PRESENTAZIONE DEL MUSEO Informazioni utili per visitare il museo Il museo che vi accingete a visitare è articolato su due piani: occupa il piano nobile e il secondo di palazzo Faina. La raccolta venne riunita dai conti Mauro ed Eugenio e fu donata, nel 1954, al Comune Orvieto da Claudio junior. Nel 1957 veline istituita la Fondazione per il Museo “C. Faina” con lo scopo di tutelare e promuovere la raccolta, una delle più importano d'Italia. Nel piano nobile, sono documentati i tempi e i modi di formazione della collezione, mentre in quello superiore vengono presentati i reperti secondo un criterio tipologico e cronologico, rispettoso dei criteri espositivi ottocenteschi. Il percorso si apre con la presentazione della figura di Mauro, il fondatore della raccolta, e prosegue con quella del nipote Eugenio Faina, che introdusse novità considerevoli nella gestione. Il monetiere, in particolare, documenta l'attività di Mauro, che aveva spiccati interessi numismatici; i reperti rinvenuti nella necropoli di Crocifisso del Tufo testimoniano, invece, le scelte di Eugenio che preferì indirizzare i propri interessi verso í materiali orvietani. Nel secondo piano è esposto il resto della collezione suddiviso per classi di materiale e in successione cronologica (dai reperti più antichi ai più recenti).
LA COLLEZIONE FAINA Una raccolta archeologica dell'Ottocento La collezione Faina venne raccolta dai conti Mauro e Eugenio, a partire dal 1864. Ereditata da Claudio Junior, fu da lui conservata e resa pubblica. Secondo una tradizione il nucleo originario della raccolta sarebbe costituito da 34 vasi donati al conte Mauro dalla principessa Maria Bonaparte in Valentini, figlia di Luciano Bonaparte - lo scopritore delle necropoli di Vulci - e nipote di Napoleone. Mauro Faina gestì la.raccolta fino al 1868, quando, alla sua morte, venne ereditata dal fratello Claudio e affidata alle cure del nipote Eugenio. La collezione, ospitata inizialmente nel palazzo di famiglia a Perugia, fu trasferita ad Orvieto negli ambienti dove ha ancora sede. Ad Eugenio si deve un mutamento negli indirizzi collezionistici: egli cessò di acquistare antichità sul mercato d'arte e indirizzò l' interesse verso i reperti che, lungo gli anni Settanta e Ottanta dell'Ottocento, venivano riportati alla luce nelle necropoli orvietane. La raccolta divenne di importanza e il mondo scientifico iniziò ad interessarsi ad essa. Nel 1888 venne pubblicato il primo catalogo a stampa, a cura di Domenico Cardella.
LA FORMAZIONE DEL MONETIERE La passione per la numismatica L'interesse di Mauro Faina andava soprattutto verso la numismatica antica, lo suggerisce la rapidità con la quale riuscì a formare un monetiere di livello notevole. La raccolta era costituita da "1800 monete classate, senza contare i duplicati" nel maggio 1867, che erano salite a 3000 già nel luglio dell'anno successivo. L'attenzione particolare rivolta al monetiere è resa manifesta dall'isolamento della voce acquisto di monete all'interno di un promemoria delle spese sostenute, conservato nell'archivio della Fondazione Faina. Dal 1 dicembre 1864 al 15 maggio 1867, Mauro stimava di avere speso L.1400 per il monetiere a fronte di una spesa complessiva di L.8288. Dal maggio 1867 al settembre 1868 investì in monete L.2835, mentre l'esborso complessivo fu di L.7665. Le cifre sembrano segnalare un progressivo spostamento d'interesse verso la numismatica, proprio mentre, stando. sempre alle somme investite, venne tralasciata l'attività di scavo per la quale furono spese solamente L.15. Il livello qualitativo delle monete collezionate e la cura posta nella realizzazione .di numerosi elenchi indicano che Mauro riuscì ad acquisire una conoscenza approfondita delle problematiche della numismatica antica. La provenienza delle monete, acquistate sul mercato di antichità, non ci è purtroppo nota.
IL COLLEZIONISMO ITALIANO NELL'OTTOCENTO Il mito dell’antico La collezione Faina si formò durante i decenni immediatamente successivi all'unità d'Italia (1861), contrassegnati dall'assenza di una legge relativa alla tutela dei beni archeologici. L’Editto Pacca, lasciato in vigore nelle zone già comprese nello Stato Pontificio e quindi valido per Orvieto, venne rispettato limitatamente ad alcune norme procedurali, ma venne negato nella sua essenza rappresentata dal riconoscimento del volore pubblico del bene archeologico. Tale riconoscimento venne considerato una limitazione insostenibile alla proprietà privata nell’ideologia della nuova Italia liberale. Il collezionismo privato e pubblico (prevalentemente di stampo municipale) ebbe un incremento notevolissimo in quei decenni. Per i privati collezionare era una forma d'investimento, la riaffermazione di una superiorità culturale messa in crisi dall'avvento di nuove scienze, la ricerca di un esclusivo godimento estetico e una fuga in un mondo -l'anticoritenuto senza contrasti. Per i municipi raccogliere antichità era riscoprire e quindi affermare la propria identità per difendere peso culturale e politico, a fronte di scelte centralistiche operate dal governo nazionale. I collezionisti selezionavano i reperti in base a criteri estetici, con qualche concessione a singolarità di funzioni o di forme; le realtà locali sceglievano secondo maglie più larghe, con criteri tendenti a privilegiare l'attività artigianale in quanto tale. Nei criteri espositivi le raccolte private si ricollegavano alle esperienze del Settecento, che prevedevano una rigida divisione tipologica e una nitida scansione dei
materiali; i musei civici accumulavano invece i reperti senza un ordine apparente e la scelta risultava, per certi versi, obbligata dalla cronica mancanza di spazi e di fondi, tranne in alcuni eccezioni
MAURO FAINA "Godè la vita e non curò la morte" Gli interessi collezionistici del conte Mauro maturarono durante i frequenti soggiorni nella villa di Laviano, nei dintorni di Chiusi, di proprietà della principessa Maria Bonaparte in Valentini. L'ambiente chiusino, i contatti con studiosi di antichità presenti a Perugia, la familiarità con la principessa figlia dell’”archeologo” Luciano Bonaparte, i rapporti di parentela con la famiglia Paolozzi, proprietaria di un'importante collezione, furono tutti elementi che congiurarono nel fare sorgere la passione per l'archeologia in Mauro. Nel dicembre 1864 iniziò a scavare, indagando i territori di Chiusi, Perugia, Todi, Orvieto e Bolsena. Egli ricercò soprattutto tombe, considerate come "contenitori" di reperti di alto valore artistico da far confluire nella raccolta. I risultati furono inferiori alle attese: "ho chiuso la seconda campagna di scavi, ho speso molto e trovato poco; ma mi sono devastato ed il museo cresce per la robba comprata" come annotava lo stesso Mauro. Gli acquisti s'indirizzarono verso materiali riportati alla luce nei territori di Chiusi, Perugia, Orvieto, Todi, San Venanzo, Firenze e, genericamente, nella Maremma. Tra i pochi venditori citati espressamente figurano Maria Bonaparte e alcuni collezionisti di Chiusi: i Paolozzi, i Fanelli, i Giulietti.
I REPERTI COLLEZIONATI "Ho riunito un grazioso piccolo museo" Mauro Faina non si limitò a collezionare monete. Nel gennaio 1865 scriveva ad Ariodante Fabretti, storico e archeologo insigne, di avere riunito "un grazioso piccolo museo con 300 pezzi, alcuni dei quali considerevoli". La raccolta andò arricchendosi progressivamente negli anni seguenti, con reperti acquistati sul mercato di antichità o recuperati attraverso scavi, poco fortunati, condotti personalmente. In proposito va ricordata l'estraneità dall'ambiente orvietano di gran parte dei reperti costituenti la raccolta in questa prima fase, a cui spesso, invece, vengono ricollegati sotto la suggestione delle vicende successive. Nel giugno-luglio 1868, Mauro Faina redasse un primo inventario dove sono registrati 2106 reperti (escluso il monetiere). Le antichità, conservata nel palazzo di famiglia a Perugia, erano suddivise in quattro sale: “dei buccari", "dei bronzi", "dei vasi dipinti" e "degli Idoli". Scorrendo l'inventario ci si avvede che le stanze "dei buccari" e "degli Idoli" presentavano un certo carattere di unitarietà, mentre le altre due accoglievano materiali differenti per genere, cronologia e area di produzione. L'incremento della raccolta fu rapido per via delle considerevoli somme investite. Attualmente non è possibile ricostruire per intero la collezione di Mauro, ma si riesce ad individuare alcuni dei suoi acquisti.
EUGENIO FAINA Senatore e archeologo Alla morte di Mauro, Eugenio ereditò la raccolta e apportò correzioni considerevoli nei metodi di conduzione di essa per via di una preparazione culturale superiore e di una più avvertita consapevolezza circa le modalità della ricerca archeologica. Un primo mutamento d'indirizzi è indicato dal trasferimento della collezione da Perugia a Orvieto. Un secondo cambiamento è rappresentato dalla scelta di acquistare esclusivamente materiali di provenienza orvietana, nella consapevolezza dell'importanza di non estrapolarli dal loro contesto storico. Attenzione che si estese al rispetto del corredo funerario di provenienza. Suggerimenti che, con ogni probabilità, gli vennero da Gian Francesco Gamurrini e Adolfo Cozza, due importanti archeologi italiani dell'epoca, il secondo dei quali orvietano, con i quali ebbe rapporti di familiarità. Il numero dei reperti collezionati al 1881 è fornito da un inventario ed è pari a 3156 circa. La cifra può essere confrontata con quella dell'inventario del 1868 dove erano registrate 2106 antichità. Il conte, in seguito, per via anche del suo impegno politico, cessò di acquistare antichità e fu tra i promotori del Museo Civico Archeologico di Orvieto. A lui si deve, inoltre, la pubblicazione del primo catalogo a stampa della raccolta curato da Domenico Cardella (1888).
I PRIMI ACQUISTI I consigli di Gian Francesco Gamurrini Nel delineare la figura Eugenio Faina si è accennato all'amicizia con Adolfo Cozza e alla familiarità con Gian Francesco Gamurrini, uno tra i maggiori archeologi italiani dell'epoca e a lungo Commissario dei Musei e degli Scavi dell'Etruria e dell'Umbria. Proprio a G.F. Gamurrini si deve il suggerimento di acquistare una serie di vasi rinvenuti nella necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo. Nell'archivio della Fondazione Faina si conserva un documento, purtroppo lacunoso, con la descrittiva di dodici vasi (quella di altri diciotto è andata perduta), di cui si raccomanda l'acquisto. Undici di essi sono di produzione attica, mentre uno solo è di fabbrica etrusca. Essi Sono esposti in questa sala. L'acquisto segnala un cambiamento d'indirizzo nella conduzione della nella conduzione della raccolta, all’interno della quale, sotto la gestione di E.Faina, confluiranno materiali rinvenuti nel territorio orvietano.
L'ARCHEOLOGIA IN ORVIETO NELL'OTTOCENTO Mercanti e archeologi Il trasferimento della raccolta Faina da Perugia ad Orvieto risultò pressoché coevo all'inizio di sistematiche e fortunate campagne di scavo nei dintorni di Orvieto. Esse indirizzarono l’attenzione del mondo archeologico e del mercato antiquario verso l'antica Velzna, mentre volgeva al termine il sacco dei territori limitrofi di Vulci e di Chiusi. I ritrovamenti precedenti non avevano consentito di delineare il passato più antico della città, che, ad esempio, risulta nebuloso ancora nella prima edizione (1848) del prezioso libro di viaggio The Cities and Cemeteries of Etruria di George Dennis. Il fortunato ritrovamento (1863) di due tombe dipinte in località Poggio Roccolo presso Settecamini (denominate in seguito, dal nome dello scopritore, Golini I e II) inaugurò la stagione delle ricerche, che s'indirizzarono soprattutto verso le necropoli di Crocifisso del Tufo e di Cannicella. Gli scavi vennero eseguiti utilizzando tecniche discutibili anche per l'epoca. Gustav Körte lamentò l'assenza di "disegni e di notizie esatte, prese durante lo scavo, intorno al contenuto delle singole tombe", mentre Gian Francesco Gamurrini denunciò che lo scopo principale degli scavatori "era di scandagliare le tombe se contenevano ancora oggetti di antichità per trarne profitto". Eugenio Faina, Ispettore Onorario ai. Monumenti e agli Scavi, tentò di arginare la dispersione del patrimonio archeologico locale scegliendo, in un primo momento, di acquistare solo materiali di provenienza orvietana e poi impegnandosi per l'istituzione di un Museo Civico Archeologico (1879).
Sempre ad E. Faina si deve la promozione di campagne di scavo condotte scientificamente.
LA COLLEZIONE VISTA DA GUSTAV KÖRTE L’occhio dell’archeologo Nel 1877 apparve, negli Annali dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica, l’importante saggio Sulla necropoli di Orvieto di Gustav Körte. L’articolo può essere utile per ricostruire le caratteristiche della raccolta Faina sul finire degli anni Settanta dell'Ottocento. Dall'articolo di G. Körte apprendiamo che Eugenio Faina "pensò di acquistare a mano gli oggetti provenienti dagli scavi Mancini" nella necropoli di Crocifisso del Tufo riuscendo a formare "un museo locate della più alta importanza". Dove "ognuno vi può fare uno studio complessivo di tali monumenti formanti un insieme per il luogo del loro ritrovamento, studio che diventa impossibile allorquando, come al solito, gli oggetti vanno qua e là dispersi nel commercio". Nella collezione erano confluiti, provenienti da Crocifisso del Tufo “oltre un centinalo di vasi dipinti", "pochi vasi di una tecnica più rozza e che fuori dubbio provengono da una fabbrica locale etrusca", 83 buccheri, diversi "oggetti di bronzo" e alcuni "oggetti di oro, di argento e pietre preziose". Sulla scorta delle informazioni fornite dallo studioso tedesco è possibile ricostruire un corredo tombale. Esso comprendeva "due anfore a figure nere del solito stile rigido" non identificabili per la genericità della descrizione fornita, una kylix attribuita al Pittore della Clinica, ancora una kylix del Pittore di Colmar, uno pseudonimo databile agli inizi del V secolo a.C., che discende dalla maniera del Maestro del Dioniso di Boston, un'ansa, pertinente a un'olpe, decorata da una maschera di Sileno e, infine, una "lamina con palmette a stampa".
IL MUSEO DESCRITTO DA DOMENICO CAMELIA "Lasciare Orvieto senza visitare il museo Faina è cosa biasimevole" La prima guida della collezione Faina venne pubblicala nel 1888, a cura di Domenico Cardella "professore nelle scuole secondarie di Orvieto". Il libriccino è prezioso in quanto descrive lo stato del museo alla fine dell'Ottocento e fornisce per i reperti esposti indicazioni, quali la provenienza e la collocazione, che, altrimenti, sarebbero andate perdute. Il museo aveva sede nel secondo piano del palazzo Faina e occupava sei sale. La possibilità di visitarlo era affidata alla liberalità dei proprietari. Nella sala d'ingresso erano collocati reperti eterogenei: canopi; cippi; urne cinerarie in terracotta; ceramica comune, argentata, a vernice nera; e altro ancora. Seguiva quindi il monetiere ricco di circa 3000 esemplari. La terza stanza, delta "dei bronzi", presentava la congerie dei bronzi etruschi e romani raccolti dai Faina. Qui erano esposti pure i reperti preistorici. Nella quarta sala, denominata "delle tazze", trovavano posto soprattutto kylikes di produzione attica. Nella successiva, denominata "dei buccheri", si trovava la serie dei buccheri "in buona parte provenienti da Chiusi", città dove Mauro Faina aveva operato i primi acquisti. Il percorso si chiudeva con la camera "dei grandi vasi dipinti", dove figuravano i capolavori della raccolta.
EXEKIAS Un grande artista Exekias va annoverato fra i maggiori ceramografi attici nella tecnica a figure nere. La sua attività come pittore si colloca nel terzo venticinquennio del VI secolo (550-525 a.C.), mentre come vasaio è probabile che sia stato attivo più a lungo. Egli innalzò, per la prima volta, la pittura vascolare a un livello vicino a quello delle arti maggiori. Come vasaio egli fu l'artefice dei primi sviluppi delle coppe di tipo A, dell'anfora a profilo continuo di tipo A (di cui si conoscono esemplari di grandi dimensioni, alti oltre sessanta centimetri) e del cratere a calice; non si possono dimenticare nemmeno le coppe miniaturistiche che realizzò per altri ceramografi. Il suo stile come pittore è contrassegnato da una dignità quasi statuaria: la figura umana entra a pieno titolo nella ceramografia. Poche sue raffigurazioni mitologiche seguono schemi prestabiliti, anzi alcune fissano regole nuove. La collezione Faina ospita tre anfore attribuite all'artista. Esse vennero rinvenute nella necropoli di Crocifisso del Tufo, situata ai piedi della rupe. Il loro arrivo a Velzna (=Orvieto) indica il benessere raggiunto dalla città-stato nella seconda metà del VI secolo a.C.
I REPERTI PREISTORICI E PROTOSTORICI Prima degli Etruschi I reperti esposti in questa sala offrono un panorama dei materiali facenti parte della collezione e riguardanti epoche precedenti a quella etrusca. Essi sono in gran parte privi di indicazioni sui contesti di rinvenimento, e quindi di più difficile inquadramento cronologico e storico. E' stato comunque possibile isolare un nucleo di reperti riferibili a un arco cronologico assai ampio compreso tra l'età eneolitica e gli inizi dell'età del Bronzo, e un altro interessante la protostoria più tarda (Bronzo finale e prima età del Ferro). Mancano testimonianze riferibili con certezza ad epoche intermedie (Bronzo medio e recente). Reperti rappresentativi del primo gruppo sono un vaso a fiasco, due pugnali, alcune asce in bronzo e, verosimilmente, una ricca serie di punte foliate di freccia in selce. Il nucleo più recente comprende reperti ceramici e svariati bronzi (fibule, spilloni a rotolo e a rotella, rasoi lunati con dorso a curva continua, asce ad alette e a cannone, punte di lancia, di giavellotto e di freccia). I luoghi di rinvenimento non sono noti, ma i confronti tipologici suggeriscono l'agro orvietano, il territorio chiusino e altre aree interne alla sinistra del Tevere. Una provenienza da necropoli appare verosimile per le ceramiche e per buona parte dei bronzi, in considerazione del buono stato di conservazione. Un rinvenimento in ripostigli si può ipotizzare per le asce sulla base di considerazioni concernenti la tipologia, la cronologia e le condizioni di conservazione. Di riferimento più incerto sono le punte di lancia e di freccia.
IL BUCCHERO Il colore nero è dovuto... Ceramica, realizzata al tornio, tipica del mondo etrusco in un arco cronologico ampio, dal VII al V secolo a.C. Il nome deriva dallo spagnolo bucaro, termine con il quale veniva designato un particolare genere di vasi ritenuti simili e importati dall'America meridionale. Il colore nero è dovuto a processi di riduzione verificatesi durante la cottura, quando l'ossido ferrico contenuto nell'argilla si trasforma in ossido ferroso. L'inizio della produzione si pone nel primo quarto del VII secolo (700-675 a.C.), con esemplari dalle pareti particolarmente sottili arricchite spesso da una decorazione impressa o graffita. Si tratta del cosiddetto bucchero sottile, di cui i centri di produzione più attivi furono Cerveteri, Veio e Tarquinia. Tra la fine del VII e la prima metà del VI secolo a.C. il bucchero è presente in tutta la regione controllata dagli Etruschi, e venne esportato ampiamente nel Mediterraneo raggiungendo l'Italia meridionale, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, le coste della Francia e della Spagna, Cartagine, la Grecia, Rodi, Cipro e la Siria. Nello stesso periodo fiorirono le fabbriche dell'Etruria centro-settentrionale: si segnalano quelle di Chiusi, nelle quali venne prodotto il cosiddetto bucchero pesante, caratterizzato da pareti spesse e da una decorazione plastica e particolarmente ricca. Con l'inizio del V secolo a.C. la produzione andò scadendo di qualità: l'argilla poco depurata assunse in cottura un colore grigiastro (bucchero grigio). Il bucchero venne sostituito progressivamente nell'uso dalla ceramica a vernice nera.
CERAMICA ATTICA A FIGURE NERE Artisti e artigiani Gran parte della ceramica attica giunta fino i noi è stata rinvenuta in Italia; ciò ha comportato un ritardo nel riconoscimento dei vasi in questione come documenti della produzione artistica o artigianale dell'Attica, e infatti fino al Rapporto intorno ai vasi volcenti (1831) di Eduard Gerhard vennero ritenuti di fabbrica etrusca tranne da J. J. Winckelman e da L. Lanzi. A partire dalla fine del secolo scorso, gli studiosi hanno iniziato ad occuparsi dell'attribuzione dei vasi non firmati; spetta comunque a John Davidson Beazley (1885-1970) avere sistemato l'intera produzione. I nomi dei pittori ateniesi noti con sicurezza sono circa una dozzina, ma gli artisti e i gruppi isolati da J.D.Beazley sono pressappoco quattrocento. La loro designazione è convenzionale e può essere stata ispirata dal nome del ceramista o del pittore, dal numero un vaso giudicato centrale nella produzione dell'artista, del collezionista, da peculiarità stilistiche o da altro ancora. Il progresso degli studi ha consentito alla ceramica attica di divenire prezioso elemento di datazione all'interno dei contesti archeologici. Le opere che oggi ammaliamo nei musei sono creazioni di artigiani attivi in prevalenza all’interno di un quartiere il Ceramico - di Atene, e attenti alle richieste del mercato. Al punto che alcuni ateliers arrivarono ad forme vascolari tipiche dell'Etruria per venire incontro alle esigenze della clientela residente in quella regione.
CERAMICA ATTICA A FIGURE NERE La grande stagione dei ceramografi di Atene La tecnica pittorica a figure nere venne ideata a Corinto verso il 700 a.C., consiste nell'eseguire figure a silhouette piena e nell'incidere particolari interni in maniera tale da lasciare trasparire il colore dell'argilla. E' previsto il ricorso a tocchi di bianco o di paonazzo. Intorno al 630 a.C. i ceramografi ateniesi iniziarono a utilizzare tale tecnica nelle figure di maggiore impegno, estendendola, alla fine del secolo, agli elementi secondari di riempimento. Ebbe inizio così la grande stagione della ceramica attica a figure nere, destinata ad avere successo a lungo e a conquistare i mercati del Mediterraneo. Agli inizi la produzione sembra rivolta prevalentemente alle necessità dell'Attica, ma durante il venticinquennio 575-550 a.C. le esportazioni superarono già le richieste della clientela locale. Il mercato più ricettivo divenne l'Etruria tirrenica, e, nel suo ambito, la città-stato di Vulci. In questo periodo operarono i pittori delle "coppe di Siana", Kleitias (autore del celebre cratere François, rinvenuto a Chiusi), Nearchos e i decoratori del Gruppo Tirrenico. Tra il 550 e il 525 a.C. un quarto della produzione si fermò in Italia. Caratterizzano il periodo Lydos, il pittore di Amasis, i cosiddetti Piccoli Maestri e, soprattutto, Exekias un maestro di livello notevolissimo. I decenni finali del VI secolo a.C. videro l'introduzione delle figure rosse, ma molti artigiani rimasero fedeli alla tecnica tradizionale che continuava a incontrare il gusto della clientela non ateniese. Tra i continuatori della tradizione si possono ricordare Lysippides, Antimenes e i pittori del Gruppo di Leagros. Conosciamo anche artisti
versati in ambedue le tecniche, come ad es. il pittore di Andokides. Nel periodo 500-475 a.C. la produzione a figure nere risulta ancora consistente, ma il livello qualitativo scese sensibilmente: segno di una crisi profonda, che condurrĂ progressivamente al suo abbandono.
CERAMICA ATTICA A FIGURE ROSSE Una produzione nuova La tecnica a figure nere era stata utilizzata dalle maestranze ateniesi a lungo. Il suo declino non si accompagnò con la fine della pittura vascolare, dal momento che, proprio ad Atene, intorno al 530 a.C., venne sperimentato un nuovo tipo di decorazione dei vasi. Il procedimento di realizzazione è invertito rispetto a quello delle figure nere: le figure e i motivi decorativi vengono lasciati nel colore dell'argilla, mentre il resto della superficie del vaso è verniciato in nero. I particolari interni sono disegnati a vernice. La novità ebbe un successo immediato in Atene, più refrattari furono i mercati esterni. Il primo artista a ricorrere alle figure rosse fu il pittore di Andokides (attivo tra il 530 e il 515 a.C.), nella fase di sperimentazione ebbero un ruolo importante anche Psiax e Paseas. Essi precedono il gruppo dei Pionieri, all'interno del quale si utilizzò quasi esclusivamente la nuova tecnica e si preferì dipingere vasi di grandi dimensioni. I membri del gruppo firmavano le proprie opere, identificavano i protagonisti della scena raffigurata, aggiungevano motteggi scherzosi anche nei confronti di altri pittori. Caposcuola sembra essere stato Euphronios, ricollegabili al gruppo sono Smirkos, Euthymides, Hypsis, ecc. La coppa, forma non prediletta da Andokides e dai Pionieri, fu comunque assai diffusa fin dagli inizi della produzione e alcuni pittori si specializzarono nella sua decorazione: si ricordano Oltos, Epiktetos, Skythes.
CERAMICA ATTICA A FIGURE ROSSE Nuovi capolavori Le guerre persiane non influenzarono negativamente l'attività delle officine ateniesi, le quali, nel primo venticinquennio del V secolo a.C., fecero registrare una notevole produttività. I vasi a figure rosse conquistarono i mercati stranieri, soprattutto quelli etruschi nel cui ambito l'area padana iniziò ad essere particolarmente ricettiva. I ceramografi maggiori del periodo furono il pittore di Kleophrades e quello di Berlino, i due più grandi artisti della tecnica a figure rosse: il pittore della forza e il pittore della grazia secondo la definizione di J.D. Beazley. La coppa risulta una forma particolarmente apprezzata (tra il 500 e il 490 a.C., metà della produzione è costituita da coppe): tra i decoratori si menzionano Onesimos, il pittore di Brygos, Douris e Makron. Il secondo quarto del secolo segna il più alto livello produttivo delle botteghe ateniesi: gli stimoli offerti dal confronto con l'attività di pittori parietali quali Polignoto di Taso e Mikon aiutarono a conservare elevato il livello qualitativo anche a fronte di un aumento considerevole della produzione. Il mercato interno e quelli padano e siceliota risultano i più aperti. Tra i ceramografi del periodo ci si limita a segnalare Hermonax, allievo del pittore di Berlino. Dopo il 450 a.C. la produzione subì un forte ridimensionamento, ma sempre alta rimase la qualità della produzione. Il mercato interno ne assorbì una fetta considerevole, mentre le esportazioni incontrarono delle difficoltà specie verso l'Etruria tirrenica. I decenni finali del secolo videro una vera crisi prima quantitativa e poi qualitativa. il secolo successivo vide una produzione limitata e, verso la sua fine, il superamento della tecnica a figure rosse.
I BRONZI DEGLI ETRUSCHI Una produzione di grande qualità Nella seconda metà del V secolo a.C., poeti attici, Crizia e Ferecrate, lodarono la produzione etrusca in bronzo: il primo avrebbe voluto che tutta l’utensileria domestica fosse di fabbricazione etrusca, l'altro ne vantava, in particolare, le lucerne. La conferma della qualità dei prodotti ci viene dalla loro area di distribuzione, attestata archeologicamente, che esula dai confini "nazionali" e, per la grande statuaria, da alcuni capolavori assoluti giunti a noi quali il “Marte” di Todi raffigurante un guerriero (Hoo a, (400 a.C. circa), la Chimera (400-350 a.C.) rinvenuta in Arezzo, e l' Arringatore (datato per lo più intorno all'80 a.C.). In proposito si può ricordare che il filosofo ed uomo politico Metrodoro di Scepsi, definito un acceso antiromano da Plinio, ricorda che la conquista della città di Velzna (Orvieto), nei pressi della quale si trovava il Fanum Voltumnae (il santuario federale degli Etruschi), fruttò un bottino di 2000 statue ai vincitori. L'uso del bronzo fu assai diffuso in Etruria. In bronzo erano realizzate sculture votive di grandi e piccole dimensioni, opere di prestigio particolare come i carri da parata, armi, "servizi" utilizzati nei banchetti aristocratici, utensili e altro ancora. Le tecniche di lavorazione risultano influenzate dalle esperienze centro-europee dell'età del Bronzo e da quelle maturate nel mondo greco; l'incontro, in Etruria, dei due filoni tecnologici portò a una crescita notevole delle conoscenze metallotecniche.
CERAMICA FIGURATA ETRUSCA Ad imitazione dei Greci La pittura vascolare è utilizzata solo occasionalmente alla fine del IX secolo a.C. nell'Italia centrale. Un salto di qualità si verificò lungo il secolo successivo a seguito dei contatti sempre più frequenti, con il mondo greco, dove, dopo la crisi della civiltà micenea, si era sviluppata una tradizione complessa e articolata di ceramica dipinta con motivi geometrici. L’importazione di tali prodotti fu alla base dello sviluppo della ceramica “etrusco-geometrica". I centri di produzione più importanti sembrano essere stati Veio, Vulci, nella cui sfera gravitava Bisenzio, e in misura minore, Tarquinia. La lezione geometrica non si arrestò bruscamente, ma continuò, fin oltre la metà del VII secolo a.C., con la produzione definita subgeometrica uscita, in notevole misura, da botteghe di Cerveteri, e in cui le componenti stilistiche euboicocicladiche risultano affiancate da altre di derivazione protocorinzia. Il progressivo ingresso di scene narrative denota un mutamento nel gusto dei committenti sempre più a conoscenza delle saghe greche. La successiva produzione etrusco-corinzia (630-540 a.C.) si sviluppò grazie all'influenza esercitata dall’importazione di vasi protocorinzi e corinzi e alla presenza di artisti immigrati, come il pittore della Sfinge Barbuta. L'epicentro della nuova produzione fu Vulci. A partire dal 580 a.C. si riscontrano un incremento quantitativo dell'attività delle officine e una diminuizione del loro livello qualitativo, come suggeriscono i Cicli, complementari, delle Olpai e dei Rosoni. Un'ulteriore, vistosa contrarazione del ventaglio delle forme e delle decorazioni si nota nei decenni finali della produzione etrusco-corinzia (560-540 a.C.).
L'introduzione della tecnica a figure nere rivitalizzò la tradizione e si accompagnò ad una grande attenzione per le novità elaborate in ambiente greco-orientale e ad Atene. Vulci continuò ad essere il centro più attivo, dove operò, tra l'altro, il pittore di Micali riconosciuto come il più prolifico. La ceramica attica a figure rosse incontro i favori della clientela etrusca soprattutto fra il 500 e il 470 a.C., ma ebbe ripercussioni limitate e tardive nell'attività delle botteghe locali. Numerosi ceramografi preferirono ottenere l'effetto delle figure rosse suddipingendo la superficie del vaso verniciata in nero. La produzione interessò comunque un ampio arco cronologico e i centri di produzione privilegiati furono Vulci, Cerveteri, Orvieto, Chiusi e Volterra. A partire dagli inizi del III secolo a.C. la ceramica figurata cedette progressivamente il passo a produzioni più standardizzate, quale, ad esempio, la ceramica a vernice nera.
CERAMICA FIGURATA ETRUSCA NELLA COLLEZIONE FAINA "I buoni consiglieri ed .estimatori di cose antiche" Una selezione interessante produzione ceramica etrusca figurata è presente nel museo Faina. I vasi provengono in buona parte dagli scavi di R. Mancini nella necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo. Per i vasi di provenienza sconosciuta proporre Orvieto come luogo di rinvenimento può essere solo un'ipotesi di lavoro, dato che, Mauro Faina, iniziatore della raccolta, operò acquisti ed effettuò scavi in diverse zone dell’Etruria. Le indicazioni di "buoni consiglieri ed estimatori di cose antiche" consentirono ai Faina di limitare ai massimo l'acquisto di falsi (la cui produzione era particolarmente intensa nella seconda metà dell'Ottocento), ma diversi vasi presentano pesanti restauri ottocenteschi e conseguenti ridipinture. Della ricca serie di reperti esposti si segnalano alcuni pezzi di particolare valore storico e/o artistico. Un'anfora da assegnare alla classe "white on red ware", realizzata forse in ambito vulcente verso la fine del VII secolo a.C. Gli esemplari attribuibili al pittore di Micali e alla sua cerchia, la cui officina va localizzata a Vulci e fu attiva nell'ultimo venticinquennio del VI secolo a.C. Le due anfore e lo stamnos del cosiddetto Gruppo Orvieto, la cui caratteristica principale è rappresentata dalla vernice rosso-mattone delle figure. In passato si era inclini a riconoscere un difetto di cottura nella colorazione rossa, oggi si è propensi a ritenerla un fatto intenzionale avente lo scopo d'imitare la ceramica attica a figure rosse. Il gruppo, testimoniato da più di sessanta esemplari, venne realizzato a Velzna (=Orvieto), centro
dove probabilmente furono esperiti i primi tentativi d'imitazione della nuova tecnica elaborata ad Atene. Si segnalano, infine, la pelike attribuita al pittore di Sommavilla (375-350 a.C.), i vasi riconducibili al Funnel Group e due kelebai provenienti forse da Perugia. Un'attenzione particolare va rivolta al Gruppo di Vanth.
IL GRUPPO DI VANTH Ceramiche orvietane del IV secolo a.C. La denominazione gruppo di Vanth indica una serie di vasi prodotti a Velzna (= Orvieto) negli ultimi due decenni del IV secolo a.C. Il gruppo trae il nome da una divinità femminile dell'Oltretomba etrusco, rappresentata su due esemplari. Vanth è raffigurata come un personaggio femminile alato, spesso con uno o due serpenti avvolti intorno alle braccia. Tra i suoi attributi più frequenti sono la fiaccola, le chiavi, il mantello e un rotolo, parzialmente svolto, dove può essere indicato il nome della dea. Attualmente si è propensi a ritenere che i vasi siano usciti da un'officina orvietana, influenzata dalla produzione di Vulci e di Falerii, e rappresentino la fase finale dell'attività di maestranze locali particolarmente versate nella tecnica a figure rosse, che aveva una lunga tradizione in Orvieto. Le caratteristiche stilistiche del gruppo sono da riconoscere nelle figure disegnate da una linea spessa, nel largo uso dei ritocchi bianchi e della vernice diluita, atta "a creare la suggestione di un'atmosfera densa e fumosa, in stretta coerenza con la particolare natura loci entro la quale i personaggi sono chiamati a muoversi". La scena dell'arrivo del defunto agli Inferi sembra particolarmente cara al pittore, che tende, consapevolmente o meno, a trasformare il mostruoso in caricaturale. I vasi del gruppo conservati nella collezione Faina provengono dai dintorni di Orvieto, ma non si conosce la località precisa di rinvenimento ignota già a G. Körte.
“Il fascino di una collezione sta in quel tanto che rivela e in quel tanto che nasconde della spinta segreta che ha portato a crearla.� Italo Calvino, Collezioni di Sabbia