale che permette la diffusione delle idee, un mix efficace di cooperazione e competizione, una cultura imprenditoriale diffusa, un elevato grado di consenso e vasto dispiegamento di istituzioni a supporto. Le relazioni familiari fiduciarie e cooperative sono state attivatrici endogene di sviluppo, anche grazie al fatto che questa particolare atmosfera economica e sociale è radicata nel territorio. Come detto, non si può parlare di un processo di pianificazione di questo sviluppo, si può solamente evidenziare come si sia generato per effetto di “non scelte” istituzionali che hanno aperto spazi di crescita per la piccola e media impresa. Carlo Trigilia ha rilevato come si sia realizzato una sorta di reciproco sostegno tra il dinamismo dei sistemi di piccola impresa e il “disordine pubblico”: il quadro legislativo ha creato un contesto all’interno del quale le imprese hanno potuto muoversi liberamente; l’indulgenza e la protezione fiscale hanno favorito le piccole imprese, anche se queste politiche non sono state pensate esplicitamente per i distretti industriali. Non solo, a livello locale l’industrializzazione diffusa, che, nella sua fase iniziale, avveniva spesso in deroga o in assenza di strumenti urbanistici, è stata tollerata e favorita poiché «limitava i
problemi che i governi locali dovevano affrontare e perché manteneva le funzioni integrative svolte dalla famiglia e dalla comunità locale»7. LA RILEVANZA DEL TERRITORIO La dimensione spaziale è stata parte integrante del modello e del processo di produzione dei sistemi produttivi del Nord-Est, la vicinanza e la concentrazione territoriale delle imprese, infatti, hanno sempre reso i rapporti di mercato più agevoli e sicuri, mentre l’elevata mobilità del lavoro stimola la professionalità e facilita l’introduzione di nuove tecnologie. Le piccole e medie imprese di un determinato settore produttivo operano generalmente in un ambito circoscritto, in centri di dimensione piccola e medio-piccola e spesso secondo un continuum territoriale che è stato definito con il termine di «città diffusa»8. Nei distretti industriali «il territorio diventa esso stesso luogo produttivo: il territorio come fabbrica interconnesso a reti e processi dove si lavora comunicando […] diventa un fattore di produzione alla stessa stregua del capitale e del lavoro»9 e diventa la vera e unica unità di produzione. La produzione è un processo intrinsecamente situato ed è radicata nell’area, fondata su specifici standard qualitativi, sull’originalità e sull’ampiezza della gamma offerta. Spesso il prodotto delinea l’immagine di un determinato ambito territoriale, gli conferisce riconoscibilità ed identificabilità rispetto all'esterno. La presenza di attività specializzate nello stesso settore economico all’interno della stessa area distrettuale stimola l’innovazione dei prodotti e delle tecniche di lavorazione. Ogni soggetto imprenditoriale si “nutre” del particolare clima locale e lo interiorizza. «Il territorio dell’economia del distretto si configura come premessa e risultato delle dinamiche di apprendimento localizzato che esso accoglie e contiene […] il territorio come luogo in cui si sedimenta l’apprendimento evolutivo di lungo termine non deve sconfinare in un determinismo storico che chiude gli attori nella storia già vissuta e usa il territorio come mezzo fisico attraverso cui si trasmette la path dependence. Ma oltre a questa il territorio si caratterizza per gli attori che ospita, per le loro strategie, per la loro condivisione delle esperienze, dei significati, delle relazioni»10. La forza e la peculiarità del distretto nascono dal «nesso circolare»11 che si instaura fra la storia e i caratteri del capitale sociale, le caratteristiche dell’apparato economico e produttivo, e le risorse territoriali;
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questi elementi si compenetrano e si rafforzano vicendevolmente. In questo rapporto virtuoso sta la vera forza del modello economico, il suo valore aggiunto e il suo vantaggio competitivo che genera economie territoriali; è nell’ambito di questo rapporto che avviene la trasformazione e la valorizzazione di saperi tradizionali, conoscenze ed esperienze in risorse utili per lo sviluppo. L’apparato produttivo è particolarmente legato a specifiche risorse territoriali locali che nel corso del tempo sono state usate, dapprima, in forma artigianale familiare, poi, quando si è intravisto un possibile mercato di riferimento, in forma imprenditoriale. I fattori climatici e le risorse paesistico-naturali sono particolarmente importanti per la nascita e l’evoluzione di molte tipologie di settori produttivi. A tal proposito, Gianfranco Viesti ha sottolineato come la diversa dotazione di fattori produttivi abbia determinato percorsi di sviluppo differenti; infatti, in molti casi le risorse naturali sono state fondamentali nel favorire produzioni agricole da cui sono derivati distretti; in altri casi hanno avuto il medesimo ruolo le risorse del sottosuolo (come l’argilla per il caso dell’industria ceramica di Sassuolo) o la disponibilità di acqua, e quindi di energia idrica prima e idroelettrica poi12. Queste risorse hanno interagito con il capitale umano, con quello finanziario e con le tecnologie per giungere alla produzione di beni e servizi. Gli usi, i costumi e i valori che si sono sedimentati sono importanti per l’efficienza e la competitività del sistema produttivo. In un’area distrettuale l’innalzamento dell’efficienza dei livelli produttivi è correlata alla corrispondenza tra patrimonio culturale del territorio e patrimonio culturale del tipo di produzione che vi prevale. La comunità di riferimento condivide i valori e i saperi che contribuiscono al successo dell’apparato produttivo. Il successo di un distretto dipende dal comporsi di caratteri diversi, economici e sociali, può essere facilitato dall’agire delle istituzioni, il tutto in relazione all’andamento dei mercati e delle tecnologie a scala mondiale. La dimensione media delle imprese e il loro grado di concentrazione nei distretti industriali può essere molto differenziata. Da una parte abbiamo distretti molto polverizzati, nei quali il numero delle imprese è molto alto, la dimensione media contenuta e non emergono imprese leader rilevanti. Altri distretti presentano un numero di imprese molto alto, una dimensione media contenuta, ma vedono con il tempo l'emergere di imprese maggiormente strutturate. In altri distretti vi è
la compresenza di imprese piccole, medie e talvolta grandi e il grado di concentrazione può essere più elevato. GLI EFFETTI DELLA CRISI Il Nord-Est sta attraversando una fase di metamorfosi molto profonda che investe non solo il tessuto produttivo, ma anche le comunità locali, quest’ultime da sempre vero “carburante” del successo del sistema distrettuale. Crisi economica, dunque, ma anche crisi sociale, di identità e di ruolo. Parole come “disoccupazione” e “cassa integrazione”, che fino ad ora erano quasi sconosciute, oggi fanno capolino nelle cronache dei quotidiani: ambiti territoriali destabilizzati iniziano a porsi problemi che mai li avevano intaccati nei periodi di sviluppo e crescita, le cui dinamiche si supponevano illimitate. Inoltre, se l’interazione tra sistema economico e sistema sociale, considerata nei suoi aspetti storici, culturali, politici, istituzionali, è stata il punto di forza di questo modello di sviluppo, cosa può accadere se i legami o qualche tassello di tale rapporto saltano? Occorrerebbe indagare più approfonditamente riguardo a come la crisi abbia modificato non solo i comportamenti delle imprese, ma anche il modo in cui conoscenze, valori, istituzioni e mondo della produzione oggi interagiscono fra di loro. I territori della piccola e media impresa sono anche i luoghi dove più forte è stata negli ultimi vent’anni l’immigrazione straniera, e dove oggi gli immigrati stessi sembrano voler ritornare in patria o emigrare verso altri paesi europei. La crisi ha fatto emergere una nuova domanda di governo del territorio, non più legata ad una fase espansiva, bensì al problema della dimissione dei “capannoni” (molti dei quali sottoutilizzati), delle possibili destinazioni d’uso, della limitazione della crescita edilizia e, più in generale, della transizione verso nuovi modelli di sviluppo che ha visto molti attori di politiche pubbliche del tutto impreparati. Per il loro carattere estensivo i paesaggi della piccola e media impresa ci pongono importanti questioni in termini progettuali. Si tratta di parti di città nelle quali si mescolano funzioni e processi produttivi, residenza e servizi. I capannoni si sommano alle vecchie aree industriali o artigianali dismesse, la sensazione è che senza un ruolo di guida delle istituzioni locali, difficilmente troveranno una spontanea riconversione in considerazione dei costi e delle procedure particolarmente complesse. Si tratta di un fenomeno simile a quello avvenuto per le grandi fabbriche fordiste, la cui dismis-
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sione ha assunto un ruolo centrale nelle politiche di trasformazione urbana di quasi tutte le città italiane nel corso degli ultimi trent’anni. Il tutto mentre associazioni di categoria e imprenditori continuano a recitare la solita litania della sburocratizzazione e dei tempi lunghi per le nuove autorizzazioni per costruire magazzini ed edifici produttivi. In attesa di verifiche più approfondite, il dimensionamento di molti Piani di Assetto del Territorio (PAT), approvati negli ultimi anni in Veneto, conferma una continua domanda di suolo (soprattutto per strade, case e capannoni) relativamente inelastica rispetto ai prezzi, indifferente ai profili di domanda e indipendente dai cicli di dismissione e riqualificazione. Solo un numero limitato di PAT si limitano all’individuazione di nuove aree di espansione del settore produttivo alle sole necessità di ampliamento o di riclassificazione di aree produttive già esistenti. Spesso non si ritiene di dare priorità a quegli ambiti territoriali caratterizzati da insediamenti produttivi esistenti o da previsioni di PRG non ancora attuate. LE PROSPETTIVE Per molti anni il successo del Nord-Est è stato strettamente correlato al ruolo della comunità locale che ha permesso di valorizzare e indirizzare, ai fini dello sviluppo, fattori come la concorrenza, la competitività, lo spirito di emulazione, le ambizioni di emancipazione economica e sociale di singoli, di gruppi famigliari, sociali, imprenditoriali. Queste azioni hanno incoraggiato la collaborazione fra le imprese e la definizione di un clima di fiducia diffuso. Nei distretti industriali, per anni ci si è trovati di fronte ad una concertazione molto decentrata e poco istituzionalizzata, quasi naturale, agevolata dall’appartenenza ad una subcultura comune e ad una visione condivisa dello sviluppo. Alcune di queste caratteristiche hanno saputo persistere ai fenomeni di crisi, altre si sono ridotte per il venir meno di condizioni di benessere diffuso nell’ambito di alcuni sistemi produttivi locali e distretti. La globalizzazione dei mercati ha accresciuto, negli ultimi decenni, la concorrenza nelle fasce del made in Italy meno legate alla qualità e più sensibili alla competizione di costo (in particolare nel tessile-abbigliamento, nelle calzature, nel mobilio) e i singolari rapporti fra economia e società che avevano costituito il cuore pulsante di questo modello di sviluppo, si sono incrinati: anche la famiglia, non sembra più dare lo stesso impulso di un tempo a causa della complicata transizione dai
fondatori delle aziende agli eredi. Oggi le difficoltà incontrate nell'ultimo decennio da questo modello sono note: andamento della produttività insoddisfacente e quote di esportazione in calo. Per riprendere l’interrogativo iniziale, ci può essere un NordEst oltre il mito? La sfida principale si gioca sul fronte dell’internazionalizzazione: da un lato, le aziende sono chiamate a proiettarsi sempre con maggior decisione sui mercati internazionali, scegliendo strategie di prodotto coerenti con lo sviluppo della domanda mondiale; dall’altro associazioni, enti ed istituzioni sono chiamati ad un grande sforzo per accompagnare queste imprese nel loro tragitto offrendo loro agevolazioni e servizi finanziari, di marketing, logistici, ecc. Le nuove sfide imposte dalla globalizzazione dei mercati inducono a ritenere che la lunga fase spontaneistica della vita dei distretti si avvii alla conclusione; il periodo che si apre dovrà comportare un potenziamento che passi attraverso adeguate misure di politiche pubbliche. Anche se oggi una parte della produzione economica deriva da gruppi industriali transnazionali, molti di questi gruppi operano nei distretti industriali italiani più dinamici favorendo la competitività delle produzioni e delle competenze locali. Anzi, il valore aggiunto delle produzioni locali viene amplificato e i territori locali continuano ad essere fonti insostituibili di creatività, idee, tradizioni, singolarità. In poche parole: le differenze culturali e i saperi locali continuano a tradursi, nonostante la globalizzazione (ma attraverso questa), in vantaggi competitivi che superano gli svantaggi dovuti alla possibilità di poter produrre all'estero a minori costi. Il processo di internazionalizzazione, che ha coinvolto in maniera rilevante molte aziende appartenenti soprattutto ai distretti tradizionali del made in Italy, ha avuto impatti anche sulla domanda di lavoro, sia da un punto di vista quantitativo che da un punto di vista delle competenze richieste al personale coinvolto nel processo. Questi ultimi aspetti, che riguardano più direttamente l’azione degli enti locali o di livello intermedio, rivestono un maggior interesse. Fra gli esempi principali: i trasporti e la rete dei collegamenti (spesso scarsa e arretrata, con movimenti interni ai distretti spesso difficoltosi), la formazione (sistema scolastico non specializzato rispetto alle esigenze lavorative del distretto), la ricerca (spesso assente) al fine di far emergere nuove forme di specializzazione produttiva maggiormente promettenti.
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Una buona iniziativa politica per i distretti dovrebbe essere volta alla comprensione delle interrelazioni, sinergiche o antagonistiche, tra il motore del distretto e quello della grande impresa; dovrebbe evitare che il far parte del distretto possa determinare resistenze al cambiamento e chiusura verso l’esterno. La coscienza di aver sviluppato forme di successo dal punto di vista imprenditoriale può far sì che si sviluppi una sorta di presunzione di essere indenni da problemi che ha determinato isolamento e incapacità nel cogliere segnali di aggiornamento provenienti dal mercato. Nelle aree del Nord-Est soggette al processo di internazionalizzazione, il sistema economico ha dimostrato un certo grado di flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti della domanda di lavoro, ma il futuro permane incerto. Si può dunque comprendere come una politica per i distretti non debba essere solo una strategia per le imprese che fanno il distretto; occorre invece lavorare sul territorio, cioè promuovere le attitudini imprenditoriali e il know how produttivo del sistema locale. Ci può essere un ruolo importante delle politiche centrali: liberalizzazioni e maggiore efficienza dei servizi, semplificazione ed efficacia della pubblica amministrazione, tempi certi della giustizia, regolamentazione del settore finanziario, cambiamento della regolazione dei rapporti di lavoro, grandi infrastrutture. Ma ci vogliono anche politiche basate sulla cooperazione tra istituzioni centrali e locali per fare in modo che i soggetti nei territori collaborino più efficacemente tra di loro e intraprendano nuove strade di innovazione.
1 Redazionale, La stoccata del Professore. Nordest, il mito è finito, in «Corriere del Veneto», 12 luglio 2011. 2 Si cita per esempio: Dario Di Vico, C'è un Nordest oltre il mito, in Corriere del Veneto, 14 luglio 2011e Giuseppe Bortolussi, Nordest prematuro il certificato di morte, in «Corriere del Veneto», 12 luglio 2011. 3 Alessandro Zuin, Il Nordest non c’è più, facciamo il grande Nord, in «Corriere del Veneto», 15 luglio 2011. 4 Si veda: Aldo Bonomi, Il rancore del Nord. Feltrinelli, Milano 2008 e Giuseppe Berta, Nord, Mondadori, Milano 2008. 5 Arnaldo Bagnasco, L’istruttiva vicenda dei distretti industriali, in Arnaldo Bagnasco, Tracce di comunità, Il Mulino, Bologna 1999, pag. 101. 6 Massimo Paci, Alle origini dell’imprenditorialità e della fiducia interpersonale nelle aree ad economia diffusa, in Gruppo di Ancona (a cura di), Trasformazioni dell’economia e della società italiana. Studi e ricerche in onore di Giorgio Fuà, Il Mulino, Bologna 1999, pag. 183. 7 Carlo Trigilia, Dinamismo privato e disordine pubblico. Politica, economia e società locali, in AA. VV., Storia dell’Italia repubblicana. Volume secondo. La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri. Tomo 1 Politica, economia, società, Einaudi, Torino 1995, pag. 743. 8 Francesco Indovina, Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano, FrancoAngeli, Milano 2009. 9 Aldo Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino 1997, pag. 16. 10 Enzo Rullani, Riforma delle istituzioni e sviluppo locale, in «Sviluppo locale» n. 8, 1998, pag. 7. 11 Giacomo Becattini, Dal distretto industriale allo sviluppo locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, pag. 16. 12 Gianfranco Viesti, Come nascono i distretti industriali, Laterza, Roma-Bari 2000, pag. 26.
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DOPO LA CRISI, QUALE MODELLO TERRITORIALE? 1
Michelangelo Savino 1Â Dolo, Venezia
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BODY OF EVIDENCE Che il territorio fosse uno dei vantaggi competitivi del modello di sviluppo del Nord Est era evidente e che questo fattore ponesse dei problemi di efficienza e di costi crescenti era segnalato già ai tempi della crisi del ’92. Non è il caso in questa sede di riprendere gli aspetti che varie discipline hanno a lungo esplorato1 dimostrando come il territorio2 abbia rappresentato qualcosa di più di un contesto favorevole allo sviluppo della piccola e media impresa. La letteratura sui distretti ha sufficientemente sottolineato natura, potenzialità e limiti di queste relazioni, ne ha registrato l’epopea, l’apogeo come il progressivo declino. E se spesso alla voce degli imprenditori (sempre pronti a minacciare una hirschmanniana exit dal territorio) non si è voluto dare credito (anche per il loro facile cedere alle malie della politica e alle sue false promesse), non sono stati certo incunaboli accademici (di difficile reperibilità o di ardua comprensione) tantomeno astrusi rapporti di fondazioni e di centri di ricerca a segnalarlo, bensì documenti ufficiali e puntuali della Regione (ma non solo in Veneto), relazioni ben fondate del Ministero che nel corso degli ultimi due decenni hanno delineato con estrema chiarezza le difficoltà del sistema Nord Est, le misure da prendere e gli investimenti necessari. Erano noti quali ritardi ci fossero da parte delle istituzioni nel provvedere con tempestività e con cospicui finanziamenti pubblici ai problemi del sistema, per quanto ad una “lettura globale” delle problematiche si siano spesso preferite disposizioni normative, provvedimenti economici, opere pubbliche “molto locali”. Insorgenti distorsioni del mercato del lavoro, distribuzione subottimale delle unità produttive, crescenti defaillances delle tradizionali relazioni di conto-terzismo e sub-fornitura, scarsa innovazione tecnologica, bassa propensione alla R&S, difficoltà del ricambio generazionale erano lamentate da più parti, ma nessuna azione correttiva delle disfunzioni che la macchina “territorio” mostrava è stata concretamente intrapresa: il sistema del Nord Est mostrava di essersi adagiato su se stesso, di aver perso il suo slancio e la sua vitalità, per vivere di una supposta rendita conquistata con l’ingente sforzo dei decenni precedenti. Ma anche il territorio denunciava le sue prime difficoltà: i primi costi ambientali dovuti agli insediamenti produttivi disseminati con problemi di smaltimento dei residui industriali spesso risolti in modo illegale e non appropriato; l’incremento
dei costi del trasporto e la congestione, l’inadeguatezza della rete stradale e il generale deficit infrastrutturale regionale, l’assenza di servizi ed attrezzature di eccellenza, le disfunzioni di un processo di urbanizzazione non debitamente controllato e qualche intralcio nel regolare andamento del mercato immobiliare. Ma quale è stata la riposta a queste evidenti tensioni? La crisi del territorio del Nord Est, ancor prima che la crisi economica che attanaglia la sua società, ha quindi origini lontane, ma documentabili, mostra omissioni e colpevoli mancanze, ha responsabili e correi. Ma soprattutto ha ancora soluzioni percorribili e opportunità per tornare ad essere un fattore competitivo dello sviluppo, ma solo se ci saranno rigore e vigore nell’attuazione di una consapevole e condivisa regolazione dell’organizzazione del territorio. MALFUNCTIONING Vittima del suo successo, dunque, il territorio regionale ha fatto registrare più di un decennio fa i segni di un cattivo funzionamento. I rapporti statistici regionali puntualmente indicano come traffico privato e traffico commerciale-industriale non riescono più a convivere come agli albori dello sviluppo su un sistema infrastrutturale debole, la cui capillarità nel territorio (una delle condizioni favorevoli allo sviluppo produttivo diffuso) diventa un fattore di limite per l’impossibilità di un suo generale ed omogeneo potenziamento come per l’impossibilità di distinguere e privilegiare le modalità di uso, in un sistema insediativo in cui impresa e residenza si confondono. L’«incrementalismo infrastrutturale» diventa uno dei fattori di ritardo del Nord Est rispetto ad altri contesti europei più competitivi. La rete ferroviaria (che del sistema strategico disegnato dopo la prima guerra mondiale ha registrato dismissioni, contrazioni e tagli) appare inadeguata e insufficiente (e non sarà la promessa AV a rispondere alle esigenze del sistema produttivo) e per la logistica si registrano scarsi interventi, per lo più “di rimbalzo” per le politiche attuate nei paesi confinanti, mentre porti ed aeroporti vengono potenziati in chiave prevalentemente turistica. Se è vero che la miopia regionale si allinea alla scarsa lungimiranza nazionale nel campo degli investimenti infrastrutturali, è anche vero che il Nord Est perde in questa occasione l’opportunità di diventare un attore dirompente nel modesto dibattito nazionale sullo sviluppo3: invece di farsi promotore di
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una politica infrastrutturale rivoluzionaria (per un paese che concepisce le infrastrutture solo in termini di numero di appalti, cantieri e posti di lavoro alla stessa stregua dell’edilizia residenziale) e innovativa (non era forse il Veneto primus inter pares con la Baviera e le altre regioni nord-europee più avanzate?) preferisce soluzioni tradizionali e di portata limitata. La costruzione del Passante autostradale – ammirabile per tempi di esecuzione – è una riposta modesta e già inadeguata al problema che non sembra aver migliorato le sue prestazioni, come lo saranno la terza corsia della Mestre-Trieste o il completamento della Valdastico, della Strada del Santo e della Pedemontana che non riusciranno a risolvere il problema di una mobilità sofferente. I ritardi nella realizzazione del SFRM dimostrano la totale assenza di una visione strategica del sistema ferroviario, lasciando sospettare un distaccato ossequio a retoriche istanze ambientaliste4. Allo stesso modo, il processo di urbanizzazione del territorio, nelle corone dei grandi centri come nelle frattalità dei centri minori e nelle macchie di urbano sparse in una campagna ormai priva del suo carattere rurale, non ha subito alcun arresto, nonostante fosse evidente che alla quantità andasse necessariamente sostituita una strategia di qualità. I vuoti nei grandi centri urbani, ma insorgenti anche nei centri minori già alla fine degli anni ’80, sono il risultato di processi ben diversi dalla deindustrializzazione della fine degli anni ’70: erano gli esiti della prima fase di riorganizzazione produttiva e di internazionalizzazione di molte grandi aziende da cui solo relativamente un indotto di piccole e medie imprese si era reso indipendente; la ricerca di condizioni insediative migliori, vuoi per una maggiore accessibilità, vuoi per una maggiore qualità territoriale, vuoi per contenere i costi ambientali che impianti produttivi vecchi ed obsoleti avrebbero reso insostenibili. Insorgeva una prima evidente sottoutilizzazione delle aree industriali disseminate nella città diffusa ma nessuna azione di contenimento è stata avviata, così che ora le superfici urbanizzate inutilizzate fanno bella mostra di sé; i capannoni vuoti e alcuni avveniristici edifici direzionali troneggianti in una campagna ferita, invece di essere emblemi dello sviluppo, ne testimoniano gli errori. E anche quando la produzione edilizia è risultata comunque eccessiva rispetto alla reale domanda, nessuna inversione di tendenza è stata registrata sul territorio: i PIRUEA come il temporaneo congelamento della nuova legge urbanistica regionale hanno rappresentato l’ultimo
quanto recente atto di una gestione politica che si è rifiutata di invertire rotta. Lo dimostra anche il costante insediamento e sviluppo dei centri commerciali, proliferati su tutto il territorio, aggravando le condizioni di alcuni poli già sovraccarichi (si pensi a Padova Est, Treviso Sud o piuttosto a Vicenza Est o l’anello commerciale che è andato espandendosi attorno Mestre), mentre outlet e poli commerciali minori (non una costellazione ma una vera nebulosa di attività commerciali) contribuiscono all’incremento della congestione altrettanto diffusa. Quindi i costi (pubblici e privati) determinati dai disastri naturali le cui cause sono risultate prevalentemente di carattere antropico. Anche qui i segni di una fragilità di quel “territorio dei capannoni” erano evidenti ma sono stati volutamente ignorati, così gli effetti delle escavazioni o i rischi ambientali delle discariche abusive di materiali tossici non sempre smaltiti al Sud, ma spesso nascosti in casa (nonostante le denunce di Legambiente). Della sopravvivenza delle vecchie logiche territoriali è testimonianza poi “il caso Barcon”5 che a sua volta segnala l’insorgere di un’emergenza paesaggio, oltre a mostrare la natura del dilemma politico, sociale ed economico che opprime il Nord-Est e che non sembra trovare una riposta: il sacrificio della cornice paesaggistica della palladiana Villa Emo e la conversione di un altro pezzo di campagna ancora intatta in nome dello sviluppo. In un’area già sovraccarica di attività industriali, congestionata dalla presenza di un grande centro commerciale-direzionale-residenziale viene proposta la costruzione di una vasta zona produttiva (macello ed una cartiera) tra Vedelago e Fanzolo, bloccata però da un comitato di cittadini, mentre già si parla della follia di una tale decisione in tempi di crisi occupazionale e produttiva. Ma non è solo il degrado del paesaggio che inquieta. Preoccupa l’evidenza che i progetti di sviluppo produttivo sembrano ripercorrere sentieri già conosciuti e frequentati, senza che nessuna nuova strategia venga perseguita e che lo sviluppo economico – come nel passato – debba necessariamente passare attraverso ulteriore consumo di suolo. Preoccupa che la ricerca di valide “alternative” praticabili (come ha dimostrato la retromarcia degli imprenditori sul progetto, che hanno optato per lo spostamento di alcune lavorazioni in altre aree nella stessa provincia, per l’ampliamento dello stabilimento esistente, ecc.) sia avvenuta solo dopo l’insorgere del conflitto e dopo la mobilitazione della popolazione residente.
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FIXING AND CONCEIVING Degrowth, Downsiszing, Growsterity, Smart shrikage, Smart cities: che senso hanno in questo contesto simili proposte? Che possibilità hanno nuove filosofie per la crescita urbana e la trasformazione del territorio, se nulla sembra cambiare pur in presenza di una congiuntura così drammatica come quella che stiamo vivendo? Davvero augurarci uno scenario apocalittico perché si creino concretamente le condizioni di un radicale cambiamento? Molti iniziano a guardare alla crisi con preoccupazione ma anche con speranza, perché la crisi rende inevitabile la svolta. Ed è per questo cambiamento che molte azioni andranno intraprese e trovano già adesso – nelle azioni delle più accorte istituzioni e dei più intraprendenti attori privati – alcuni elementi che permettono di avanzare delle ipotesi di intervento. In primo luogo, sembra possibile auspicare l’individuazione di interventi finalizzati a rimediare ai ritardi del passato, agli errori commessi e alle disfunzioni che sono emerse; un’azione sul territorio per eliminare i fattori di rallentamento dello sviluppo, che pur non avendo ancora chiaro quale sarà l’orizzonte economico e sociale del post-crisi, intervenga sui fattori di inefficienza del sistema fin qui riconosciuti: a) innanzitutto, attraverso un ravvedimento nelle politiche territoriali che riesca a determinare un rallentamento dei processi urbanizzativi e controvertire la consolidata propensione al consumo di suolo. Questo non solo in un’ottica ambientalista di contenere il depauperamento delle risorse naturali, ma anche perché in questo modo si possano favorire i processi di valorizzazione dell’esistente, il recupero del patrimonio (residenziale, produttivo) inutilizzato e sostenere la riqualificazione del territorio ormai compromesso dall’urbanizzazione. Sono aspetti che dovrebbero divenire determinanti nelle politiche urbanistiche dei grandi come dei comuni medi e piccoli delle regioni del Nord Est. In questo caso, torna ad essere centrale il ruolo di indirizzo della Regione e l’azione attuatrice dei Comuni; e il riordino delle competenze che seguirà alla riarticolazione degli enti territoriali non potrà non costituire un’importante opportunità per riscrivere poteri e mansioni e l’occasione per riformulare politiche e strategie. In questo modo è facile supporre una radicale revisione di quel modello dissipativo dell’insediamento che ha sostenuto lo sviluppo di questi ultimi decenni e l’elaborazione di un diverso scenario per il territorio che accoglierà il ciclo economico prossimo venturo;
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b) è necessario, poi, provvedere ad un potenziamento ma in chiave strategica del sistema infrastrutturale, che dovrà anche questo essere diretta conseguenza della nuova visione territoriale. La nuova visione territoriale dovrebbe poter prevedere la necessaria riorganizzazione degli insediamenti intorno a specifiche polarità in modo da garantire non solo una riduzione dei costi di insediamento (grazie anche ad economie di scala) ma anche il maggiore controllo (e contenimento) degli impatti ambientali; deve poter favorire la corretta progettazione dell’accessibilità ed il collegamento dei poli alla grande viabilità (l’esperienza dei “Poli funzionali” previsti nel PTCP di Bologna ed i suoi esiti sono un buon esempio da emulare!). Quindi, una volta completate le opere ormai avviate, diventerà necessario concepire un diverso sistema di mobilità delle merci (rendendo indispensabile una seria riflessione sulla logistica e sui nodi intermodali che dovranno essere concepiti in un’ottica che travalichi i confini nazionali) e delle persone, riformulando il sistema di mobilità metropolitana; rivedendo il progetto del SFRM e soprattutto valorizzandone alcuni nodi (si pensi a quella che doveva essere la “Porta est” di Mestre), combinando i nuovi insediamenti con le nuove forme di mobilità integrata. Il sistema della mobilità così concepito dovrebbe diventare lo scheletro della riorganizzazione insediativa regionale, secondo un inquadramento strategico di ampio respiro territoriale che fino ad oggi è mancato; c) una decisa politica di riqualificazione del paesaggio e di recupero del territorio, che dovrà inevitabilmente sposarsi con energici provvedimenti per la sua messa in sicurezza. L’obiettivo deve poter implicare anche inusuali (perché mai praticate non perché improponibili) azioni di intervento su buona parte del patrimonio edilizio esistente e che probabilmente resterà inutilizzato, contemplando anche demolizioni, ripristino del preesistente laddove questo giustifichi – in termine di sicurezza e di restauro ambientale – la complessità delle opere ed i costi. Questo significa anche specifiche strategie di ricomposizione degli spazi periurbani, una concreta attuazione delle politiche di salvaguardia dei “corridoi ecologici”, la messa a sistema delle aree ad alta naturalità liberandole dalla loro condizione di “insularità”, solo per fare alcuni esempi. Se guardiamo nel complesso agli interventi proposti, possiamo convenire che non si tratti poi di azioni così innovative e qui paradossalmente potremmo affermare che la costruzione del nuovo modello territoriale passa innanzitutto dalla ripropo-
sizione di un’azione di pianificazione la cui straordinarietà e novità consisterà nella sua concreta applicazione, nel perseguimento pervicace da parte delle istituzioni ma soprattutto nella condivisione più ampia e generale dei suoi principi da parte della società come degli attori principali della trasformazione territoriale. Non riusciremo forse ad indicare quali debbano essere i caratteri essenziali del nuovo modello territoriale, ma possiamo sicuramente stabilire adesso quali debbano essere alcuni dei suoi presupposti irrinunciabili: a) come per esempio una categorica e generale condivisione dello scenario territoriale da costruire, attraverso la formazione di un “ciclo virtuoso della conoscenza” tra tecnici, esperti e la politica, tra politica e società civile e tra società civile ed esperti e tecnici. Una condivisione che dovrebbe garantire non solo una sostanziale coerenza nelle diverse politiche come nelle tante pratiche (individuali o collettive) che interessano il territorio, ma che dovrebbe poter permettere lo sfruttamento delle rilevanti potenzialità di alcune risorse locali (un notevole capitale sociale che può ancora essere determinante nello sviluppo dell’area; un capitale cognitivo che deve ancora esprimere tutta la sua forza creativa) pur presenti ma oggi sottoutilizzate se non penalizzate da questo contesto; b) una diversa, nuova e più produttiva sinergia tra istituzioni, attori privati (imprenditori, associazioni di categoria, ecc) e società civile in cui il territorio non verrà inteso più come un semplice e banale mezzo di produzione inesauribile e a costo nullo, bensì come una risorsa peculiare, preziosa e strategica da valorizzare ed usare con estrema cura; il territorio dovrebbe non più essere considerato come l’esito eventuale delle dinamiche economiche e sociali, ma piuttosto l’obiettivo perseguito con forza e coerenza dalle forze economiche come dalle politiche (economiche, sociali, urbanistiche, ecc) promosse a diverso livello; c) dovrà essere nuovamente rilevata e misurata la domanda dei bisogni sociali a cui il nuovo modello territoriale dovrà rispondere. Una domanda stabilita non più basandosi su assunti (spesso ideologici) poco aderenti alla realtà o piuttosto modellata su interessi particolari e per specifici campanili, come non dovrà risultare frutto di scambi negoziali o l’esito incongruo dell’accoglimento di ogni istanza (anche e spesso in deroga alle norme) in cambio di consenso politico. Dovrà piuttosto essere improntata sulla definizione univoca e rigorosa
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dei beni comuni, sulle necessità concrete e su grandi obiettivi di benessere collettivo, scevro da facili compromessi. E nuovi approcci (disciplinari e politici) devono essere ricercati per dare risposte a questi nuovi bisogni. La crisi (per tacere di quanto sta emergendo dai vari scandali in molti ambiti di governo) non può non avere come prima conseguenza una diversa consapevolezza di governo, un diverso rapporto tra politici e società, un diverso e nuovo processo creativo, un diverso slancio progettuale che contribuisca alla definizione di un diverso modello territoriale. d) quindi, un rilancio del processo politico e tecnico della pianificazione. Risulta paradossale proporlo, soprattutto perché il richiamo alla pianificazione sembra essere quanto di più vecchio e datato, nonostante siano noti ed evidenti i limiti e la debole volontà con cui la pianificazione è stata condotta nel nostro paese – e nondimeno nel Nord Est. Eppure il nuovo modello territoriale non potrà prescindere dalla pianificazione non solo perché non potrà essere lasciato alle dinamiche spontanee e auto-regolative che hanno caratterizzato il modello precedente (quelle, lo abbiamo visto, hanno funzionato nel breve-medio periodo deteriorando le basi stesse dello sviluppo) ma dovrà essere costruito con basi solide in grado anche di poter fronteggiare la rapidità ed imprevedibilità dei mutamenti (rispetto ad un certa lentezza e anche inerzia dei processi del passato), sapersi confrontare con la natura esogena (e spesso fin troppo remota) e con la scala (globale) dei fattori di sviluppo. Una pianificazione nella quale istituzioni come le Regioni ed i Comuni (chissà che ne sarà delle Province e delle città metropolitane in questo dibattito a tratti insensato e sconclusionato) ricostruiscano la loro credibilità anche attraverso un nuovo rigore ed un stile di governo. Quello che si propone, dunque, come primo passo decisivo per una rinascita dopo la crisi, è allora un ripensamento ed una riformulazione del processo di pianificazione certamente rinnovato nelle sue regole e nei suoi obiettivi come nei suoi strumenti, magari riutilizzando i sistemi esistenti ma sicuramente con uno spirito nuovo che ci permetta – oltre questa crisi – di poter arrivare concretamente alla produzione di un adeguato e favorevole contesto per lo sviluppo della società e soprattutto – con la convinzione che la pianificazione possa davvero essere lo strumento strategico per la costruzione del futuro – di poter dare origine ad una nuova capacità progettuale perché l’azione sul territorio risulti vigorosa ed efficace.
1 I riferimenti ad una letteratura veramente ampia sono più che noti, a dir poco scontati, a partire dal celebre testo di Bagnasco del 1977, per finire ai Rapporti della Fondazione Nord Est. Mi permetto di rimandare per una completa e argomentata bibliografia a M. Savino, L’insostenibilità territoriale della “Terza Italia”, in I. Vinci (a cura di), Il radicamento territoriale dei sistemi locali, Franco Angeli, Milano 2005. 2 Territorio da intendere come complesso intreccio di risorse naturali, organizzazione sociale, matrice insediativa, capitale fisso sociale prodottosi nel tempo, e quale espressione di macro- e micro- processi economici, strutture sociali ancestrali ma in veloce mutamento, cultura e indole delle comunità presenti, spirito imprenditoriale e condizioni regolative come endogene forme di auto-organizzazione. 3 Il testo di R. Mazzaro, I padroni del Veneto, Laterza, Bari 2012, sta facendo molto discutere in questi mesi sul ruolo marginale del Veneto (alla luce del suo successo economico) nella determinazione delle politiche del Paese, sia da parte della sua classe imprenditoriale (nonostante il suo peso nella formazione del PIL nazionale) sia da parte della sua classe politica (nonostante il forte ed omogeneo consenso elettorale ed il sostegno garantito alle forze di governo nell’ultimo decennio). 4 Su questo tema, per una trattazione di maggiore ampiezza, mi permetto di rimandare a M. Savino, Infrastrutture nel Veneto. Quali i problemi?, «Economa e società regionale», n. 94, 2006 e a L. Fregolent, M. Savino, Quando la soluzione diventa un nuovo problema. Prospettive della dispersione veneta tra politiche infrastrutturali e consumo di suolo, in M. Pezzagno, S. Docchio (a cura di), Vivere e camminare in città. La metropoli lineare. Atti della XVII Conferenza internazionale “Vivere e camminare in città”, EGAF Edizioni srl, Forlì 2011. 5 Per un breve riepilogo si veda S. Madiotto, Caso Barcon, capannoni e 600 posti. Ma il Comune dice no, «Il Corriere del Veneto», 10 ottobre 2012.
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SCENARI E TERRITORI PER UN NUOVO SVILUPPO DEL NORD EST
Giancarlo Corò
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L’EVOLUZIONE DELL’ECONOMIA DEL NORD EST: TRE CHIAVI DI LETTURA La lunga crisi che l’economia italiana sta attraversando non è causata solo dalla recessione mondiale del 2008, ma anche da processi di ristrutturazione industriale e riposizionamento competitivo che hanno preso avvio almeno dieci anni prima. Tali processi hanno investito direttamente l’area del Nord Est, che più di altre regioni del Paese si è trovata esposta alla crisi finanziaria in un difficile momento di cambiamento. Questo articolo si propone di analizzare i processi di aggiustamento strutturale che stanno investendo l’economia del Nord Est, osservando in particolare i movimenti che stanno avvenendo su alcune promettenti frontiere dell’innovazione. Per sviluppare questa analisi è tuttavia necessario esplicitare tre chiavi di lettura. La prima, a cui abbiamo appena fatto cenno, è che già nel corso degli anni ’90 comincia ad incrinarsi l’equilibrio competitivo che aveva consentito all’economia del Nord Est di crescere e affermarsi come una delle aree industriali di maggior successo in Europa. L’emergere di nuove condizioni tecnologiche (in particolare con la diffusione dell’Ict e il ruolo sempre più incisivo delle conoscenze scientifiche nella produzione di beni e servizi), geo-economiche (con la rapida crescita dell’Asia, dell’America Latina e dell’Europa Centro-Orientale nella produzione industriale e nell’attrazione di investimenti) e monetarie (con l’affermazione del regime macro-economico dell’euro), costringe le imprese ad avviare importanti processi di ristrutturazione e spinge l’economia locale a cercare nuove strade di sviluppo. La seconda ipotesi è che, in quanto espressione di un capitalismo imprenditoriale, l’economia del Nord Est non è affatto rimasta ferma di fronte alle sfide competitive, ma ha reagito con determinazione alla ricerca di nuovi percorsi di sviluppo. Con l’espressione “capitalismo imprenditoriale” si intende un modello sociale di produzione basato su una pluralità di agenti economici che operano in mercati aperti, i quali effettuano continuamente investimenti a rischio su nuovi prodotti, nuovi servizi e nuovi processi di creazione del valore1. Diversamente da altri modelli economici – che possono vedere un ruolo più attivo dello Stato nell’economia, oppure avere una struttura oligopolistica dei mercati e una funzione centrale delle grandi imprese – il capitalismo imprenditoriale è un sistema economico meno organizzato, ma proprio per questo più aperto alle
sperimentazioni. Perciò, molto più predisposto ad introdurre innovazioni di tipo incrementale e, in alcuni casi, anche radicale. I cambiamenti continui in cui vive e prospera il capitalismo imprenditoriale pongono ovviamente seri problemi all’indagine economica, che corre il pericolo di bloccare la rappresentazione della realtà entro vecchi schemi di analisi, che si rivelano spesso inadeguati a cogliere i fenomeni emergenti. I percorsi di adattamento e di esplorazione innovativa che l’economia del Nord Est e più in generale del nostro paese ha intrapreso a partire dalla seconda metà degli anni ’90 non hanno ancora portato ad un assestamento definitivo. In ogni caso, nel guardare a come il capitalismo imprenditoriale può superare la crisi in corso bisogna evitare di compiere due errori. Il primo è di confonderlo con un sistema atomistico di piccole imprese in competizione fra loro, privo di istituzioni e di imprese di maggiori dimensioni che, per loro natura, tendono a costruire regole di stabilità e ad allungare l’orizzonte di ritorno degli investimenti. In realtà, per funzionare il capitalismo imprenditoriale presuppone una forte complementarità fra piccola impresa, media impresa (non più assimilabile alla grande, come si è spesso fatto in passato) e grandi gruppi, ma anche fra mercato e istituzioni, richiedendo un insieme di regole in grado di ridurre i costi di transazione e assicurare quelle dotazioni di beni collettivi e capitale fisso sociale che il mercato, da solo, non è in grado di produrre in modo efficiente. Il secondo errore da evitare è pensare che l’esplorazione imprenditoriale porterà, dopo una dura selezione competitiva, ad individuare un unico modello di sviluppo. Una one best way, se mai c’è stata, non è la soluzione che ha senso cercare per uscire dalla crisi (Rullani 2009; Stiglitz 2009). Né, del resto, è una strada unica che si intravede nella realtà e nei progetti di innovazione dell’economia del Nord Est. La terza ipotesi della ricerca è proprio questa: il capitalismo imprenditoriale che anima l’economia e la società del Nord Est sta da tempo esplorando diversi percorsi di innovazione, che non sono affatto fra loro alternativi, quanto molto spesso integrativi. Quelli che hanno assunto o cominciano ad assumere contorni più definiti sono i seguenti: più qualità, differenziazione e significati complessi nei prodotti manifatturieri, che si manifestano, in particolare, nello sviluppo di una “industria su misura” e del “lusso accessibile”, nella riscoperta dell’autenticità e della creatività artigiana, nella valorizzazione dei prodotti agro-alimentari tipici, nel valore di esperienza dell’ospi-
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talità turistica; più tecnologia nell’industria, sia attraverso un aumento del contenuto tecnologico dei prodotti tradizionali, sia con una ricomposizione settoriale in cui si riduce il peso dei beni finali (in particolare dei sistemi della moda e della casa) a vantaggio dei beni strumentali (meccatronica, automazione, impianti), e delle forniture specializzate (componentistica complessa, chimica fine, farmaceutica); più internazionalizzazione, nel senso che le imprese più dinamiche del Nord Est sono diventate a tutti gli effetti globali, hanno cioè adottato ampi gradi di libertà nel definire le proprie scelte localizzative per ogni specifica attività interna e per ogni relazione della propria rete di valore. Più in generale, esplorano lo spazio globale alla ricerca di opportunità di mercato, di informazioni e conoscenze, di altre imprese, persone e risorse con cui creare un legame utile alla propria strategia competitiva; più servizi all’interno dell’industria e attorno ad essa, al punto che la tradizionale distinzione fra secondario e terziario sta perdendo progressivamente significato, e fa invece emergere diverse filiere neoindustriali, in cui il tratto unificante diventa la crescente intensità di conoscenza impiegata nella produzione di beni e di servizi; più servizi non solo orientati alla competitività dell’industria, ma anche alla qualità di vita della popolazione, che ha progressivamente spostato la domanda verso prodotti orientati al benessere, come documenta la crescita di occupazione e nuova imprenditorialità nei settori della salute, della cultura, dell’ambiente, dell’ospitalità, dell’edilizia sostenibile. SPINTE E RESISTENZE ALL’INNOVAZIONE Tutte queste linee di adattamento, innovazione e riposizionamento costituiscono rilevanti risposte ai cambiamenti sociali, tecnologici e dei mercati. Come vedremo, queste strategie di adattamento rispondono meglio di altre alla ricerca di un equilibrio più avanzato fra cambiamenti dello scenario competitivo (i fattori esogeni, non controllabili localmente) e identità locale (i caratteri endogeni dello sviluppo). Un aspetto che, infatti, non dovrebbe mai essere dimenticato in un’analisi economica è che la “storia conta”, nel senso che natura, cultura e istituzioni di una comunità imprimono all’economia una traiettoria che limita i possibili vantaggi comparati su cui risulta profittevole investire. Questo fenomeno di path dependence segnala l’esistenza di vincoli e opportunità specifiche che condizionano il percorso di sviluppo di un sistema economico. Un percorso, perciò, che nella sua evoluzione rimane, sia pure in misura di-
versa a seconda dei casi, sempre collegato a quanto avvenuto nelle fasi precedenti. La storia di un territorio – che è fatta anche di relazioni sociali, cultura materiale e specializzazioni produttive – non può, dunque, essere azzerata. Del resto, come ha mostrato Brian Arthur (2009), la storia conta anche quando si generano innovazioni tecnologiche radicali, perché la creazione di nuovi artefatti, la sperimentazione di nuovi processi, lo sviluppo di nuovi mercati prendono corpo dalla combinazione di conoscenze, relazioni ed esperienze accumulate nel passato e ancora disponibili nel presente. Tuttavia, dire che la storia di un territorio conta non significa rimanere prigionieri del passato. I sistemi socio-economici cambiano infatti con il procedere del loro sviluppo. Questo avviene sia perché cambiano le condizioni al loro esterno, sia perché con lo sviluppo si modifica anche al loro interno il quadro delle preferenze e la capacità degli attori. È nel guardare a questo indissolubile e fertile rapporto fra identità e cambiamento che ha preso le mosse la riflessione sugli scenari economici presentata di seguito. In particolare, nei prossimi capitoli ci soffermiamo su tre delle nuove frontiere del cambiamento: la prima è rappresentata dai servizi ad elevata intensità di conoscenza, noti anche con l’acronimo inglese di KIBS (Knowledge-Intensive Business Services); la seconda è quella dell’autenticità e dei beni di esperienza; la terza, infine, è rappresentata dalle nuove “industrie” della qualità sociale. La scelta di concentrare l’analisi su questi tre “scenari” di evoluzione dell’economia è essenzialmente dovuta ad una valutazione di utilità marginale della ricerca: da un lato questi tre tipi di attività – KIBS, autenticità, qualità sociale – rappresentano già oggi fattori rilevanti e particolarmente dinamici per l’economia del Nord Est, con implicazioni che vanno anche oltre i confini dei settori direttamente coinvolti; dall’altro, costituiscono campi di indagine finora poco esplorati rispetto alla manifattura, per i quali, dunque, le informazioni raccolte possono portare un beneficio conoscitivo aggiunto maggiore. C’è inoltre da osservare che, rispetto al tradizionale modello di crescita industriale, questi cambiamenti hanno un impatto molto diverso sulle modalità d’uso del territorio, e richiedono perciò anche una attenzione specifica dell’urbanistica. SERVIZI AD ALTO CONTENUTO DI CONOSCENZA Il primo scenario di cambiamento che ci interessa approfondire è animato dai servizi del terziario avanzato o ad alto conte-
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nuto di conoscenza erogati da imprese private o da fornitori di tipo istituzionale. I KIBS sono emersi come un ambito specifico di ricerca all’inizio degli anni Novanta, e da allora un consistente numero di studi teorici ed empirici è stato prodotto su questo argomento2. I primi contributi identificavano nel trasferimento unidirezionale di informazione e conoscenza ai loro clienti la funzione distintiva dei KIBS. I contributi più recenti, invece, mettono in risalto un più complesso processo di interazione e co-produzione di conoscenza che coinvolge i KIBS e i loro clienti, anche alla luce di due fatti importanti: il ruolo che la conoscenza tacita riveste in tale processo e l’elevato grado di personalizzazione che in genere caratterizza i servizi knowledge-intensive. Se i KIBS costituiscono un interessante oggetto di studio, tuttavia rimane il problema di come individuarli utilizzando le categorie previste dalla classificazione Ateco. Al riguardo, una lista abbastanza condivisa comprende il settore delle telecomunicazioni, gran parte dei servizi informatici, tutte le attività di ricerca e sviluppo, gran parte dei servizi alle imprese. Naturalmente, date due imprese che statisticamente appartengono all’universo KIBS e allo stesso settore, ad esempio due agenzie di pubblicità, le differenze in termini di contenuto di conoscenza e di qualità dell’interazione cognitiva con la clientela possono essere nei due casi anche molto forti. Tuttavia, la maggior parte degli studiosi ritiene che il numero delle imprese e degli occupati registrati in una determinata area geografica nell’insieme dei settori citati costituisca una buona proxy della presenza di KIBS in quel territorio. Oltre al rilievo appena menzionato, vi sono altri due aspetti relativi all’individuazione dei KIBS che meritano di venire considerati. Li citiamo perché il loro interesse trascende la dimensione metodologica, ricollegandosi entrambi ad alcuni dei percorsi di innovazione già richiamati in questo articolo. Il primo è in realtà complementare al precedente: in qualsiasi settore di attività non compreso tra quelli indicati come KIBS, sia esso di servizi o manifatturiero, vi può essere un’impresa o un’organizzazione che – per tipo di output prodotto e relazione con i clienti – è del tutto assimilabile o comunque molto vicina a un KIBS. Ad esempio, in molte imprese industriali che operano in settori business to business: la componente di servizio risulta molto elevata e talvolta addirittura supera in valore il prodotto tangibile, il servizio è fortemente customizzato, il servizio stesso è ad alto contenuto di conoscenza. Anche i settori
del terziario tradizionale, i servizi logistici ad esempio, possono ospitare imprese KIBS-oriented con riferimento al contenuto di conoscenza dell’output e alle modalità di relazione con i clienti. Queste imprese, strutturalmente, si distinguono in modo netto dal resto della popolazione settoriale a cui appartengono. Il secondo aspetto consiste invece nel fatto che ogni organizzazione presenta al suo interno delle attività che erogano prestazioni utilizzate da altre attività interne. Questa idea è alla base del concetto di catena del valore (Porter, 1985). Ora, tanto più queste prestazioni di servizio sono knowledge-intensive, e rappresentano una componente consistente rispetto all’intera organizzazione, tanto più quella organizzazione, anche se si tratta di un’impresa che produce beni di consumo, è assimilabile a un KIBS. Le attività generatrici di valore che possono essere considerate unità KIBS interne sono dunque: il marketing (senza la vendita in senso operativo), il supply chain management, la R&S e più in generale le attività che concorrono all’innovazione di processo o di prodotto, la gestione delle risorse umane, e infine le attività che Porter chiama “infrastrutturali”, come la gestione della qualità e la pianificazione strategica. L’universo dei KIBS, per come definito prima, ha avuto un forte sviluppo nell’area del Nord Est negli ultimi dieci anni, una crescita trainata dalla densità molto elevata della domanda, dentro i tipici distretti industriali e “tra” i distretti industriali. Pur trattandosi di imprese la cui dimensione media è molto piccola, l’insieme dei KIBS contribuisce oggi in modo non marginale alla produzione di valore aggiunto nell’ambito delle rispettive economie regionali. Una ricerca empirica sui KIBS del Veneto3 ha messo in evidenza che le 505 imprese del campione presentano alcuni tratti distintivi abbastanza omogenei, in particolare realizzano servizi di una certa complessità, caratterizzati mediamente da un elevato livello di personalizzazione, per i quali diventa indispensabile interagire con la clientela. Tuttavia, la ricerca ha anche individuato un certo numero di KIBS che si differenziano nettamente dal resto del campione, mostrando un profilo decisamente più evoluto. I KIBS in oggetto sono mediamente più grandi degli altri e operano con una clientela diversificata sotto il profilo geografico, che supera ampiamente non solo i confini del mercato locale (ad esempio, del distretto industriale in cui hanno sede), ma anche del territorio regionale. Viste più da vicino, queste imprese si distinguono per il modo di gestire le conoscenze, e in particolare per
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la capacità di assorbire o trasferire conoscenze interagendo con i clienti e con gli altri soggetti (fornitori e altri partners) che partecipano alla loro rete del valore; la capacità di codificare le conoscenze e quella di produrne di nuove, autonomamente o in partnership. Questi aspetti sono interdipendenti ed è proprio la loro compresenza e gestione integrata a rappresentare la “formula di successo” nel mondo dei KIBS. In base al modo descritto di operare, i KIBS evoluti svolgono una preziosa funzione a supporto dei processi innovativi e dell’evoluzione competitiva delle imprese che acquisiscono i loro servizi. D’altra parte, un ruolo di questo tipo non dovrebbe venire praticato solo da una componente qualificata dei KIBS privati (ai quali si è limitata l’indagine citata), ma anche da una varietà di attori istituzionali che formalmente lo includono nella loro missione. Per quanto possa apparire paradossale, vista l’enfasi con cui questo tema viene affrontato nel dibattito sullo sviluppo economico regionale, manca un’adeguata base empirica su cui sviluppare un’analisi di impatto dei KIBS istituzionali4. AUTENTICITÀ, TIPICITÀ ED ESPERIENZA Oltre alle frontiere dei servizi ad alto contenuto di conoscenza, l’economia del Nord Est sta cambiando anche nei suoi territori più tradizionali. L’affermazione sulla scena mondiale dell’economia dei distretti e delle piccole imprese del Made in Italy avviene, a partire dagli anni ’70, anche in corrispondenza di un cambiamento della domanda finale, che sposta progressivamente le preferenze dai prodotti standardizzati di massa verso beni differenziati e di qualità, in precedenza riservati a ristrette cerchie di consumatori. Una nuova generazione di beni per la persona, per la casa, per l’alimentazione, assieme alle tecnologie per produrli e confezionarli, assume sempre più consistenza nel commercio internazionale, ridisegnando la struttura di specializzazione dell’economia italiana. Il mutamento della domanda verso beni differenziati e quindi il superamento del modello di produzione e consumo basato su beni standardizzati di massa non costituisce un fallimento del fordismo, ma può essere considerato il risultato del suo successo: la sofisticazione dei consumi per larghe fasce della popolazione – e non solo per poche élites – non è altro che la conseguenza del forte processo di sviluppo che contraddistingue le economie industriali nel dopoguerra, che ha portato alla diffusione delle condizioni di benessere nella società e, in parti-
colare, all’affermazione di una sempre più consistente classe media affluente. Inoltre, la sofisticazione dei consumi è anche l’esito di un processo di apprendimento dei consumatori stessi. Ciò vale per prodotti complessi, come le automobili e gli elettrodomestici, ma anche per quelli apparentemente più semplici, come i prodotti alimentari, l’abbigliamento o i beni per la casa: anche in questi casi, quando il consumo supera la soglia di “prima dotazione”, nella domanda si formano elementi di gusto, stile, significati complessi, il cui effetto è accrescere la varietà e la variabilità della domanda. Di fronte alla crescita di complessità del consumo, la struttura di offerta non poteva rimanere neutrale. Come hanno descritto magistralmente Piore e Sabel (1984), è proprio il rapido mutamento della domanda a segnare una nuova via allo sviluppo economico del secolo scorso. Questa nuova via apre la possibilità di superare la produzione di massa a favore di un modello di “specializzazione flessibile”, dove le piccole imprese e i sistemi produttivi locali non svolgono più un ruolo residuale, ma sempre più centrale nel processo di accumulazione e distribuzione della ricchezza. L’emergere in Italia, e in particolare nel Nord Est, dell’economia dei distretti avviene, dunque, sull’onda di un processo di trasformazione più generale, che oltre ai modelli di consumo coinvolge anche la tecnologia e l’apertura degli scambi. Il Made in Italy diventa così, allo stesso tempo, simbolo di qualità dei prodotti, ma anche elemento di un originale “modo di produzione”, che va oltre il lavoro di fabbrica, per recuperare dimensioni sociali, culturali e politiche. Tuttavia, anche questa storia di successo dello sviluppo italiano incontra, ad un certo punto, il suo limite. Con il cambiamento dello scenario competitivo che si afferma nella seconda metà degli anni ’90, i vantaggi della specializzazione flessibile non sono più da soli sufficienti per tenere il passo di uno sviluppo mondiale che cambia decisamente prospettiva. Se in una prima fase le piccole imprese e i distretti erano riusciti ad inserirsi in uno spazio di mercato che le grandi imprese avevano lasciato scoperto, ora la situazione cambia nuovamente. Da un lato, l’innovazione nelle tecnologie di rete restituisce ai grandi gruppi industriali quelle condizioni di flessibilità che prima erano appannaggio dei sistemi di piccole e medie imprese, rendendo possibile mantenere il controllo su estese reti di produzione, che si allungano sempre più nelle aree produttive a basso costo delle economie emergenti. Dall’altro la-
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to, è proprio l’emergere sulla scena mondiale di queste economie a trasformare le condizioni di domanda e offerta. Per quanto riguarda l’offerta, la prima ondata di crescita delle produzioni low cost si trova a concorrere sui tipici settori di specializzazione del Made in Italy, quali abbigliamento, calzature, borse, arredo, in ragione delle più basse barriere all’entrata che contraddistinguono questi settori. Anche se il differenziale di qualità sui prodotti rimane elevato, è indubbio che il Made in Italy viene messo subito sotto pressione dalla concorrenza, non sempre corretta, dei new comers, che contribuiscono così a ridisegnare i vantaggi comparati dell’economia dei distretti. Inoltre, lo sviluppo delle nuove economie crea anche una corrispondente crescita di domanda finale, con un ritorno di importanza dei beni standardizzati di massa per servire mercati di prima dotazione. A tutto questo c’è poi da aggiungere il passaggio al regime monetario dell’euro, che contribuisce a mettere ulteriormente in sofferenza i distretti italiani, riducendo la competitività delle esportazioni, e aumentando la convenienza delle stesse imprese distrettuali a delocalizzare la produzione nelle economie emergenti, alla ricerca di più convenienti condizioni competitive, a partire dal basso costo del lavoro. Va precisato che la strategia di delocalizzazione produttiva, che si è diffusa in misura consistente proprio nel Nord Est, non deve essere demonizzata. Per molte imprese lo spostamento all’estero della produzione ha rappresentato una scelta necessaria per continuare a crescere in uno scenario profondamente diverso dal passato5. Inoltre, essere presenti nelle economie emergenti, ha offerto a molte imprese italiane l’occasione di conoscere e presidiare nuovi mercati, che nel tempo sono poi diventati anche importanti sbocchi per i propri prodotti con il formarsi in quei paesi di una borghesia affluente che ha disponibilità a pagare e cultura di consumo adeguata per chiedere qualità ai prodotti. Tuttavia, è indubbio che quanto si sviluppa nella seconda metà degli anni ’90 cambia significativamente le condizioni di vantaggio competitivo delle piccole imprese e dei distretti industriali del Made in Italy. In particolare, molti beni differenziati di massa vengono prodotti a condizioni più convenienti da grandi gruppi transnazionali dotati di adeguate tecnologie e da efficienti sistemi logistici e distributivi, che possono più facilmente accedere ai potenziali a basso costo delle economie emergenti. Anche diversi marchi italiani del Made in Italy avviano
processi di riorganizzazione internazionale della produzione (portando al cosiddetto Made “by” Italy). La capacità tipicamente sistemica dell’Italia di concorrere sulla differenziazione e la qualità si sta dunque esaurendo? Non necessariamente. Mentre la nuova geografia mondiale della produzione si affermava con i suoi enormi potenziali di sviluppo e gli inediti problemi di regolazione, è la stessa frontiera della qualità a spostarsi, arricchendosi di nuovi contenuti e capacità comunicative che portano a dare più valore alle esperienze di consumo, all’autenticità della produzione e a sviluppare una nuova concezione di lusso accessibile. In un libro scritto alla fine degli anni ‘90 da Joseph Pine e James Gilmore veniva proposta un’idea interessante per spiegare il differenziale di prezzo di alcuni beni-servizi in relazione alla modalità di consumo6. La chiave di lettura per comprendere il significato di economia delle esperienze veniva fornita dagli autori richiamando una tipica situazione vissuta da molti turisti in Italia: quella di un caffè consumato ad un tavolo del Florian, in Piazza San Marco a Venezia. Prima di arrivare al tavolo del Florian il caffè ha fatto una lunga strada, subendo diversi processi di trasformazione. Ad ogni passaggio viene aggiunto uno specifico valore economico al prodotto originario, fino ad arrivare al prezzo finale. Il caffè nasce come commodity alimentare, con un valore per tazza equivalente a circa 2-3 centesimi di dollaro. Quando poi subisce la trasformazione industriale può raggiungere alla distribuzione un valore di circa 25 centesimi. Una volta che il caffè viene servito al banco di un bar, il prezzo pagato sarà nell’ordine di un dollaro. Ma se viene consumato in un tavolino del Florian, lo stesso identico caffè può tranquillamente raggiungere i 15 dollari! Seguendo dunque la catena del valore del caffè, la conclusione degli autori è che il valore maggiore non viene creato dalla trasformazione industriale, e nemmeno nel servizio (al bar), bensì dall’esperienza di consumo. E tanto più l’esperienza è unica, autentica e densa di significati, tanto maggiore è il valore economico che le viene riconosciuto dal consumatore. Secondo Pine e Gilmore, nell’economia moderna questo fenomeno è molto più diffuso di quanto si pensi, ed è destinato a crescere ulteriormente. Molti prodotti del Made in Italy possono assumere il valore di beni di esperienza e autenticità: dall’ospitalità turistica, alle tipicità alimentari e viti-vinicole, all’artigianato artistico, all’industria su misura, alle stesse griffe della moda e del design,
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che oltre a vendere un prodotto comunicano significati di identità e appartenenza. L’economia delle esperienze e dell’autenticità ha anche dal lato dell’offerta alcuni aspetti interessanti da mettere in risalto. Innanzitutto è importante il legame con la storia, la cultura, le capacità specifiche di un territorio produttivo, che diventano parte essenziale della qualità del bene o del servizio venduto. Questo aspetto può sembrare scontato per il turismo, dove l’ambiente – naturale o storico – costituisce una componente fondamentale dell’attrattività del servizio. È evidente anche per le produzioni alimentari e viti-vinicole, in particolare quando la denominazione di origine assume un ruolo chiave nella valutazione dei consumatori. Tuttavia, può essere importante anche per i prodotti manifatturieri che esprimono una eccellenza collegata ad una tradizione artistica, artigianale o anche industriale del territorio, soprattutto quando riescono a re-interpretare questa tradizione in chiave moderna (Micelli 2011). Un altro aspetto da richiamare è il fatto che nell’economia delle esperienze tendono chiaramente a prevalere le piccole e medie imprese. La necessità di mantenere la massima attenzione alla qualità sulle diverse fasi del ciclo di trasformazione, contribuisce a ridurre la soglia di produzione efficiente. In altri termini, tendono a prevalere le diseconomie di scala dovute ai costi di controllo diretto del processo produttivo e di servizio, anche se ciò non esclude che per alcune attività complementari dove i rendimenti sono invece crescenti – ad esempio la promozione e la tutela del marchio, oppure la commercializzazione – sia necessario associare le imprese in progetti comuni. Un terzo aspetto che è utile sottolineare è la possibile integrazione e gli spillover reciproci fra attività collegate all’economia delle esperienze: i servizi di ospitalità turistica acquistano maggior valore se associati ad un’offerta di prodotti alimentari tipici e alla presenza di produzioni originali e di qualità. Allo stesso tempo, essere parte di un circuito turistico fornisce alle produzioni tipiche un canale diretto di accesso al mercato finale, con la possibilità per i produttori di rafforzare i diritti di proprietà e di riservarsi quote di valore che altrimenti andrebbero alla distribuzione. Nell’area del Nord Est c’è un numero crescente di imprese posizionate sulla frontiera dell’autenticità-tipicità-esperienza. Soprattutto, esiste un grande potenziale per avviare iniziative e progetti di sviluppo in questo ambito. Ma per crescere in
questa direzione le imprese hanno anche l’esigenza di territori accoglienti e coerenti, in grado di esprimere quella identità culturale di cui i prodotti hanno bisogno per rendersi riconoscibili nell’economia mondiale. L’ECONOMIA DELLA QUALITÀ SOCIALE Il successo economico del Nord Est nasce da una solida base produttiva di piccole e medie imprese, specializzate in alcune filiere dell’industria manifatturiera fortemente orientate all’export. In questo modello di sviluppo, la “fabbrica” non ha costituito solo un elemento che ha profondamente segnato il paesaggio, ma lo snodo attorno a cui si è organizzata una parte rilevante della vita individuale e collettiva. Tuttavia, tale rappresentazione corre anche il pericolo di deformare la lettura di una realtà economica e sociale che sta cambiando molto più rapidamente di quanto i tradizionali schemi concettuali riescano ad ammettere. Sia chiaro, non si tratta di contestare l’idea che lo sviluppo del Nord Est sia fortemente caratterizzato dall’industria. E molti elementi contenuti in questa nostra riflessione dicono che lo sarà anche in futuro. Ma per continuare a crescere, l’industria del Nord Est è destinata a trasformarsi, e contribuire così a trasformare anche il contesto economico, sociale e territoriale nel quale è insediata. Del resto, che qualcosa di importante sia già cambiato in questi anni ce lo suggerisce, anche visivamente, il mutamento del paesaggio industriale, dove alle consuete destinazioni “produttive” contenute nei tradizionali capannoni industriali, si affiancano e si sostituiscono nuove funzioni di servizio: dalle attività commerciali ai centri direzionali, dalle palestre ai centri di benessere, dagli studi medici ai laboratori di analisi, dalle discoteche alle sale per spettacoli. In un certo senso, queste trasformazioni potrebbero essere vissute come una perdita, come il segno inequivocabile che un modo di produrre e competere attraverso la vera industria sta definitivamente tramontando. E che, di conseguenza, anche la ricchezza creata attraverso quel modo di produzione viene messa a rischio, per essere sostituita da attività sempre più immateriali. Un termine, quest’ultimo, che porta con sé la dissoluzione di quel senso di rassicurante solidità tecnica, economica e occupazionale che l’industria, nel bene e nel male, era riuscita comunque a garantire. Una tale rappresentazione contiene però un errore. Quello di credere che il modo principale per creare valore, occupazione
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e reddito sia riconducibile alla trasformazione manifatturiera e alla capacità di vendere su altri mercati. Ma non è affatto così. In realtà, non bisogna perdere di vista un aspetto diventato fondamentale proprio nelle economie moderne e più aperte agli scambi internazionali: una parte crescente dell’attività produttiva è collegata ai servizi di prossimità. Questa trasformazione è una conseguenza del successo, non del declino, dell’industria. Infatti, l’incremento dei servizi di prossimità è dovuto principalmente alla crescita di produttività ottenuta nell’industria manifatturiera, che a sua volta è il risultato sia degli avanzamenti tecnologici, sia della profonda riorganizzazione internazionale dei processi produttivi. Com’era avvenuto per l’agricoltura, questi progressi hanno reso possibile all’industria produrre più beni con sempre meno lavoratori. Allo stesso tempo, hanno creato risorse economiche aggiuntive e una nuova domanda per servizi che, diversamente dai prodotti industriali, hanno sia una crescita molto più lenta della produttività, sia l’esigenza di essere prodotti contestualmente al consumo. Se, infatti, per produrre un paio di scarponi da sci, un mobile oppure un computer, si richiede oggi un numero sempre più limitato di lavoratori e i mercati di destinazione possono essere molto lontani dai luoghi di produzione, non è così per visitare un paziente in una casa di cura, per tenere un corso di insegnamento a scuola o per assistere al concerto di un quartetto di Mozart. Quest’ultimo riferimento richiama direttamente il classico contributo fornito da William Baumol per spiegare la crescita del welfare state come conseguenza del cambiamento dei prezzi relativi fra industria e servizi. In estrema sintesi, il ragionamento di Baumol (1952) era il seguente: il crescente divario di produttività fra industria e terziario, non compensato da un equivalente differenziale nel costo del lavoro fra i diversi settori, avrebbe reso sempre meno conveniente alle economie di mercato fornire servizi. Ma essendo i servizi indispensabili allo sviluppo stesso dell’industria, questa situazione avrebbe comportato una progressiva crescita del ruolo dello Stato come fornitore diretto (in gestione) o indiretto (tramite sussidi) di servizi. L’ipotesi di Baumol, che prospettava all’orizzonte una crisi fiscale dello Stato, è stata in parte confermata, ma anche superata da due condizioni che nella formulazione originaria erano state sottovalutate. La prima è che molti servizi hanno vissuto una significativa crescita di produttività, beneficiando in particolare del salto tecnologico della rivoluzio-
ne digitale. La seconda è che i rapporti fra mercati si sono autonomamente riorganizzati, e l’offerta nel terziario è stata trainata anche da una domanda crescente di servizi di prossimità richiesti sia dalle imprese, sia dalle famiglie. In altri termini, il processo di redistribuzione della crescita di produttività industriale non è avvenuto solo attraverso la leva fiscale, ma anche grazie all’evoluzione della struttura economica. Su questo punto insiste da tempo Paul Krugman (1996), che ha documentato in modo convincente come una parte sempre più considerevole del lavoro nelle economie moderne – in particolare nelle aree metropolitane più ricche del pianeta – sia orientato a servire mercati locali. Questo avviene perché le cosiddette attività “di base”, quelle cioè dedicate a produrre beni per i mercati esteri, richiedono un insieme di servizi che, per loro natura, devono essere offerti localmente, e il cui costo può essere pagato anche grazie alle risorse create dalla crescita di produttività di tutta l’economia. Per quanto possa sembrare paradossale, se l’economia sta diventando più locale è dunque anche a causa dei processi di innovazione e di globalizzazione. È infatti necessario osservare che la distinzione fra attività “di base” e “non di base” – che risale ai cosiddetti modelli di sviluppo export-led, di impronta chiaramente industrialista – risulta sempre meno netta, in quanto all’interno dei beni esportati c’è una quota crescente di valore espresso da servizi forniti localmente. E viceversa. Michael Porter ha messo bene in luce questo rapporto. Studiando i livelli retributivi all’interno di diversi clusters produttivi degli Stati Uniti, Porter (2003) ha rilevato una relazione diretta e significativa fra industrie orientate all’export e servizi di prossimità. Innanzitutto, l’autore evidenzia come nei principali clusters americani le economie di prossimità (local) hanno un peso dominante e crescente rispetto alle attività sottoposte a concorrenza internazionale (traded). Se questa situazione costituisce, evidentemente, un effetto del divario di produttività, anche i redditi dovranno alla fine registrare delle differenze. Tuttavia, laddove i redditi dei settori traded sono più elevati, anche i redditi delle attività local aumentano. Questo risultato è stato confermato anche in una recente ricerca sulla nuova geografia del lavoro negli Usa (Moretti, 2012). In questa analisi il settore di base non è più l’industria in quanto tale, bensì l’innovazione, cioè la funzione in grado di creare nuovi prodotti e nuovi processi che poi si affermeranno nelle reti produttive globali. Secondo Enrico Moretti, per ogni occupato nel “settore dell’innovazione”, nascono nel-
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lo stesso territorio almeno altri cinque posti di lavoro. Questo processo tende, in realtà, ad autoalimentarsi. Come abbiamo visto nella sezione dedicata ai KIBS, economie più aperte e con maggiori dotazioni tecnologiche creano una domanda locale di servizi ad elevato contenuto di conoscenza: in questo senso, se le relazioni distrettuali sono in parte superate, emergono tuttavia nuove relazioni di scala metropolitana che disegnano lo spazio entro il quale contenere una parte significativa delle interazioni fra domanda e offerta di servizi. Ma c’è un altro aspetto importante da considerare: economie più aperte e con maggiori dotazioni tecnologiche hanno un riflesso anche nel mercato locale del lavoro, accrescendo la domanda di figure professionali più elevate e con redditi maggiori. Questi cambiamenti nel mercato del lavoro si ribaltano, a loro volta, nei mercati di consumo, accrescendo la domanda di servizi alla persona, in particolare per la salute e il benessere, la cultura, i viaggi, lo sport, la casa. Tutti questi servizi, a cui si aggiungono oggi quelli collegati allo sviluppo di una sensibilità ambientale ed energetica, presentano una elevata elasticità al reddito, e sono perciò destinati a crescere come conseguenza dello sviluppo stesso. Può sembrare riduttivo guardare ai servizi di prossimità come ad uno scenario di sviluppo, specie per un’economia a forte tradizione industriale, e da sempre abituata a competere sui mercati internazionali. Eppure, proprio questi servizi stanno già oggi rappresentando per le economie più avanzate del pianeta una delle più promettenti frontiere di crescita. Perché non dovrebbero diventarlo anche per il Nord Est? I TERRITORI DELLE IMPRESE IN UN’ECONOMIA POST-DISTRETTUALE Una prima verifica quantitativa svolta per la provincia di Treviso ci dice che per l’insieme delle tre filiere che abbiamo fin qui considerato – servizi ad elevato contenuto di conoscenza, produzioni di beni di esperienza e industria della qualità sociale – sono coinvolte 38mila imprese e quasi 140mila addetti, con tassi di crescita decisamente superiori al resto dell’economia e con una vivacità che si è manifestata anche durante l’attuale crisi. In realtà, queste tre filiere non disegnano netti confini settoriali. Anzi, nei casi più interessanti le tre dimensioni dell’evoluzione imprenditoriale tendono ad intrecciarsi: maggiore contenuto di esperienza, servizi innovativi e rapporto con nuovi stili e nuove etiche del consumo disegnano, nel loro insie-
me, il carattere più promettente delle imprese future. Un aspetto che vale qui sottolineare è che nei processi di innovazione osservati il legame con la storia e con il territorio non viene affatto meno, ma si ridefinisce sotto altre forme, dimensioni e domande. Se questo fenomeno di path dependence appare intuitivo per le filiere dell’autenticità e dei beni di esperienza, è tuttavia presente anche per i KIBS e per le nuove industrie della qualità sociale. Per le filiere dell’autenticità il rapporto ascrittivo con il territorio costituisce una componente fondamentale della qualità di offerta. Questo aspetto è evidente quando si tratta di vendere prodotti che incorporano direttamente componenti ambientali specifiche – come nel caso del vino e dei prodotti alimentari tipici, oppure in quello del turismo. Ma è importante anche quando nel valore finale di un prodotto sono contenuti saperi e tradizioni lavorative radicate ad un territorio – come nelle produzioni del Made in Italy. Questi saperi sono, del resto, difficilmente replicabili al di fuori del contesto sociale e produttivo in cui si sono fermati, se non a costi elevati, o pagando una grave perdita in termini di qualità. Uno stretto rapporto con il territorio produttivo vale, inoltre, quando entrano in gioco esigenze di efficienza e innovazione nella produzione in rete: è il caso dell’industria su misura e di tutti quei prodotti ad elevata personalizzazione, che richiedono non solo una logistica reattiva, ma anche un efficace “sistema di mercato”, inteso come contesto di interazioni ripetute attorno ad una famiglia di artefatti in continua evoluzione (Lane et alii, 2009). C’è infine un altro aspetto, relativamente recente, che tende a legare l’autenticità produttiva e i beni di esperienza al territorio: quello della distribuzione diretta e del turismo commerciale. Per i prodotti alimentari questo aspetto viene oggi riproposto sotto il termine di “kilometro zero”, ma interessa anche altri settori. Per i prodotti manifatturieri esso riguarda il sistema delle fiere specializzate, la politica degli outlet aziendali e dello shopping industriale. Questa dimensione commerciale del territorio è sicuramente da recuperare, poiché tiene conto della possibilità che i consumatori oggi hanno, grazie ai minori costi di trasporto e alla più ampia disponibilità di informazioni, di spostarsi anche su grandi distanze per raggiungere i luoghi di origine dei prodotti. Con un duplice obiettivo. Da un lato la disintermediazione consente sia al produttore che al consumatore di appropriarsi di una parte del valore altrimen-
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ti assegnato alla distribuzione; dall’altro, si crea un’interazione diretta che accresce l’apprendimento del consumatore e svolge una funzione indiretta di tutela della proprietà industriale e dell’originalità dei prodotti. Bisogna tuttavia sottolineare che questo rapporto ascrittivo fra impresa e territorio non è lo stesso del passato. Da un lato, le comunità di consumo con le quali i produttori locali devono entrare in relazione sono dislocate in luoghi molto diversi dell’economia mondiale, e per comunicare in modo efficace sono necessari linguaggi e tecnologie sofisticate, non sempre disponibili localmente. Dall’altro, per mantenere alta la qualità dei prodotti, i saperi tradizionali non sono da soli sufficienti, ma devono essere integrati con conoscenze scientifiche, tecnologiche e manageriali sempre più specializzate e, allo stesso tempo, universali. Questo gioco fra locale e globale è fondamentale per accrescere la capacità del territorio di promuovere l’eccellenza. Per i KIBS il rapporto impresa-territorio si sviluppa in modo diverso. Il processo di smaterializzazione della produzione conseguente alla crescita di servizi ad alto contenuto di conoscenza sembrerebbe, in prima ipotesi, allentare le relazioni con la base domestica delle imprese. Questo dovrebbe avvenire, in particolare, quando ad esprimere la domanda di servizi sono le imprese dei distretti industriali, dove la carenza di servizi ad elevata qualificazione – R&D, design, trasferimento tecnologico, tutela della proprietà intellettuale, comunicazione, finanza, ecc. – è un fattore connaturato ai vantaggi comparati del territorio. Tali servizi hanno, del resto, proprie economie di localizzazione, che per lo più si esprimono nei centri urbani e nelle aree metropolitane, perciò distanti dai tradizionali insediamenti distrettuali. Non a caso le imprese leader dei distretti indicano sempre più spesso Padova e Milano, quando non addirittura Londra o New York, come mercati di approvvigionamento dei loro servizi. Tuttavia, in molti casi i KIBS non hanno carattere di servizi standard o codificati, che possono perciò essere venduti a distanza senza perdere valore informativo. In realtà, essi richiedono un’interazione continua con gli utilizzatori. Interazione che non ha solo la funzione di comprendere le esigenze della domanda e personalizzare l’offerta, ma anche di produrre nuova conoscenza utile, che può essere poi codificata e venduta ad altre imprese. Questo bisogno di interazioni fra domanda e offerta di servizi avanzati definisce, dunque, uno spazio di relazioni ravvicinate,
che tuttavia non coincide quasi mai con i tradizionali confini distrettuali, ma richiede, semmai, una dimensione regionale o metropolitana. Per molti distretti, dunque, il problema è diventare parte di una nuova dimensione sovra-locale, sia in termini di infrastrutture di trasporto, sia come componente territoriale di una metropoli regionale, ricca di domanda ma anche di stimoli innovativi, in grado perciò di attirare talenti e far crescere servizi ad alto contenuto di conoscenza. Per le filiere della qualità sociale, in quanto espressione di servizi di prossimità rivolti in via prioritaria alla popolazione residente, il territorio torna nuovamente ad essere un elemento costitutivo del processo di creazione del valore economico. Tuttavia, anche in questo caso il rapporto non è affatto banale. I servizi afferenti le filiere della qualità sociale – salute, cultura, sostenibilità – creano valore economico in stretta relazione con conoscenze e tecnologie sviluppate a monte. Per quanto la distribuzione locale richieda un’attività di adattamento che non è quasi mai mera replicazione, il valore nelle diverse fasi della filiera non è certo equivalente. Ad esempio, una visita medica specialistica può essere un servizio di prossimità, ma il suo valore dipende anche dalle tecnologie di diagnostica prodotte magari in un altro continente, dove, dunque, va trasferita una parte delle risorse pagate per il servizio. Lo stesso ragionamento può valere quando si applica un impianto solare o geotermico ad un’abitazione, oppure per un gruppo musicale o per uno spettacolo teatrale, dove l’esecuzione locale ha valore nella misura in cui c’è stata a monte, magari in altri luoghi, la creazione dell’opera. Tutto questo porta dunque a considerare l’esigenza di accrescere, per quanto possibile, il valore creato localmente all’interno di queste importanti filiere dell’economia futura. Dal punto di vista della politica economica locale non si tratta, perciò, di assecondare e sostenere nuovi modelli di consumo, coerenti con la notevole ricchezza accumulata e le mutate condizioni socio-professionali della popolazione, ma anche di fare di questi consumi una leva per nuove attività ad elevato valore aggiunto. Con l’obiettivo, nei casi più promettenti (che, del resto, già si intravedono in alcune attività mediche e nella bioedilizia), di trasformare una semplice fase finale della filiera, in un’occasione per rafforzare il tessuto imprenditoriale e creare nuove specializzazioni produttive. Il cambiamento dell’economia del Nord Est indica con chiarezza il grande potenziale di queste nuove frontiere.
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Questo intervento riprende i contenuti di un lavoro di ricerca svolto con Roberto Grandinetti per conto della Cciaa di Treviso e una cui sintesi è stata pubblicata in Corò e Grandinetti (2010). La ricerca si è avvalsa sia della elaborazione di basi informative messe a disposizione dagli archivi camerali, sia di una serie di panel organizzati con imprese industriali e di servizio dell’area trevigiana. Per un approfondimento si rinvia al documento finale contenuto all’interno della “Relazione di mandato 2006-2010” della Camera di Commercio di Treviso. Ringraziamo, in particolare, Federico Callegari e il servizio studi camerale per il fondamentale apporto fornito alla ricerca.
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1 Per un’analisi economica del capitalismo imprenditoriale e un confronto con altri modelli si rinvia all’importante lavoro di Baumol, Litan, Schramm (2007). Sul ruolo dell’imprenditorialità nell’innovazione si veda anche il contributo di Audretsch (2007). 2 Una recente rassegna della letteratura è stata redatta da Muller, Doloreux (2009). 3 La ricerca è stata promossa dalla Fondazione Cariparo e svolta presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Padova, sotto il coordinamento scientifico di Roberto Grandinetti. 4 Anche se non mancherebbero le fonti informative di base e le occasioni: ad esempio, la prima applicazione della L.R. 9/2007 della Regione Veneto, che promuove la ricerca e l’innovazione, ha registrato un numero inatteso di collaborazioni tra imprese e università. 5 Sull’argomento sia consentito rinviare a Corò (2009); Grandinetti (2010); Tattara, Corò, Volpe (2006). 6 Cfr. Pine II, Gilmore (1999). L’analisi dello sviluppo dell’economia delle esperienze in quella dell’autenticità è contenuta nel contributo più recente degli stessi autori (Pine II, Gilmore 2007).
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LE RAGIONI DEL LAVORO ARTIGIANO NELL’ECONOMIA GLOBALE
Stefano Micelli
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SULL’ATTUALITÀ DEL LAVORO ARTIGIANO Nel recente passato, la figura dell’artigiano ha conosciuto un processo di rivalutazione culturale particolarmente vivace. La crisi innescata dai dissesti finanziari del 2008 ha costretto intellettuali e operatori a riflettere sul futuro del lavoro nelle economie avanzate mettendo in discussione la primazia attribuita all’“analista simbolico” come figura chiave dell’economia della conoscenza. Il successo ottenuto dal libro di Richard Sennett sull’uomo artigiano è il sintomo di una nuova sensibilità rispetto ai temi della qualità e dell’innovazione e rivela, soprattutto, i dubbi a proposito delle deleghe finora attribuite agli specialisti della finanza e della consulenza come profili portanti di una nuova tecnocrazia a scala globale (Sennett, 2008; Crawford, 2009). Nel nostro paese, questa operazione di rilancio culturale suscita reazioni contrastanti. Per alcuni si tratta della conferma dell’importanza dello straordinario patrimonio storico incarnato dai maestri d’arte italiani, eredi di un saper fare italiano che la modernità industriale ha costretto in un ridotto angusto dal punto di vista strettamente economico, ma ancora di grande visibilità internazionale. Per altri, questa riscoperta dell’artigiano appare poco interessante rispetto alle priorità di un paese che non ha ancora completato, secondo molti osservatori economici e politici, un proprio percorso di modernizzazione economica e istituzionale. La presenza consistente di lavoro artigiano nella nostra manifattura costituisce, per questi stessi osservatori, il segno evidente di un’Italia renitente alla modernità industriale, incapace di superare il limite imposto da un’ingombrante eredità storica. A partire dal 2000 il nostro sistema industriale ha conosciuto un processo evolutivo particolarmente intenso che ha rimesso in discussione la competitività dei distretti industriali e delle piccole imprese in generale. A conclusione di un decennio particolarmente impegnativo, il nostro sistema industriale ha dimostrato una rinnovata competitività principalmente grazie a una nuova generazione di medie imprese industriali caratterizzate da una dimensione internazionale e da una significativa capacità di innovazione (Brandolini e Bugamelli, 2009; Guelpa e Micelli, 2007). In questo contesto, la figura dell’artigiano appare in una situazione delicata. Se è vero che il lavoro artigiano continua a essere riconosciuto come uno dei pilastri della nostra società e della nostra cultura materiale, più difficile è capire in che mo-
do esso contribuisca effettivamente alla competitività del nostro sistema industriale. L’argomentazione prevalente fa leva sui numeri. Le imprese artigiane, secondo le statistiche dell’Istat, sono la gran parte del nostro sistema industriale. Questo guardare alle quantità ha certamente le sue ragioni (Di Vico, 2010). Tuttavia, la natura “sindacale” del ragionamento sul peso degli artigiani rischia di non mettere sufficientemente in luce il contributo qualitativo che l’artigiano offre alla competitività del sistema paese. Senza un ragionamento sulla qualità dell’apporto dell’artigianato al Made in Italy nel suo complesso, il rischio è quello di riproporre la classica contrapposizione fra coloro che sottolineano i meriti della piccola impresa, solitamente associata all’artigianato e coloro che invocano una nuova generazione di campioni nazionali nei settori più innovativi dell’economia a livello internazionale. Invece di focalizzare l’attenzione sul ruolo dell’impresa artigiana come soggetto produttivo da contrapporre al profilo della grande impresa, appare più interessante capire in che modo alcuni mestieri artigianali contribuiscono a sostenere la competitività delle imprese del Made in Italy (di piccole, medie e di grandi dimensioni) in un contesto di crescente internazionalizzazione dei processi produttivi. IL LAVORO ARTIGIANO NELLA MEDIA IMPRESA ITALIANA I tratti costitutivi del lavoro artigiano** hanno rappresentato un elemento qualificante dello sviluppo dei distretti italiani dagli anni ’70 alla fine degli anni ’90. I distretti industriali italiani hanno potuto contare su una tradizione artigiana consolidata che si è rapidamente trasformata in un modello originale di organizzazione della produzione centrato sulla specializzazione flessibile, sulla capacità di risposta al mercato e sulla grande creatività dell’imprenditorialità diffusa. La tenuta del nostro sistema produttivo nel corso degli ultimi dieci anni ha coinciso con una sua profonda evoluzione. Lo sviluppo economico degli anni Ottanta e Novanta si era strutturato attorno alla straordinaria capacità imprenditoriale di un’Italia di provincia che aveva saputo sorprendere e spiazzare il capitalismo dei grandi poli dello sviluppo industriale grazie a una manifattura flessibile e di qualità. In questi dieci anni il modello è cambiato. La tenuta e il rilancio del sistema industriale italiano sono indissolubilmente legati all’emergere di un nuovo soggetto leader: la media impresa industriale. La media impresa italiana costituisce la chiave di volta di un
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complesso processo di riorganizzazione a livello industriale così come a livello territoriale. Quando si fa riferimento alla media impresa italiana, secondo Mediobanca e Unioncamere, si riflette su un plotone di circa 5.000 imprese manifatturiere particolarmente dinamiche caratterizzate da un numero di dipendenti compreso fra i 50 e 499 addetti e da un valore del fatturato compreso tra 13 e 290 milioni di euro (MediobancaUnioncamere, 2011). Queste “colonne” del settore manifatturiero sono diventate nuovi punti di riferimento dell’industria italiana (Fortis, 2004; Fortis et al., 2009). La media impresa ha raccolto l’eredità dei distretti industriali diventando interfaccia attiva e consapevole fra territorio e mercato globale. La media impresa è il soggetto che ha dato qualità manageriale ai processi gestionali che la piccola impresa aveva sedimentato a partire dalla tradizione, avviando una nuova fase dei processi di internazionalizzazione dell’industria italiana. È il pivot del «quarto capitalismo» italiano. L’internazionalizzazione ha rappresentato uno degli aspetti distintivi delle strategie messe a punto dalle nuove imprese leader. La proiezione al di fuori del sistema locale è avvenuta lungo più direttrici: a monte, attraverso la delocalizzazione di alcune attività manifatturiere e il ricorso a nuovi fornitori per materie prime e servizi; a valle, attraverso il presidio dei mercati di sbocco. L’internazionalizzazione della produzione – è importante sottolinearlo – ha costituito uno dei momenti di rottura più evidenti rispetto al modello distrettuale tradizionale. Le imprese leader del Made in Italy hanno saputo diventare nodi attivi di catene globali del valore trovando una propria collocazione autonoma all’interno dei processi globali di organizzazione della produzione (Varaldo et al., 2009). Il percorso di apertura internazionale delle medie imprese si è tradotto in valore economico quando si è saldato a un processo di riorganizzazione interna. La media impresa che opera con successo sui mercati internazionali ha saputo ridefinire i processi aziendali attraverso l’uso delle nuove tecnologie, ha avviato investimenti nel campo della ricerca applicata e del design (spesso in collaborazione con università e centri di ricerca), ha messo a punto nuove politiche di comunicazione e di valorizzazione dei marchi. Queste trasformazioni hanno contribuito a dare una maggiore qualità manageriale alla media impresa e a rafforzare il suo vantaggio competitivo: l’internazionalizzazione ha pagato quando ha potuto contare su un’organizzazione strutturata (Chiarvesio, Di Maria e Micelli, 2010).
E il lavoro artigiano? Se guardiamo da vicino le trasformazioni che hanno segnato nel corso dell’ultimo decennio i successi di tante medie imprese italiane ritroviamo in modo sistematico il contributo di competenze tradizionali che, proprio grazie a un’organizzazione manageriale efficiente, trovano un’adeguata valorizzazione a scala internazionale. Il saper fare di matrice artigianale rappresenta un ingrediente essenziale del software operativo che caratterizza le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali (Micelli, 2011). Il contributo del lavoro artigiano, sia esso organizzato all’interno del perimetro proprietario dell’organizzazione, sia esso gestito attraverso filiere strutturate, si manifesta ancora oggi in tutti i settori del Made in Italy consentendo di riproporre, a scala globale, quei vantaggi competitivi che da sempre caratterizzano il nostro sistema industriale. Una grande varietà di casi mette in evidenza come il lavoro artigiano sia ancora oggi alla base di tratti essenziali del modo di operare delle imprese italiani: fra questi la flessibilità operativa (è il caso delle piccole serie per prodotti di alta qualità del settore moda), la reattività al mercato (si pensi al tema della modelleria nel comparto della scarpa e all’importanza di avere prototipisti in grado di elaborare nuovi modelli in tempi contenuti), la capacità di personalizzazione rispetto alle specifiche richieste del cliente (si pensi al caso dell’impiantistica e dell’edilizia innovativa) e, soprattutto, l’innovazione di prodotto e di processo (come nel caso delle macchine utensili adattate in modo creativo da tecnici che operano sul campo). Il contributo del lavoro artigiano non si contrappone in alcun modo all’evoluzione manageriale che ha caratterizzato la media impresa nel corso dell’ultimo decennio. Piuttosto, il contrario: le funzioni chiave del management della media impresa (gestione del brand, logistica, ricerca e sviluppo, nuove tecnologie) stanno puntando in maniera sempre più consapevole e visibile a valorizzare quegli elementi di unicità e di specificità – in primis il lavoro artigiano – che rappresentano da sempre uno dei principali punti di forza del Made in Italy inteso come «industria su misura» (Cipolletta, 2006). IL LAVORO ARTIGIANO NELLE CATENE GLOBALI DEL VALORE Il successo della media impresa italiana suggerirebbe di promuovere percorsi simili nell’ambito di piccole imprese ad alto potenziale. Una finanza più fiduciosa e lungimirante potrebbe promuovere la crescita di talenti imprenditoriali ancora poco
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valorizzati, promuovendone la crescita dimensionale e la presenza commerciale e produttiva sui mercati internazionali. In questo modo, una parte della piccola impresa potrebbe uscire dalla condizione che molti osservatori critici hanno definito “nanismo”, lasciando le imprese meno innovative alla selezione del mercato. Questo punto di vista ha, in realtà, alcuni limiti sostanziali perché poggia su un’ipotesi solo parzialmente corretta, che merita di essere esplicitata. L’ipotesi è che il futuro delle imprese artigiane sia quello di confrontarsi sul mercato in modo analogo alle imprese di maggiori dimensioni. L’aumento di dimensione, in questo caso, è necessario affinché le imprese passino dallo status di micro o piccola impresa a quello di media. Questo passaggio costituisce una possibile prospettiva di evoluzione, non l’unica. Per valutare le possibili collocazioni dell’artigianato in un economia sempre più globale è necessario prima di tutto cambiare prospettiva di analisi ponendo al centro dell’attenzione il ruolo della piccola impresa all’interno delle catene globali del valore. La dinamica di frammentazione della produzione costituisce uno dei tratti caratteristici della nuova divisione del lavoro a livello internazionale. Questo processo ha trasformato sostanzialmente il modo in cui le imprese organizzano i processi produttivi a scala globale al punto che molti osservatori hanno messo in discussione la validità delle attuali statistiche sul commercio internazionale come indicatori efficaci su cui fondare l’analisi della distribuzione del valore fra le nazioni e la messa a punto di politiche commerciali efficaci. L’analisi delle catene globali del valore (global value chains o global production networks nella letteratura anglosassone) ha messo in evidenza la complessità dei processi di governance dei processi produttivi a scala trans-nazionale (Gereffi et alii, 2005). In assenza di un principio di autorità di tipo gerarchico, la gestione di reti complesse richiede nuovi strumenti di analisi e di regolazione. La possibilità di regolare il comportamento di operatori relativamente autonomi, localizzati in aree geografiche molto diverse, ha consentito anche alle imprese italiane di intraprendere percorsi di internazionalizzazione senza percorrere necessariamente la strada degli investimenti diretti all’estero (Corò, Tattara, Volpe, 2006). È possibile identificare tre possibili strategie che la piccola impresa può sviluppare nell’ambito di catene globali del valore senza immaginare necessariamente una crescita dimensiona-
le. Ciascun profilo competitivo fonda la sua sostenibilità sulla capacità di valorizzare il lavoro artigiano nell’ambito di funzioni precise delle filiere manifatturiere a scala globale. Consideriamo i tre profili uno a uno. L’artigiano adattatore. Il lavoro artigiano svolge da sempre un ruolo di complemento al sistema industriale per quanto concerne l’adattamento finale e la personalizzazione del prodotto. Quando si compra un abito, gli ultimi dettagli sono affidati alla mano di una sarta in grado di regolare la lunghezza di un pantalone o di stringere il punto vita di una giacca. In molti settori del Made in Italy questa pratica di adattamento risulta particolarmente importante: la posa di un mosaico vetroso sulla base di un disegno artistico in casa del cliente finale richiede competenze artigiane da cui dipende una quota rilevante del valore percepito dal cliente del prodotto acquistato. Competenze analoghe sono ricercate da molte delle aziende italiane del sistema casa consapevoli della necessità di gestire l’intera filiera per poter garantire livelli di qualità sensibilmente diversi da quelli che si possono ottenere grazie a un modello di gestione del rapporto di vendita fondato sul fai-da-te (modello Ikea). L’artigiano traduttore. All’interno di filiere produttive complesse, il lavoro artigianale svolge altre funzioni oltre a quella di adattamento: alcune di queste sono meno visibili, per certi aspetti, ma certamente altrettanto importanti. Una di queste è legata all’attività di sviluppo di nuovi prodotti e coincide con la realizzazione di prototipi e prime serie sulla base delle indicazioni di designer e stilisti. Nel caso dell’abbigliamento questa funzione è cruciale: lo stilista produce dei bozzetti che vengono tradotti in modelli e campionari grazie all’intervento di imprese che operano principalmente attraverso competenze di tipo artigianale. La conversione del disegno del creativo in un manufatto da produrre in scala industriale non è la somma di gesti scontati, ma il risultato di un’attività creativa così come è creativo il lavoro del traduttore in campo letterario. È vero che la produzione nel settore dell’abbigliamento è stata oggetto di importanti processi di delocalizzazione. È altrettanto vero che le fasi di sviluppo del prodotto sono rimaste prevalentemente in Italia e costituiscono ancora oggi un elemento di competitività per il prodotto italiano. Questi artigiani “traduttori”, a volte assunti come dipendenti, a volte esterni al perimetro organizzativo delle imprese leader, sono i custodi di quella “cultura di prodotto” che deve rimanere, secondo molti manager, un
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patrimonio specifico delle medie imprese italiane (Corò e Micelli, 2006). L’artigiano creativo. Ci sono artigiani che non si limitano a “tradurre” gli stimoli dei creativi in prime serie e campionari e che puntano a creare manufatti originali grazie a una spiccata abilità di combinare creatività, manualità e, in alcuni casi, senso artistico. Per quanto possa sembrare paradossale a prima vista, l’artigiano creativo prospera proprio quando riesce a sviluppare una connessione stabile con l’industria. L’artigiano creativo concentrato nella produzione in piccole serie o pezzi unici, salvo pochissime eccezioni, ha difficoltà ad accedere al mercato. Le ragioni di questa difficoltà sono diverse: per quanto interessante possa essere la sua produzione, la distribuzione pone vincoli di affidabilità, puntualità, e di continuità nel tempo. L’artigiano, nella maggior parte dei casi, gestisce con difficoltà una pianificazione di medio lungo termine. Quando, invece, il rapporto fra artigiano e industria si fonda su una efficace divisione del lavoro, fondata su una corretta gestione della proprietà intellettuale e su un’equa ripartizione dei benefici economici derivanti dallo sfruttamento su scala del talento artigianale, questi problemi trovano una soluzione sostenibile. POLITICHE A SOSTEGNO DEL LAVORO ARTIGIANO Superare l’equivoco sulla presunta coincidenza fra lavoro artigiano e piccola impresa consente di mettere a fuoco in modo originale temi di politica industriale a lungo sottovalutati. Un primo tema su cui riflettere in modo originale è quello della formazione. Su questo fronte è importante intervenire con urgenza viste le difficoltà che incontrano le scuole tradizionali di formazione ad attrarre giovani e a promuovere profili professionali apprezzati dalle imprese. Il problema è cruciale soprattutto quando si ragiona in termini di formazione superiore: la recente riforma universitaria esclude, attraverso i requisiti minimi dei docenti di ruolo nei corsi di laurea, il consolidamento di alcune iniziative che avevano provato a fornire risposte al problema della formazione di artigiani di nuova generazione. Il fatto che alcune istituzioni storiche particolarmente accreditate anche all’estero come Domus Academy e Naba siano state acquistate da investitori stranieri senza che vi sia stato alcun dibattito sulla necessità di tutelare e promuovere una formazione qualificata, anch’essa Made in Italy, rende il quadro complessivo ancora più delicato.
Un secondo elemento da considerare con attenzione riguarda il tema della promozione dell’artigianato a scala internazionale. Come raccontare il valore del lavoro artigiano che si innova e che contribuisce alla competitività del nuovo Made in Italy? Come promuovere in Italia e all’estero un modello industriale che ripropone figure solo apparentemente tradizionali all’interno di catene del valore globali? La questione non è solo italiana: la recente campagna di comunicazione dell’azienda Louis Vuitton che ritrae artigiani al lavoro in pose classiche che enfatizzano il gesto manuale rappresenta un segno evidente dell’urgenza (ma anche dell’opportunità) del rilancio della figura dell’artigiano come parte di un patrimonio culturale da valorizzare attraverso la riscoperta dei gesti e delle tecniche che sono alla base di tanti oggetti del nostro quotidiano. Le aziende francesi, così come molte imprese leader del Made in Italy sono chiamate a ripensare il loro modo di proporsi a livello globale facendo della dimensione artigianale un punto di forza. Oltre al tema della comunicazione, è necessario riflettere in modo originale sulla questione della promozione commerciale, in particolare per quanto riguarda il contributo della piccola impresa. Se il lavoro artigiano è cruciale nel definire nuove connessioni fra moduli delle catene globali del valore, è possibile allora immaginare di promuovere alcune di queste funzioni in connessione con filiere che non riguardano necessariamente il Made in Italy. In questa prospettiva è opportuno pensare in modo nuovo le politiche per la valorizzazione del lavoro artigiano italiano prefigurando le nuove funzioni della piccola impresa nell’ambito di filiere di produzione a scala internazionale. Si tratta, in altre parole, di immaginare azioni di promozione e di sostegno per stimolare la visibilità e il contributo di piccole imprese specializzate in fasi specifiche della catena del valore (la fase creativa della prototipazione, quella della traduzione in prime serie, quella dell’adattamento ai contesti d’uso) nell’ambito di sistemi di produzione a scala internazionale, non necessariamente italiani.
Il saggio sintetizza i risultati di una ricerca presentata all’interno del volume Futuro Artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, pubblicato da Marsilio Editori nel 2011. ** Per una definizione argomentata di lavoro artigiano nelle sue dimensioni essenziali (autonomia, qualità relazionale, riconoscibilità sociale) si veda Micelli (2009). *
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RIQUALIFICARE LO SPRAWL
Laura Fregolent
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UNO SGUARDO D’INSIEME Il modello insediativo veneto, a lungo studiato, analizzato e descritto, nelle sue dinamiche di trasformazione ed evoluzione, nei suoi caratteri fisici, morfologici, economici e sociali, continua ad essere un campo di indagine interessante e significativo proprio per la molteplicità di azioni, eventi ed interventi che vi si consumano. Quel modello di insediamento diffuso è noto come “città diffusa”1 e nell’arco degli ultimi quarant’anni si è evoluto e trasformato dando origine a dinamiche in parte nuove, manifestando molti dei caratteri della città contemporanea. La dispersione urbana che ha cominciato a manifestarsi nel corso degli anni ’70 e che è proseguita con ritmi di crescita molto intensi lungo tutti gli anni ’80 e ’90 si è progressivamente assestata, anche se non interrotta. Nel corso degli anni 2000 fino ad oggi, ha subito nel tempo delle variazioni dovute ad andamenti diversi e di maggiore o minore intensità dei fenomeni:, infatti, ad un’iniziale dispersione frammentata e a bassa densità è seguita una fase di compattazione intorno ai centri urbani anche di piccole dimensioni. All’oggi il territorio regionale è interessato soprattutto da processi di crescita che si caratterizzano per operazioni immobiliari di una certa dimensione e consistenza economica, con funzioni miste che interessano residenza, commercio e terziario in genere, mentre il processo di polverizzazione, tipico degli anni precedenti, può dirsi per il momento arrestato. Si è passati cioè da uno sviluppo edilizio diffuso e frammentato ad uno sviluppo che avviene per insediamenti di una certa dimensione e capacità di investimento economico. Gli esempi sono diversi, alcuni sono in corso di realizzazione, interessano in parti-
colare l’area centrale veneta – ma non solo2 – e si caratterizzano per un alto impatto sul territorio spesso dovuto alla localizzazione degli interventi su suolo agricolo non ancora interessato dall’urbanizzazione. Le funzioni prevalenti proposte sono di carattere commerciale o commerciale-residenziale (Centro commerciale a Camponogara; Ikea a Casale sul Sile; Veneto City e VERVE sulla Riviera del Brenta), ma anche infrastrutturali e turistiche (Quadrante di Tessera; Motorcity tra i comuni di Vigasio e Trevenzuolo alle porte di Verona; Villaggio turistico sul Delta del Po; Villaggio turistico a Valle Vecchia e Brussa di Caorle), che vanno ad aggiungersi alle numerose aree destinate ad attività produttive, previste nei piani urbanistici ma non ancora utilizzate3. Le previsioni insediative sono quasi sempre a ridosso delle infrastrutture principali esistenti ma anche lungo quelle in corso di realizzazione come la Pedemontana Veneta, ad esempio. Molti di questi interventi sono spesso molto contestati da popolazione e comitati locali e rispetto al passato (ossia alla precedente fase di dispersione incondizionata) questo rappresenta indubbiamente una prima novità – sulla quale varrebbe la pena riflettere, come si sta incominciando a fare4 – rispetto alle consolidate dinamiche dello sprawl. Anche questo è conseguenza dei processi insediativi del passato, proprio perché caratterizzati da una crescita dell’urbanizzato che non sempre è avvenuta seguendo principi di razionalità localizzativa, di uso del suolo attento e compatibile con le esigenze dello sviluppo economico ma anche della qualità e vivibilità degli spazi abitati e di valorizzazione delle risorse ambientali e del paesaggio storico e naturale. Condizioni che sembrano non trovare più un incondizionato consen-
1 La crescita del costruito tra il 1970 ed il 2007 sull'area centrale veneta. Elaborazione di L. Fregolet, D. Martinucci
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so, come accade nel caso, ad esempio, del progetto per la costruzione di un macello e una cartiera a Barcon di Vedelago recentemente bocciato5 per la forte opposizione nata nei confronti di questa imponente trasformazione in area agricola. Ma altrettanto forti si levano le proteste lungo la Riviera del Brenta per le aree di espansione previste ma anche per i numerosi interventi infrastrutturali che delineano uno scenario non più collettivamente condiviso. TERRITORIO ED ECONOMIA La connessione tra modello di sviluppo territoriale e modello economico è avvenuta intorno a due questioni principali e cioè: la forma frammentata e dispersa assunta dall’insediamento diffuso della piccola e media impresa così come è avvenuta per l’edilizia residenziale; il massiccio impegno del settore edilizio in termini di aziende ed occupati, settore che costituisce uno dei principali investimenti fissi del paese e che anche in fasi di stagnazione dell’economia regionale e nazionale ha continuato a registrare una qualche parziale stabilità. Lo sviluppo della piccola e media impresa manifatturiera, che è stato per decenni osservato e studiato come espressione di un modello vincente dal punto di vista economico, è solo un lato della medaglia; sull’altra faccia troviamo invece un territorio frammentato, un tessuto urbano disperso, la piccola impresa manifatturiera tendenzialmente poco innovativa contrapposta ad un settore edilizio forte e trainante. L’attuale situazione di crisi economica ha prodotto però un effetto di rallentamento e crisi nel settore edilizio, nel mercato delle abitazioni e di conseguenza – ma questo è senza dubbio un effetto positivo almeno dal punto di vista territoriale –, dei processi di espansione e consumo di suolo. A livello italiano la crisi ha interessato i diversi comparti dell’attività edilizia e secondo le previsioni dell’ANCE porterà, alla fine del 2012, ad un ridimensionamento degli investimenti in costruzioni del 24,1% in termini reali. L’edilizia non residenziale privata nel periodo 2005-2010 ha registrato una flessione degli investimenti del 23,3% e la nuova edilizia abitativa, un picco negativo del -40,4%. Nell’edilizia abitativa la caduta dei livelli produttivi è collegata al numero dei permessi di costruzione rilasciati che tra il 2005 ed il 2010 diminuisce del 53% passando dalle 305.706 abitazioni nel 2005 a circa 143.000 del 2010, un’eccezione è costituita dagli investimenti per interventi di riqualificazione che sono invece in lieve crescita. Inoltre il calo dei lavori pubblici nel periodo 2008-2012 si attesta al -37,2% e complessivamente gli effetti sull’occupazione sono pesantissimi: dall’inizio della crisi si stima che la perdita occupazionale sia di 250.000 posti di lavoro nelle costruzioni che salgono a 380.000 unità considerando anche i settori collegati. In Veneto il 2011 si è chiuso con un ulteriore calo degli investimenti in costruzioni del 5,7% in termini reali su base annua e la previsione per il 2012 è di un’ulteriore riduzione del 4,1% (ANCE, 2011). In Veneto il settore ha perso dall’inizio della crisi il 16% degli occupati e circa il 20% di aziende; l’unico comparto che presenta trend positivi è quello relativo agli interventi di recupero del patrimonio abitativo risultato dovuto in grossa parte alle agevolazioni fiscali per le spese di ristrutturazioni edilizie. La nuova edilizia abitativa segna risultati molto negativi: in sei anni il calo del volume degli investimenti risulta pari al 43,1% mentre nell’edilizia non residenziale privata la flessione è pari al
31,4%. Per i lavori pubblici, la diminuzione nello stesso periodo si attesta al 44,7% (ANCE, 2012). Nel 2011 è cioè proseguita la flessione dell’attività economica nell’edilizia che ha risentito, nel caso dell’edilizia residenziale, della diminuzione delle disponibilità economiche delle famiglie, nel caso dell’edilizia non residenziale, in particolare nelle opere pubbliche, delle difficoltà di bilancio delle Amministrazioni pubbliche; gli investimenti dei Comuni si sono ridimensionati notevolmente e in questo ha contribuito il processo di esternalizzazione di alcuni servizi pubblici locali, la contrazione delle risorse finanziarie e le norme sul Patto di stabilità interno (Banca d’Italia, 2012). Quel modello economico ha prodotto ricchezza e migliorato le condizioni di vita degli abitanti della regione: questo è un aspetto non secondario ed una chiave di lettura che spesso viene trascurata nell’interpretazione e restituzione del “fenomeno Veneto”. Si tende, infatti, a parlare del modello veneto quasi esclusivamente facendo riferimento al settore manifatturiero che è stato senz’altro per capacità ed investimenti economici, imprenditorialità, manodopera impiegata, l’elemento di traino dell’economia regionale, trascurando però e forse in parte il ruolo del settore edilizio nella creazione di un notevole “capitale fisso”, avvenuta in maniera trasversale e coinvolgendo tutti gli strati sociali non solo il grande operatore immobiliare. CHE FARE E CON QUALI STRUMENTI La crescita del modello in parte descritto è avvenuta in conformità agli strumenti di pianificazione urbanistica e secondo politiche di intervento finalizzate a dare ad imprenditori e cittadini in genere, vale a dire a tutti i soggetti potenzialmente in grado di investire e capitalizzare, la possibilità di avviare nuove attività imprenditoriali per promuovere la crescita economica e sociale della regione. Il Piano regolatore generale (e gli strumenti di pianificazione in genere) non ha assunto caratteri preminentemente regolativo poiché è stato utilizzato come uno strumento di “avallo” di pratiche e politiche di intervento che miravano in maniera sostanziale a perseguire due scopi specifici ed intimamente connessi ed interrelati e cioè intervenire da un lato sul tasso di scolarizzazione degli individui, dall’altro sul deficit di sviluppo. Obiettivi chiari e condivisibili ma che sono stati perseguiti anche attraverso un progressivo svilimento degli strumenti di piano all’occorrenza molto “flessibili” (cfr. Fantin, Fregolent, Ranzato, 2012) e capaci di rispondere alla domanda individuale fatta in nome del cambiamento necessario. Nella fase attuale assistiamo ad una dichiarata inversione di tendenza nella quale i diversi documenti di programmazione (Programma Regionale di Sviluppo – L.R. 5/2007; Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013) e pianificazione (Piano Territoriale Regionale di Coordinamento – adottato il 17/2/2009) della Regione Veneto si strutturano intorno ad affermazioni di principio sulla necessità di avviare forme di sviluppo sostenibile e di contenimento della crescita dell’urbanizzato, responsabile dello scadimento qualitativo degli spazi di vita e di aver messo in crisi l’efficacia e la continuità del modello produttivo esistente (PRS, 2007, p. 81). Le linee di intervento contenute nel PTRC spingono verso il riuso del patrimonio esistente anziché la nuova costruzione, un contenimento della crescita, una rivalorizzazione degli spazi urbani, una nuova edificazione solo se necessaria
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e a ridosso delle infrastrutture esistenti, promuovendo quindi criteri razionali di crescita dell’urbano. Oltre agli strumenti di programmazione e pianificazione anche altri strumenti normativi, relativi ad esempio al settore del commercio, lavorano in questa direzione. La nuova legge regionale sul commercio (in fase di redazione) oltre che essere orientata al rilancio di un settore che, dopo la direttiva Bolkenstein sulla libera circolazione dei servizi (del 2006 e recepita in Italia nel 2010) e la conseguente liberalizzazione del comparto, necessita di ridefinizione ed equilibrio, punta a bloccare la nascita di nuovi centri commerciali e cittadelle dello shopping, nell’ottica di una rivitalizzazione dei centri storici. Le premesse sono sul tavolo e la possibilità di orientare le scelte delle singole amministrazioni potenzialmente fattibile a patto però che esista una “coincidenza” di intenti tra i soggetti coinvolti e coinvolgibili vale a dire Amministratori pubblici, portatori di interessi (soprattutto quelli economici) ma anche cittadini. La particolare situazione di crisi non solo economica che il paese sta attraversando imporrebbe una risignificazione del termine “collettivo” in un’ottica di riconquista dello spazio di discussione e proposta, e di azione all’interno di un quadro di valorizzazione della risorse pubbliche, comuni e condivisibili. È necessario cioè un nuovo progetto di territorio che si muova su scale d’intervento diverse che, partendo da una nuova dimensione del progetto, diventi più inclusivo nei confronti delle persone e più sinergico nei confronti degli oggetti e dei fatti urbani che sul territorio si stratificano. Un progetto nel quale l’ingente patrimonio di costruito residenziale non utilizzato ma anche quello a destinazione produttiva6 – per il quale si rendono ancor più necessarie ipotesi e misure di trasformazione – trovino una ricollocazione che abbia però un senso in un progetto complessivo di territorio. I numeri e le quantità impongono una soluzione di “sistema”. Questa è un’ipotesi che richiederebbe però la presenza di forti (in termini politici) soggetti pubblici capaci di costruire insieme al privato un rilancio di territorio ed economia. La valorizzazione del patrimonio immobiliare dismesso o non utilizzato, anche pubblico, può diventare un’importante occasione per la riqualificazione e il riuso dell’urbano forzando la capacità delle città a proporre ipotesi di sviluppo per il proprio futuro economico e sociale anche e soprattutto attraverso partnership pubblico-privato. Si rende necessaria in primis una valutazione delle quantità del patrimonio esistente e non utilizzato da far diventare risorsa: ad esempio, ipotizzando un processo di riorganizzazione, innovazione e trasformazione del settore edilizio finalizzato non più al nuovo ma al recupero e alla riqualificazione dell’esistente. È necessaria cioè una visione d’insieme su scala potremmo dire vasta o metropolitana7 nella quale un progetto generale ridisegni spazi e funzioni. Un processo frutto di politiche che avviino operazioni di intervento anche sul tessuto sociale ed economico: i soggetti economici sono chiamati a partecipare in modo significativo anche se non esclusivo e l’Amministrazione pubblica a mantenere un ruolo centrale di governo dei processi e di coordinamento anche per le scelte progettuali e funzionali. Infine, c’è da chiedersi se gli strumenti di cui disponiamo siano sufficienti e quali innovazioni sia invece necessario introdurre per consentirci di intervenire in un territorio compromesso non solo dal punto di vista fisico, e nell’ottica di una rivalorizzazione del capitale esistente e di po-
tenziale aiuto ad un’economia in crisi, in particolare, guardando ad uno specifico settore produttivo e cioè quello edilizio che ha subìto una battuta di arresto tradottasi in un crollo delle costruzioni, degli acquisti, del lavoro, dell’occupazione. Un settore in crisi che però non può ripartire con le caratteristiche avute in precedenza ma che necessita di innovazione e ridefinizione degli obiettivi perché le nuove parole chiave devono essere: riuso del patrimonio esistente e riqualificazione in chiave sostenibile. E quindi, gli strumenti di pianificazione e normativi di cui disponiamo sono sufficienti a spingere in questa direzione? Il Piano di assetto del territorio (PAT), ad esempio, non è riuscito a colmare quelle lacune che erano state individuate nei PRG (farraginosità dell’iter, difficile applicabilità, mancanza di priorità nelle scelte, ecc.) e la cui soluzione stava alla base del dibattito che ha portato alla riformulazione di molte normative urbanistiche regionali tra le quali anche la legge regionale veneta (L.R. 11/2004). Non possiamo tracciare grandi bilanci poiché sono stati realizzati molti PAT e PATI (PAT Intercomunale) ma il numero dei Piani degli Interventi (PI – lo strumento esecutivo dei PAT che dovrebbe controllare le trasformazioni fisiche della città) è contenuto e non consente la restituzione di un quadro significativo: d’altro canto, nel breve periodo, la loro funzione risulterà puramente simbolica poiché le trasformazioni dei prossimi anni saranno regolate dalle tante norme in deroga contenute nei 325 PIRUEA approvati prima dell’entrata in vigore della nuova legge urbanistica: un’altra azione che ha favorito un modello ormai decadente ma capace ancora di aggredire in modo sistematico ed irreversibile il territorio. La prima nota dolente è quindi la mancanza di uno strumento – come appunto doveva essere il PAT – capace di dare risposte celeri ed immediate e soprattutto efficaci ai processi di consumo del territorio: nonostante la pretesa che fosse programmatico e parzialmente strategico, al momento risulta davvero poco incisivo. Quello che è invece necessario è un progetto d’area: le strategie e la programmazione non possono essere del singolo comune ma devono essere sviluppate e calibrate per ambiti significatici ed omogenei all’interno dei quali costruire progetti condivisi e che hanno operatività alla scala locale. Rimanere in attesa che venga costituita (dall’alto) l’area metropolitana è però estremamente rischioso.
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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Associazione Nazionale Costruttori Edili (2011), Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni. Associazione Nazionale Costruttori Edili (2012), Rapporto congiunturale sull’industria delle costruzioni in Veneto. Banca d’Italia (2012), Economie regionali. L’economia del Veneto, Venezia, n. 7 (http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/ecore/2012/analisi_s_r/1206_veneto). Fantin M., Fregolent L., Ranzato L. (2012), La città continua del Veneto centrale, in Fantin M., Morandi M., Piazzini P., Ranzato L., La città fuori dalla città, INU Edizioni, Roma, pp. 13-45. Fregolent L. (2005), Governare la dispersione, Franco Angeli, Milano. Indovina F. (1990), La città diffusa, in Indovina F., Matassoni F., Savino M., Sernini M., Torres M., Vettoretto L., La città diffusa, Daest – Istituto Universitario di Architettura di Venezia, Venezia. Indovina F. (2003), La metropolizzazione del territorio. Nuove gerarchie territoriali, in «Economia e società regionale», n. 3/4, pp. 46-85. Indovina F., Savino M. (1999), Nuove città e nuovi territori: la città diffusa veneta, in «L’universo», sett.-ott., pp. 573-590. Munarin S., Tosi M.C. (2002), Tracce di città. Esplorazioni di un territorio abitato: l’area veneta, Franco Angeli, Milano. Regione Veneto, Giunta Regionale (2007), PRS. Programma Regionale di Sviluppo. Legge regionale n. 5, 9 marzo 2007, Regione Veneto. Secchi B. (1996), Descrizione/interpretazione, in Clementi A., Dematteis G. (a cura di), Le forme del territorio italiano, Vol. I. Temi e immagini del mutamento, Laterza, Bari, pp. 83-92.
1 La letteratura frutto di ricerche condotte sul tema della “città diffusa” e dei processi di crescita e trasformazione della città contemporanea è molto ampia sul caso Veneto si ricorda in particolare: Indovina, 1990; 2003; Indovina, Savino, 1999; Secchi, 1996; Tosi, Munarin, 2002; Fregolent, 2005. 2 Nella denuncia di Goletta Verde sull’urbanizzazione della costa veneta, dei 170 km di costa da Bibione a Porto Tolle ben 61 km risultano essere trasformati da usi urbani ed infrastrutturali. Dal 1988 al 2007, sono stati cancellati 11 km di costa ed una zona particolarmente a rischio è il tratto da Caorle a Chioggia, dove ricadono 7 degli 11 km di costa urbanizzata. 3 Le aree produttive in Veneto in base alle analisi condotte per il PTRC sono 5.679, così distribuite: 265 a Belluno; 897 a Padova; 450 a Rovigo; 1.363 a Treviso; 238 a Venezia; 1.120 a Verona; 1.346 a Vicenza. 4 Si veda il report: L. Fregolent, Atlante del malessere territoriale, Legambiente Veneto, 2011 (in corso di pubblicazione). 5 Il progetto come si legge nel blog di una Consigliera comunale contraria alla sua realizzazione prevedeva la «trasformazione di 90 ettari di zona agricola in zona industriale, dove andranno ad insediarsi una cartiera della ditta Rotocart per la produzione di carta soffice, e un macello, un impianto per la produzione di latte in polvere, un centro di raccolta cereali, un laboratorio di ricerca, un supermercato, un impianto di biogas, […]. Tutto questo in cambio della costruzione di un casello sulla futura Pedemontana Veneta che dovrebbe risolvere il grave problema del traffico pesante derivante dall’attività delle cave» (http://primaveracivica.blogspot.it/), è stato infine bocciato nel Consiglio comunale di lunedì 8 ottobre 2012 provocando una spaccatura nella maggioranza. 6 Secondo alcune stime di Legambiente Padova il numero di capannoni sfitti e non utilizzati è di oltre 3.000 unità. 7 La definizione dell’ambito metropolitano non è scontata, richiede valutazioni non solo politiche capaci di individuare aree significative e funzionali rispetto alla complessità e alle problematiche odierne. Anche in Veneto il dibattito si è riacceso assumendo contorni diversi data la decisione di soppressione delle Province e riportando la riflessione anche sull’area metropolitana allargata vale a dire la Pa-Tre-Ve.
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OLTRE IL CAPANNONE: METAMORFOSI DEL NORD EST PRODUTTIVO
Marco Ferrari
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Le aree industriali della pianura veneta rappresentano il più diretto ritorno fisico di uno sviluppo economico impetuoso ma frenetico, diffuso ma privo, se non altro dal punto di vista urbanistico ed architettonico, di una precisa progettualità. Oggi, queste aree e questi oggetti edilizi sono anche un problema; un problema legato all’infinità di case unifamiliari o a schiera e alle palazzine che hanno invaso il territorio, alla rete viaria diffusissima ma sempre insufficiente, al paesaggio agrario ridotto a lacerti privi di riconoscibilità, ma sono anche un problema in sé: un problema legato alla scarsissima qualità architettonica e di relazione degli oggetti e degli spazi che le compongono, ed un problema di necessità, perché se tutto il resto continua, seppur faticosamente, a funzionare e a servire, i capannoni in molti casi non sembrano essere più così utili o, certamente, non sono più tutti utili. I dati forniti dalla Provincia di Treviso, già prima dell’esplodere della recente crisi economica e sui quali si è basata la stesura del Piano Territoriale di Coordinamento, sono significativi e per molti versi eclatanti. Emerge infatti chiaramente che dei 78 milioni di m2 di aree industriali esistenti alla metà del decennio scorso (1.077 siti produttivi distribuiti in 95 comuni, più di 10 per comune!) nel 2020 non ne saranno necessari, ottimisticamente, più di 52 milioni. Padova, Vicenza, Venezia, Verona ed in parte anche Udine e Pordenone presentano situazioni diverse solo in valore assoluto, mentre i problemi e gli interrogativi che si pongono a seguito della ri-localizzazione produttiva in atto e del decrescere del settore manifatturiero, sono esattamente gli stessi.
La politica impostata del PTCP di Treviso è, in linea di massima, condivisibile: alcune aree, strategiche per dimensione, localizzazione, possibilità di inserimento in comparti/distretti industriali ed in filiere di ecologia industriale, vanno conservate e forse potenziate, altre (molte altre, corrispondenti ad almeno 25 milioni di m2) devono necessariamente essere dismesse e riconvertite, accettando anche che dismissione significhi ri-naturalizzazione o ri-ruralizzazione. Si tratta ovviamente di un processo che, come è già stato notato1, è di difficilissima applicazione dal punto di vista procedurale e normativo data soprattutto l’imperfezione degli strumenti (crediti edilizi e compensazione) ipotizzati per attuarlo e dato che anche il settore residenziale (verso cui si immagina di trasferire la gran parte delle volumetrie) presenta già situazioni di saturazione e spesso anche di evidente sottoutilizzo2. Quindi un processo di difficile gestione anche dal punto di vista economico, che deve inoltre tener conto che le amministrazioni pubbliche, in un momento di preoccupante riduzione delle risorse disponibili, non avrebbero la forza, economica prima ancora che culturale e politica, di farsi soggetti attivi di tali trasformazioni. Tuttavia, dal nostro particolare punto di vista di architetti interessati alla città ed al territorio, questo scenario ci è sembrato estremamente stimolante; una straordinaria occasione per interrogarsi sulle possibili ricadute di tali processi sull’assetto urbano e paesaggistico, una grande opportunità di ripensare il funzionamento di alcune parti di città dimensionalmente significative. E l’ipotesi da cui muovono le riflessioni che qui si presentano, che sono state sviluppate prima in un workshop dedicato 1 F. Bricolo, L. Corroyer, M. Ferrari, N. Pagnano, comuni di Conegliano e Vittorio Veneto. Ecologia industriale: metamorfosi, Workshop QUAP Urban Industrial, 2006
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alla qualità delle aree produttive3 e poi in alcune tesi di laurea sviluppate all’interno dello IUAV4, sono, se si vuole, ancora più radicali rispetto a quelle del Piano Provinciale, ma forse ancora più capaci di operare criticamente rispetto alla situazione attuale. L’ipotesi è che le cubature da dismettere (o quantomeno una parte di esse) trovino posto all’interno delle aree industriali esistenti e da conservare, innescando un consistente processo di ricomposizione e rinnovamento urbano anche di queste ultime, che non possono in alcun modo essere immaginate come stabili e compiute. Ovviamente un tale processo ha senso solo se viene gestito ad una scala sovracomunale, dove le diverse amministrazioni possano consorziarsi in modo tale da condividere oneri e vantaggi delle trasformazioni, e solo se inserito in una prospettiva di blocco, per molto tempo, delle altre aree di espansione e quindi di ogni altra forma di futura occupazione di suolo. Un processo di lungo periodo dunque; da adattare, correggere e modificare al variare degli input esterni; un processo che deve affiancare alla ricerca di una diversa qualità architettonica e di disegno urbano e paesaggistico, obiettivi irrinunciabili di risparmio di suolo e aumento delle superfici biotiche, chiusura e ottimizzazione dei cicli energetici, sviluppo di nuovi modelli di coesione ed integrazione sociale. Visti nel loro insieme i diversi progetti affrontano almeno tre diversi temi: la ricerca di nuove modalità di organizzazione per gli spazi della produzione esistenti; la demolizione intesa come opportunità di riequilibrio urbano, paesaggistico, ambientale di aree sensibili o di margine; la costruzione di parti di città e territori complessi sperimentando nuove forme di ibridazione tipologica tra spazi della produzione, della residenza, dell’agricoltura e della vita sociale. Ovviamente i tre temi hanno portate molto diverse: il primo guarda vicino, alla trasformazione immediata, al direttamente possibile; il secondo ed il terzo guardano lontano, agli scenari ampi prima delineati, ma spesso lavorano assieme, in modo integrato, servendosi uno dell’altro. In linea generale le aree scelte per le sperimentazioni non hanno emergenze o eccellenze, non presentano manufatti riconducibili all’ambito di interesse dell’archeologia industriale, non hanno valore documentale, appartengono ad una città senza qualità, indistinta, anonima, stancamente ripetuta. E tutto ciò ovviamente per una scelta precisa. Per la volontà di dare alle sperimentazioni il maggior carattere possibile di genericità, per non ancorarsi all’eccezionalità del caso, alla fortuna della sua condizione specifica, per non avere paura di ciò che è più grigio ed ostile; da un punto di vista metodologico per poterne ricavare, alla fine, un più alto valore modellistico. NUOVE FORME DI ORGANIZZAZIONE PER I VECCHI SPAZI DELLA PRODUZIONE La storia dell’architettura, almeno da Vers une Architecture in avanti, ci insegna quanto l’edificio produttivo possa rappresentare un tema di grande interesse e sperimentazione. Malgrado esistano dunque buoni esempi di edilizia industriale, dal punto di vista tipologico, costruttivo, materico, il capannone è una struttura di grande banalità. Ma se è basso il livello architettonico specifico dell’edificio, ancor più basso è il livello delle relazioni che esso instaura con
il suo intorno più prossimo (gli spazi esterni di pertinenza destinati a deposito, le aree di manovra e di parcheggio), povere sono poi le forme aggregative (quasi sempre si tratta di edifici isolati su lotto o a schiera), più che modesto è il disegno degli spazi collettivi (strade, marciapiedi, parcheggi, verde), assente, o quasi, è qualsiasi forma di gerarchizzazione capace di dare conto delle diverse collocazioni (lotti disposti lungo le strade principali, interni, di confine con la campagna o con ambiti a diversa destinazione). Anche il miglior edificio industriale, all’interno di aree così concepite, resterà un bell’oggetto edilizio, forse seducente ed elegante, ma con una scarsissima rilevanza urbana e/o paesaggistica. In questo senso ci è parso importante ragionare innanzitutto sulle forme insediative ed aggregative per le quali purtroppo non esistono grandi sperimentazioni ed esempi direttamente utilizzabili5, anche se, dal punto di vista tipologico, un’esperienza che può offrire utili elementi di riflessione è quella dei cosiddetti hotels industriali francesi, cioè di complessi produttivi dal carattere certamente urbano e destinati a produzioni leggere, che accolgono, sviluppato normalmente su più piani, un insieme di attività anche molto diverse tra loro. Nell’esempio forse più famoso, l’edificio Jean-Baptiste Berlier progettato da Dominique Perrault a Parigi6, i sistemi di carico e scarico sono accorpati in due distinti nuclei con montacarichi condivisi dai diversi utenti. Il modello permette un doppio livello di risparmio di suolo, dovuto sia alla sovrapposizione delle attività, sia all’ottimizzazione degli spazi di carico e scarico che hanno una frequenza di utilizzo non costante. Dall’idea della condivisione degli spazi di logistica e movimentazione merci (oltre che di altri servizi e delle reti energetiche e tecnologiche) partono anche molti dei progetti di tesi. I quali però, lavorando soprattutto sul recupero delle strutture edilizie esistenti, declinano l’idea secondo uno sviluppo non verticale ma orizzontale, che tuttavia permette, abbinato a sistemi di stoccaggio merci automatizzati e compatti, di aprire ad una diversa interpretazione degli altri fronti costruiti che possono riorganizzarsi in rapporto alle diverse situazioni contestuali. Così, nel progetto di Isola Vicentina, questi spazi di servizio vengono introiettati all’interno di una grande corte generata dalla modificazione di una doppia schiera di capannoni e ciò permette da un lato di organizzare un nuovo fronte continuo più urbano, dall’altro di recuperare, attraverso un lungo terrapieno che nasconde viabilità e parcheggi di servizio, un più diretto rapporto di continuità percettiva e fisica con il vicino paesaggio agrario e con i primi rilievi collinari sullo sfondo. A Montebelluna, invece, la riorganizzazione in modo condiviso del sistema di carico-scarico di una serie di edifici esistenti offre l’occasione per l’invenzione di una lunga facciata continua capace di interpretare e rappresentare, con un rapporto di scala più adeguato, il limite dell’edificato verso la tangenziale urbana al di là della frammentazione delle singole unità produttive. Tutto ciò provoca anche una nuova distribuzione degli spazi ad ufficio e di relazione con il pubblico di ogni attività che ora si rivolgono verso una corte verde allungata attorno alla quale si organizzano alcuni servizi collettivi alle imprese come mensa e spazi di ristoro, sportelli bancari e postali, aree comuni per esposizioni e conferenze.
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DISMISSIONE Della dismissione delle aree industriali e della loro riconversione si parla ormai da diversi decenni e, come è noto, gli esempi sono ormai numerosi. Il caso delle aree industriali della città diffusa è però in gran parte diverso perché queste ultime, parcellizzate, disperse, in alcuni casi con bassi livelli di accessibilità, non generano la stessa attrattività di un’area vuota all’interno della città compatta. Inoltre, se i dati sinteticamente riportati all’inizio sono veri, è evidente che la dismissione, in questi contesti, non può voler dire nuovo e diverso edificato (almeno non come sostituzione diretta). Essa deve necessariamente significare anche nuovi spazi aperti, nuove aree a verde pubblico, ambiti di rinaturalizzazione o di riconversione produttiva verso l’attività agricola che ha anch’essa la necessità di orientare secondo nuovi parametri il proprio sviluppo futuro. Pur sapendo quanto questo appaia, per gli alti costi pubblici che comporta e per quanto altro si è già detto, di non facile e di non immediata realizzazione, esso è necessario e non rimandabile all’infinito: perché non è affatto certo che la decrescita sia automaticamente felice (certamente non dal punto di vista della natura degli spazi che abitiamo) e tutto ciò rappresenta una grandissima occasione di riequilibrio territoriale ed ambientale, un’occasione di dotare i centri abitati di nuove forme di qualità, un’occasione di re-invenzione di un paesaggio sempre più impoverito nei suoi aspetti formali. Nell’area di San Gottardo a Paese, la dismissione si attua attraverso un’azione combinata di ri-ruralizzazione e di recupero ambientale di alcune cave esistenti. Queste ultime messe a sistema con le numerose altre disperse nel territorio vicino, divengono i nodi di una rete verde composta da un sistema di corridoi ecologici già individuati dal PTCP. I movimenti di terra, gli scavi e i riporti, informando il ridisegno complessivo dell’area ne suggeriscono l’identità, contrapponendosi all’indifferenza dei contesti e definendo di volta in volta il limite tra città e campagna (in corrispondenza del nuovo tessuto residenziale), la continuità dei percorsi (in corrispondenza della discontinuità della ferrovia), la scala e la natura dei diversi ambiti. Un progetto di natura topografica, dove spazi esterni, percorsi ed edifici costituiscono un’unità inscindibile, in cui scompare il carattere simbolico e di autosignificazione dei manufatti edilizi e divengono invece determinanti la percezione dell’intera condizione spaziale, gli elementi di natura, la presenza corporea di chi quegli spazi li vive e li utilizza (Fig. 2). In modo molto diverso, il progetto per San Donà si occupa invece di ripensare l’organizzazione di un’ampia area industriale compresa tra la nuova tangenziale e la recente espansione residenziale. A partire dall’ipotesi di dismissione del bordo più prossimo alla città, il progetto intende indagare la possibilità per questo ambito di recuperare un più preciso rapporto con il contesto urbano in cui si colloca. In questo senso, solo alcune strutture esistenti vengono parzialmente conservate diventando parte del ridisegno di un ampio parco a servizio sia del vicino quartiere residenziale sia delle restanti attività produttivo/commerciali e trasformandosi in grandi coperture al di sotto delle quali collocare, in continuità con gli spazi aperti a verde, nuovi servizi e nuove attrezzature collettive.
CITTÀ COMPLESSE Nell’ipotesi che il futuro riservi uno scenario in cui anche nel Nord Est, come in tutte quelle che vengono definite economie avanzate, l’industria manifatturiera sia destinata ad una progressiva riduzione a fronte di uno sviluppo dei servizi e delle produzioni leggere ad alto contenuto tecnologico, ma anche nell’ipotesi non meno auspicabile, e forse non alternativa, di un «futuro artigiano»7, è possibile immaginare che almeno alcune aree industriali del recente passato (certamente non quelle interessate da produzioni speciali ed inquinanti o i grandi complessi industriali unitari) cambino progressivamente, ma in modo radicale, la loro natura. Non più spazi segregati, monofunzionali e dal rigido utilizzo per fasce orarie, ma vere e proprie parti di città complessa in cui, a partire dall’obbligatorio rispetto dei più comuni protocolli di sostenibilità ambientale8, sperimentare principi innovativi di disegno urbano e nuove soluzioni tipologiche. L’occasione per questa trasformazione è offerta proprio dal meccanismo di riequilibrio territoriale descritto in precedenza, mettendo in atto processi di densificazione (edilizia e funzionale) e trasferendo in queste aree almeno una parte delle volumetrie altrove sottratte e comunque concentrando in essi i progetti di crescita sparsi in modo pulviscolare nel territorio. In questo senso, se a Conegliano e Vittorio Veneto si è soprattutto cercato di ragionare sulle possibili modalità di trasformazione del tessuto esistente associandole a diversi livelli di incremento di densità edilizia senza mirare ad un assetto urbano compiuto (Fig. 1), a Monselice e Limena si è provato ad immaginare dei sistemi urbani di nuova realizzazione generati dalla parziale trasformazione della struttura viaria e proprietaria del vecchio insediamento, in cui spazi della produzione, della collettività (spazi aperti pubblici, servizi comuni e servizi commerciali) e della residenza si sovrappongano secondo una sequenza verticale. Ma forse, in futuro, al di là del mito di un’anacronistica dimensione pastorale, almeno in contesti come questi, non si potrà fare a meno di modelli insediativi in cui condizione urbana e mondo della produzione agricola ricercano nuove e diverse forme di unità ed integrazione. Allora, nell’ultimo caso studio, quello di Villorba, pur ipotizzando il mantenimento delle strutture produttive esistenti (che vengono riorganizzate a partire da meccanismi di ottimizzazione logistica simili a quelli già descritti), si immagina di affiancare ad esse oltre a nuove quantità urbane (soprattutto residenze, attrezzature sociali, servizi commerciali e alle imprese) anche attività agricole specializzate caratterizzate da colture idroponiche, orti all’aperto ed in serra che si accostano, si sovrappongono o si sostituiscono alla superficie occupata dai vecchi capannoni. Che sono ancora se stessi, ma, allo stesso tempo, anche molto di più.
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1 Si veda per esempio: Tiziano Tempesta, Abbatteremo i capannoni?, «L’Azione» 29 giugno 2008. 2 Su base regionale, nel 2001, il numero delle abitazioni occupate nel Veneto era uguale a quello delle famiglie, mentre è noto che nell’ultimo decennio si sono costruite abitazioni in numero decisamente eccedente rispetto alla crescita della popolazione. Rimanendo all’esempio della Provincia di Treviso ed immaginando di trasformare solo metà delle aree industriali da dismettere in aree residenziali (ed il resto quindi in servizi collettivi pubblici o privati) con indici di utilizzazione fondiaria molto bassi e certamente inferiori a quelli attuali, si otterrebbe una popolazione insediabile di circa 110 mila unità. Un numero di abitanti ben maggiore di quello del capoluogo, pari a più di un decimo di quello provinciale, quasi equivalente a quello previsto nell’ipotesi più ottimistica di sviluppo del PTCP (135 mila abitanti) e quasi triplo rispetto all’ipotesi media più prudenziale di 43 mila nuovi residenti. 3 Il workshop QUAP Urban Industrial si è svolto a Conegliano nell’estate del 2006 (111 luglio) ed ha visto la partecipazione di architetti provenienti dall’Italia, ma anche da Belgio, Francia, Germania, Spagna, Stati Uniti ed Australia con la supervisione di Marcel Smets ed il tutoraggio di Benno Albrecht e Kelly Shannon. 4 Le tesi, circa una decina, sono state prodotte in un arco di tempo compreso tra il 2008 ed il 2012 in un laboratorio di laurea IUAV seguito da chi scrive, con la correlazione, di volta in volta diversa per la parte tecnologica, impiantistica e di valutazione energetica dei professori: M.A. Baruzzi, L. Cecchinato, A. De Carli, A. Lionello, G. Mucelli, F. Peron, L. Porciani, V. Tatano. C. Tessarolo. 5 Ad esempio l’esperienza dei parchi scientifici e tecnologici e quella dei parchi eco-industriali anglosassoni o nord europei (tra gli esempi più famosi di questi ultimi, quelli di Kalundborg in Danimarca, Burnside in Canada, Burlington e Londonderry in Inghilterra) sono certamente interessanti in alcuni risultati specifici, ma sono quasi sempre il frutto di un tentativo di far confluire l’insediamento industriale all’interno di un’idea di paesaggio naturale integro e separato dalla città che sembra poco adatta a confrontarsi con le situazioni
di antropizzazione continua del territorio veneto. 6 Altri esempi interessanti sono ad esempio il Centre d’activitè a Pantin di Paul Chemetov, l’Hotel industriel a Clichè di Architecture-Studio e quello a Le Losserdand di Emanuelle Saadi 7 Stefano Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, Marsilio, Venezia 2011 8 Nell’ultimo decennio nell’intera Europa si sono moltiplicati progetti e programmi, attivati per esempio attraverso le Agenda 21 Locali, rivolti ad estendere ad enti ed imprese private i sistemi di certificazione e gestione ambientale ISO 14001 ed EMAS con lo scopo di verificare l’adozione di sistemi di gestione degli impatti diretti ed indiretti che le attività, produttive ma non solo, possono indurre sull’ambiente.
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2 F. Bricolo, L. Corroyer, M. Ferrari, N. Pagnano, comune di Paese. Ecologia industriale: naturalizzazione, Workshop QUAP Urban Industrial, 2006
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Alberto Bertagna è ricercatore in Urbanistica presso l’Università degli Studi di Genova. Ha pubblicato La città tragica. L’(an)architettura come (de)costruzione (Reggio Emilia, Diabasis 2006) e Il controllo dell'indeterminato. Potëmkin villages e altri nonluoghi (Macerata, Quodlibet 2010) e, con Sara Marini, The Landscapes of Waste (Milano, Skira 2011). Francesco Gastaldi è ricercatore e docente di Urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia. Insieme con Valeria Fedeli ha curato Pratiche strategiche di pianificazione (Milano, Franco Angeli 2004) sulle sperimentazioni di pianificazione strategica in Italia. Sara Marini è ricercatore in Composizione Architettonica e Urbana presso l’Università Iuav di Venezia. Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città, (Macerata, Quodlibet 2008) e Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto (Macerata, Quodlibet 2010) e, con Alberto Bertagna, In Teoria. Assenze, collezioni, angeli (Macerata, Quodlibet 2012). Ha inoltre curato, insieme con Pippo Ciorra, Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta (Milano, Electa 2011).
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Il libro affronta il tema del lavoro che, nel quadro articolato delle trasformazioni sociali ed economiche in atto, assume una centralità rinnovata anche per le discipline che si occupano del disegno degli spazi che lo accolgono. Da un lato si assiste alla riorganizzazione del sistema egemone negli ultimi trent’anni: gli spazi del lavoro non sono più semplici edifici industriali ma nuove realtà dotate di laboratori, centri studi, spazi di relazione con il pubblico e con il paesaggio. Prende dunque corpo una revisione del modello di città sociale che in Italia ha segnato profondamente la progettazione architettonica e urbana, sulla scia di quanto accaduto per la Olivetti. Il Diesel Village a Breganze e le diverse factory che nascono oggi occupando complessi industriali dismessi rappresentano il controcampo della crisi dei capannoni diffusi. Dall’altro lato la dismissione della produzione fisica di materiali ed oggetti crea una diversa strutturazione di reti per la produzione immateriale di idee o servizi: nuovi spazi del lavoro si costruiscono in luoghi marginali o abbandonati del territorio, possibili motori latenti di uno sviluppo alternativo. ISBN 978-88-7462-498-0