Riflessioni sulla crisi

Page 1

FFF—Exhibition



Quaderni #2

FFF—Quaderni #2


RIFLESSIONI SULLA CRISI Investigazioni private Workshop con Francesco Jodice Casa Fabbri, Pieve di Soligo 9–12 luglio 2013 Esposizione collettiva e convegno Fondazione La Fornace dell’Innovazione, Asolo 22 marzo–13 aprile 2014

con il sostegno di:


Indice

4 6 7

Saluti istituzionali

Note sulla crisi di Silvia Fattore

La crisi tra pubblico e privato… e oltre di Roberto Masiero 2—3

18 24 29 33

Una crisi, un cambiamento epocale di Maurizio Rasera

Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi di Sergio Maset Investigazioni private. Intervista a Francesco Jodice di Carlo Sala

Investigazioni private Workshop di Francesco Jodice


Fondazione Francesco Fabbri è impegnata in molteplici progetti per la valorizzazione dei linguaggi e delle problematiche della contemporaneità attraverso la promozione di festival e iniziative culturali. Questo progetto ci ha visti collaborare con la Confartigianato della Marca Trevigiana per ragionare sulla situazione economica e sociale del nostro territorio e sul valore del tessuto produttivo che lo caratterizza. Per farlo abbiamo agito attraverso alcune piattaforme culturali che promuoviamo: F4 / un’idea di Fotografia ed il Laboratorio Politico, due iniziative che pur muovendosi in ambiti differenti sono accomunate dall’agire come un osservatorio sul presente. In seno alla prima, un festival di fotografia, abbiamo invitato il noto fotografo Francesco Jodice a coordinare un gruppo di giovani artisti che con il loro sguardo hanno cercato di indagare il paesaggio mettendosi in contatto con alcuni imprenditori; ne sono nati degli scatti che non sono semplici prodotti estetici, ma hanno l’intento di stimolare degli interrogativi in chi li guarderà. In seguito, il Laboratorio Politico ha elaborato una serie di riflessioni pubblicate in questo

volume e che saranno al centro del convegno che concluderà il progetto. Questa modalità di indagine dominata da diversi approcci al tema vuole essere un tentativo di meditare in senso puntuale e critico sull’attualità. Non possiamo ragionare in termini nostalgici o rimpiangendo il passato, seppur prosperoso e vitale, ma dobbiamo comprendere i mutamenti in atto per avere una visione capace di progettare il futuro che ci attende.

Giustino Moro Presidente Fondazione Francesco Fabbri Onlus


Mario Pozza Presidente Confartigianato Marca Trevigiana

4—5

La crisi economica e finanziaria che imperversa su scala globale dal 2008 ha profondamente toccato il nostro Paese, ponendoci una serie di riflessioni da cui non possiamo esimerci. Uno degli intenti di questo progetto è raccontare i mutamenti che questo fenomeno ha generato nei territori e nel settore produttivo della provincia di Treviso. Per questo abbiamo collaborato con Fondazione Francesco Fabbri nella realizzazione di una campagna fotografica che rivelasse come stanno vivendo questo periodo le nostre aziende artigiane. Ne è emerso un racconto che, se da un lato non può negare la crisi, dall’altro mostra anche casi di imprese sane che hanno saputo comprendere il particolare momento storico innovando e realizzando un prodotto di grande qualità per superare le difficoltà, creandosi uno spazio sui mercati internazionali. Questo volume contiene una serie di considerazioni sulla crisi da diverse prospettive che saranno al centro del convegno in cui alcuni studiosi si confronteranno con la voce degli imprenditori, che sul campo lavorano con orgoglio per sconfiggere le difficoltà e rafforzare le loro aziende.


Note sulla crisi di Silvia Fattore

Il Laboratorio Politico della Fondazione Francesco Fabbri è stato coinvolto da Confartigianato Marca Trevigiana, insieme al programma F4 coordinato da Carlo Sala che ha curato il workshop fotografico dal titolo “Investigazioni private” sotto la direzione di Francesco Jodice, per offrire una propria lettura sul fenomeno della “crisi” in atto. Per la prima volta le due piattaforme culturali della Fondazione hanno avuto l’occasione di lavorare insieme ad un progetto comune. L’invito è stato accolto con grande interesse, ma anche con qualche timore. L’interesse deriva dalla natura stessa del Laboratorio Politico, che nasce come luogo di riflessione e d’incontro sui grandi temi della Politica e come occasione di interpretazione e confronto sui dati congiunturali che caratterizzano le dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo. Leggere e approfondire i dati a diverse scale, interpretarli alla luce delle tensioni e delle dinamiche locali o che si offrono agli osservatori a noi familiari, contribuiscono ad approfondire la nostra coscienza e capacità di comprensione della realtà e della sua crescente complessità. Il progetto per Confartigianato è stato un incentivo ad affrontare e a condividere internamente la riflessione, senza rinvii ed esitazioni. Siamo di fronte ad una trasformazione, drastica per alcuni settori, che sta incidendo profondamente e in modo trasversale sulla qualità di fare ed essere impresa dentro e fuori i confini territoriali, ma anche sulla qualità di vita delle famiglie e dei singoli, sul loro equilibrio e sulla loro capacità di sperare e di concepire progetti di medio e lungo termine, con imprevisti e a volte drammatici effetti sul loro equilibrio psicologico. Proprio per la vastità degli effetti economici,

sociali e culturali, alcuni, i più palesi, di segno negativo ma altri positivi, il fenomeno merita di essere indagato con responsabilità e consapevolezza. I timori che hanno accompagnato la prima reazione alla richiesta di un approfondimento sul tema della “crisi” sono stati motivati dalla sua complessità e dalla molteplicità dei punti di osservazione che possono essere offerti. Era possibile condividere una visione unitaria o era piuttosto preferibile offrire una composizione polifonica? Il principio della pluralità degli sguardi che ha caratterizzato il progetto fotografico curato da F4, è diventato il filo conduttore anche delle riflessioni e degli approfondimenti del Laboratorio Politico e che hanno preso forma nei tre saggi che seguiranno. I testi redatti da Sergio Maset, Roberto Masiero e Maurizio Rasera, pur nella loro autonomia, offrono al lettore spunti di riflessione sul fenomeno della “crisi” nei suoi aspetti globali e locali, con alcuni denominatori comuni: siamo di fronte ad un passaggio epocale e ad una trasformazione di sistema; le dinamiche non vanno solo “riconosciute”, chiedono di essere governate; nessuno ha risposte definitive o soluzioni da proporre, ma esistono alcune priorità condivise sulle fragilità del sistema Paese sulle quali si ritiene unanimemente di poter intervenire. La prima parte, La crisi tra pubblico e privato… e oltre, scritta da Roberto Masiero, propone una riflessione molto articolata che, descrivendo le tensioni globali in atto a livello politico, economico e sociale, invita il Soggetto Politico a recuperare centralità e responsabilità nel governare processi strategici per il benessere e lo sviluppo del proprio territorio. La seconda, che ha come titolo


La crisi tra pubblico e privato… e oltre di Roberto Masiero

È inevitabile che nei momenti di crisi il privato si rintani nei propri problemi e si ritrovi oppresso dalle tensioni e pericoli che la crisi produce e, nel mentre, il pubblico, le istituzioni e la politica perdano di legittimità, diventando oggetto di rifiuto e persino di odio da parte della popolazione. È così che avviene una sorta di avvitamento: lo scollamento tra società e rappresentanze apre non solo alla crisi da cui nasce, ma a pericolose soluzioni politiche che mettono in discussione la stessa democrazia della rappresentanza. Si sa, la storia ci ha da molto tempo avvertito che uno dei pericoli che le crisi portano con sé è l’emergere di politiche populistiche, demagogiche e tendenzialmente totalitarie. Nella dialettica tra pubblico e privato il pericolo maggiore si presenta là dove l’uno tende ad annullare l’altro dei due termini e, per impedire che ciò accada, una delle strategie possibili è quella di introdurre in questa dialettica un elemento di “terzietà”, cioè un “soggetto” capace di elaborare una posizione intermedia e ideologicamente passiva. È su questa linea che si sta muovendo Fondazione Francesco Fabbri. Questa intende offrirsi come momento di aiuto e incubazione di buone pratiche rivolte agli abitanti e ai territori dell’Alta Marca, ma non solo, nel rispetto delle tradizioni e delle possibilità di innovazione e sviluppo; vuole darsi un ruolo di mediazione e compensazione dei molteplici interessi, passioni, opportunità presenti nel territorio, per aiutare processi di costruzione e d’identità sociali basate sulla reciprocità e sulla solidarietà; intende riconoscere e incentivare logiche di appartenenza e identità fondate sulla capacità di progettare un futuro migliore per tutti coloro che in vario modo vivono e operano nel territorio,

6—7

Una crisi, un cambiamento epocale, scritta da Maurizio Rasera, si focalizza sul tema del lavoro, condividendo e commentando dati sull’occupazione nazionale e locale, e propone un approfondimento sulla situazione di particolare sofferenza del nostro Paese e del sistema produttivo veneto. La terza, Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi, di Sergio Maset contestualizza la trasformazione in atto nel più ampio quadro delle continue trasformazioni ed evoluzioni di cui è fatta la storia individuando gli ambiti sui quali si giocherà la competitività del sistema economico italiano. Ci auguriamo che gli spunti offerti incoraggino il lettore a non liquidare “la crisi” con scorciatoie e frettolose conclusioni. Possiamo scegliere di fermarci ad identificare la “crisi” come un evento esterno inviato dal destino per giustificare le attuali difficoltà, o possiamo piuttosto arricchire la nostra riflessione con elementi che ci rendano di questo tempo “attori protagonisti” e non semplici “comparse” o addirittura “vittime”, nella consapevolezza che, proprio quando non esistono soluzioni valide in assoluto e gli interventi strutturali che potrebbero offrire qualche sollievo arriveranno sempre troppo tardi, c’è maggiore spazio per gli scatti di creatività. Ringrazio Confartigianato Marca Trevigiana per l’opportunità che è stata offerta al Laboratorio di affiancare la nostra riflessione ad un percorso artistico di grande valore e di imprimere una traccia originale nell’ampio ed impegnativo dibattito in corso sulla “crisi”. Colgo infine l’occasione per esprimere una particolare riconoscenza nei confronti degli autori che hanno composto la polifonia che ci eravamo proposti di consegnare. Non solo al nostro territorio, ma a quanti stanno vivendo con noi questo tempo.


riconoscendo i caratteri dello stesso ma sapendo nel contempo dialogare con i fenomeni della globalizzazione in atto. La globalizzazione, nei suoi vari aspetti e contraddizioni, va considerata come una vera e propria opportunità da governare tenendo conto che i suoi scenari sono nel contempo macro e micro, lontani e vicini, astratti (il virtuale) e concreti (i bisogni immediati); intende riflettere e operare attorno e all’interno della Contemporaneità, nelle sue molteplici forme di espressione e nelle sue stesse contraddizioni, per misurarsi soprattutto con il presente, e per individuare collettivamente le strategie e gli scenari per un futuro di emancipazione; ritiene necessario favorire il più ampio percorso di internazionalizzazione ed europeizzazione dell’Alta Marca Trevigiana, al fine di accrescere la sua visibilità e credibilità, le sue pratiche strategiche, la comprensione dei suoi processi di governance per sperimentare maggiore coesione territoriale e per elaborare una visione condivisa fondata sul concetto di sussidiarietà. I suoi strumenti sono le “piattaforme”: il Festival Comodamente, un crogiuolo di eventi di varia natura che nel 2012 ha attivato a Vittorio Veneto circa 36.000 presenze. È un modo per riattivare nel territorio la voglia di esserci, di ascoltare, di parlare, di ritrovarsi; il Festival CittàImpresa, che, mettendo i relazione tra loro il mondo della produzione con quello dei soggetti formali e informali, cerca di far sistema e lo fa partendo da una revisione nella chiave della Convenzione europea, dell’idea stessa di paesaggio; F4, dedicata a incentivare l’arte della fotografia intesa come una delle fondamentali forme di espressione e di interpretazione della Contemporaneità. E ancora, un Laboratorio Politico che intende essere un contenitore ideologicamente libero per incontri dedicati alle riflessioni attorno alle parole della politica per capirne sino in fondo sia le valenze che le trasformazioni che stanno subendo, e le Adozioni, che nascono su richiesta di aiuto di soggetti pubblici e privati che non chiedono alla Fondazione di risolvere i loro problemi ma di predisporre tutte quelle iniziative che possono far si che la committenza abbia la possibilità

di elaborare delle decisioni avendo a disposizione scenari complessi. La Fondazione mette così a disposizione il proprio ruolo di “diffusore” di buone pratiche, la propria capacità di costruire reti competenti, di individuare saperi specifici, di dare “ordine” e “peso” a fenomeni complessi. Soggetto terzo, quindi, tra pubblico e privato; soggetto “dedicato” e con lo scopo di leggere il passato per aprirsi al futuro, interpretare le proprie contraddizioni per valutarle nello scenario globale o di interpretare lo scenario globale per valutare le proprie contraddizioni. Forse questa è una indicazione possibile per trasformare, oggi, il ruolo delle istituzioni. Molti sono i cambiamenti in atto. È importante “ascoltarli” e fare in modo che si trasformino in opportunità e non in un pericolo. I ruoli istituzionali permettono di avvertire che si sta modificando il rapporto tra pubblico e privato, e quindi l’idea stessa di ciò che consideriamo di tutti o solo di qualcuno. Questa lenta trasformazione del modo di essere, ma anche del modo di pensare di ognuno di noi, coinvolge il ruolo che assumono le istituzioni, la funzione di quel complesso sistema di relazioni tra lo Stato e i singoli cittadini che è la burocrazia, e il senso stesso di ciò che chiamiamo cultura e anche di ciò che chiamiamo scienza, visto che l’una e l’altra sono un prodotto di soggetti singoli (anche quando elaborati in forma d’insieme) che assumono inevitabilmente una “ragione” collettiva. Il sintomo più evidente di questi cambiamenti oggi è il riemergere nel linguaggio della politica del concetto di bene comune assieme a parole come comunità, partecipazione, sussidiarietà e il diverso valore che sembrano assumere la parola patrimonio e persino quella di proprietà. Questi sintomi ci segnalano che la trasformazione è profonda e che va affrontata con lucidità. I sintomi vanno analizzati rispetto a scenari che riescano a giustificarli. Siamo convinti che stiamo assistendo alla crisi all’interno dell’Europa dello Stato sociale e delle politiche che lo hanno alimentato. La cornice dello Stato Nazione ha permesso sino alla fine del secolo scorso di controbilanciare le tendenze alla disintegrazione sociale


se non altro, a declinarne delle possibili interpretazioni e soprattutto delle vie d’uscita. Provo quindi, dopo aver dato un quadro della “filosofia” e delle iniziative di Fondazione Francesco Fabbri (parlando quindi a nome di tutti) a dire “la mia” sulla crisi. Si sa che da più parti, nella letteratura filosofica come in quella politica, la parola crisi è stata usata per indicare la natura stessa della Modernità. In sintesi la Modernità sarebbe una sorta di processo continuo da crisi in crisi. Al di là di quando e dove i vari studiosi collocano la nascita della Modernità, sembra evidente il fatto che essa si presenti come l’esito di una radicale rottura con il mondo che l’ha preceduta e che, superata la rottura, invece di ristabilire una condizione diciamo così di una nuova normalità, abbia invece messo in atto una sorta di dispositivo che nell’economia, nel sociale e nel politico, ma anche nelle arti e nelle scienze, imposta continuamente stabilità e produce rottura, come se la “natura” stessa di questo tempo chiamato Modernità, fosse produrre in continuazione crisi. Chi non ricorda cosa si è detto a scuola e scritto nei libri di scuola a proposito dell’Umanesimo come contrapposizione radicale ai tempi bui del Medioevo. Era un modo per raccontare una delle nascite della Modernità nel dispositivo della crisi. D’altra parte è plausibile pensare al nostro tempo come un tempo delle continue rivoluzioni, trasformazioni, innovazioni. Si pensi semplicemente alle profonde trasformazioni tecnico scientifiche che sono state prodotte in questi ultimi anni. Bene! Ammesso che questa lettura del nostro tempo come tempo della reiterazione sempre diversa della crisi, la crisi attuale potrebbe essere, appunto, una crisi interna alla Modernità, più o meno forte, più o meno lunga e quindi più o meno pesante. Non che questo ci possa consolare: le crisi comunque portano con sé pericoli, conflitti, sofferenze, vittime. Io ritengo che questa interpretazione del rapporto tra crisi e Modernità non risolva alcuni aspetti significativi dell’emersione dei fatti storici e della loro interpretazione, così come credo che se l’ipotesi è vera

8—9

che opera sempre “sotto traccia”. Come continua a ripetere Jürgen Habermas, oggi, sotto le condizioni del capitalismo globalizzato, le capacità politiche atte a proteggere l’integrazione sociale si stanno pericolosamente restringendo. La politica come mezzo di auto-determinazione democratica sembra essere diventata tanto impossibile quanto superflua. L’autonomia dei sistemi e dei sottosistemi che caratterizza la gestione economicofinanziaria, non più o solo in parte vincolata al sistema nazione, rende sempre più marginali i “diversi mondi vitali” della popolazione. Il “politico” è stato trasformato in un sistema amministrativo (e non di progetto) che si auto-conserva. L’integrazione sistematica globale risponde a imperativi funzionali e si lascia alle spalle l’interazione sociale come un meccanismo fin troppo ingombrante. Sotto le costrizioni degli imperativi economici che dominano in misura crescente le sfere di vita privata, gli individui, intimiditi, si ritirano tra le bolle dei loro interessi privati. La disponibilità a impegnarsi nell’azione collettiva, la consapevolezza da parte dei cittadini di poter dare forma collettivamente alle condizioni sociali delle loro vite attraverso una azione solidaristica sbiadisce sotto quella che viene percepita come la forza degli imperativi sistemici. In questa scena è possibile anche che qualcuno elabori l’idea che la democrazia stia diventando un “modello obsoleto”. Questa conflittualità si è a tal punto radicalizzata da produrre una crisi di sistema. Oggi lo scenario politico è articolato nei due estremi: neoliberismo e neokeynesismo, cioè tra “meno” Stato e “più” Stato. Tra pubblico e privato si muove in modo per così dire scomposto il ritorno di un concetto, quello di bene comune, che ha una origine tribale con un fondamento sacrale, una rifondazione in chiave religiosa con il Cristianesimo e si è presentato più volte nella cultura politica contemporanea associato al concetto per alcuni aspetti parateologico di comunità. Non è certo nostra intenzione prendere una qualche posizione ideologica. Nonostante ciò sarebbe irresponsabile non voler rilevare le dinamiche in corso così come sarebbe miopia non affrontare la crisi provando


è anche possibile una ulteriore rottura, così radicale da interrompere la produzione della forma o dell’iterazione coatta alla “crisi”, ma questo è ovviamente un paradosso. Sarebbe come affermare che ciò che precede la Modernità non era in una sua crisi. E allora come è stato possibile l’avvento dell’alterità del Moderno? O sarebbe come ipotizzare che l’uscita dalla crisi e dalla Modernità possa aprire al migliore dei mondi dove le crisi non esistono e tutti possono vivere felici e contenti. Su questo fronte si è già dato e i risultati sono stati pessimi. Comunque, sapendo che sarà difficile uscire dai paradossi, posso provare ad elencare in modo inevitabilmente schematico per lo spazio a mia disposizione. Avviso il lettore che rimarrà deluso se si aspetta che io affronti il tutto dal punto di vista meramente economico. Ritengo che l’economia abbia per troppo tempo sottovalutato gli aspetti di irrazionalità che presenta il mondo economico tentando così di dare spiegazione razionale a ciò che non può essere spiegato nemmeno con complessi calcoli basati sulla teoria della complessità o su quella della probabilità. La dimostrazione è il fatto che il mondo accademico di derivazione economicistica non ha previsto l’attuale crisi e, ad oggi, non sembra dare ipotesi per uscirne scientificamente condivise. Eccomi, quindi, a cercare snodi, torsioni, contraddizioni, processi… Il primo snodo (o schema) potrebbe essere il passaggio dal modo di produzione industriale a quello digitale. Dò per scontato che ciò sia effettivamente accaduto. È sufficiente considerare il peso che oggi ha il digitale in tutte le sue molteplici configurazioni e chiedersi se il digitale sia la stessa cosa del “meccanico”. Anche in questo caso mi soccorre ciò che chiamiamo storia: di solito quando cambia un modo di produrre, cioè una organizzazione e una serie di tecniche e di saperi per la produzione, accadono sconvolgimenti per il semplice motivo che ciò che si presenta con la potenza della nuova produzione (tecnica e organizzazione) entra in conflitto non con la tecnica e l’organizzazione che lo precede (tanto essa è superata, per così dire, nelle cose e nei

fatti) ma con i rapporti di produzione e più ancora con l’intero assetto istituzionale e politico che reggeva il sistema precedente. Questo conflitto è comunque sempre pericolosissimo e non si sa certo come vada a finire (…questo è ciò che penso, al di là della crisi che produce crisi, delle sorti progressive o del “va tutto male”). Scrivevo, la storia mi soccorre: la rivoluzione francese ha molti, moltissimi motivi di natura economica, sociale, culturale, politica e geopolitica, ma l’elemento cruciale è che è venuto a “compimento” il modo di produzione artigianale e si è imposto il modo di produzione industriale. Si badi bene questo è stato preparato da lunghi processi e quello, l’artigianale, è rimasto in vita in varie forme, compresa quella della nostalgia di quel mondo che paradossalmente (ecco la crisi che produce crisi, il negativo che si fa positivo o viceversa) ha persino alimentato le ideologie rivoluzionarie comuniste. E ancora più paradossalmente, oggi nel digitale, potrebbe essere una possibilità se l’artigianale fosse articolato secondo le logiche smart, cioè senza negare le nuove tecnologie, cioè il modo di produzione digitale. Si pensi alla trasformazione che potrebbe avere il settore dell’artigianato se applicasse la potenza implicita nella stampante digitale. Cosa significa questo passaggio? Significa che il mercato e il sistema di produzione di valori economici e sociali è “retto” principalmente, per esemplificare dalla merce smartphone piuttosto che dalla merce automobile. Non che non si producano o non si debbano produrre più automobili, ma lo sviluppo sta dalla parte delle tecnologie digitali che stanno, tra l’altro, progressivamente modificando il prodotto automobile. La merce automobile dipende ancora dall’hard, la merce smartphone dal soft, la prima ha ancora bisogno di abilità manifatturiere che il più delle volte è legata a tradizioni e a territori, la seconda molto meno. Questa ha invece bisogno di intelligenza tecnologica, di saperi soft, che non hanno bisogno di un determinato background territoriale; la loro localizzazione è e può essere determinata semplicemente dal costo della manodopera e dai costi della distribuzione,


Essendo poi le merci prodotte nella maggior parte dei casi da materiali esito di sintesi chimica, non è più determinante la localizzazione per estrazione e, inoltre, come detto in precedenza, essendo il prodotto digitale fortemente caratterizzato da valori tecnologici (e quindi da ricerca tecnico-scientifica), per loro natura, il legame con il territorio è in qualche modo inessenziale anche se strategico. Detto questo, ritengo che lo snodo sia anche il fatto che si è venuto a modificare nel modo di produzione digitale il conflitto sociale, e quindi anche le trame delle relazioni e delle decisioni che riguardano l’intera società. Nel modo di produzione industriale il conflitto principale era quello tra capitale e lavoro, tra coloro che detengono i mezzi di produzione e coloro che possiedono solo la loro forza lavoro, insomma tra i così detti capitalisti e i così detti operai. Il valore delle merci digitali non dipende se non in minima parte dal costo della materia prima, del capitale fisso e persino dal costo della manodopera. Il problema per il ricavo dei profitti sta soprattutto nel brevetto e il proprietario del brevetto può, poi, per così dire, subappaltare la produzione. Lo schema otto e novecentesco che vedeva il capitalista come proprietario dei mezzi di produzione che faceva usare i propri mezzi ad un soggetto alienato dalla stessa proprietà come l’operaio, non corrisponde alla realtà del modo di produzione digitale o, se vogliamo, ai processi che permettono l’accumulazione dei profitti tipico del modo di produzione digitale. Non solo: non ha più senso alcuno, nel mondo globalizzato digitale, l’idea che a sostituirsi al capitalista in nome di una ridistribuzione non più privatizzata dei profitti possa essere lo Stato come proprietario collettivo. Sappiamo ovviamente del dibattito tutto interno al modo di produzione industriale tra stato e mercato, così come sappiamo della continua ricerca della terza via. Nel modo di produzione artigianale la merce era il risultato di un singolo soggetto che ne deteneva proprietà e ne produceva l’identità, si poteva in questo contesto parlare di beni comuni; nel modo di produzione industriale la merce è il risultato di un processo che separa appunto la proprietà dal prodotto.

10—11

così come la loro qualità non dipende da tradizioni e da culture locali. Questo spiazza l’intero sistema di produzione di valori economici o di identificazione dell’oggetto merce. In sintesi se questo è uno “snodo” significativo della crisi di sistema globale riguarda inevitabilmente sia i paesi a capitalismo avanzato, sia i paesi in via di sviluppo che quelli marginali e sottosviluppati. Il dato che emerge da questo “snodo” è l’impossibilità strutturale di controllare i processi di formazione dei valori economici inducendo di fatto a poteri monopolistici extraterritoriali e in questo globali. La globalizzazione è, da questo punto di vista, effetto e causa. Lo sfasamento tra le forme e le soggettività della politica nate da una “ragione” industriale, omogenee al modo di produzione industriale, rispetto al fatto che non emergono logiche politiche adeguate non solo alla globalizzazione (come la stessa impossibilità di pensare oggi a forme di governo globali), ma anche allo stesso modo di produzione digitale può, se non risolto politicamente, portare allo stesso collasso del sistema. È allora urgente interrogarsi su quali sono le forme politiche più idonee al modo di produzione digitale, provando a sperimentarle. Da questo punto di vista vanno promosse e comprese le tendenze smart in atto sia rispetto alle logiche urbane che a quelle territoriali, amministrative e gestionali e in genere anche politiche. È nello smart che possono annidarsi nuove modalità della rappresentanza e della capacità di decidere della politica e questo non solo in paesi tecnologicamente avanzati. Si pensi all’uso fatto da Obama e poi da Grillo della rete e del potenziale democratico, ma anche dei notevoli pericoli, che la rete offre. Tutto questo configura le ragioni del secondo snodo da cogliere per cercare di interpretare la crisi nella sua forma globale: è cambiato lo scenario del rapporto tra lavoro e produzione e, quindi, il conflitto tra capitale e lavoro. È evidente che uno dei problemi cruciali è il costo del lavoro, e che la comparsa nello scenario globale di nazioni che riescono a produrre merci con un basso costo della manodopera vince sul fronte della competitività.


Il capitalista, l’imprenditore, o come si vuol chiamare, è anche l’ideatore oltre che il controllore del processo di produzione. La struttura sociale si basa quindi sulla proprietà privata o sul bene pubblico. Da una parte avremo la comunità, dall’altra la società. Il modo di produzione industriale si fonda su una produzione di leggi che ha alla base una distinzione netta tra sfera privata e sfera pubblica. Inoltre l’etica che verrà prodotta sarà sostanzialmente un’etica della competitività. Il modo di produzione industriale ricava i propri profitti o la propria ricchezza non certo privatizzando i mezzi di produzione. Per alcuni aspetti usa, come motore dell’economia, intelligenza e creatività collettiva. La domanda diventa allora - visto che la tesi è che siamo già nel modo di produzione digitale - come pensare in altro modo la relazione tra privato e pubblico, come pensare in altro modo la stessa proprietà e, quindi, come pensare in altro modo la legittimazione delle leggi e quindi la stessa politica? Oltre al bene comune e al bene pubblico, oltre alla comunità e alla società c’è un altro modo per stare assieme? Può sembrare paradossale, ma il modo di produzione digitale sembra andare verso una condizione nella quale nulla è più di nessuno e, proprio per questo, avviene la separazione tra il capitale produttivo e quello così detto improduttivo, che proprio partendo da questo suo essere svincolato dalla produzione, perché finanziario, produce e governa tutte le dinamiche, comprese quelle industriali, che determinano il profitto complessivo. Di certo va ripensato il processo di accumulazione (il capitale) e quello di ridistribuzione della ricchezza sulla base però di un diverso conflitto tra capitale e lavoro o, meglio, di un modo “altro” in cui il lavoro si configura e produce ricchezza nel modo di produzione digitale, fermo restando che rimarranno comunque sacche di conflittualità nella forma industriale. Sacche che avranno però un orizzonte politico modificato e non più fondato sulla differenza tra chi possiede i mezzi di produzione e chi possiede solo la propria forza lavoro. E proprio sulla questione della

deindustrializzazione e della finanziarizzazione si articola il terzo snodo. Per la deindustrializzazione credo vada chiarita con forza una questione: il modo di produzione digitale non produce di per sé deindustrializzazione, continua a produrre merci e quindi a seguire processi industriali. Non è che lo smartphone non sia un prodotto industriale, semplicemente non viene più prodotto seguendo una logica per cui c’è una razionalità nella produzione del suo valore finale sul mercato. Per molti aspetti dal punto di vista della razionalizzazione delle procedure le “fabbriche” digitali hanno portato la stessa logica industriale verso una efficienza pressoché assoluta. È di grande interesse quello che accade nell’organizzazione delle aziende che operavano nel sistema del mercato globale (che non è ancora la globalizzazione) dagli anni Settanta in poi. Seguo alcune considerazioni di Riccardo Prandini nella sua Introduzione a Esperimenti di nuova democrazia. Tra globalizzazione e localizzazione di Charles F. Sabel. Sino a quella data la “produzione di massa era realizzata da aziende fortemente centralizzate, gerarchiche e integrate verticalmente. I cardini della produzione erano l’efficienza concepita come divisione del lavoro, la progettazione del prodotto attribuita dai vertici del management, la realizzazione delegata a sub unità specializzate che dovevano implementare il progetto, una governance del processo produttivo fortemente integrata in termini verticistici per abbattere i rischi di opportunismo delle sub unità e dei terzisti, un tipo di cognizione intesa come limitata e quindi da sostenere mediante abitudini acquisite (habits) e una suddivisione dei compiti in liste di micro compiti. Lo Stato amministrativo e quindi anche la politica esprimeva logiche e valori isomorfici a quelli del mercato”. Questo modello con l’inizio della globalizzazione entrò in profonda crisi. In Giappone le nuove aziende si organizzarono (seguite poi da molte multinazionali) “in reti cooperative e non gerarchiche, aperte e non integrate verticalmente, centrate sulla logica della ricerca invece che sugli habits. Per capire


Rivoluzione francese, o dalla rivoluzione industriale, sino alla fine del secolo scorso era appunto la relazione tra economia e politica, e il problema era se comandava l’una o l’altra. Il tutto si riassumeva poi dialetticamente con la loro sintesi: cioè il dato era che l’una non può fare a meno dell’altra e che il predominio dell’uno sull’altra era congiunturale o rispettava due posizioni politiche contrapposte ma ambedue funzionali al modo di produzione industriale, quella liberista e quella statalista. Quello che però si è configurato, in sostanza, dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, è stata una separazione tra l’economia e la politica come se fossero universi separati, come se la politica potesse (ed è quasi un paradosso) prendere decisioni senza valutare gli indotti nell’economia, o come se l’economia potesse non avere alcun interesse sui suoi esiti sociali. Mi rendo perfettamente conto che questa affermazione avrebbe bisogno di una indagine storica e teorica non così generica o schematica; in questo mio tentativo di cogliere gli snodi della crisi mi sia concesso presentarla come una ipotesi per future ricerche. Rimane però la sensazione che il cosiddetto capitale finanziario si sia liberato dei lacci e lacciuoli che poneva il legame con gli stati nazione, e quindi anche con la politica che rimane ancorata, per ora inevitabilmente, a questi ultimi. La questione della finanziarizzazione non è dovuta solo alla avidità e alla perfidia delle banche e dei banchieri (il marcio c’è dovunque), o al fatto che i banchieri non investano più nella logica della produzione reale ma in quella virtuale dei mercati finanziari, ma proprio a questo scollamento e alle dinamiche che esso produce. Cambiando il modo di produzione cambiano radicalmente anche le logiche capitalistiche che ritengo vadano combattute conoscendole e governandole e non certo in nome di un ritorno al primato del modo di produzione industriale. Il quarto snodo è la conseguenza diretta del terzo, cioè dello scollamento tra modo di produzione e rapporti di produzione, scollamento che conduce alla crisi delle categorie che reggono comunque le forme della politica nel mondo contemporaneo, la rappresentanza e la delega, e quindi

12—13

cosa e come produrre, le aziende cominciarono ad analizzare quali prodotti e quali metodologie di lavoro utilizzavano altre aziende vincenti. L’azienda così prova a fissare una idea di base del prodotto lasciando piena libertà alle sottounità di riflettere e di modificare il progetto. Si viene così a negare la logica della routine in quanto ogni parte di una organizzazione viene costretta a riflettere sulle conseguenze del suo operare e su quello delle altre. Il prodotto viene testato mentre è in lavorazione e la catena di montaggio viene interrotta al primo guasto, al primo errore e alla prima deviazione. Comincia poi una fase di inchieste volta a scoprire dove sia l’errore e quali siano le sue cause. Nel contempo viene approntato un complesso sistema di valutazione, comparazione, revisione delle utilità del bene e tutto ciò genera ed è generato dalla collaborazione, lavoro di gruppo, scoperta di possibilità nascoste, crescita professionale: nasce un nuovo livello di condivisione di saperi e pratiche, capace di modificare anche il criterio di efficienza, non più definito dalla divisione del lavoro, quanto dalla capacità di collaborare in modo fiducioso. Anche il problema dell’opportunismo è superato mediante una utilità che deriva dalla collaborazione”. Si è prodotto il necessario isomorfismo tra trasformazione del sistema produttivo e organizzazione sociale e quindi politica? Evidentemente no! Persino l’organizzazione burocratica resiste al cambiamento tecnoorganizzativo anche se in modo diverso tra i vari paesi più sviluppati. Questo scollamento è dovuto inevitabilmente ai tempi diversi di metabolizzazione della rivoluzione digitale tra apparati produttivi e sistemi sociali. Va ancora considerato il fatto che la democratizzazione, o meglio, le logiche feedback e di responsabilizzazione di tutti i soggetti che operano nel processo produttivo, non porta direttamente ad una economia socializzata o, per così dire, civile. Lo scollamento tra modo di produzione e organizzazione sociale, per altro, ci aiuta a capire meglio uno dei momenti più problematici dello snodo che sto cercando di comprendere, quello tra economia e politica. Una delle questioni cruciali del pensiero della Contemporaneità dalla


alla crisi della democrazia nello stesso momento nel quale, come ricaduta della crisi degli stati nazione dovuta proprio alla globalizzazione finanziaria, entra in crisi anche il welfare state nato proprio nel quadro del modo di produzione industriale, per dare una risposta sociale al conflitto capitale-lavoro. Inevitabile che la politica tenda così ad appoggiare poteri autocratici. Nella crisi la società si configura come destandardizzata o, seguendo un adagio di Zygmunt Bauman, come fluida. A fronte di questa fluidità si può resistere invocando inalienabili diritti rappresentati dalla democrazia rappresentativa e/o dal welfare state, oppure elaborare strategie alternative che mettano in gioco un diverso rapporto tra strumentalità tecnico-scientifica e potere, e quindi tra la rivoluzione digitale e la stessa politica, e ancora, seguendo ciò che è emerso nell’interrogarci sul terzo snodo, tra economia e politica. Si tratta di trasformare le resistenze e le contraddizioni in opportunità rendendo isotropi modo di produzione e società; nel nostro caso attivando tutte le potenzialità del digitale per democratizzare tutti i processi non solo economici, ma anche politici. Nelle crisi sociali il primo dato che emerge è la disaffezione dei cittadini nei confronti dell’amministrazione pubblica che gestisce i beni pubblici come l’educazione, la sanità, i servizi sociali, le infrastrutture, ecc. La risposta non può essere solo quella di rendere il sistema più efficiente, ma quello di cambiare la logica stessa della efficienza non più definita dalla divisione del lavoro, ma dalla capacità, come scriverebbe Charles F. Sabel, di collaborare in modo fiducioso. Si tratta cioè di applicare dispositivi di governance finalizzati a ri-democratizzare i processi e le strutture della società. Diventa importante in questa riprogettazione dei dispositivi tener presente sia il locale che il globale, la parte e il tutto del sistema in gioco, in modo che al locale spetti sia l’elaborazione delle domande di servizi o funzioni, e la valutazione delle efficienze e delle opportunità e quindi debba sempre rendicontare al globale mentre al globale, oltre alla decisione ultima e prima, spetta rendere trasparenti e a loro volta rendicontabili le scelte. Riprendiamo

il testo citato di Riccardo Prandini: “Alle amministrazioni pubbliche è attribuito il compito di fornire, agli attori prescelti, tutte le risorse necessarie per la realizzazione delle riforme e di proteggere i cittadini da possibili abusi di potere. Ai diversi attori pubblici, privati e di terzo settore – o a partnership tra di essi- è attribuita la piena libertà di raggiungere gli obiettivi come meglio rendono. Si noti (…) che in questo modello gli erogatori di servizi, non sono soltanto degli esecutori di piano, bensì rappresentano il trait d’union tra chi programma e chi riceve il servizio. Loro compito è quello di far dialogare amministrazioni e cittadini, dando informazioni e supporto agli uni e agli altri per migliorare il servizio stesso. Hanno anche il compito di educare i cittadini a valutare meglio i servizi e a far sentire la loro voce nei confronti delle amministrazioni. Questa libertà di azione attribuita alle unità locali è compensata dal dovere di rendere pubblici i modi, le ragioni di agire e le modalità di valutare i risultati (raggiunti o meno). La rendicontabilità è periodica e obbligatoria e viene realizzata davanti a un gruppo di pari che può intervenire, criticare e suggerire nuove soluzioni”. È fondamentale, da questo punto di vista, affrontare la crisi principalmente con strumenti di revisione dei processi, sia partecipativi che decisionali, usando le tecnologie digitali a tal fine. Si badi bene, non si tratta di entusiasmo tecnologico o di fuga nell’utopia, si tratta di corrispondere al nostro tempo, meglio alla rivoluzione del nostro tempo: il digitale. Chi si attarda non fa solo un errore in termini di opportunità (tecnologica) ma fa un fondamentale errore politico: non governa i processi. Gli esperimenti di nuova democrazia di cui ci parla Sabel, ai quali mi sono schematicamente riferito, possono essere sintetizzati da una parola che sta sia nel Trattato Ue di Lisbona, che nella Costituzione italiana nell’articolo 118 del Titolo V: sussidiarietà. Il principio di sussidiarietà, che impone che un ente che sta più in basso e che ha il compito di fare determinate azioni e lo fa al meglio, deve essere lasciato libero nella sua


secondo infinite relazioni; e ancora la rete stessa non è una sorta di nonsfera sempre presente, che contiene di tutto e di più? E allora cosa accade della politica, meglio, cosa accede del soggetto politico? Tiene a presentarsi come ciò, o colui, che nella sua “singolarità”, “differenza” rende tutti equivalenti, meglio, omologati nella loro stessa differenza. È il gioco dell’equivalenza generale che Marx esprimeva così: qualcosa che tolta dal mercato (cioè di ciò che sta nel quotidiano) determina il valore di tutto ciò che viene scambiato nel mercato. È così che il soggetto politico è ciò o colui sul quale avviene un’identificazione non motivata direttamente e lucidamente da specifici interessi ma su dimensioni irrazionali, pulsionali persino inconsce, di un inconscio che tiene assieme il singolo e la massa, l’uno e i tutti. Diciamolo chiaramente: l’esito per la politica, se mettiamo assieme gli snodi che ho cercato di individuare, sembra essere quasi inevitabilmente il populismo. Ma la tesi di fondo è che la crisi stia nello sfaldamento del modo di produzione industriale a fronte del dominio di un altro modo di produzione, quello digitale, e che a questo sfaldamento non sia seguito un “allineamento” tra modo di produzione digitale e organizzazione socio economica. Quindi le logiche del digitale non sono ancora “compiute”, anche perché la resistenza del modo di produzione industriale è hard e, per molti aspetti, molto potente e persino incarnata nei soggetti sia pubblici che privati. L’allineamento non garantisce di certo il migliore dei mondi possibili, ma toglierebbe le sacche di esistenza e le varie forme di patetica nostalgia del mondo trascorso. Comunque si tratta di pensare politicamente il digitale, e cioè la possibilità che la politica nasca (rinasca) dai processi di relazione tra molti soggetti formali e informali, singoli e collettivi, sfuggendo alle argomentazioni o alle logiche sia partecipative che elitarie, accettando quindi le stratificazioni gerarchiche grazie a continue procedure di feedback e di rendicontabilità su processi sempre aperti. Questo é smart, astuto. Per battere la crisi forse più che la forza ci vuole l’astuzia. Riassumiamo: la crisi va interpretata

14—15

attività, sostenendone l’azione. Il quinto snodo è ancora di natura politica. Il soggetto politico si è presentato, nella cultura moderna come in quella contemporanea, come il portatore di interessi di parte in un contesto di principi (e quindi di leggi) concordato rispetto alla esistenza di una sorta di principio generale che il diritto di uno specifico interesse non può ledere quello di altri interessi. La democrazia si è presentata come metodo per riflettere insieme sulla relazione mezzi-fini. Il soggetto politico è allora sostanzialmente rappresentante e custode della delega che gli viene dai portatori di interessi specifici, in una continua valutazione del rapporto mezzi-fini, all’interno di un contenitore che è lo Stato. Cosa succede in una società fluida? Come si articola la rappresentanza? Detto in altri termini, il soggetto politico è, per così dire, “un sostituto”. Legittima questo suo ruolo con vere e proprie strutture di racconto o retoriche progettando condizioni di possibilità, scenari, linee guida, mondi futuri. Da questo punto di vista la sua funzione è stata cruciale anche perché ha per molti aspetti mediato il conflitto sociale, impedendo il collasso del sistema. Ora nella società fluida che vive degli snodi sopra segnalati, gli interessi non si accorpano, ma si differenziano, sono mutevolissimi e cangianti e tendono a corrispondere a quelli dei singoli soggetti. Nel mentre, le dinamiche dell’economia, come ipotizzato nelle pagine precedenti, si fanno autonome (anche rispetto all’economia) e nel contempo planetarie. Il ruolo della politica perde così i connotati che aveva nella Modernità e nella Contemporaneità, non avendo più una funzione “sostituta” né potendo più prefigurare un futuro possibile o ideologico, non perché non più credibile, ma per il semplice motivo che nel digitale passato, presente e futuro sono come coniugati e omologati in un eterno presente. Qualcuno ricorderà le affermazioni di Fukuyama sulla morte della storia? Oppure si pensi a come funziona la memoria di un pc: tutti i dati sono immediatamente a disposizione e possono essere “disposti”


capendo il passaggio epocale da modo di produzione industriale a modo di produzione digitale (I snodo), che determina una diversa configurazione del conflitto capitale lavoro (II snodo), e processi globali di deindustrializzazione e di finanziarizzazione (III snodo), e un profondo scollamento tra modo di produzione e rapporti di produzione, tra produzione e istituzioni e quindi anche con la politica (IV snodo). Il tradizionale soggetto politico non ha più capacità di imporsi ed è quindi necessario ripensare la stessa soggettivazione del politico (V snodo). Tutto questo ha determinato uno scenario geopolitico che indichiamo con il termine globalizzazione. Il digitale è stato nella sua prima fase strumento di imperialismo globalizzante da parte degli Usa, ma essendo il digitale una tecnologia onnivora, invasiva, e diffusiva è diventata parte dei processi di sviluppo di paesi “altri” come la Cina e di seguito come l’India e il Brasile. Questa mondializzazione dei poteri ha coinvolto anche l’Europa che si è ritrovata costretta ad elaborare una strategia difficile e pericolosa, ma inevitabile, rivolta alla unificazione. Ritengo sia essenziale procedere in tempi brevi alla costituzionalizzazione dell’Europa, non solo per equilibrare i sistemi di potere economico e politico globale, ma anche perché questa unificazione può essere una vera e propria occasione per sperimentare nuove forme di democrazia, proprio perché l’Ue manca di unità omogenea e definita da un mito storico comune. Nell’unificazione europea, proprio in nome delle differenze che la compongono, si può intravvedere persino una sperimentazione per una democrazia globale. Attualmente le contraddizioni interne sono determinate dalla tensione tra i molti soggetti istituzionali, come la Commissione, il Parlamento, il Consiglio dei Ministri, la Corte europea di giustizia, e tutte le decisioni prese dai singoli organismi degli stati nazione. In questo contesto, si tratta di uscire dalle logiche liberali e mercantili e nel contempo da quelle stataliste e socialdemocratiche, verso un processo costituente europeo come esperienza a più voci per una nuova

governance poliarchica e deliberativa. L’urgenza di una soluzione politica europea, anche e soprattutto rispetto alla globale crisi di legittimità, sta proprio in questa possibile sperimentazione di un demos globale, un demos che “possiederebbe un numero sufficiente delle caratteristiche di un popolo – suddito e sovrano insieme di un mondo sottoposto a regole globali - da rendere sensato un discorso di una democrazia globale priva di Stato globale”. La questione della crisi è così di nuovo politica, di (o per) una politica capace di misurarsi nel contempo con il locale e il globale, e di affidarsi a governance capaci di mettere in costante relazioni i vari livelli decisionali. Ripeto, a conclusione di questa mia riflessione, che la crisi di sistema è comunque globale, al di là del fatto che alcuni paesi abbiano saputo sfruttarla economicamente o meno. E per l’Italia cosa può aver significato il quadro tracciato? Prima di tutto ha significato diventare progressivamente strategicamente marginale rispetto alla geopolitica americana, e contemporaneamente diventare poco influente, per non dire un problema per alcuni suoi “incomprensibili” caratteri, per le élite che governano in questa difficile fase l’unificazione europea. Dopo di che possiamo fare alcune considerazioni rispetto allo schema proposto: la recezione del potenziale digitale è dal punto di vista politico e sistemico, ancora da venire. L’esempio è lo stallo della Agenzia Digitale. Ma non è solo un problema di incompetenza tecnologica o manageriale (che comunque c’è), è un problema culturale o di legami nel tessuto socio economico che sono per così dire “saltati” dopo gli anni Settanta. Fino a quel momento l’Italia aveva tenuto per lo “strano” patto tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista, che in fondo risaliva alla tradizione dell’accettazione nel paese dell’economia di mercato sociale di tradizione cattolica e dalla spinte ricevute dagli aiuti americani del dopoguerra oltre che ad una certa genialità sia imprenditoriale che manifatturiera. Cosa è saltato? Il legame tra politica e amministrazione pubblica. Di fatto la politica ha lasciato la governance


innovativi; intervenire nei processi che permettono l’accumulazione dei saperi e della creatività collettiva (di certo sulla scolarità generale, ma non solo); dare nuovo spazio ai soggetti intermedi; ripensare la funzione lavoro nella società del digitale (che non significa solo mobilità); intervenire nel welfare non solo per “difendere” i cittadini, ma per accompagnare complessivamente i processi sociali (un welfare non “terminale”, ma dinamico, responsabile e inclusivo) e, non ultimo, elaborare una chiara strategia per la costituzionalizzazione dell’Europa. Cruciale per far sì che la nostra reazione alla crisi sia parte dei processi dove la crisi veramente si annida: nella globalizzazione, che come mi sembra a questo punto chiaro non interpreto come un pericolo (anche se lo è), ma come una opportunità di questo nostro tempo.

16—17

agli “uffici” e si è interessata solo della propria visibilità. Quello che è avvenuto di seguito e l’emergere di una sostanziale incapacità gestionale della classe politica. La burocrazia -che è oggi uno dei freni per uscire dalla crisi- ha aumentato il proprio potere non solo di veto, ma anche di progetto o di programmazione con un pauroso e pericoloso scollamento rispetto alla politica. Questo non ha fatto altro che alimentare un sistema collusivo, meglio, ha persino fatto diventare la solidarietà, che apparteneva alla cultura cattolica del paese, collusione. Il conflitto capitale e lavoro, in Italia sarebbe più giusto scrivere tra una non-borghesia avventurista e di rapina e un sindacato totalmente incapace di interrogarsi sui cambiamenti del modo di produzione e quindi sulle necessarie trasformazioni della “funzione” lavoro, permane in forma retrò e fondamentalmente in stallo. La deindustrializzazione è avvenuta senza nessuna capacità di capirne le ragioni, di accompagnarla governando o collocandosi nei processi globali o di trovarne gli antidoti. La finanziarizzazione in Italia è stata vissuta nella forma delinquenziale della fuga dei capitali, mentre dal punto di vista ideologico invece di capirne le dinamiche si è semplicemente demonizzata. Bisogna sempre trovare il colpevole da un’altra parte. Nel mentre è venuta a scomporsi la soggettività del politico, in particolare con lo scollamento tra la società e la sua rappresentatività. È inutile dire che il porcellum non è stato solo un errore di percorso. Le mosse da fare nello stallo prima che la crisi porti al collasso il nostro sistema paese? Ripensare la democrazia del sistema; ritrovare il modo di selezionare la classe politica nel quadro di una ritrovata etica pubblica; evitare di considerare il cittadino un suddito; ricomporre il rapporto tra politica e amministrazione; intervenire nel sistema collusivo (ammesso che sia ancora possibile visto che la corruzione è di sistema); ripensare le proprie capacità manifatturiere, industriali, tecnologiche e scientifiche in chiave smart, cioè coniugando antichi saperi, mestieri e professioni con le nuova tecnologie accompagnando i processi


Una crisi, un cambiamento epocale di Maurizio Rasera

Se prendiamo come indicatore sintetico della crisi il livello occupazionale, e sarebbe sempre bene farlo visto che da esso dipende essenzialmente il benessere di un Paese, il momento del declino coincide con il mese di luglio del 2008 e continua fino ad oggi, fatta salva una illusoria interruzione dell’emorragia di posti di lavoro registratasi tra il secondo semestre del 2010 ed il primo del 2011. Anche il 2013 si è dimostrato essere un anno di grosse difficoltà, forse il peggiore dopo il 2009, a seguito del perdurare della contrazione della domanda interna ed anche del giungere a conclusione – purtroppo negativa – di molte crisi aziendali che erano state “arginate” con ripetuti interventi degli ammortizzatori sociali. Sono quindi 5 anni pieni di contrazione che hanno visto accordarsi nella tendenza negativa tutti gli altri indicatori economici (produzione industriale, consumi, meno le esportazioni – selettivamente – che sono state l’unico efficace baluardo per fronteggiare un declino ancora più intenso). È una crisi sistemica, non certo congiunturale (anzi, forse epocale) che ha colpito tutti i Paesi del mondo occidentale e, per la prima volta, anche quelli in rapida crescita (in sintesi, non esaustiva, i BRIC), mostrando chiaramente come i loro mercati interni non siano ancora in grado di fungere da spazio di allocazione di tutta la produzione che gli stessi sono in grado di mettere in campo. La “nostra” contrazione di consumi sta penalizzando le nuove “fabbriche” mondiali. La crisi finanziaria (nata negli Usa, non qui) può sicuramente essere vista come l’ultimo stadio di una serie di avvenimenti, di cambiamenti epocali, cui il sistema mondo non è riuscito ad adeguarsi:

ridefinizione dell’ordine geo-politico mondiale con la comparsa di tanti nuovi attori e la conseguente crisi politica a livello globale dopo il crollo dell’Urss e dell’equilibrio del terrore garantito dai due blocchi; la nascita della moneta europea non accompagnata da un corrispettivo “governo europeo”; il rapido svilupparsi di un enorme potenziale produttivo nell’est del mondo in un contesto sociale ancora di sostanziale arretratezza; il web come nuovo driver globale, a sancire l’affermarsi del tempo della “contemporaneità” e della “velocità”. E, di sicuro, se ne potrebbero elencare altri tra cui la consapevolezza diffusa della limitatezza delle risorse a disposizione, come pure il tramontare di una certa idea di capitalismo finanziario che poggiava la propria credibilità su assunti teorici che ipotizzavano la possibilità di una crescita continua come realtà fattuale. Ancora oggi il dibattito è aperto se a generare lo shock sia stato l’eccesso di finanziarizzazione globale o non piuttosto l’eccesso di produzione mondiale. Sta di fatto che le conseguenze sono state pesanti su tutti i versanti, con un riaffermarsi del ruolo degli Stati e dei Governi rispetto a quello del Mercato che da solo è sembrato dirigersi verso un baratro senza fondo. Se l’estensione della crisi è stata globale, la sua gravità e durata non è stata però identica in tutti i Paesi, in ragione delle preesistenti diverse condizioni locali. Se l’economia mondiale nel suo complesso nel corso del 2012 e del 2013 ha intrapreso un percorso di recupero ben illustrato dai rallies dei mercati finanziari ed anche dalle tendenze dei principali indicatori congiunturali che descrivono l’economia reale, serve ribadire che le situazioni sono


da quella della Germania. […] Si tratta di un segnale del fatto che la selezione della base produttiva degli ultimi anni ha già modificato la struttura delle imprese nei paesi della periferia; le difficoltà congiunturali e i problemi finanziari tendono a porre in secondo piano il processo di rafforzamento della posizione competitiva che probabilmente è in corso da qualche tempo e sta iniziando a produrre i primi risultati”1. Gli effetti sugli assetti occupazionali della prolungata congiuntura sfavorevole sono stati assai severi: tra il 2008 e il 2012 nell’Europa a 27 sono stati persi oltre 5 milioni di posti di lavoro. È stata una contrazione che si è caratterizzata soprattutto in funzione dell’età e del genere dei lavoratori, con una decisa penalizzazione della componente maschile (che incarna l’84% delle perdite) e di quella giovanile (il 95%). La prima trova ragione nella caratterizzazione manifatturiera ed edilizia della crisi, la seconda nel progressivo irrigidimento del mercato del lavoro che ha rallentato i processi di turnover come pure le nuove entrate, via via riducendo anche le occasioni di occupazione temporanea. Gli unici Paesi che hanno visto crescere l’occupazione in questi anni sono stati la Germania e la Gran Bretagna. Le più pesanti cadute in termini percentuali si sono registrate in Grecia (-19% nel quinquennio), in Spagna (-14,6%) e in Portogallo (-12,5%), con una tendenza che non si è arrestata nel corso dell’ultimo anno ed ha coinvolto tutte le componenti della forza lavoro. Rispetto a questi paesi la caduta occupazionale registrata in Italia è stata relativamente modesta nel complesso (-2,5%, poco più di 500 mila lavoratori); qui, come in Francia, a pagare maggiormente le conseguenze delle difficoltà economiche sono stati i giovani, ai quali è attribuibile una caduta superiore al totale2. L’Italia ha pagato e sta pagando un prezzo molto alto per ragioni che certo non possono essere fatte risalire solo alle cause finanziario-economiche degli ultimi 5–10 anni: a. un Paese di modesta dimensione in termini di estensione territoriale

18—19

molto differenziate a guardarle per aree geografiche. Intanto si deve riconoscere che è una ripresa sostenuta dalle politiche monetarie chiaramente espansive che a partire dalla metà del 2012 hanno caratterizzato le scelte delle banche centrali americana, giapponese e, da ultimo, anche dalla Bce. La grande liquidità in circolo non poteva che riversarsi anche nei mercati finanziari dove, a fronte di un ritorno a rendimenti modesti dei titoli di stato e all’allontanarsi della prospettiva di default in serie, sembra essere tornata la propensione al rischio. A dare respiro all’economia reale ha indubbiamente concorso la ripresa del ciclo da parte dei paesi emergenti, soprattutto asiatici, che hanno sostenuto con il forte incremento delle importazioni il commercio mondiale. È un’evoluzione positiva che, appunto, non si dispiega in maniera omogenea individuando le aree di maggiore reattività al di fuori del contesto europeo, ambito nel quale massime sono ancora le divergenze tra paesi centrali e periferici tra i quali è compresa l’Italia. Se è vero che per il nostro Paese i progressi registrati nella fase di consolidamento dei conti pubblici e il complessivo rasserenamento dello scenario finanziario hanno consentito la riduzione dello spread, con indubbi vantaggi per il bilancio statale, è altrettanto vero che la perdurante fase di instabilità politica, la mancata inversione di tendenza del ciclo economico e la dimensione complessiva del debito ci rendono indubbiamente uno dei fattori di maggiore incertezza nello scenario europeo. Il quale ha visto basarsi il proprio parziale recupero prevalentemente sul ciclo delle esportazioni, che nei paesi periferici si è accompagnato a una forte caduta delle importazioni, generando di conseguenza un importante attivo commerciale con l’estero particolarmente rilevante nel caso italiano. Dopo la pesante caduta delle esportazioni registrata a livello globale nel corso del 2009, l’ultimo triennio ha visto una diffusa ripresa dei volumi “[…] Oramai da diversi mesi i paesi della periferia europea stanno mostrando una performance delle rispettive esportazioni non molto distante


e di popolazione, da sempre polarizzato, con squilibri disastrosi al suo interno; b. una diffusa percezione dello Stato come “agente nemico” nello stabilire le regole come nell’esigere tributi, affiancata da una illegalità diffusa, che localmente sembra giungere fino all’abdicazione da parte dello Stato al compito primario di governo dell’ordine pubblico e di affermazione della legalità; c. un apparato burocratico costoso e pletorico in alcune sue articolazioni, ma ugualmente inadeguato ad accompagnare l’evoluzione economica del sistema paese; d. una classe politica che da tempo non è più né l’élite né l’avanguardia, ma rappresenta fedelmente la mediocritas (senza aurea) con tutti i suoi limiti e vizi, portati all’esasperazione quando si accompagnano a potere e privilegi; e. un dimensionamento dell’apparato produttivo che, in molti posizionamenti settoriali, risulta manchevole per poter competere nel mercato mondiale; f. un accumulo di debito pubblico, con la conseguente scarsa possibilità di investimento, e una incapacità a crescere a ritmi adeguati che ci limitano pure nel mettere in atto riforme strutturali necessarie; g. un sistema regolativo incomprensibile ai più, di estensione difficilmente misurabile, che rende farraginosi i rapporti sociali non meno di quelli commerciali e porta al blocco del sistema giudiziario chiamato a renderlo cogente. Sono alcune delle evenienze, insieme a molte altre, ben presenti nel dibattito pubblico, di cui c’è coscienza diffusa, ma che in decenni di discussioni non hanno trovato soluzione, restituendo l’immagine di un sistema inerte, di un Paese fermo, se non declinante. La crisi tende a persistere anche per queste ragioni, di incapacità amministrativa, del più comune ordine materiale, ma anche per mancanza prospettica, di chiamata in funzione di un progetto, di un obiettivo. La fine delle ideologie (bene, male chi è in grado di dirlo?) ha ristretto l’orizzonte di riferimento dei cittadini, sempre più spesso ripiegati sul proprio privato ed incapaci di individuare e condividere

un “bene comune” per cui abbia senso sacrificarsi e mettersi in gioco. La ricerca del consenso ad ogni costo, plebiscitario, riduce la capacità di decisione, quella di fare scelte, fa crescere a dismisura il potere di ricatto esercitabile anche dal più ristretto gruppo di interesse impedendo di intaccare le rendite di posizione e le zone franche di privilegio. Anche se l’Italia è molto diversa tra territorio e territorio, le difficoltà economiche hanno coinvolto tutti, con molta severità anche, se non soprattutto, quelle aree dove maggiore era la presenza dei settori produttivi manifatturieri e che rappresentavano le punte della competizione internazionale. Il Veneto è proprio tra questi ultimi e la provincia di Treviso, al suo interno, ne è stata l’emblema. Certo, sia rispetto alle performance economiche, sia riguardo al contesto sociale nel suo complesso, continuano a distinguersi in positivo nel contesto nazionale, ma l’indebolimento subito è stato rilevante e la capacità di competere con le altre realtà avanzate a livello europeo risulta indebolita. La flessione del prodotto interno lordo regionale nei primi due anni della crisi era stata pari all’8,4%, più acuta nel corso del secondo anno (-5,5%) e non certo compensata dal parziale recupero registrato nei due anni successivi (+1,7 e +1%). Il 2012 ha chiuso con un ulteriore decremento di quasi due punti percentuali, solo di poco inferiore a quello registrato a livello nazionale, il 2013, secondo le ultime previsioni, vedrà un ulteriore arretramento dell’1,8% (stime Prometeia). Dato questo contesto, è velleitario attendersi segnali positivi dal mercato del lavoro. I dati Istat segnalano una forte caduta degli occupati con un’accelerazione nella discesa del tasso di occupazione ora inferiore al 63% (oltre tre punti in meno rispetto ai valori pre-crisi) e con un tasso di disoccupazione tendenziale ancora leggermente cresciuto (6,5% nel terzo trimestre 2013 contro 6,2% nel terzo trimestre 2012) cosicché il suo valore su base annuale (media degli ultimi 4 trimestri) si conferma al di sopra del 7%. I dati del Silv (Sistema informativo lavoro veneto) ricavati dalle comunicazioni


che i settori hanno in provincia. Migliore sorte tocca ai servizi nel loro complesso e al settore agricolo che si mantengono sui livelli del 2008 o li incrementano leggermente4. Anche il bilancio delle imprese attive in provincia non è dei migliori: le oltre 82 mila presenti nel terzo trimestre del 2013 sono ben 3 mila in meno di quelle del 2008, e tra queste le 24 mila artigiane si riducono di 2 mila unità (nell’ultimo anno le flessioni sono state rispettivamente di 1,7 mila e 800 unità). Il manifatturiero nel suo insieme ha perso ben oltre mille imprese (quasi 400 nella carpenteria metallica, altre 180 nel resto della meccanica, quasi 300 nel legno arredo, 200 nella moda). Il settore edile da solo ha perso più di mille imprese nel periodo considerato. Dall’indagine congiunturale dell’industria manifatturiera trevigiana5 – effettuata nel terzo trimestre 2013 – si delinea un quadro in lieve miglioramento rispetto al terzo trimestre 2012 sia per l’indicatore della produzione industriale che del fatturato totale mentre segnali più incoraggianti pervengono dal fatturato estero grazie alla buona performance degli ordinativi dal mercato estero. Con riferimento alle previsioni il clima di fondo resta di attendismo. Ma non possono non essere evidenziati alcuni indizi significativi: rispetto ai trimestri precedenti si rafforza la quota di giudizi orientata per la stabilità dei livelli (produttivi e di fatturato); e si attenua (anche se non si risolve in positivo) lo sbilancio tra giudizi di aumento e giudizi di contrazione. È un quadro congiunturale che sembra far intravedere un punto di svolta per l’industria manifatturiera trevigiana, in linea con le tendenze registrate a livello europeo, anche se non ci si deve troppo illudere data la debolezza e contraddittorietà dei segnali registrati. La crisi è stata affrontata da parte pubblica con un grande investimento sugli ammortizzatori sociali, cercando di sostenere il reddito di coloro che perdevano il lavoro e facendo in modo che le risorse umane impiegate nelle imprese, e i loro saperi, non andassero dispersi a seguito di una crisi della produzione. In questo modo si è anche sostenuta,

20—21

obbligatorie delle imprese e disponibili fino al 30 settembre tracciano, su base annua, un bilancio negativo: il saldo tendenziale delle posizioni di lavoro dipendente (al netto del lavoro domestico e del lavoro intermittente) a fine settembre 2013 risulta pari a -17.200 unità. Da settembre 2008 a settembre 2013 la perdita occupazionale dipendente3 supera le 100 mila unità. I dati disaggregati consentono di evidenziare qualche indizio positivo: la crescita tendenziale delle assunzioni nell’industria che, almeno in questo comparto, ha ridotto la velocità (ma non invertito la tendenza) della perdita dei posti di lavoro; le dinamiche di settembre sono relativamente positive e in accordo con quelle registrate in tutte le regioni del Centro-Nord; la crescita delle attivazioni di contratti di somministrazione, che in genere rappresenta un indicatore anticipatore di un maggior dinamismo della domanda di lavoro. Ma a fronte di questi deboli segnali positivi le criticità risaltano assai più vistosamente: i contratti a tempo indeterminato e l’apprendistato (i contratti più stabili) continuano a registrare variazioni negative; la quota di assunzioni a part time è sempre più elevata (su base annua è del 32,4% per le assunzioni totali e del 42% per i contratti a tempo indeterminato); i flussi di ingresso negli elenchi dei lavoratori disponibili (disoccupati) rimangono assai elevati; l’intervento degli ammortizzatori sociali per il sostegno del reddito dei lavoratori rimasti privi di impiego si conferma oltremodo rilevante anche nel corso del 2013. A Treviso l’andamento complessivo del lavoro dipendente evidenzia la continua caduta occupazionale che a partire dal settembre del 2008 fino all’analogo periodo del 2013 supera le 22,6 mila posizioni di lavoro (-4,3 mila nell’ultimo anno). La componente italiana, indipendentemente dal genere, è responsabile di oltre 2/3 della perdita di posizioni lavorative. Continua l’emorragia dell’industria (altri 2,5 mila posti in meno, quasi 18,5 mila dall’inizio) come pure quella che si registra nel settore delle costruzioni (mille posti in meno, 6 mila dall’inizio), con quantità diverse dovute anche al rispettivo peso occupazionale


per quanto possibile, anche la domanda interna, rallentando la caduta dei consumi (e, di conseguenza, l’ulteriore compressione della produzione). Ma la durata della crisi sta mettendo a dura prova anche questa strategia, visto l’assottigliarsi delle risorse a disposizione. In tema di lavoro quasi tutto il dibattito si è concentrato sulle regole, in un Paese che ne è pieno e che tendenzialmente è portato ad ignorarle o a decidere in autonomia quali di esse “meritino” di essere rispettate. Il nostro mercato del lavoro, percepito come statico, come terreno di scontro tra insider ipergarantiti (vecchi, o meglio maturi) e outsider sfruttati e marginalizzati (giovani), secondo la vulgata comune6 necessita di flessibilità, prima in entrata (contratti che esulino dal tempo indeterminato) e poi in uscita (licenziamenti più semplici ed agevoli). Tutte sensazioni che poco hanno a che fare con una documentata analisi quantitativa e che soprattutto rimandano ad una incrollabile fiducia nelle regole, che si traduce praticamente in “fatta la legge, problema risolto”. Nessuno si chiede come mai a normative vigenti identiche il Veneto (ma anche nelle Marche, in Emilia Romagna, ecc.) per 20 anni ha visto crescere i propri livelli occupazionali e molte altre regioni no. Ma se anche la normazione può avere un proprio peso nel determinare una facilitazione nell’entrata nel mercato del lavoro7, va sempre tenuto in considerazione che le leggi hanno da sempre periodi di latenza non indifferenti (come conseguenza di abitudini consolidate, di costumi locali, di rapporti di prossimità, di timore del contenzioso) e che necessitano di sistemi di valutazione efficaci (sempre prescritti, ma mai realizzati) per poter essere corretti quando risultino inutili/dannosi. Quindi da una legislazione partorita in periodo di profonda crisi non ci si potevano aspettare miracoli. Anzi, proprio il perdurare della crisi ha messo in evidenza gli elevati costi sociali della flessibilità occupazionale che si è introdotta nel mercato nel corso degli ultimi decenni, ed allora

ci si rammarica per queste giovani generazioni costantemente precarie e previdenzialmente scoperte. Come d’altra parte, un aspetto sempre enfatizzato è quello del costo del lavoro (elevato, insostenibile), fingendo di ignorare come produzione, consumi interni, reddito disponibile, sono indissolubilmente legati tra loro. Solo un esportatore totale (forse) può disinteressarsi del costo del lavoro locale, per gli altri un dipendente pagato meno è anche un consumatore che meno compra. Più recentemente si guarda con maggiore attenzione e con ragione al cuneo fiscale, alla necessità di una sua riduzione. Bisogna però aver chiaro in mente che questo tema si collega strettamente con quello dell’evasione fiscale, perché le necessità di cassa dello Stato non possono essere ignorate e se si toglie da una parte da un’altra è necessario prendere. E non saranno i pur nefasti costi della politica a sanare i bilanci, a meno che a questi costi non si imputi il complessivo malaffare che ruota attorno alla gestione pubblica. Resta il fatto che la crisi non ha dunque risparmiato neppure il Nord Est virtuoso: il nostro sistema manifatturiero sta pagando un prezzo altissimo in termini occupazionali come pure di posizionamento internazionale. Gli interrogativi essenziali diventano allora: abbiamo raggiunto il fondo? E poi, una volta “passata a’ nuttata”, potremo recuperare i livelli precedentemente detenuti oppure la nostra condizione sarà radicalmente altra? La distruzione di ricchezza operata troverà una via per ricostituirsi? Quello veneto è stato un sistema produttivo, ma anche sociale, per lunghissimi anni vincente pur nel grande spontaneismo, nella scarsa regia politica (il consumo del territorio ne è una palese dimostrazione), nella grande propensione alla frammentazione individualista ed alla resistenza all’alleanza. Gli spazi che ha saputo conquistare ed occupare a livello nazionale ed internazionale sono stati la dimostrazione di una grande capacità di coniugare fantasia e capacità realizzativa. Ed anche capacità di vendita. Ma come è noto, le posizioni di preminenza


dei nostri territori con una capacità innovativa che non riguardi solo l’aspetto tecnologico, ma anche il come ed il cosa fare, il con chi farlo, il dove ed a chi cercare di venderlo8. Come si vede non si può chiudere facilmente il cerchio, sono più gli interrogativi che restano aperti che le risposte fondate che si riescono a dare. Parlare della crisi senza che diventi un modo per precipitare nella depressione o per far scemare la voglia di impegnarsi è sicuramente un atteggiamento corretto. Non si deve però pensare che bastino soluzioni semplici per problemi che in realtà sono molto complessi. Pagare le tasse è un dovere, risulterebbe più facile compierlo se Report non avesse dovuto costruire il suo successo mostrando l’inefficienza della macchina pubblica e l’incapacità delle istituzioni che ci rappresentano di essere vissute come alleate e non come vessatrici. 1 – Congiuntura Ref. Ricerche (2013), Italia ancora nel tunnel, n. 7, pagg. 18–19. 2 – Veneto Lavoro (a cura di) (2013), Uno stallo insidioso. Stillicidio dei posti di lavoro e stress delle politiche di contrasto. Rapporto 2013, Franco Angeli, Milano, pp. 18–19. 3 – Al netto del lavoro domestico e del lavoro a chiamata. 4 – Feltrin P. (a cura di) (2013) Rapporto annuale sul mercato del lavoro 2012, Osservatorio Economico della Provincia di Treviso, Treviso, pp.119 e seg. 5 – www.tv.camcom.gov. it/docs/studi/monitor_ economia.htm_cvt.htm 6 – Fatta propria in maniera troppo acritica da parte di troppi studiosi e da non pochi settori politici. 7 – Il premio Nobel per l’economia 1985 Franco Modigliani ricordava spesso che per incrementare

l’occupazione poteva molto più una congiuntura economica favorevole di qualsiasi riforma legislativa. 8 – A tale proposito si veda anche Micelli S. (2011), Futuro artigiano. L’innovazione nelle mani degli italiani, Marsilio, Venezia.

22—23

una volta raggiunte vanno anche mantenute, non sono “date” per sempre. Una discreta tendenza alla conservazione, che sicuramente potrebbe anche essere definita come una propensione a resistere alle trasformazioni, è comprensibile se non giustificabile. Non tutti hanno la forza e l’intelligenza per modificare, investendo, un prodotto che ancora funziona sui mercati e garantisce margini di utile. Soprattutto in epoche dove la redditività del capitale investito per produrre beni e quella possibile con “investimenti” finanziari sono abissalmente differenti a favore della seconda. E poi su questo si innesta anche la fase di transizione generazionale, che interessa particolarmente il sistema produttivo di questa area del Paese, che da un lato può rappresentare una enorme risorsa (apertura e disponibilità al nuovo, formazione più specializzata rispetto a quella dei padri), ma dall’altra può essere un problema, quando il benessere raggiunto viene a mitigare lo spirito di sacrificio, la voglia di intraprendere e di rischiare, o quando la frammentazione delle responsabilità inibisce una conduzione d’azienda unitaria negli obiettivi. La caratterizzazione sintetica del tempo che viviamo è sicuramente la velocità (con la conseguente perdita di senso delle distanze fisiche, con la contemporaneità come codice interpretativo, con la necessità di “connessione” sempre e dovunque) e porta come conseguenza che solo il mutamento e l’innovazione continua possono consentire di mantenere una posizione di vertice nella competizione mondiale. Altrimenti si deve lavorare puntando ad uno scenario diverso, sfruttando al meglio le “rendite di posizione”, che esse siano di carattere culturale, artistico, paesaggistico, climatico, cercando di massimizzare l’utile che può venire dall’abbattimento della distanza, dalla messa a valore della catena corta di produzione e distribuzione. Si può essere tra i migliori e di successo “giocando” in uno qualsiasi dei due campi, ma molto difficilmente in contemporanea. La sfida è di riuscire a coniugare il noto “saper fare” che appartiene alla cultura


Opportunità e resistenze nei nuovi contesti economici e produttivi di Sergio Maset

È necessario che una riflessione complessiva sulla crisi si ponga criticamente l’obiettivo di mettere in discussione il modo stesso con cui ci si riferisce diffusamente a questo concetto e provi a porre le condizioni per la sua definitiva sostituzione con quello di trasformazione. Non si tratta, è evidente, di realizzare un esercizio linguistico, ma di superare definitivamente una serie di luoghi comuni che hanno accompato in questi anni la trattazione sulla crisi. Impropriamente si usa dire “effetti della crisi”, riferendosi a disoccupazione, calo del Pil, diminuzione della domanda interna, contrazione del mercato immobiliare e via discorrendo. Perché impropriamente? Perché la crisi non è una causa, bensì un effetto. È l’effetto di una serie di trasformazioni in atto da parecchio tempo, ben prima dell’inizio convenzionale della crisi finanziaria internazionale, il 15 settembre 2008, giorno del fallimento della banca americana Lehman Brothers. È indubbio che in questi cinque anni, la “crisi” abbia rappresentato un utile contenitore fenomenologico all’interno del quale sono stati riordinati tutta una serie di incompiute, colli di bottiglia, debolezze strutturali dell’Italia (e non solo dell’Italia). Consideriamo queste incompiute come gli elementi che hanno condizionato la possibilità per il paese di “cavalcare la tigre” di una serie di mega fenomeni. Solo per ricordare alcuni mega trend che hanno impattato su tutte le economie della vecchia Europa basti pensare a quanto è avvenuto con la modifica dell’ordine geopolitico mondiale dopo il crollo del muro di Berlino. È curioso come ci si scordi rapidamente anche del passato più prossimo: la delocalizzazione verso

i paesi a più basso costo del lavoro e minor pressione fiscale era incominciata ben prima del 2008. La Cina e il Sud Est asiatico sono poi da parecchi anni paesi ad altissimo tasso di sviluppo economico, paesi di sbocco commerciale ma soprattutto per la produzione a basso costo del lavoro e che hanno spazzato via la convenienza a produrre tutta una serie di prodotti (finali o intermedi che fossero) in Italia e nel resto della vecchia Europa. Basti a rinfrescare la memoria, citare quanto avvenuto negli ultimi due decenni nel comparto tessile. Un altro mega fenomeno che prosegue da anni è connesso alla diffusione massiva dell’accesso a internet, che di fatto ha modificato (e continuerà a modificare) il commercio e i servizi. Quante “crisi” ci sono state negli anni, ad esempio, nelle agenzie di viaggi, nelle librerie, nei negozi di dischi? Sono state drammatiche, ma sono avvenute. Ancor prima l’office automation aveva spazzato via anche settori ad elevata professionalità. Il riferimento non è alle dattilografe (viene da ridere a usare adesso quel termine, ma c’erano ed erano tante) ma ad alte professioni apparentemente al riparo da ogni possibile shock. Si pensi che ancora agli inizi degli anni ’90 tutte le presentazioni aziendali (quelle che adesso si confezionano con programmi come power point) venivano costruite da tecnici super specializzati che le disegnavano praticamente a mano e le montavano come fossero dei film. Quanto deve essere stato drammatico scoprire che da un giorno all’altro il loro mestiere non valeva più nulla. Probabilmente proprio chi aveva fatto dell’eccellenza manuale il suo punto di forza si è trovato molto peggio di chi,


all’ipermercato da volantino sottocosto e in cui, assieme al prodotto, viene venduta sempre più accoglienza e attenzione per il cliente da parte di addetti formati e addestrati a questo preciso scopo e molti di questi sono giovani e giovanissimi. Tra i mega fenomeni non si può non considerare la costituzione del mercato unico europeo e l’istituzione dei tassi fissi (e poi l’euro), che come effetto immediato hanno bloccato la possibilità di agire sulla leva dei cambi per modificare la convenienza ad acquistare dall’Italia. Questo ha sicuramente tolto ad alcuni tipi di produzione la possibilità di competere globalmente agendo sulla leva del cambio ma, almeno per chi ha saputo coglierne l’opportunità, ha migliorato tutti i settori connessi all’importazione. Inoltre l’Unione Europea, con tutto il suo sistema di regole, ha anche creato nuovi prodotti, e nuovi mercati per servizi prima inesistenti. Sono ormai quasi dieci anni che nei documenti europei si fa riferimento ai lead market, ambiti di prodotto, ricerca e servizi che avrebbero avuto negli anni successivi un forte sviluppo. Tra questi tutte le tecnologie per l’efficientamento energetico e la riduzione della produzione di gas serra. Tempi, modi e standard sono stati concertati a livello europeo ed è stata la definizione di regole ad aver creato quell’enorme mercato della green economy. Dagli ingegneri, ai produttori di caldaie, pannelli isolanti, serramenti fino agli idraulici e installatori, si provi a chiedere a questi se le politiche europee sono state da questo punto di vista un bene o un male. Come sempre accade ogni politica genera clientes. Basti pensare, ancora, a che cosa ha rappresento per il mercato dei servizi l’introduzione di norme sulla verifica e certificazione della sicurezza nei luoghi lavoro. Nelle fasi iniziali di applicazione di queste nuove norme si possono ritrovare almeno tre letture: un segno concreto di maturazione e di civiltà di una società, un aggravio delle procedure e dei costi a cui sono soggette le imprese, un grande nuovo mercato per tutti quanti vendono servizi e prodotti per la sicurezza (segnaletica, estintori, verifiche, ispezioni, formazione, aggiornamento, …). Le trasformazioni, anche drammatiche,

24—25

magari più approssimativo nella composizione manuale ma più abile nell’ideazione concettuale, ha trovato nei software una opportunità per produrre più rapidamente e con costi inferiori. Un esempio diametralmente opposto, ma non meno radicale, riguarda ciò che è avvenuto con la diffusione dei sistemi di esazione automatica ai caselli autostradali: una intera categoria di lavoratori ha smesso di esistere. Le trasformazioni avvengono di continuo e sarebbe interessante riflettere sul perché alcune accadono senza che nessuno se ne preoccupi più di tanto mentre altre vengono rappresentate efficacemente come una sorta di fine del mondo. Mentre per anni ci si è interrogati sull’opportunità o meno di concedere orari di apertura prolungati alle grandi strutture di vendita, si sono lanciati strali contro i centri commerciali e sono state versate lacrime sulla scomparsa delle piccole botteghe alimentari, interi settori sono stati molto sommessamente spazzati via dal commercio online. Ancora una volta, tuttavia, per rispondere alla sfida, occorre guardare alle trasformazioni indotte e non limitarsi al conteggio delle perdite subite. Questo perché le trasformazioni modificano equilibri, rapporti forza e, per quanto possa suonare retorico, creano opportunità. Nel mercato librario il commercio online sta spingendo le librerie a diventare qualcos’altro: luoghi di aggregazione con reading e concerti, spazi ibridi in cui tra gli scaffali compaiono divani e caffè. Certamente in questo caso a intraprendere la trasformazione sono stati pochi soggetti con maggiore capacità di inventiva e, necessariamente, economica. Nel settore dell’elettronica e della vendita degli elettrodomestici i piccolo negozi sopravvissuti al confronto competitivo con le grandi catene e al commercio elettronico si stanno caratterizzando come punti vendita in cui comprare, assieme al prodotto, assistenza per manutenzioni, riparazioni, consigli, più difficilmente reperibili nei grandi store. Nel settore alimentare, le grandi catene stanno investendo sulle medie strutture in cui sono possibili margini maggiori rispetto


avvengono dunque di continuo, molto più di quanto comunemente si pensi. L’idea di poter individuare un prima e un dopo e dunque la convinzione che la società sia sostanzialmente statica e che solo in pochi definiti momenti vede dei punti di cesura, è sostanzialmente errata. Non perché non vi siano punti di cesura ma perché, al contrario, ve ne sono tantissimi e di continuo. Provare a resistervi è come cercare di costruire tante piccole dighe di fango e detriti su un torrente in piena: ad un certo punto inevitabilmente cedono e la corrente va ad impattare sugli argini con ancora più forza e pressione. Può forse sembrare romantica come immagine, ma in questo momento, per fronteggiare una corrente impetuosa non ci si può permettere salti e sbarramenti solidi: servono uomini capaci su barche più robuste. Per quanto riguarda il commercio estero, dopo il crollo delle esportazioni conosciuto tra 2008 e 2009 (-21,5%), nel triennio successivo il Veneto ha visto il proprio export crescere a un ritmo del 9% annuo che ha riportato l’export regionale al livello pre-crisi, ed anzi a sopravanzarlo del 2% (50 miliardi di euro nel 2008, 51 miliardi nel 2012)1. È utile tener presente che nel corso degli ultimi cinque anni sono occorse due diverse fasi recessive, di cui una tuttora in atto, caratterizzate però da differenti dinamiche. Nella prima ondata recessiva, coincidente grosso modo con il periodo 2008–2009 (shock finanziario internazionale), il dato più evidente è la contemporanea contrazione della domanda estera (un calo particolarmente repentino), dei consumi finali e degli investimenti. Successivamente, nel corso del 2010, la variazione della domanda interna è tornata di segno positivo e il calo della domanda esterna si è fatto più contenuto. Nel 2011 si è però verificata un’inversione radicale di segno, con una ripresa delle esportazioni incapace tuttavia di compensare un calo consistente della domanda interna (consumi finali, investimenti e scorte) e della spesa pubblica che ha determinato una ulteriore brusca diminuzione del Pil. A partire da metà 2011 il numero di disoccupati ha iniziato una fase di intensa crescita

che sembra rallentare solo nel corso del 2013, mentre il numero di occupati ha sostanzialmente tenuto sino a metà 2012 per poi calare bruscamente. Che cosa c’è dunque di così particolare in questa fase che ha portato a parlare di grande crisi? Essenzialmente il fatto che vi è stato da prima uno shock finanziario globale e successivamente, senza soluzione di continuità, una crisi (questa nel vero senso del termine) di fiducia internazionale nell’Italia connessa alla capacità del paese di far fronte al debito pubblico con il conseguente aumento del tasso di interesse sui titoli di stato. Questa seconda fase, a cui si è cercato di porre rimedio con una riduzione della spesa pubblica, ha esacerbato la tensione connessa alla trasformazione “fisiologica” del sistema produttivo che già doveva riorganizzarsi dopo lo shock finanziario internazionale e gli effetti che questo ha prodotto sul sistema bancario e sul sistema di regole per la concessione di prestiti a privati e aziende. Le Sfide per la trasformazione del sistema economico-produttivo La storia che i dati e le considerazioni sin qui esposti raccontano non è dunque la storia di una crisi congiunturale. È piuttosto il racconto di una trasformazione di sistema, che per essere affrontata richiede l’abbandono di un certo tipo di retorica da “resistenza alla crisi” e di approntare una profonda ristrutturazione del sistema produttivo e dei servizi privati e pubblici. Nello spazio ristretto di questa trattazione, sono tre gli assi su cui è pensabile che si giocherà la sfida della competitività del sistema economico italiano. Le opportunità – primo asse – proverranno da un approccio in cui al Made in Italy si accompagni una nuova capacità di gestire in modo intelligente catene del valore globali, acquisendo materie prime e prodotti intermedi sui mercati internazionali, ma mantenendo il controllo della catena del valore al fine di realizzare in house quelle fasi della produzione a maggior valore aggiunto. È importante osservare quanto avvenuto in questo


aggiunto generato dalla manifattura, in Germania, è rimasta stabile anche a fronte di – anzi, probabilmente proprio grazie a – una crescente (nel periodo) incidenza dell’import nella composizione del valore della produzione industriale tedesca. L’interpretazione che se ne può dare sembra essere una elevata capacità, da parte del sistema produttivo tedesco, di governare la produzione di valore anche con un maggiore ricorso all’outsourcing internazionale. Va infine evidenziato il peso delle occupazioni service-related nella manifattura, ovvero di quelle professioni (manager, professionisti, tecnici, impiegati d’ufficio, impiegati nei servizi e nella vendita) che pur lavorando in ambito manifatturiero non sono direttamente impiegate nella produzione manuale bensì in servizi connessi a questa. L’incidenza di tali professioni è nel 2012 del 48,6% in Germania e del 37,7% in Italia. Le sollecitazioni derivanti da queste considerazioni – per quanto solo accennate – suggeriscono di provare a leggere la relazione tra dimensione di impresa e competitività invertendo l’ordine dei fattori. Certamente la riprogettazione dei processi produttivi richiede adeguate risorse finanziarie e competenze interne, generalmente appannaggio di imprese di media se non grande dimensione, tuttavia è la sua effettiva implementazione (e non la dimensione di partenza in quanto tale) a influenzare il potenziale di crescita delle aziende manifatturiere. In questa prospettiva (1) maggiore contenuto tecnologico delle produzioni, (2) maggiori contenuti terziari nelle attività produttive, (3) maggiore qualità, specializzazione e retribuzione della forza lavoro, (4) maggiore controllo delle catene di approvvigionamento e distribuzione internazionale e infine (5) crescita dimensionale delle imprese rappresentano sempre più un quadro unitario di trasformazione delle economie regionali più che fattori separatamente perseguibili. La sfida è dunque quella di approcciarsi in modo nuovo non solo alla commercializzazione dei prodotti ma ai processi produttivi, guardando alle best practices realizzate dal vicino di capannone così a quelle del produttore

26—27

ultimo decennio tra Italia e Germania rispetto ad alcune grandezze macroeconomiche, dal momento che una loro lettura fornisce alcuni interessanti spunti di riflessione anche in relazione alle dinamiche osservate in precedenza. Un dato da considerare riguarda certamente il diverso andamento della popolazione e degli occupati rispetto a quello del prodotto interno lordo generato dai due Paesi. A fronte di una crescita sostanzialmente a zero della popolazione tedesca dal 1995 al 2011, il Pil della Germania è cresciuto del 25%. La popolazione italiana è invece aumentata nello stesso periodo del 7%, a fronte di una crescita del Pil del 15%. Ancor più interessante il confronto in Germania tra l’andamento del Pil e l’evoluzione del numero di occupati. Se fino al 2000 la crescita del Pil sembra andare di pari passo con quella del numero di occupati, a partire da quell’anno le due curve presentano un andamento difforme, con il prodotto interno lordo che continua a crescere e il numero di occupati che tende a stabilizzarsi. Questo a differenza di quanto avviene in Italia e, nel dettaglio, anche in Veneto, dove l’andamento del Pil ha seguito, con buona approssimazione e su tutto il periodo, l’andamento del numero di occupati. Un ulteriore confronto riguarda l’andamento dell’indice di propensione all’export, calcolato come rapporto tra il valore delle esportazioni e il Prodotto interno lordo. Mentre in Germania nel periodo 1995–2011 questo indice cresce progressivamente con un’intensità simile alla crescita del Pil (con un effetto moltiplicatore dell’export nella generazione del Pil), in Italia resta tendenzialmente stabile lungo l’intero periodo, con oscillazioni contingenti. Rileva inoltre il fatto che, in un quadro di intensa crescita del Pil, in Germania la quota di valore aggiunto generato dalla manifattura sul totale dell’economia è rimasto stabilmente intorno al 23%. Una dinamica anche in questo caso diversa si evidenzia invece in Italia, dove la quota di valore aggiunto generata dal manifatturiero si è ridotta dal 22% del 1995 al 17% del 2011. Va a questo proposito osservato che la quota di valore


tedesco o asiatico, facendo scouting di possibilità produttive sul mercato internazionale, ripensando l’ingegnerizzazione dei processi produttivi. È un modo diverso di pensare e fare la fabbrica, popolata non più solo di operai ma di una varietà di figure in grado di gestire catene del valore globali. Indipendentemente dal fatto che la trasformazione produca una variazione del numero di addetti complessivamente occupati nel settore manifatturiero, ciò che per certo dovrà determinarsi sarà una crescita della capacità di generare valore aggiunto. Dovrà essere rinnovato anche il legame tra sistema produttivo e assetto infrastrutturale. Sempre più critico sarà l’inserimento dei luoghi di produzione nell’ambito di nodi funzionali prossimi alle infrastrutture. Non solo perché, data l’estensione su reti globali dei rapporti di fornitura e vendita, è sempre più cruciale la localizzazione ai nodi delle reti fisiche, ma anche perché è nei pressi di questi che si localizzano funzioni terziarie rare e di rango elevato. Se finora l’attenzione si è appuntata sull’ambito manifatturiero, il settore terziario – secondo asse – non può ritenersi escluso da una necessità di innovazione e re-ingegnerizzazione. Siamo sicuri che oggi il settore terziario italiano (compresa la sua componente intellettuale) si trovi sulla frontiera competitiva? Siamo sicuri che se non ci fosse una barriera linguistica non si affaccerebbero sul mercato dei servizi anche fornitori stranieri? E siamo sicuri che, se potessero, le piccole imprese non si rivolgerebbero all’estero per i servizi terziari? Non solo al fine di migliorare le propria performance, dunque, (si pensi, come esempio, alle difficoltà sperimentate dalle banche locali per restare sul mercato), ma anche perché la capacità stessa della manifattura di rispondere alle sfide che le sono richieste dipenderà anche dalla capacità di rinnovarsi da parte del settore terziario. A questo appartiene infatti una serie di servizi – di progettazione, supporto all’importexport, sicurezza, infrastrutturazione, trasporti, credito, assicurazione – che pur non rientrando nell’ambito della produzione

manifatturiera sono funzionali a questa, e concorrono anzi in modo determinante a massimizzare il valore aggiunto. Anche nel terziario serviranno maggiori dimensioni e una maggiore strutturazione. Un terzo asse riguarda, infine, il sistema regolativo. Generalmente, e spesso a ragion veduta, la burocrazia italiana viene indicata come uno dei fattori di ritardo del Paese. Un fattore effettivamente critico ma che può essere fatto rientrare, a ben vedere, nella logica di efficienza del settore terziario di cui sopra. Ciò che invece si vuole qui porre in evidenza riguarda il fatto che anche leggi, regole e assetti istituzionali dovranno essere orientati a questo stesso sforzo di trasformazione e spinta in avanti. Gli adempimenti non sono solo una questione di tempo, ma assumono particolare rilevanza nel determinare la visione dell’amministrazione pubblica, come di un leviatano che si pone di traverso allo sviluppo del Paese. C’è un quarto asse, in questa grande trasformazione, che richiederebbe di essere affrontato. Il condizionale è d’obbligo non per incertezza sulla sua rilevanza quanto per la complessità dello stesso e tuttavia non può esserne omessa quantomeno la citazione. Il riferimento è al dualismo che da sempre caratterizza l’Italia, tra Nord e Sud. L’auspicio è che il suo venir meno nell’agenda partitica possa consentire invece una forte riproposizione nei programmi istituzionali, evitando, almeno sì in questa fase di contrazione della spesa pubblica, di tentare di risolverla con logiche di sussidiarietà. 1 – Fonte: elaborazioni su dati Istat Coeweb.


Investigazioni private. Intervista a Francesco Jodice di Carlo Sala

Carlo Sala: Hai iniziato il tuo workshop a Pieve di Soligo citando uno dei massimi scrittori contemporanei, Jonathan Franzen, che si è profondamente interrogato sulle sorti dell’Occidente. Pensi che stiamo attraversando una crisi culturale e sociale che va ben oltre quella finanziaria di cui tanto si parla? Francesco Jodice: Proverei a scomporre la locuzione “crisi dell’Occidente”: come sappiamo il declino economico mondiale ebbe origine nel 2008 negli Stati Uniti con il crollo dei titoli Subprime. Tra i principali fattori vi furono gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare mondiale, un’elevata inflazione globale, la minaccia di recessione in tutto il mondo, una crisi del credito ed un crollo di fiducia nei mercati. Però fin dagli inizi del fenomeno molti analisti ritennero che non si trattasse di una vera crisi, poiché questo termine definisce un lasso temporale durante il quale per almeno due trimestri

consecutivi si rileva arretramento economico, cioè una riduzione del PIL, seguito da una rapida ripresa. Allora una crisi è un modello statistico di durata circoscritta e definito da una “curva di andamento” riconoscibile. A distanza di sei anni dal fallimento della Lehman Brothers mi sembra chiaro che la situazione che noi viviamo non è una crisi ma una nuova era glaciale, un assetto del tutto nuovo al quale col tempo ci adatteremo. Per quanto riguarda la questione occidentale, mi sovviene che già molti anni fa Bauman disse che presto i governi dell’Occidente avrebbero dovuto affrontare il problema e dire ai popoli che il sistema del Welfare aveva fallito e non era più sostenibile. Questa invece è una crisi: una crisi di modello e di valori etico-culturali. CS: In tema di crisi e fotografia, un famoso esempio del passato fu la campagna promossa dal governo americano nel 1937 attraverso la Farm Security Administration al fine di raccogliere informazioni sui problemi che investivano il settore agricolo. In quell’occasione venne affidato ad alcuni fotografi il compito di creare uno “stato di fatto” sulla situazione del paese, allo scopo di sensibilizzare una parte cospicua della popolazione, realizzando anche una politica del consenso. Tu parli di “poetica civile”: quale ruolo possono giocare le arti visive rispetto alla situazione che stiamo vivendo? Come devono porsi gli autori contemporanei per evitare la retorica che ha caratterizzato tante indagini similari? FJ: Molti ruoli, ma è necessario intendersi e convenire su quali siano oggi “le arti”

28—29

Nel luglio dello scorso anno Francesco Jodice ha condotto un workshop con un gruppo di giovani autori all’interno del festival F4 / un’idea di Fotografia a Casa Fabbri a Pieve di Soligo. Con loro abbiamo visitato alcune imprese della provincia di Treviso per tentare di comprendere le dinamiche economiche che coinvolgono questo territorio; obbiettivo del progetto era indagare il tema attraverso un processo conoscitivo dei luoghi affinché ne conseguisse uno scatto fotografico frutto di una riflessione capace di travalicare la mera documentazione del reale. Partendo dagli spunti emersi durante Investigazioni private è nato questo dialogo, in cui Jodice racconta le modalità di indagine che sottendono la sua ricerca.


e quali i loro ruoli. Nella grande crisi americana la FSA utilizzò la fotografia e i suoi autori non come meri documentatori ma come dispositivi narrativi meta-progettuali, in grado di mostrare ai pianificatori e ai politici alcune linee di sviluppo alternative dei mutati paesaggi sociali americani. Io credo che la fotografia non abbia più quel ruolo, ne ha di nuovi e importanti ma non più quello. Nelle arti visive altri apparati narrativi hanno ora il ruolo di media condivisi (il cinema, i videogiochi, le web series, i virali sulla rete, youtube, etc). Sono altre le dinamiche dell’arte visiva che si fondono con le nostre concezioni di arte pubblica e di poetica civile. CS: Sono conscio che sei molto distante dall’attribuire alla fotografia un ruolo pedagogico, ma di certo uno dei messaggi che si evincono dalla tua ricerca è quello di utilizzare questo mezzo per innescare nel fruitore dubbi e spunti critici. Me ne vuoi parlare? FJ: Non ho mai amato la fotografia dogmatica, pedagogica e con la presunzione di esaurire i discorsi. Credo che storicamente l’attitudine a pensare la fotografia come un modello esaustivo di narrazione delle cose del mondo sia una prerogativa di fotografi animati e sostenuti da buoni sentimenti più che da rigorosi processi di intellettualizzazione. Al contrario penso sempre alla fotografia come un luogo che non didascalizza le questioni osservate ma piuttosto le rende ancora più complesse. Per me la fotografia non contiene risposte ma piuttosto è lo spazio nel quale impariamo a formulare bene le domande, uno spazio che, una volta attraversato, ci aiuti ad allestire dubbi ben strutturati o ipotesi ben costruite. CS: Durante il secolo scorso i grandi avvenimenti e le mutazioni furono scanditi dalla fotografia attraverso un dialogo diretto e immediato con la realtà, secondo un approccio che oggi appare anacronistico. Una caratteristica presente nel tuo lavoro è che lo scatto finale – per quanto attento alle tecnica – deve

necessariamente essere il risultato di un processo basato su una molteplicità di interrogativi e riflessioni. Mi racconti il tuo modus operandi nello sviluppo di un determinato filone di ricerca? FJ: Quando inizio un progetto, ad esempio perché ho ricevuto un incarico site-specific, mi disinteresso quasi completamente della geografia del luogo e della sua fisicità, mentre inizio uno scandaglio ed una diagnostica dei fenomeni politici, culturali, sociali, economici e religiosi che lo hanno interessato con una attenzione particolare al suo “stato attuale”. Cerco degli eventi o dei fenomeni che per me sono al contempo localistici e universali. Solo quando ho individuato con chiarezza le storie che mi ossessionano inizio a fotografare, ed è come se vedessi con chiarezza solo ciò che è inerente a questa casistica. Ecco perché spesso le mie fotografie sono molto elementari da un punto di vista formale, ma sotto l’apparente tranquillità compositiva si può percepire la tensione generata dai mutamenti geopolitici che indago. CS: Che consiglio daresti a un giovane artista che vuole intraprendere un progetto fotografico volto a indagare un tema del presente? FJ: Come intellettuale: leggere. Connettere. Costruire. Disfare. Ricominciare tutto daccapo. Come artista: mettersi di traverso. CS: In ogni tuo lavoro si intrecciano molteplici spunti caratterizzati sempre da una lucida visione del presente. Attualmente a cosa stai lavorando? FJ: A La notte del Drive-in. Un progetto avviato da poco: allestisco dei drive-ins veri e propri nelle piazze periferiche delle città e provoco la partecipazione mista di persone del mondo dell’arte e gente del quartiere come strumento di trasversalità tra arte e società. Ho anche due nuovi progetti fotografici sul paesaggio italiano in corso in Italia di cui uno sul Monte Bianco. Nel frattempo cerco con fatica di portare avanti il mio progetto Citytellers,


ovvero una serie di film sulle mutate condizioni socio-urbane in diverse geografie del pianeta. Come sai con la Galleria Michela Rizzo di Venezia stiamo da tempo lavorando alla possibilità di realizzarne uno sulla città lagunare. CS: Hai visitato con noi alcune zone della provincia di Treviso, e in generale conosci il Nord-Est: come pensi che la crisi abbia mutato questo paesaggio sociale?

CS: Sia con Multiplicity che perseguendo il tuo progetto What We Want, hai indagato varie comunità del mondo. C’è un luogo che ti ha particolarmente colpito ed in cui hai visto una scintilla per il futuro? FJ: I luoghi che ho indagato da solo o nei favolosi anni del collettivo Multiplicity oggi sono dei fossili. A loro tempo tutti sono stati dei paesaggi innovativi ma proprio perché sono diventati dei modelli, imitati o contestati, adesso sono superati, metabolizzati. Oggi ti direi che mi interessano alcune nuove città del Far East, del sud dell’Africa e del

Note biografiche Francesco Jodice è nato a Napoli nel 1967. Vive a Milano. La sua ricerca artistica indaga i mutamenti del paesaggio sociale contemporaneo con particolare attenzione ai nuovi fenomeni di antropologia urbana. I suoi progetti mirano alla costruzione di un terreno comune tra arte e geopolitiche proponendo la pratica dell’arte come poetica civile. È docente di Fotografia presso il master in Photography and Visual Design di Forma, tiene un corso di antropologia urbana visuale presso il Biennio di Arti Visive e Studi Curatoriali della NABA. È stato tra i fondatori dei collettivi Multiplicity e Zapruder. Ha partecipato a Documenta, La Biennale di Venezia, la Biennale di Sao Paulo, alla Triennale dell’ICP di New York e ha esposto alla Tate Modern, al Castello di Rivoli e al Prado. Tra i progetti principali l’atlante fotografico What We Want, l’archivio di pedinamenti urbani Secret Traces e la trilogia di film sulle nuove forme di urbanesimo Citytellers.

30—31

FJ: In realtà non conosco a sufficienza l’area del Nord-Est al punto da poterla paragonare ad altre situazioni. Sono rimasto colpito dalla “chiarezza” di questo paesaggio socio-economico, la struttura pulviscolare delle piccole aziende e come questa rete fittissima di opifici e imprese si intersechi in modo inestricabile con la cultura familiare ed una serie di valori culturali, religiosi ed economici che hanno radici antichissime. Ho sentito anche il senso di smarrimento e paura per l’impossibilità di perpetrare quel modello e lo smarrimento per l’incapacità di capire i nuovi paradigmi economici, i nuovi mercati. Credo che tutto ciò abbia cambiato questo paesaggio proprio perché non gli permette di cambiare: la crisi economica, gravissima, ha congelato il rinnovamento non solo culturale ma anche fisico del territorio, potremmo girare un film e dire che è ambientato negli anni novanta senza temere smentita né dai luoghi architettonici né dalle abitudini quotidiane delle comunità.

Golfo Arabo con tutti i pro e i contro che si possono immaginare. Ma l’importante per me non è mai cosa osserviamo ma il metodo che costruiamo per osservare, non la cosa osservata quanto l’osservatorio in sé. Con Multiplicity ci definivamo “un’agenzia di investigazione territoriale”. Era una definizione bellissima, per l’epoca.



Investigazioni private Workshop di Francesco Jodice

32—33

9–12 luglio 2013 Casa Fabbri Pieve di Soligo — Evento collaterale del festival F4 / un’idea di Fotografia a cura di Carlo Sala — Progetti fotografici di:

• Marina Caneve • e Gabriele Rossi • Gianpaolo Arena • Claudio Beorchia • Claudio Bettio • Sergio Camplone • Lisa Castellani • Francesca De Pieri • Sebastiano Girardello • Valeria Iacovelli • Bojan Marenovic • Silvia Mariotti • Orlando Myxx • Alexandra Wolframm



34—35

Marina Caneve e Gabriele Rossi The Big Deal, Stampa fotografica digitale da negativo colore


Gianpaolo Arena 07, 06, 01, Stampa fotografica digitale da negativo colore


36—37

Claudio Beorchia Aurea industriale, Collages (con coperta termica d’emergenza) su stampa fotografica digitale


Claudio Bettio 30.12 33.11 415.11, Stampa fotografica digitale da negativo colore


38—39

Sergio Camplone Breviario di una crisi, Stampa fotografica digitale


Lisa Castellani Dalle fondamenta, Stampa digitale diretta su alluminio (installazione 6 mq)


40—41

Francesca De Pieri Memory box _ Falegnameria Fantin 3, Memory box _ Falegnameria Fantin 1, Memory box _ Falegnameria Fantin 4, Doppia stampa a colori su carta fotografica


Sebastiano Girardello Uroboros, Video


42—43

Valeria Iacovelli Borgo Paradiso, Polaroid


Bojan Marenovic Senza titolo, Stampa fotografica digitale


Silvia Mariotti Sirene, La collana di Armonia, Senza Titolo, Sacrificium (dalla serie Favole), Stampa inkjet su carta cotone

44—45


Orlando Myxx È il principio che conta – Principio Modulare #1, È il principio che conta – Principio Armonico #1, Stampa fotografica digitale


46—47

Alexandra Wolframm Ritorno 1, Ritorno 2, Stampa fotografica digitale


Fondazione Francesco Fabbri non persegue fini di lucro, il suo ruolo è quello di essere strumento di sviluppo culturale, sociale ed economico delle comunità. La missione è perseguita attraverso lo sviluppo di programmi ed azioni da ideare, coordinare e promuovere in una logica di rete orientata alle forme del Contemporaneo. Opera nell’ambito del territorio veneto ma con uno sguardo aperto al sistema nazionale, nei settori dell’assistenza, dell’istruzione e formazione, della promozione e valorizzazione nel campo artistico, culturale, storico, dell’innovazione e del paesaggio in attuazione della Convenzione Europea di riferimento. www.fondazionefrancescofabbri.it

con il sostegno di:

Fondazione Francesco Fabbri Onlus Piazza Libertà, 7 31053 Pieve di Soligo (TV) m 334 9677948 f 0438 694711 info@fondazionefrancescofabbri.it www.fondazionefrancescofabbri.it



Riflessioni sulla crisi

Questo libro è l’esito dei lavori svolti dal Laboratorio Politico della Fondazione Francesco Fabbri, coordinato da Roberto Masiero e Luca Taddio all’interno degli eventi del Festival Comodamente 2012 a Vittorio Veneto. La domanda era: è l’Europa un bene comune? Nel pubblicare i testi che i partecipanti hanno elaborato dopo il Festival si è ritenuto utile riportare il dibattito tra Étienne Balibar e Sandro Mezzadra pubblicato nel mese di Maggio 2012 dal quotidiano Il Manifesto.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.