SOCIETÀ DANTE ALIGHIERI
Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus
A CASA COI NONNI Storie di famiglie allargate... tra le generazioni
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Prima edizione: settembre 2012 ISBN 978 88 6129 900 9 © 2012 by cleup sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496) www.cleup.it Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. Impaginazione di Cristina Marcato. Grafica di copertina di Massimo Maltauro.
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Indice
Presentazioni Ripartire dalla famiglia allargata Angelo Ferro, Presidente Fondazione OIC Onlus
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Di nonno in nonno, le belle storie della nostra infanzia Antonia Arslan, Presidente della Giuria
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A casa con i nonni, un’antologia di ricordi Luisa Scimemi di San Bonifacio, Presidente emerita Società Dante Alighieri – Comitato di Padova
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Abbiamo bisogno di un nuovo Umanesimo Alessandro Russello, Direttore «Corriere del Veneto»
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Un nonno non si improvvisa Roberto Papetti, Direttore «Il Gazzettino»
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Due nonne strordinarie 22 Antonio Ramenghi, Direttore «Il mattino di Padova», «La tribuna di Treviso», «La Nuova di Venezia e Mestre», «Corriere delle Alpi» Anziano, una parola da maneggiare con cura Ario Gervasutti, Direttore «Il Giornale di Vicenza»
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Verso un’epoca di super-nonni Maurizio Cattaneo, Direttore «L’Arena»
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La famiglia intergenerazionale paradigma anche per l’azienda Fabio Franceschi, Presidente Grafica Veneta SpA Anche noi… una famiglia allargata Ambrogio Fassina, Presidente Cleup
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Racconti & Poesie Nonna e bisnonna Tempi lontani A casa coi nonni Il ricordo dei nonni per le mie sante feste e l’amore del mio canto Al nonno (25/1/1920 - 27/2/2012) Le forti radici della famiglia. Un insegnamento dal passato al futuro Una lunga vita Altri tempi Ricordi di un bambino di… ottanta anni Evviva i nonni! Una famiglia di campagna Suona ancora “Lui e Lei”, due nonni speciali Nell’amore uniti Ninna nanna… pupa zuccherosa A casa con i nonni Se chiudo gli occhi In casa La mistica ortodossa La mia fragile forte Nonna
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33 35 37 40 42 43 53 56 59 63 67 71 74 77 80 85 87 89 93 95
La mia famiglia: ieri un alveare, oggi piccole cellette La mia nonna Diario di un’amicizia C’era una volta… Il gioco di una volta Insieme La valigia dei ricordi Nonno d’America La Cappella del Nonno Una famiglia matrioska. L’incrocio interetnico (e casuale) di quattro generazioni
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I partecipanti Civitas Vitae, la prima infrastruttura di coesione sociale in Italia I promotori
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Presentazioni
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Ripartire dalla famiglia allargata
Giunto ormai alla quinta edizione, il nostro concorso letterario, superato l’abbrivio, si avvia a diventare un appuntamento di tradizione. L’allargamento dei partner editoriali – dall’iniziale «Corriere del Veneto» alle testate Finegil, Athesis e a «Il Gazzettino» – è certamente un positivo segno del sempre più ampio coinvolgimento della società veneta, conseguito grazie alla grande sensibilità dei direttori Russello, Ramenghi, Papetti, Gervasutti e Cattaneo e dei loro Editori. Un vero lavoro di squadra che ha visto nella Presidente di Giuria Antonia Arslan un infaticabile motore di iniziativa e promozione, insieme alla casa editrice Cleup, Grafica Veneta e Dante Alighieri nelle varie fasi operative. Un ampliamento dei partner che mi pare felicemente coerente con il tema di quest’anno: racconti che parlano di “famiglie allargate”, un concetto oggi consueto che qui però ci è piaciuto declinare secondo una diversa ma antica prospettiva, che affonda le radici nella tradizione veneta della famiglia, dove spesso si trovavano a convivere sotto il medesimo tetto diverse generazioni, dai neonati fino ai nonni e perfino ai bisnonni. Famiglie che erano dei veri e propri “incubatori” di società e rapporti sociali; famiglie come “contesti” in cui l’intreccio intergenerazionale e la solidarietà hanno permesso la nascita e il cementarsi di valori e relazioni solide, basate su scambi reali, rifuggendo le deliranti logiche di quella virtualizzazione anche economica che ci ha fatto precipitare in questa durissima crisi. Ritrovare unità e coesione rappresenta quindi la chiave di questi nostri giorni, ripartendo proprio dal nucleo fami–9–
liare, prima cellula di civiltà. Una coesione la cui preziosità risulta pienamente compresa solo nel momento in cui viene meno, quando cioè una logica basata su separatezze e specializzazioni (dei mestieri, del numero, della performance, degli ambiti, dei protocolli ecc.) ha spazzato via anni di tessuto sociale intrinsecamente relazionale, sul quale era stato costruito, da tutti, un territorio florido, sano e accogliente. Urge un cambiamento radicale, fondato su coesione sociale, sussidiarietà, intergenerazionalità, ossia sul recupero della capacità collettiva di raggiungere obiettivi comuni, riportando nella prassi quotidiana quelle antiche abitudini di cooperazione e collaborazione oggi paradossalmente matrici di molti successi di intraprese innovative (basti pensare al valore della conoscenza collettiva sviluppato da un’iniziativa quale wikipedia) mentre sostanzialmente purtroppo disattese, annegate in egoismi e particolarismi sterili. Un ritorno ai “fondamentali” che non intende restare a crogiolarsi nel rimpianto del mondo passato ma che invece significa avere fiducia e visione del futuro, operando lungo una prospettiva che è nelle nostre mani, specie quando l’impegno dell’Io riesce a farsi Noi. In questa logica è cruciale il ruolo dei longevi come risorsa, in quanto portatori di esperienze (hanno superato una guerra mondiale!) e di saperi da trasmettere alle sempre più rassegnate giovani generazioni convinte che la realtà non si possa modificare e riprogettare: i longevi sono qui a dimostrare che le difficoltà si possono, si debbano superare; che il mondo si può, si deve cambiare. E magari anche rapidamente, soprattutto se tutti partecipano, nelle differenze di ruoli e responsabilità, da protagonisti per il Bene Comune. Non è una ripartenza facile, ma è in questa direzione che da anni la Fondazione OIC insieme alla schiera di crescenti sostenitori si è fatta parte attiva, costruendo un percorso che inizia con la storica esperienza di assistenza alle persone longeve per arrivare ad occuparsi di tutte le persone in situazione di fragilità, sia dovuta ad accadimenti esterni (il mondo della disabilità) sia connessa alla fase iniziale della vita (la prima infanzia).
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In questa logica, con inesorabile concretezza, la Fondazione OIC ha voluto realizzare nel tempo una vera e propria palestra, un laboratorio sociale da mettere a disposizione del territorio veneto, un contesto per esercitarsi e allenarsi, a partire dalle più giovani generazioni, a vivere e crescere in armonia di inclusione, sussidiarietà e solidarietà. Ecco la narrazione del Civitas Vitae (brevemente illustrata nelle pagine finali di questo libro), vera e propria “infrastruttura di coesione sociale” aperta e vitale perché generata da quell’agire donativo che, unendo, riesce sempre a ridare slancio ed energia per progredire. Angelo Ferro Presidente Fondazione OIC Onlus
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Di nonno in nonna, le belle storie della nostra infanzia
Quest’anno l’argomento proposto è stato davvero sentito, e il “raccolto” abbondante e valido. A casa coi nonni. Storie di famiglie “allargate” fra le generazioni è un tema molto bello e soprattutto stimolante, che ha parlato al cuore e alla mente di molti. Poco sentimentalismo, molta concretezza e fedeltà di ricordi, che ci hanno messo davanti agli occhi e all’immaginazione vividi quadri di ieri e di oggi, famiglione numerose in cui ognuno aveva il suo posto, caratteri scolpiti di personaggi indimenticabili. Ma anche belle storie contemporanee, di padri e madri affaccendatissimi, e di nonni che trovano nella cura dei nipoti una nuova giovinezza. Non è stato facile scegliere i racconti da pubblicare: molti autori si sono espressi con vigore e vivacità, da punti di vista diversi, affascinanti e complementari, che hanno tessuto davanti ai nostri occhi di lettori incantati un panorama ricco e variegato di memorie, di condivisione, di dolori e piccole gioie, di momenti di felicità. Tanti hanno ripercorso con semplicità e precisione le loro storie di vita, le loro memorie famigliari, gli ambienti, gli usi, i riti, la fede semplice della loro infanzia. Altri hanno legato l’ieri all’oggi, descrivendo vicende, episodi, fatti che dimostrano la sintonia profonda, anche se spesso non evidente o addirittura dissimulata, che ancora lega le generazioni, al di là di ogni apparente contrasto: spesso sul filo di un’ironia affettuosa e partecipe. Quasi mi pareva, a volte, di sentire le voci dei nostri antichi: non dissonanti, non cacofoniche, ma armoniosamente legate alla natura, alla terra, al lento inesorabile scorrere del tempo. – 12 –
Troviamo allora qui, in questo libretto leggibilissimo e delizioso, nonni saggi e nonni estrosi, gentili nonni taciturni e bonarie nonne generalesse, che reggevano il timone delle loro famiglie in epoche di fame, di tempesta e di guerra; e poi nonne sprint, nonne mistiche e nonne express, di campagna e di città: ma sempre al divertimento si accompagna una sottile nostalgia, pervasa dall’onnipresente sensazione che c’è molto da imparare, da queste storie. Riannodare il tessuto dello “stare insieme” con uno scopo, della sopportazione reciproca e della condivisione fraterna; riacquistare il senso del costruire insieme un vivere in cui nessuno è inutile, utilizzando il passato per rendere vivibile il futuro: questa è la scommessa – faticosa ma eccitante – che questo piccolo libro vuole persuaderci a tentare. Antonia Arslan Presidente della Giuria
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A casa con i nonni, un’antologia di ricordi
Con la partecipazione della Stampa e di un’editoria illuminata, la Fondazione Opera Immacolata Concezione ha avviato un originale processo di alfabetizzazione civile (quasi un surrogato inedito degli esami di riparazione a settembre…) che si rinnova ad ogni equinozio d’autunno, grazie alla partecipazione corale di uomini (e donne!) di buona volontà che, sempre più numerosi, affiancano l’attività meritoria degli operatori dell’OIC. Intitolato A casa con i nonni. Storie di famiglie allargate… tra le generazioni, il piccolo volume, allegato oggi ai nostri quotidiani, si presenta come un’antologia familiare fatta di ricordi, di abitudini mutuate dai genitori, dedotte dalle testimonianze di nonni e parenti anziani o dalla consuetudine domestica con personaggi autorevoli. E rappresenta una sorgente di documenti spontanei a cui attingere per riconoscere, confrontare e definire la nostra e l’altrui identità. È una sommessa epopea che ci racconta come, fin da bambini, apprendiamo dai maggiori di età a rispettare il prossimo, la natura, il mondo che ci circonda; e come sperimentiamo l’assurdità tragica della guerra, l’emigrazione verso terre lontane, il gusto della libertà, la gioia e il peso di scelte difficili, di promesse, di impegni che durano una vita: come diventare missionari in Africa, medici, maestri, operai… come si diventa adulti a propria volta, testimoni di una continuità confidente e familiare. In queste pagine si ritrovano le tradizioni e la cultura di un popolo, attraverso cui si rinnova, quotidianamente, la Storia più vera: nell’intimità della famiglia o tra le mura di comunità accoglienti, dove il dolore, le mille peripezie, le fatali disuguaglianze tra gli individui rie-
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scono ad essere assimilate e integrate con fraterna buona volontà in una convivenza pacifica e civile. Oggi una cronaca omologata tende a contrapporre categorie e gruppi sociali, generi e genti di diversa provenienza; la stessa azione politica, se da un lato risulta incapace di istituire un confronto aperto tra le sempre più numerose realtà pubbliche o private in gioco, dall’altro induce ad un livellamento culturale che scarta ogni diversità – a prima vista antieconomica – a favore di una globalizzazione generica, in teoria più conveniente. Con naturale semplicità, questi brevi diari raccolti dall’OIC fanno invece emergere dal nostro passato occasioni irripetibili, in cui l’esperienza e la saggezza delle generazioni precedenti si fanno guida e traccia esemplare per le generazioni successive, proponendo ai lettori, e non solo ai più giovani, una ri-formazione di base e una visione del mondo che permette di progettare entro coordinate valide in ambiti diversi, gli orizzonti politici del nostro futuro. Il rimedio, ci suggerisce Angelo Ferro – economista e imprenditore di successo, saldo nella sua fede profonda e trascinante in Dio e nel prossimo – non può che essere naturale. La natura umana ha, infatti, una sua organica funzionalità nel saldare le generazioni l’una con l’altra, in una logica universale d’insieme che ricompone in una continuità politica, oltre che sociale e familiare, la dicotomia tra giovani ed anziani, in realtà artificiale e, a vario scopo, spesso strumentalizzata. E favorisce l’evoluzione e il progresso sociale attraverso l’accumulo, nella memoria condivisa, di esperienze significative trasmesse dal linguaggio, raccolte dai libri. È nella condivisione dei nostri “ricordi” che si procede a costruire insieme un mondo solidale e migliore e si diventa artefici del proprio destino. Perché il tempo misurato dai nostri ricordi – diverso da quello astronomico, infinitamente lontano, o da quello meccanico prodotto da congegni elettronici – diventa il patrimonio inalienabile di ciascuno di noi: è il nostro tempo, scandito dalla nostra personale buona volontà, dal nostro impegno nel commisurarlo con il tempo degli altri. Non è più il tempo della necessità, ma diventa il
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tempo della libertà, che illumina ogni nostra singola scelta, che ci fa responsabili dei nostri fratelli, della loro e nostra vita in comune. Ecco quanto ci ricorda questo aureo libretto... Buona lettura e un autunno sereno, per tutti. Luisa Scimemi di San Bonifacio Presidente emerita Società Dante Alighieri – Comitato di Padova
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Abbiamo bisogno di un nuovo Umanesimo
Da genitore e comunicatore, recentemente, mi ha colpito l’esito di uno studio che indagava i limiti delle parole e dei linguaggi degli adulti rispetto alla soglia di attenzione dei bambini e degli stessi adolescenti, quantificata – tenetevi forte – in tredici secondi. Ho quindi pensato a quanto ridotte siano, pur nella media del dato percentuale, le mie chance nei confronti di almeno un paio di generazioni di interlocutori e rafforzato la mia convinzione. In quei mondi si entra, oltre che con la forza dell’amore, con un “metodo” fatto di tecnica seduttiva, di sensibilità affabulatoria, di empatia non solo programatica. E ho pensato che pur trattandosi di doti rare e poco frequentate, tutto il mondo compreso nel rischio del termine “adultismo” dovrebbe chiedersi se non sia il caso di fare uno sforzo – scuola in testa – ragionando sulla supremazia dell’autorevolezza e della lateralità rispetto al comodo salvacondotto dell’“autoritarismo”. Ma c’è un ragionamento rovescio che si impone ed è la soglia di disattenzione – immaginabile ma non sondata – che hanno le tribù del mondo giovanile e “giovanilista” nei confronti di quel patrimonio di meraviglie e di “esperienza” che hanno i cosiddetti “longevi”, categoria che detterà l’agenda di una rivoluzione già in atto ma per il momento in-visibile se non alle avanguardie politiche, sociali ed economiche. Una disattenzione che ha il proprio limite nell’esclusiva frequentazione fisica e culturale di un mondo di “coetanei” che pur nell’allargamento e nella trasversalità della platea anagrafica (dai trentenni ai cinquantenni gli stili di vita sono quasi identici) ha portato quasi a termine il processo di sfaldamento che – originato e consolidato dal modello economico – ha frantumato la famiglia patriarcale nella famiglia mononuclea – 17 –
re e in un mondo fatto sempre più di single. Con tutto il bene e tutto il male che ciò ha comportato. Si badi, l’“esperienza” non è quel sostantivo reso quasi neutro se non odioso dal peso dell’“autorità” che arriva dal passato. Il “fare esperienza” va riscoperto come unità di misura del mettersi in gioco, nel “rischiare la vita” per non farne morire il senso e le sue forme creative, produttive, culturali. Per capirci, non dobbiamo mandare i giovani in guerra per “esperire” ciò che è l’esperienza della guerra ma il carico di (dis)umanità che singolarmente e collettivamente si è prodotto in un’epoca. Potremmo dire – ancor più chiaramente – la stessa cosa per la “manualità”, per quella meraviglia dei processi e segreti che stanno dentro il prodotto e la materia ed è l’esperienza della scienza, della tecnica, del Pil di un Veneto che ha costruito in modo “duro e puro” la sua economia. Per questo il costante lavoro di ri-progettazione di una civiltà di valori che sta a cuore all’Oic e che quest’anno si muove sulla sfida della famiglia allargata e dell’intreccio generazionale, punta al massimo del bersaglio quando pone il problema del contesto, della comunità, dell’orizzontalità delle parole e delle emozioni, delle microstorie personali che fanno i destini del macro, della reciprocità dell’ascolto in una società, spesso, di storie che suonano sorde. La crescita in termini percentuali della generazione anziana (longeva, corregge da anni il lessico l’Oic) è destinata a correggere antropologicamente la nostra civiltà e ci regala una sorpresa: è più contemporanea di quanto non lo siano i soggetti deputati a vivere la contemporaneità declinata nelle nuove eventuali “esperienze”. Contemporanea, ad esempio, con la saggezza della “fatica”, che non è quella atavica e brutale della civiltà contadina – gravata dal giogo di una natura non sempre generosa e da sistemi di potere che la vedevano sottomessa e calpestata – ma è la fatica creativa che sottende ad ogni progetto, pulsione, idea, missione, passione. Allora, bisogna rendere non “coetanee” ma “contemporanee” le nuove forme di aggregazione, a partire da quelle familiari. Forme nuove e aperte. Che contengano gli affetti e le sfide, le crisi e le ripartenze. Non prigioni, ma “contesti”, – 18 –
come direbbe il professor Angelo Ferro. Anche architettonici e urbani, legati, oltre che alla socialità, alla funzionalità e al welfare, alla nuova geografia economica, culturale e sentimentale. Non la riproposizione – peraltro impossibile – di modelli patriarcali (peraltro sotto certi aspetti da rimpiangere), ma libere e basiche “comunità” dove la gerarchia è data da un neoumanesimo che arricchisce le persone portando nella case quel cumulo di esperienze personali e collettive e quella contaminazione di saperi di cui si parlava. Non è uno scherzo da poco. In ballo c’è la nascita di una nuova civiltà. Forse più sostenibile. In tutti i sensi. Alessandro Russello Direttore «Corriere del Veneto»
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Un nonno non si improvvisa
Un nonno non si improvvisa: infatti per farne uno ci vogliono anni”. Ci sono battute che, nella loro semplicità, hanno la capacità di strappare un sorriso, ma anche di sollecitare una riflessione. È il caso di questo acuto aforisma che porta la firma di un comico televisivo di qualche anno fa: Pino Caruso. Perchè è proprio così: i nonni in una famiglia e nella nostra società non posssono essere solo una presenza per quanto importante. Sono anche e soprattutto un risorsa. Forgiata dal tempo, dall’esperienza, dalle gioie e dai dolori. Anzi, tanto più il mondo corre, si sviluppa, cambia e impone o suggerisce nuovi modelli di vita e di comportamento alle nuove generazioni, tanto più il valore di questa risorsa aumenta. E proprio nella sua ragione sociale prima: cioè quella di nonno con la N maiuscola, ossia nella sua relazione con i nipoti. Di cui non può e non deve diventare un “genitore” di scorta o un semplice difensore. Ma di cui può essere invece, come ha ben scritto Angelo Ferro nell’introduzione al volume della quarta edizione di questo bel concorso, un produttivo ed originale “motore di ricerca”. Un’opportunità e insieme uno strumento, non imposto ma messo a disposizione dei propri nipoti per aiutarli, mentre crescono, ad addentrarsi nel mondo. Non solo per capirlo meglio o per affrontarlo con minori difficoltà. Ma, innanzitutto, per conoscerlo anche da angolature diverse. Insomma il nonno come presenza non solo rassicurante, ma anche stimolante. Di chi è capace di dare riposte, ma, nel contempo, di suscitare domande, curiosità, anche dubbi se necessario. Con la naturalezza che solo l’esperienza di una vita e le speciali relazioni che si creano dentro una famiglia possono regalare.
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A ben guardare è proprio questo il filo rosso che unisce le esperienze raccontate in questo istruttivo e originale libro: i nonni come valore aggiunto. Come motore di crescita per le nuove generazioni. Un motore ben rodato, naturalmente. Perchè, come si diceva all’inizio, un nonno non si improvvisa. Roberto Papetti Direttore «Il Gazzettino»
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Due nonne straordinarie
Non sono ancora nonno, anche se per gli anni che porto potrei già esserlo, ma spero prima o poi di diventarlo. Un mestiere che non ho potuto apprendere dai miei nonni maschi che non ho conosciuto perché se ne sono andati, assai giovani, prima che io arrivassi. In compenso ho avuto due nonne straordinarie. Una bella grande e grossa, Teresa: una donnona energica che gestiva in paese il deposito delle biciclette, una sorta di garage per chi arrivava sulle due ruote dove nonna le custodiva per poche ore o per un giorno intero (vien da dire che oggi di questi depositi ce ne sarebbe bisogno come allora e forse più, visti i continui furti di bici). Erano tantissime quelle che arrivavano dalla campagna e dai paesi vicini, da uomo e da donna, e ogni tanto riuscivo a farmi un giretto (la bici all’epoca era per noi ancora un lusso), profittando di qualche distrazione della nonna e scegliendomi quelle da donna che riuscivo a guidare meglio stando solo sui pedaIi, al sellino non arrivavo ancora. Al rientro poi dovevo schivare con abilità la mano tesa di nonna nella sculacciata. L’altra nonna, che si chiamava anche lei Teresa, era piccolina, e fu sempre chiamata ‘Teresina’, per distinguerla dall’altra. Era la mamma di mio padre, e nonostante la piccola stazza era una donna di una forza, di una tempra e di una fede granitiche. Capace di tirar su cinque figli, tre femmine e due maschi da sola, dopo la morte giovanissima del nonno. Il quale doveva essere davvero un bel tipo. E lo dico perché io sono uguale a lui, tanto uguale che nella visita periodica al cimitero quando andavo a trovarlo, giunto ai trent’anni nell’epoca in cui portavo i baffi proprio come il nonno nella
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foto della lapide, mi prese un sussulto: in quella foto di marmo mi specchiavo come nello specchio di casa. E mi preoccupai pure: non è che anch’io, arrivato a quell’età, ero giunto al mio capolinea? Fortunatamente non è stato così. E ho potuto continuare a godere dell’affetto, dei rimproveri, dei complimenti per i voti a scuola, e di tutte le altre cose di cui sono capaci le nonne, compresi i mille rosari che Teresina recitava per tutto il parentado. Teresa e Teresina, a differenza dei mariti, se ne sono andate già avanti con gli anni, nonostante le mille difficoltà affrontate nella vita perché oltre a restare vedove assai presto ebbero entrambe la casa distrutta dalla guerra, ma entrambe seppero ricominciare. La mia esperienza di famiglia allargata, seppur solo nella parte femminile, mi ha insegnato molte cose. Ma una soprattutto: la voglia di ricominciare anche dopo le disgrazie, anche dopo gli insuccessi, anche dopo i momenti di sconforto quando tutto ti sembra cadere addosso. Dalle nonne, e poi da mamma e papà, il ritornello che mi sono sentito ripetere spesso era che bisogna combattere ‘le belle battaglie della vita’ senza mai arrendersi. Da loro ho avuto sempre sostegno e sprone, con quella diversità di toni, di sensibilità e di visione rispetto a quel che sono e fanno i genitori e che completa l’educazione famigliare che resta ancora oggi, nonostante le difficoltà, la prima vera grande risorsa della nostra società. Antonio Ramenghi Direttore «il mattino di Padova» «la tribuna di Treviso» «La Nuova di Venezia e Mestre» «Corriere delle Alpi»
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Anziano, una parola da maneggiare con cura
Ricordo il giorno in cui scoprii che gli anziani hanno un’età. Prima di quel giorno, tutti coloro che erano nati prima di me, anche di un solo anno, erano "più vecchi"; e tanto bastava per catalogarli in una sezione della vita che per un ventottenne era allo stesso tempo ampia e vaga. Quel giorno di autunno del 1990 il caporedattore de «il Giornale», il burbero e minuzioso Michele Sarcina, mi chiamò in tipografia perché voleva parlarmi di un articolo che avevo appena consegnato. Prevedendo rimbrotti (i complimenti, se del caso, erano considerati una perdita di tempo e quindi Michele non mi avrebbe mai convocato per farmeli) mentre scendevo le scale rilessi la copia di quanto avevo scritto, cercando possibili refusi o errori, o mancanze sempre possibili anche in un banale articolo di cronaca. Niente, non c’era nulla che saltasse all’occhio. «Vieni, vieni», disse Michele con la voce arrochita dalle sigarette che all’epoca ammorbavano gli uffici: «Guarda qui cos’hai scritto». Lessi a voce alta il punto incriminato: «... l’anziana è stata raggiunta dai soccorritori mentre...». «Quanti anni ha la signora?», mi interruppe Michele. «L’ho scritto due righe più su: ne ha 79», risposi convinto di aver parato il colpo e pensando che fosse una questione di precisione nei dettagli. «E secondo te è anziana?», mi fulminò il caporedattore. Silenzio imbarazzato da parte mia: evidentemente c’era qualcosa che mi sfuggiva, o quantomeno c’era qualcosa a cui non avevo mai fatto caso prima. La spiegazione di Michele fu illuminante: «Sappi che in questo giornale vale una regola: può essere definito anziano solo chi ha almeno un anno in più del direttore». Sollevai la
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testa verso due postazioni più in là, e vidi il direttore – Indro Montanelli – chino come ogni sera sulla bozza della prima pagina che stava prendendo forma: aveva già superato gli ottanta anni, e per altri undici avrebbe rappresentato un faro per chi fa il mestiere di giornalista. Non so se la regola fosse stata imposta da Montanelli stesso, o se fosse un moto spontaneo di rispetto da parte dei suoi "ragazzi". So però che da quel giorno ogni volta che ho scritto la parola "anziano", o ho usato il termine "vecchio", l’ho fatto mettendomi nei panni di chi legge e non di chi scrive. E ho capito che tutto, anche l’età, è relativo. Si può essere vecchi a vent’anni, e giovani a ottanta: conta ciò che si è, ciò che si dà, ciò che si rappresenta. Conta godere il più possibile dell’esperienza e della storia che ogni "vecchio" ha accumulato e che è in grado di trasmettere a chi viene dopo. Conta l’esempio. Ario Gervasutti Direttore «Il Giornale di Vicenza»
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Verso un’epoca di super-nonni
Una volta c’erano i nonni. Oggi ci sono i «super-nonni». I primi, quelli dell’Italia socialmente un po’ sonnacchiosa del secolo scorso erano ben riconoscibili: dolci con i nipoti e comprensivi anche verso il resto della famiglia. Ma diciamolo: anche un po’ borbottoni e sovente fuori dal tempo, incapaci di interpretare appieno i cambiamenti della società. A loro toccava qualche ora di piacevole corvè coi nipoti. Punto. Poi in due decenni la società è cambiata. Il finimondo della globalizzazione, i repentini mutamenti sociali, culturali ed economici hanno minato a fondo (non solo nelle metropoli ma anche nei piccoli paesi) il modello di famiglia tradizionale. Infine è arrivata la grande crisi economica che ancor di più ha costretto le famiglie sulla via obbligata del cercar lavoro anche lontano da casa, dei due stipendi per arrivare alla fine del mese, della forsennata e spesso impossibile rincorsa nel coniugare impegni di lavoro con gli affetti e l’educazione dei figli. Così in quest’Italia in affanno e che sembra aver sacrificato i propri valori nel rincorrere l’effimero mito del giovanilismo, del consumo e del successo a tutti i costi, ecco spuntare centrale le figure del “super-nonno” e della “supernonna”. Loro del vecchio nonno stile 1900 mantengono la gentilezza dell’approccio e la saggezza del consiglio, ma in più devono tener unita la famiglia, sopperire alle assenze, e sostenere anche in senso economico “la tribù”. Tempo di borbottare non ce n’è. Passare il tempo su una bella panchina all’ombra? Neanche a parlarne. Trovarsi al bar con gli amici o per il the con le amiche? Ma scherziamo? Vedere nei figli – 26 –
“il bastone della vecchiaia”? Tutto il contrario. I supernonni ormai hanno un’agenda più fitta di un manager. Oltre che aprire il portafoglio devono diventare “tecnologici” per collegarsi via web a nipoti, figli e nuore. Devono conoscere gli orari dell’oratorio e dei corsi di nuoto ma anche il fuso orario di Sidney e come funziona Skype. Non solo: i nonni si devono leggere i manuali di psicologia di coppia e di comportamento adolescenziale per tentare di smorzare conflitti domestici e crisi giovanili. Al di là delle battute, in quest’Europa che guarda con speranze di progresso al nuovo millennio ci si rende sempre più conto che non si può fare a meno dell’esperienza, del conforto e del ruolo attivo della terza età. E che sia una fiaba letta a bassa voce a un nipote o un messaggio sul telefonino ai figli, è dietro quei sorrisi che si scopre, nel caos, un briciolo di serenità. Maurizio Cattaneo Direttore «L’Arena»
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La famiglia intergenerazionale paradigma anche per l’azienda
È sempre un piacere e una sfida essere partner del concorso letterario promosso dalla Fondazione OIC. Negli anni ho visto crescere la partecipazione dei concorrenti ed il recente coinvolgimento di tutti i quotidiani locali veneti è un’ulteriore testimonianza positiva. Il tema di quest’anno è particolarmente calzante sia con la realtà attuale sia con lo specifico dell’azienda e della mia in particolare. Ho sempre pensato che la famiglia, soprattutto se intergenerazionale, sia un asset fondamentale per la società e per il suo sistema economico. Un eccellente paradigma da copiare e adattare anche in contesti produttivi. Come nella famiglia si trasferiscono naturalmente e nel tempo i diversi saperi (dall’elementare camminare fino alla complessa etica personale e anche ad alcune competenze specifiche utili nel mondo del lavoro), anche in azienda si dovrebbe riuscire a creare un giusto mix di persone di diversa età, dove l’esperienza, la prudenza e l’equilibrio del più anziano trova bilanciamento nella naturale innovatività e sperimentalità del più giovane, riuscendo così a realizzare prodotti coerenti con le richieste del mercato. Mai come in questo momento di crisi il ri-porre al centro la famiglia mi pare un passaggio necessario e opportuno per tutti, ma non certo la sua valenza di “ente assistenziale” quanto per il suo poter essere un trampolino di lancio verso il mondo. Tutte le famiglie prima o poi si trovano ad affrontare diverse sfide (economiche ma anche di rapporti, certo le più difficili da risolvere); solo però le famiglie “solide”, che riescono a stare unite, facendo tesoro dell’esperienza trasmessa dalle persone anziane creando un vero spirito di condivisione ed aiuto, riescono a superare indenni le difficoltà. – 28 –
Ho fiducia che questo ripartire dai “fondamentali” cioè dalla famiglia come cellula base della società possa essere positivamente applicato non solo al mondo dell’impresa ma anche all’intera comunità di questo Paese: questa, e solo questa, può essere la strada per ripartire. Insieme. Uomini e donne, giovani ed anziani. Fabio Franceschi Presidente Grafica Veneta Spa
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Anche noi... una famiglia allargata
Quest’anno Cleup compie cinquanta anni. È una bella età per una casa editrice che, nata nel 1962 con il fine di agevolare gli studi universitari e professionali, ha saputo nel tempo mantenere i suoi principi, aderendo in pieno alla sua filosofia: Università e Territorio per Cultura. Non saremmo qui, ancora una volta tra i promotori di questa iniziativa ideata e fortemente voluta dall’amico Angelo Ferro, se anche noi, come i tanti “nonni” che possiamo leggere in questa raccolta, che si raccontano o sono raccontati da figli e nipoti, non avessimo avuto la convinzione che non è mai finito il tempo di progettare e riprogettarsi, perché la vita ci consegna sempre uno spazio per cambiare. E lo spazio per cambiare è nutrito dalla nostra esperienza e da quella maturata in uno scambio aperto e profittevole che solo una “famiglia allargata” può sostenere e garantire, sia nelle relazioni parentali sia nelle relazioni che si instaurano nell’ambito lavorativo, entrambe in continuo mutamento. Di questa evoluzione dovremo saper cogliere l’opportunità, specialmente in questo momento storico ed economico, facendo tesoro dell’esperienza dei “nonni” senza tralasciare la voglia di cambiamento e innovazione delle giovani generazioni, consapevoli che la nostra “apertura” non potrà che essere a beneficio di tutti. Questo libro ne è la testimonianza e l’augurio per iniziative future. Ambrogio Fassina Presidente Cleup
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Racconti & Poesie
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Nonna e bisnonna di Milena Bartolomei
“C’era una volta…”, iniziavano così le favole che le nonne raccontavano ai nipotini. Ma la mia nonna no: nonna Fanny era speciale: grande lettrice mi raccontava le storie dei romanzi famosi, e appassionata di lirica e cinema adattava trame di film e di opere che poi raccontava a me bambina. Mi piacevano anche le storie della famiglia di nonna Fanny: zii garibaldini (lei era nata nel 1882 proprio quando morì Garibaldi), patrioti mazziniani, ma la storia che più mi piacque fu quella della sua mamma, la bisnonna Rosa, che poi avrei conosciuto perché ospite da noi per un po’ di tempo. Era figlia unica di un signore di campagna toscana, benestante, notaio e giovanissima si era innamorata di un ragazzo di una famiglia malvista dal padre, che rimasto vedovo con la bimba piccola, si sentiva più che mai responsabile, e a quei tempi poi... I due ragazzi si vedevano di nascosto e con la complicità di una governante addirittura si incontrarono in una casetta di campagna. Le famiglie lo vennero a sapere: il ragazzo fu spedito in un’altra città, la piccola Rosa fu chiusa in casa, ormai bollata come donna perduta… Di matrimonio non se ne parlava, e chi mai avrebbe preso in moglie una ragazza che si era così compromessa? Ma qualche anno dopo capitò in paese un giovanotto intraprendente e spregiudicato, che sentita la storia si fece avanti. Era un orologiaio con una piccola bottega in un paese vicino e aveva avuto un incarico importante nel circondario: – 33 –
regolare gli orologi dei campanili di tutte le chiese, per cui ogni tanto faceva il giro dei paesi. Ambizioso, pensò che potesse essere una buona occasione. Si presentò al notaio e si accordarono: il giovanotto sposava la ragazza e in cambio avrebbe avuto una buona dote, metà al matrimonio, l’altra metà come si dice... “a babbo morto”. I due si sposarono e andarono ad abitare nel paese dell’orologiaio, che subito ingrandì la bottega e la fece diventare una bella oreficeria. Ma le cose in famiglia non andavano e peggiorarono ancora di più quando, morto il babbo di Rosa, ci si accorse che il resto del patrimonio era svanito: il vecchio si era illuso che nella sua campagna ci fosse del petrolio o del carbone e si incaponì con scavi facendo addirittura arrivare esperti dall’estero e ipotecando tutto quello che aveva. Il marito di Rosa, che poi era il bisnonno Eugenio, si sentì imbrogliato e poco dopo nonostante avessero due bambine, impose alla moglie di andarsene. La poverina, disperata ma non arresa, andò ospite con le bimbe all’inizio da una lontana cugina, poi si occupò come governante presso un signore vedovo con due bimbe. La cosa funzionò così bene che i due si innamorarono (non si potevano sposare, nonno Eugenio era vispo e vegeto e visse fin verso i novant’anni!) ma si amarono profondamente e vissero felici insieme fino alla morte di lui, per oltre quarant’anni, con le bimbe che, diventate grandi, si sposarono tutte felicemente. Rosa e Napoleone (così si chiamava il compagno) ebbero un nugolo di nipoti da una parte e dall’altra, che rallegrarono la loro vecchiaia. Era una grande famiglia e ricordarla mi rende felice. C’era una volta, ma è ancora nei nostri cuori di bisnipoti.
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Tempi lontani di Maria Grazia Bresolato
In tempi lontani, ma forse non troppi, 35… il ricordo è così nitido e pieno di colori e gioie. Ricordo ancora quella poltrona verde, era là che sedeva la mia dolce e cara nonna “Gilda”, lei era là, e io sulle sue gambe gonfie sedevo, per sentirmi rassicurata, per giocare, e perché lei era così rassicurante. Poi arrivava il nonno “Giggio” che aveva l’aria seria… e quanto brontolava il nonno. E poi c’era anche la zia Natalina! La mitica! Eh sì! Eravamo una bella famiglia allargata, mamma, papà, io e mio fratello e poi nonno, nonna, e zia… Ogni giorno pranzo e cena, eravamo una bella tavolata, tutti avevamo qualcosa da raccontare, storie di vita quotidiana, il nonno poi raccontava sempre di quando fu prigioniero in India per sette anni, e ricordo sempre quando spiegava di come gli inglesi gli avevano insegnato a lavarsi i denti e di quante patate sbucciavano… quintali. Tornò a casa che non lo riconoscevano! Nonna “Gilda” mancò che avevo sei anni, era giovane e un brutto male se la portò via, non lo dimenticherò mai quel periodo. Rimase nonno “Giggio” e la zia “Natalina”! Le comiche! Due fratelli che ogni giorno se ne dicevano, diciamo che si sopportavano! La zia Natalina era “signorina”, ai tempi nostri “single”; all’epoca, figuriamoci, era da sposare e quindi la zitella di casa. La zia invece era molto più avanti di quanto si pensasse. Tutte le generazioni della mia famiglia hanno condiviso la camera con lei, non avendo figli suoi, da mia nonna prima – 35 –
che si sposasse, a mio zio, a due nipoti, e per ultima io. Fino a diciassette anni ricordo quando rientravo la sera, e magari era tardi, entravo piano, e lei con il suo fotoromanzo preferito sulle gambe, occhiali sotto il naso, retina sulla testa per non scompigliarsi riusciva a dirmi sei qui “bambin mio” e mi dava una caramella, era una seconda mamma, era speciale. Passa il tempo, il nonno nell’orto a coltivare l’insalata, diventato ormai bisnonno, e la zia che con la sua bicicletta andava ovunque era là con la sedia a rotelle, le gambe l’avevano tradita, ma era così bella, la mia zia. Comunque sia riuscivamo a essere una famiglia allargata, e le gran tavolate erano alla domenica ormai, ma che bello! Nonno è mancato cinque anni fa e la zia due anni fa. Un vuoto assoluto, tutto parla di loro, i ricordi sono ovunque, i valori che mi hanno trasferito, un bagaglio di vita vissuta, tutto l’amore trasmesso, quello per cui mi ha indirizzato a fare questo lavoro (operatrice) proprio con gli anziani. Un lavoro dove la vita acquista una sua dimensione, dove quando sto con gli anziani, rivedo il mio passato, ma anche presente e futuro e lo dedico a loro, ai miei cari e a quella famiglia allargata che ora è oic.
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A casa coi nonni di Sandra Conte
È una giornata di pioggia… sono con i miei nipotini… non possiamo uscire… D’un tratto… «Dai nonna!» mi chiede Mher, «raccontaci una delle tue storielle!». «Va bene, ragazzi, datemi l’INPUT!» L’input è una parola magica per noi: significa che dal mio subconscio affioreranno ricordi e sentito-dire sulla mia famiglia; io li racconto ai nipoti, arricchendoli ogni volta di piccole varianti, per attirare la loro attenzione…! Per Hakob, appassionato di aerei, l’input è: nonno Dodipilota. Per Mher, che è un tipo scherzoso, l’input è: topoindiano. Per Yuri e Thomas, i due più piccoli, l’input è: nonno Dodi in Argentina. Comincio con l’accontentare Mher (gli altri tre però brontolano…) … Anni fa, eravamo in India, nei pressi di Calcutta, che è una città poverissima, dove molte persone non hanno una casa e sono costrette a vivere per strada; dovete sapere, cari ragazzi, che il nonno e io, abbiamo dormito in un albergo, a dir poco, primitivo… e… come se non bastasse, di notte abbiamo sentito un rumore sospetto… Cosa sarà? … accendiamo la luce… non vediamo nulla di strano… o forse sì … il pacchetto di crackers sul tavolino è un po’ spostato e rosicchiato… TOPI?!… il nonno si prepara con una ciabatta in mano… spegniamo la luce… di nuovo quel rumoretto strano… il nonno Dodi non ci pensa due volte… – 37 –
va dritto al tavolino e dà una ciabattata in testa al topone! Quello sviene e… appiattito su di un foglio di giornale, lo portiamo alla Reception… siamo molto arrabbiati io e il nonno! «Lo sapete che questa bestiaccia era in camera nostra?» chiediamo… L’indiano, con faccia sconsolata (fa l’indiano!), comincia a fare il massaggio cardiaco al topo!… il topo si riprende e se ne va felice!… voi sapete perché in India può succedere questo? Perché lì rispettano tutti gli animali: c’è perfino un tempio dove portano da mangiare i topi! Questo finale è risaputo, ma ancora una volta, Yuri, “esperto di animali”, ne rimane entusiasta ed esclama: «Quando sarò grande, andrò in India a studiare le PANTEGANE: lì devono essere proprio interessanti!» Rimango, tra il perplesso e il trasognato, a prefigurarmelo, quando la vocina-peperina di Thomas mi richiama alla realtà: «E la nostra?»… «La vostra, cosa?»… «La nostra storia?!» I due piccoli reclamano il loro turno, così passo al racconto dedicato a loro… «Tanti anni fa, il nonno Dodi col suo papà (il vostro bisnonno Paolo) e alcuni amici viaggiavano nella PAMPA, diretti a Bariloche, quando… nel bel mezzo di questa landa deserta, scoprono che il radiatore della jeep è a secco!… di acqua in giro non ce n’è, e allora…? Allora decidono di fare tutti la PIPÌ nel radiatore! lezione di sopravviv…». Non faccio in tempo a finire la frase, che Hakob, con aria da vittima (come al solito!) dice che lo trascuro, che non gli ho ancora raccontato di “Dodi-pilota”… così per l’ennesima volta racconto che: «Tanto tempo fa (non erano ancora nati i vostri genitori), il nonno Dodi era in volo verso l’aeroporto di Udine. Non era ancora molto esperto (aveva appena iniziato un corso di addestramento per piloti, come studente universitario) e volava… volava senza riuscire a trovare la meta… a un certo punto si accorge di non avere più carburante: che fifa!
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All’improvviso dall’alto vede una pista, allora scende in picchiata in questo piccolo aeroporto della Provvidenza per fare rifornimento! Qui, non sono abituati ad avere tanto traffico: guardano perplessi questo aereo caduto dal cielo, ma alla fine gli fanno il pieno. Il nonno decolla, ma… si accorge subito che il motore non “risponde”: sembra in avaria… l’aereo sta per precipitare! Lui mantiene la calma… fa un atterraggio di fortuna in un campo di frumento (l’aereo è di quelli leggeri, monoposto)… e sapete perché l’aereo non volava più?… perché, per sbaglio, gli avevano fatto un pieno di ACQUA!» Guardo Hakob: quante volte l’ha sentita questa storia?! E non si stanca mai di ascoltarla! Mentre parlo, torna il sole e i ragazzi vanno fuori, contenti, a giocare; invece io rimango in casa a riflettere: mi domando come mai i miei nipoti “gettonino” soprattutto questi aneddoti, anche se gliene ho raccontati molti altri. A me da piccola, ad esempio, piaceva tanto la storiella della nonna Amalia, che non trovava più la dentiera: tutta la famiglia fu costretta a recitare i SEQUERI, finché un giorno, miracolosamente, la dentiera riapparve! Rifletto anche su di un’altra cosa: penso che essere nonna sia più semplice che essere mamma: essere mamma è un’esperienza entusiasmante, ma secondo me, tutte le mamme, se vedono i figli in difficoltà, si chiedono se avrebbero potuto fare di meglio e di più per loro… Con i nipoti, invece sei più serena: non vuoi a tutti i costi indirizzarli e guidare la loro vita… ma forse, sono solo i pensieri di una nonna all’antica…
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Il ricordo dei nonni per le mie sante feste e l’amore del mio canto di Oliva Dal Bo
Ricordo con piacere gli anni giovanili trascorsi a casa con i miei genitori, zii e nonni. La nostra era una famiglia allargata che comprendeva più generazioni, unendo parenti diversi. Vivevamo in una casa grande con otto camere matrimoniali e altrettante stanze. C’era la stalla con venti bestie, quattro buoi da tiro, vitelli e un gran numero di vacche; tenevamo un gregge di pecore dalle quali si ricavavano la lana e il latte da cui la nonna faceva il formaggio casalingo, una vera specialità! Avevamo pure molti animali da cortile, i polli, le anatre, i conigli, i tacchini, le oche e persino quattro maiali. Trascorrevo molto tempo con i miei nonni, che erano dei contadini. Sicuramente erano delle persone speciali. La nonna era la padrona di casa, guidava la famiglia in molte cose. Faceva da mangiare, le spese varie occorrenti, ci accompagnava a dottrina e in chiesa, invitava tutti i parenti preparando grandi pranzi nei giorni di festa. La ricordo come una brava donna di casa, alle quattro di pomeriggio ci assicurava sempre una merenda sostanziosa fatta di pane o polenta con formaggio oppure un fico secco per tutti i bambini. Il nonno era molto buono, amava molto i nipoti ed era il capo della stalla. Al mattino si alzava alle prime ore dell’alba e sistemava le bestie nella stalla, dopodichè lavorava nei campi. In particolare ci tengo a raccontare un’esperienza molto bella condivisa con i nonni. Si tratta della mia prima Santa Comunione e della mia Santa Cresima. Per queste grandi feste la zia mi prestava il vestito bianco con il velo che io indossavo sentendomi una regina. Poi ricordo le funzioni re– 40 –
ligiose, con la comunione alle sei del mattino. Ero accompagnata dalla mamma e dal papà, amici e conoscenti del mio paese, Fontanelle, però ci recavamo tutti a piedi nella frazione di Vallonto, più vicina a casa mia. Le sante messe erano cantate, meravigliose e tutte noi bambine eravamo vestite di bianco, il colore della purezza e della luminosità, con vestiti nuovi o prestati da parenti. I miei nonni venivano a seguire le celebrazioni in chiesa e poi ricordo che parecchi giorni prima si preoccupavano di preparare al meglio i pranzi dove io ero la festeggiata, prediligendo la minestra con la carne bollita delle nostre bestie come primo, invece la carne bollita contornata da patate o radicchio del nostro orto come secondo. In quegli anni non ci si poteva permettere dolci o frutta, anche se la mia madrina come regalo comprava dei “buffolà”, pasticcini deliziosi, rendendomi felicissima; erano le prime e uniche occasioni dove potevo assaggiare un dolce! Per la Santa Cresima i miei nonni ci tenevano molto a preparare il pranzo per festeggiare grandiosamente la mia giornata e tutti gli invitati potevano gustare i nostri animali, allevati in casa con tanto impegno e fatica. Ero una ragazza felicissima, avevo la passione del canto e della musica, cantavo dal mattino fino a sera. A dieci anni andavo a pascolo con le pecorelle del nonno e perciò ero sempre in mezzo ai prati dove si spargeva ovunque la mia bella voce. La cosa più bella che mi sento di consigliare alle nuove generazioni è il poter stare fuori all’aria aperta, in mezzo alla natura e circondarsi di cose semplici e belle che danno allegria come il mio canto, che non mancava mai e che mi circondava di calore e affetto unendomi a tutte le persone che mi conoscevano e riconoscevano per “l’usignolo che canta” com’erano soliti chiamarmi.
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Al nonno (25.1.1920 - 27.2.2012) di Giacomo Dalla Pietà
Le tue sorelle: la Virginia, Nice, la tua mamma ricordi e, zio, i nipoti; una Venezia povera; remoti tempi chiamarli, ormai, a noi s’addice. Eppure forse non così infelice età; di tenerezza e affetti vuoti certo i cuori non erano; mal noti forse malizia e doppiezza. Felice mi appari mentre con mesto trasporto ne parli, e sei in quel tempo più che in questo, a tuo agio, sempre in quel passato assorto. Albeggia sul canale il sole. Eretto, come già da ragazzo, molto presto la gondola ora guidi, e ridi schietto.
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Le forti radici della famiglia Un insegnamento dal passato al futuro di Matilde Esposito
Introduzione Mi chiamo Matilde Esposito, ho undici anni e ho la grande fortuna di essere cresciuta in una famiglia che unisce, dal lato del mio nonno materno, quattro generazioni assieme a partire dalla mia e quella di mio fratello Manuele, fino a quella del mio bisnonno Evaristo. In questo racconto vorrei rendervi partecipi di quanto conosco dei miei antenati e di quanto mi arricchisca vivere a casa con i nonni per gran parte della mia giornata e insieme unire il meglio delle nostre quattro generazioni tra loro a confronto... In queste pagine sarà la storia della famiglia Ugarelli a fare la parte predominante, perché sono molte le informazioni in mio possesso, anche grazie ai racconti del mio bisnonno fonte di memorie antiche e racconti su come si viveva ai tempi della guerra, della fame, quando lui aveva la mia età e ancora prima, come quando mi racconta ritagli di vita che a lui stesso sono stati raccontati da parenti più vecchi. Il materiale usato per raccontarvi di me, l’ho ottenuto dal mio nonno materno Renato che ha cercato per anni (e continua a cercare) i parenti dispersi in giro per il mondo e che ha sempre desiderato lasciare a mio fratello e a me l’eredità delle nostre origini.
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Le origini della famiglia Ugarelli Di racconto in racconto, ancora oggi, l’origine della famiglia Ugarelli non è molto chiara, sembra però che il capostipite (Ulisse) fosse figlio illegittimo di un uomo molto importante che lo abbandonò appena nato. Il piccolo Ulisse fu dato all’istituto degli Esposti di Venezia (la Pietà di Venezia), dove gli fu assegnato il cognome Ugarelli. Il bambino fu dato in affidamento a una famiglia che viveva sul monte Telva (600 m) nella frazione di Zermen del comune di Feltre (Bl), ed è lì che ancora il mio bisnonno vive, ma il percorso che ci ha riportati lì non è stato semplice. Il piccolo Ulisse, che risulta iscritto all’anagrafe come figlio d’ignoti, si sposò con Maria Elisabetta Cappelin ed ebbero una figlia e due figli maschi, che, per le condizioni di povertà di quel territorio, emigrarono giovani nel Sud America: Giovanni, nato nel 1859, emigrò in Venezuela con due figli, ma tutti e tre dopo ritornarono in Italia, e Ambrogio, nato nel 1870, emigrò prima in Venezuela e poi in Perù, dove è morto nel 1942, dando origine alla famiglia degli Ugarelli del Perù. Il nonno mi ha raccontato che io appartengo al ramo di Giovanni, del quale non si sa molto perché è morto giovane (a quarantasette anni). Si è sposato con Margherita Cassol (detta Pina) e hanno avuto sette figli di cui due morti, ancora bambini, perché, dice il nonno, “a quei tempi la sopravvivenza era la sfida più grande e comune per i bambini appena nati, non come ora che il cibo bisogna nascondercelo per non ingrassare”. Uno di quei sette figli era il mio trisnonno Valentino. Mio nonno sa poco della storia del suo bisnonno Giovanni, che non hanno conosciuto né lui né il suo papà, ma ha conosciuto bene la bisnonna “nonna Pina” (morta nel 1949) e di lei ricorda qualche caratteristica: era una donna forte, coraggiosa capace di vivere da sola in montagna, con cinque figli da crescere grazie a un po’ di agricoltura e vendita dei prodotti della terra. Il nonno ricorda, che era maniaca per – 44 –
la pulizia; infatti, non posso fare a meno di ridere ogni volta che mi racconta che ogni giorno puliva, lavandoli con acqua e sapone, gli attrezzi di lavoro della stalla e della campagna e il giorno che è morta, ha chiesto ai figli che andassero a pulire il tetto della casa, perché cominciava a nevicare e, allo scioglimento della neve, l’acqua piovana doveva arrivare pulita nel pozzo. VALENTINO, il mio trisnonno Valentino è nato nel 1989, ha potuto frequentare soli tre anni di scuola (ma mio nonno ricorda che sapeva fare le equazioni e parlava lo spagnolo), a dieci anni emigrò la prima volta in Venezuela per lavoro, assieme al papà Giovanni, lo zio Ambrogio e il fratello Ernesto. Il suo lavoro era: portatore acqua in galleria ai minatori. Valentino sposò Appollonia Zatta (1889-1972); si videro la prima volta a dodici anni al suo primo ritorno in Italia e si piacquero senza parlarsi. Lui ritornò in Venezuela e si rividero a sedici anni, poi lui ripartì e ritornò dal Venezuela a diciotto anni, questa volta si sposarono e dopo un breve periodo, andarono insieme in Venezuela. In Venezuela nacquero quattro figli, anche per loro un figlio morì appena nato e la mamma disperata ritornò in Italia. Era il 1913 quando Valentino ritornò in Italia per stare un po’ con la moglie, approfittando di una pausa di lavoro; la prima guerra mondiale lo fermò e fece settanta mesi di guerra compresa la prigionia in un campo d’Austria. Dopo la guerra ritornarono ancora in Venezuela e là nacque il mio bisnonno Evaristo (1923); tornarono poi in Italia dove nacque nel 1927 il fratello più piccolo del mio bisnonno, Egidio. Valentino nel frattempo con i risparmi aveva comprato terra e casa, dopo la nascita dell’ultimo figlio ripartì ancora per pagare qualche debito e ritornò per sempre quando aveva quaranta anni. Il mio bisnonno e il suo fratellino Egidio però non lo conoscevano e impiegarono molto tempo prima di – 45 –
avere confidenza e chiamarlo “pare” (che significa padre nel dialetto feltrino). Valentino raccontò a mio nonno, molti fatti di quel periodo: i viaggi in nave per il Venezuela che duravano tre mesi via mare, la vita nelle baracche con i serpenti, i molti rischi della vita, la guerra, la prigionia, le fughe dalla prigionia, il ritorno a piedi dal campo di prigionia di Vienna. Mio nonno ricorda i “filò nella stalla” (riscaldata dagli animali) di sera, durante la quale, fumando la pipa il suo nonno gli raccontava le avventure della sua vita. Parlava anche di Ambrogio che decise di non ritornare in Italia, ma di andare in Perù, dove aveva sentito che c’erano condizioni economiche migliori. Valentino e lo zio Ambrogio erano molto legati, perché abbastanza vicini di età (avevano solo diciannove anni di differenza); restarono in contatto per lettera per molto tempo poi si persero, anche se entrambi cercarono di ristabilire il contatto e lo raccomandarono ai loro discendenti. Valentino diceva sempre, a mio nonno, di cercare i “peruviani”, ma solo dopo una settimana dalla sua morte (luglio 1983) il contatto fu ristabilito, grazie all’arrivo in Italia di Eva e Clara, allora hostess della compagnia di volo peruviana, atterrate con volo a Venezia e ripartite il giorno dopo. Mio nonno dice che fu una serata molto emozionante, perché arrivarono improvvisamente a Feltre dal mio “bisnonno” Evaristo. Il legame genetico e il bisogno di ritrovarsi è la caratterista più forte che ho imparato come caratteristica degli Ugarelli e ancora oggi continua nelle nuove generazioni facilitate dalle nuove tecnologie di comunicazione: e-mail, Skype, Wath’s App e soprattutto Facebook. Tralascio di raccontare le storie dei fratelli del mio trisavolo per non dilungarmi troppo, ma anche i loro racconti sono testimonianze uniche di quanto diversa fosse la vita di allora e mi hanno insegnato molto... ad apprezzare la qualità della mia vita.
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EVARISTO, il mio bisnonno Il mio bisnonno Evaristo è in cima a queste quattro generazioni ed è il punto di riferimento forte e stabile per le generazioni a seguire, quella del mio nonno, della mia mamma e anche della mia. Il mio bisnonno si sposò a venti anni con Celestina Zannin che abitava a Zermen. Prima di sposarsi, Celestina, era stata a Roma e a Milano presso famiglie ricche per lavorare come baby sitter. Evaristo, invece, in gioventù era stato un famoso campione di sci a livello squadra azzurra, partecipò alle selezioni per le Olimpiadi di Oslo 1952 dove Zeno Colò vinse la gara di discesa libera, col quale mio nonno ha mantenuto i contatti anche in età avanzata (il mio bisnonno ancora oggi, a quasi novanta anni, va a sciare!). I primi sci li ha inforcati a sei anni. Li aveva costruiti il fratello maggiore, dopo che a suon di pianti il piccolo Evaristo aveva convinto il padre a lasciarlo sciare. Negli anni ’30 ha mosso i primi passi verso la nazionale della Gioventù Italiana, ma appese gli sci al chiodo a trentuno anni; come ultimo atto da sportivo portò la fiaccola delle Olimpiadi invernali del 1956 di Cortina. Tornò a infilare gli scarponi nel 1985 per insegnare a sciare alla mia mamma e a mia zia e da ‘over 60’ ha conquistato ancora cinquantacinque podi, alcuni dei quali con i colori della sezione Feltre ai campionati nazionali degli Alpini. A quasi ottanta, si è aggiudicato il campionato nazionale Alpini del 2002 nella sua categoria. Anche il nonno Evaristo ha conosciuto la Guerra da vicino: alpino del Val Cismon della Julia, combatté sette mesi in Jugoslavia nel 1943. Il bisnonno Evaristo mi ha raccontato direttamente della sua partecipazione alla guerra. L’esercito italiano aveva raccolto più persone che poteva, anche giovani, uno di questi è stato lui: era nel corpo degli Alpini “Settimo Reggimento Battaglione Feltre”. Il primo posto dove è stato mandato a combattere è stata la Carnia, dove hanno combattuto contro i “Partigiani Slavi”, qui hanno perso tre uomini. Poi sono stati trasferiti a Longarone e – 47 –
hanno aderito al “Battaglione Val Cismon”; da lì si sono stati trasferiti in Jugoslavia, dove hanno dovuto combattere contro l’esercito jugoslavo. Mentre mio bisnonno era in guerra la mia bisnonna (incinta di mio nonno), è andata a trovarlo, ma si è dovuta portare il certificato di matrimonio per dormire con lui. Nel frattempo è arrivato l’8 settembre 1943: quel giorno la guerra si fermò, quando le persone lo hanno saputo si sono tolti l’uniforme, e tutti hanno corso verso le loro case e famiglie. Mio bisnonno, dal Montenegro, ha camminato per due settimane circa, chiedendo accoglienza nella casa di alcuni italiani. Alla fine della guerra i familiari di mio nonno andarono nei magazzini dei materiali lasciati là dai soldati tedeschi per prendere tante cose necessarie per vivere. Mi ha raccontato anche che una notte lui, piccolino, stava spegnendo e riaccendendo la luce in continuazione e i tedeschi pensarono che fosse una sorta di segnale e quindi volevano andare a uccidere tutti, ma un uomo ha detto loro che era solo un bambino e sono stati risparmiati… Evaristo e la nonna Celestina andarono a vivere sulla casa costruita da Valentino sul monte Telva ed ebbero due figli, Renato, mio nonno, e la zia Liviana. Il 6 gennaio 2008, una brutta malattia portò con sé mia nonna Celestina. Mio nonno Evaristo non riesce tuttora ad accettare la dolorosa perdita, e, nei week-end, andiamo quasi sempre a trovarlo e a me piace molto trascorrere del tempo con lui sul Telva, centro di questa avvincente storia della nostra famiglia. D’inverno andiamo spesso a sciare, tutti assieme: quattro generazioni una di seguito all’altra e il nonno Evaristo è ancora il più forte! I MIEI “NONNINI” e la mia famiglia Mio nonno Renato è nato nel 1943 nella casa del Monte Telva il 10 aprile. Il mio bisnonno che allora era, come già detto, combattente della seconda guerra, quel giorno tornò – 48 –
a casa e la mia bisnonna venne colta dalle doglie, lui partì di corsa a piedi per chiamare l’ostetrica, ma il mio nonno venne al mondo con il solo aiuto delle due nonne, anziane. È stato un bambino sereno in un piccolo mondo fatto da, mamma, papà, nonna, nonno, zio, zia e cugini. Vivevano tutti sotto lo stesso tetto, in una grande casa. La cucina era unica con un grande focolare e attraverso una scala andavano alle camere che davano sul “piol”, un terrazzino in legno nel dialetto bellunese. Per bagno c’era una “dependance” esterna, mentre per lavarsi c’era una bella tinozza da riempire con acqua riscaldata al fuoco del camino. Lavatrice: mastello in legno, dove le donne giovani lavavano con la cenere. L’erba veniva tagliata a mano con la falce. A fianco della casa c’era la stalla con mucche, maiali, conigli e galline. Mio trisnonno era sempre il primo ad alzarsi e dopo, tutti operosi, si alzavano. Anche mio nonno, grandicello, al ritorno dalla scuola aveva i suoi lavoretti da compiere, per esempio spostare l’erba dall’ombra (le ombrie) verso il sole in modo che si essiccasse. La grande casa del Telva, diventata sempre più vuota, con gli anni fu restaurata, gli animali sono stati venduti. Nel 1943 sette mesi dopo la nascita di mio nonno, a Mestre è nata la mia “nonnina” Antonietta (20 novembre). Mia nonna è nata e cresciuta a Venezia; verso gli otto anni, per ragioni di salute, il suo papà si è dovuto trasferire in un paesino vicino a Feltre (Fener). Gli anni passarono e i miei nonni s’incontrano a scuola e finiti gli studi si fidanzarono, fino al matrimonio il 12 settembre 1964. Il 3 gennaio 1966, nasce mia mamma Mariacristina e il 24 febbraio 1973 la mia zia Rita. La vita continua, mia mamma e mia zia si laureano, i miei genitori si conoscono… arriva il 27 giugno 1998 quando i miei genitori si sposano e trascorrono la loro vita tranquilli fino al 4 maggio 2001, in cui si crea la sesta generazione degli Ugarelli grazie alla mia nascita. Io cresco, dico la mia prima parola “gnogno” (per nonno), cammino e arriva anche il 25 gennaio 2004, data di nascita di mio fratello Manuele.
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Mio nonno ha avuto una lunga vita di manager internazionale, con tante belle soddisfazioni e il cuore pieno di bei ricordi e dopo la pensione si è anche laureato, ora è un consulente d’azienda. Mia mamma e mio papà sono avvocati, mia zia Rita è ingegnere, fa il professore e la ricercatrice e vive in Norvegia. La mia nonna Antonietta dopo il matrimonio ha dedicato la sua vita alla famiglia, accudendo le figlie prima e poi me e mio fratello: diciamo che ha cresciuto quattro figli e per me è la fonte di tante tenerezze e rifugio nei momenti di ansia e dubbi della mia vita. Io credo che la persona che sono ora sia anche influenzato dalla ricchezza dell’eredità e scambio multigenerazionale che ho la fortuna di condividere. I miei nonni dedicano a me molto tempo e mi insegnano a capire da dove vengo e ad apprezzare la serenità della vita moderna, anche quando sembra frenetica; credo però che faccia bene anche a loro trascorrere del tempo con me e mio fratello. La nostra presenza li contagia della nostra vivacità, allegria e freschezza.
LE RADICI SONO ANCORA FORTI: un insegnamento dal passato al futuro Grazie ai contatti che mio nonno sta ristabilendo con i brasiliani e peruviani, molti Ugarelli stanno venendo in Italia per scoprire dove vivevano i loro predecessori. Tutti dicono che quello che hanno provato è stata l’emozione più bella nella loro vita. In particolare mi ha colpito molto un’e-mail inviata da un nostro parente che è stato in Italia poche settimane fa. Mi farebbe molto piacere scrivere tutta l’e-mail, ma ne scriverò solo un pezzetto: “Non ho parole per descrivere la gratitudine dopo aver trascorso la giornata d’ieri negli stessi posti in cui ci sono stati i miei predecessori.
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Non ero preparato a una simile esperienza. Io non sono una persona molto espressiva, ma dentro di me ho provato un’emozione stupenda che non riesco ancora a calmare. Credo che gli esseri umani sentano e abbiano il diritto di scoprire e capire da dove veniamo.” In particolare, io sono stata coinvolta in una situazione in cui ho capito che le storie della vita delle persone fanno giri lunghi, vanno per strade sconosciute e poi in maniera sconvolgente ritornano e si scoprono i collegamenti col passato; tale situazione la chiamo “il ritorno di Manina Bella.” Il ritorno di “manina bela” L’anno scorso ci è venuta a trovare una nostra parente brasiliana (Irani Ugarelli). È venuta con suo figlio (Leonardo) e una sua nipote (Marcella Klemtz). Marcella fa parte di un ramo discendente dagli Ugarelli. Durante la serata Marcella si ricordò di una filastrocca che le aveva insegnato la nonna italiana in dialetto veneto, di cui lei, che parla portoghese e inglese, non capiva il significato… Filastrocca di “Manina Bela“ Manìna bela, Fata a penèla, dove sètu stata? Dala nòna. Cos’atu mangià? Poenta e late. Gate, gate, gate! Rimasi colpita perché era la stessa che la mia “nonnina” mi sussurrava da piccola e toccò a me (che parlo anche inglese) tradurla per lei. – 51 –
Ho scritto questo come testimonianza e conclusione di un pensiero che ha travolto sia la mia mente sia quella dei miei famigliari, cioè di quanto le persone rimangono attaccate ai loro ricordi, anche quelli meno significanti, e anche di come ogni persona voglia trasmettere ai propri successori i ricordi della vita e il valore dei collegamenti intergenerazionali, attraverso le persone, il tempo e lo spazio, in ambiti anche geografici diversi.
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Una lunga vita di Anita Feltrin
Comincio da me che sono nata nel 1921. Mi chiamo Assunta, i miei anni sono tanti. Voglio raccontarvi la mia famiglia e la mia vita. Sono nata in un paese di montagna, quando da poco era finita la prima guerra mondiale. La mia era una famiglia di contadini, piccoli proprietari, e tutti, io, i miei genitori e le mie sorelle lavoravamo la terra, andavamo a far legna nei boschi, guardavamo le bestie, come si faceva una volta in campagna. Ho due sorelle più grandi di me, Antonia ha novantatré anni e Ninetta ne ha ben novantanove. Siamo ancora tutte vive, anche se un po’ acciaccate. Sono stata a scuola fino alla quinta elementare e mi è sempre piaciuto leggere e ascoltare chi è più istruito di me. Quanto ci divertivamo noi tre sorelle... le corse pazze sui prati, le capriole, i giochi sull’aia e poi le sere d’estate, assieme a cantare con gli amici, a ridere a gioire. Quando avevo diciotto anni è scoppiata la seconda guerra mondiale; allora, tempi duri e tristi, ma almeno, essendo in campagna, qualcosa avevamo da mangiare. Ci mancavano il sale e la farina bianca per fare il pane. Allora io, che ero la più avventurosa delle tre sorelle, mi caricavo sullo zaino del formaggio e della ricotta; attraversando le montagne che dividono le province di Belluno e Treviso, andavo a Follina a scambiare i latticini con la farina e il sale. Le strade erano sentieri, io camminavo veloce e senza paura e tornavo a casa con il mio piccolo tesoro. – 53 –
Nel frattempo ho conosciuto il mio futuro marito e dopo un po’ ci siamo sposati. Siamo andati ad abitare a casa dei miei suoceri e vivevamo in famiglia. Ho avuto due figli: una ragazza, Anna, e un maschio Giovanni. Sempre lavorando siamo andati avanti. I soldi non bastavano mai e ho dovuto andare a lavorare via di casa, a Milano. Facevo la dama di compagnia a una signora molto buona, che mi ha voluto bene... Però la malinconia mi soffocava, la sera nel mio lettino... pensavo ai miei bambini, a casa con mia suocera che li teneva... e al mio caro maritino... D’altra parte il bisogno era grande e non si poteva fare in altro modo. Poi, dopo qualche anno, sono tornata a casa, anche perché mia suocera si era ammalata ed era invalida su una carrozzina. Io l’ho curata e seguita finché è morta. Quanto affetto e riconoscenza ho avuto da questa seconda mamma... I ragazzi sono cresciuti e mio marito, che lavorava presso il comune del paese, aveva fatto costruire la nostra bella casa, dove abito tutt’ora. Nel frattempo però lui era stato colpito da un brutto male e se ne è andato in cielo, lasciandomi sola, con questi giovani figli da crescere e la casa da finire di pagare. I miei ragazzi erano vivaci e intelligenti, ma non ho potuto farli studiare, non avevamo soldi e così hanno dovuto andare a lavorare presto. La ragazza è andata in Germania e ha trovato lavoro in una gelateria, e il ragazzo aveva trovato posto in una fabbrica. Lui era caparbio, un capo nato, era rappresentante sindacale, era amato e rispettato da tutti. Nel frattempo, erano ormai gli anni ’70, è nata una bambina a mia figlia ed è stata accolta con una immensa gioia da tutti. Per me che ero a casa è stata un rinnovamento della mia vita. Mia figlia doveva lavorare, io guardavo questo piccolo fiore crescere, lo educavo e lo amavo. – 54 –
Un brutto giorno, un grave incidente stradale, mi ha portato via mio figlio. Non posso descrivere la disperazione che ho ancora nel cuore... Sopravvivere a un figlio non è una cosa naturale... è un dolore che non si cancella mai. Per fortuna che c’era Sandra, piccola innocente, cresceva ed era amata da tutti. Suo padre se ne era andato, ma sia io che le zie, le mie care sorelle, e la sua mamma la adoravamo. L’abbiamo cresciuta al meglio, è andata a scuola, è vissuta nella comunità del paese, ha appreso le nostre usanze e le rispetta. Lei ora ci ricambia con tutto il suo amore. Mi ha resa felice e orgogliosa mia nipote; si è sposata con un bravissimo ragazzo e hanno due figli di nove e dodici anni che sono la luce dei miei occhi. Ora io sono vecchia, ma sono contenta. Appena possiamo, io e le mie sorelle ci troviamo e stiamo insieme a parlare, bere il caffé e raccontarci delle nostre famiglie e dei nostri acciacchi... Mia figlia vive con me, ha preso il mio posto nella casa, fa tutto lei ormai e in più ha tenuto i bambini di Sandra quando erano piccoli, perché mia nipote lavorava. Mi accudisce, sono ancora autonoma, ma lei mi controlla; sta attenta se ho bisogno di qualcosa, mi porta dal medico, dal parrucchiere e mi accompagna anche a mangiare fuori qualche volta. Sono molto riconoscente a lei. E poi… mi ha donato questa nipote meravigliosa, che ha una bella famiglia, due ragazzi intelligenti e vivaci, che mi rispettano e mi ascoltano. Parlano con me e, essendo io un po’ sorda, si rivolgono a me con la voce più alta; io sorrido e rispondo e racconto loro le storie della mia infanzia e della mia lunga vita. Mi sento una nonna molto amata e molto curata. Grazie a tutti.
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Altri tempi di Aurora Fiorotto
Sono una donna di una certa età, mamma di un Angelo. Il mio tempo si è fermato con la sua nascita. Il mio oggi è il mio ieri e il mio domani è il mio oggi. Ricordi, pensieri girano attorno al mio Angelo, al tempo trascorso con lui, al passo double della nostra vita. La mia gioventù è stata rimossa quasi completamente dalla mia mente, dal mio cuore. È un periodo così lontano, così confuso nella nebbia. Quasi rimossi i ricordi ma basta una vecchia foto ingiallita dal tempo e il mio ieri, ieri riaffiora. Una piccola donnina, magra magra vestita di nero, con i capelli raccolti, viso scuro e rugoso senza sorriso. “Nonna Angela”, la madre di mio padre. Si abitava negli anni ’50 in campagna, in una casetta a schiera, l’ultima della serie. Nonna, padre, madre, io e mia sorella (in ordine cronologico). Un piccolo orto ben coltivato, un pergolato d’uva, un angolo per qualche gallina e coniglio. Niente fiori. Non servivano, non erano necessari. E la casa! Al piano terra la cucina molto spartana. Quattro o cinque sedie di paglia, un tavolo di legno, una piccola credenza color latte. Non c’era acqua in casa. Solo un piano di marmo o cemento come lavandino-lavatoio, una stufa a legna, un sottoscala e un angolo per le biciclette. A quell’epoca erano l’unico mezzo di trasporto e non era da tutti. Nel sottoscala una piccola dispensa, un mobiletto appeso al muro con retina anti-mosche, per mettere in mezzo un pezzo di formaggio o un salame. – 56 –
Non c’erano acqua né servizi in casa, solo la luce. Niente riscaldamento e in quei freddi inverni l’unica fonte di calore era la stufa che veniva poco accesa. Ricordo mia nonna, molto parsimoniosa, bagnare la legna prima di metterla nella stufa così durava di più. Un gran fumo nella stanza e così si andava nelle camere con la borsa dell’acqua calda e sotto le coperte. Non c’era il gabinetto, tanto meno il bagno. Il gabinetto si trovava dietro la casa in un piccolo sgabuzzino: water alla turca, come carta igienica pezzi di giornale strappati piccoli e appesi a un gancio di ferro vicino alla catena dell’acqua. L’acqua, per l’uso di casa, per mangiare e lavarsi veniva fornita da una fontana a pompa e si trovava sotto il pergolato. Una scala di legno, una decina di scalini, portava alle camere: una per mia nonna, l’altra per noi quattro. Pavimenti in travi di legno, si poteva vedere il piano sottostante, arredamento pure spartano: un armadio, un letto matrimoniale, un letto singolo dove noi sorelle dormivamo. Una alla testa e l’altra ai piedi del letto. Come servizio in camera (non si usciva di notte specialmente d’inverno) per andare al gabinetto c’era un boccale. Quand’era pieno, mia madre apriva il balcone e gettava il tutto fuori in mezzo ai campi. Non so perché noi in quattro in camera, mentre mia nonna era da sola. Aveva una stanza molto grande e sempre spartanamente arredata. Chiudeva tutto a chiave e poche sono state le volte che mi lasciava entrare. Una cassapanca, un comò con tutti i cassetti chiusi a doppia mandata, un letto in ferro, un comodino per il boccale. Noi lo mettevamo sotto il letto… La cassapanca mi impressionava molto. Sembrava una bara e conteneva due abiti: uno invernale e l’altro per l’estate e un enorme grosso scialle nero, usato come cappotto. Non c’era amore, non c’erano sorrisi in quella casa. Solo lo stretto necessario per sopravvivere… I “musi” di suocera e nuora, gli scapaccioni sulla mia testa e sedere e lo sguardo severo e senza parole di mio padre… Mi sembrava che quella – 57 –
fosse la vita di tutti, uguale a tutte le altre persone. Ma ero una bambina piccola e sola. Mia nonna non stava mai ferma e non buttava via niente, risparmiava all’inverosimile, anche nelle carezze. A distanza di tempo posso capirla, la vita a quei tempi non era facile e lei vedova di guerra, della grande guerra, aveva da sola allevato i suoi due figli. Ha dato loro il tutto e il più, ma forse non ha avuto tempo di dare amore o forse non sapeva dimostrarlo o forse … Non erano tempi facili, non c’erano giocattoli, non c’era niente di superfluo. Angela Graziosa il suo nome completo andava alla prima messa del giorno e tutte le sere frequentava la chiesa. Era sempre con il rosario in mano anche quando lavorava. Faceva parte di lei. Angela Graziosa un piccolo donnino scuro ma pieno di carattere. Un’altra foto: il mio Angelo. Un uomo di quasi trent’anni. Un altro mondo a confronto, altri usi, altri costumi. Appartamento caldo di riscaldamento e d’amore. Armadi pieni con qualche cosa in più forse, ma anche tanto ma tanto amore in più. Il mio ieri, ieri di bambina. Il mio oggi che respira il ieri di mamma di Francesco e vive l’oggi di mamma di un Angelo.
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Ricordi di un bambino di… ottanta anni di Dario Foà
Quando è mancato il mio Nonno materno, noi ragazzi abbiamo fatto a gara per trasferirci a casa della Nonna per non lasciarla sola. Fra i miei fratelli io ho… vinto questa gara e così ho avuto la fortuna di vivere alcuni anni con la Nonna e tuttora (oramai ho superato gli ottanta!!!) ricordo con affetto, tenerezza e gratitudine tutto quello che la nonna mi ha insegnato con il suo amore e con la sua spontaneità. Ora che sono nonno di tre nipoti (Davide, Gabriele e Sofia) mi piacerebbe tanto essere capace di trasmettere ai tre ragazzi le mie esperienze. Tra queste ha una grande, grandissima importanza quel terribile periodo che va dal 1938 al 1943 che ha segnato in modo indelebile la mia vita per colpa di quelle leggi ingiuste che furono definite “Leggi per la difesa della razza”. Ed è di questo, ragazzi, che voglio parlarvi, anche se mi costa una certa fatica! Nel 1938 avevo sette anni e vivevamo a Napoli dove mio Nonno era Rabbino Capo. Avevo appena finito di frequentare la prima elementare. Ricordo che avevo indossato, come tutti i bambini di quell’età, la mia brava divisa di ‘figlio della lupa’, e che mi preparavo a frequentare la seconda classe elementare con la trepidazione e l’ansia di tutti i ragazzini di quell’età. Improvvisamente mia mamma ci disse che non avremmo potuto frequentare le scuole insieme agli altri ragazzini. Lì per lì forse non capii bene il significato di quello che la mamma mi aveva detto. Ricordo solo che qualcuno aveva scoperto che ero diverso dagli altri. Diverso da quelli che – 59 –
fino al giorno prima erano invece eguali a me: qualcuno più bello e qualcuno più brutto, qualcuno più alto e qualcuno più basso, qualcuno biondo e qualcuno bruno, qualcuno con gli occhiali eccetera. Bene: tutto questo non era più vero: ero diverso da tutti gli altri perché ero EBREO. E come ebreo non potevo più vivere insieme agli altri ragazzini, quasi li potessi infettare. A pensarci oggi c’è da rimanere senza parole: cosa direste se per legge da domani impedissero ai figli degli avvocati di frequentare le scuole? Solo perché figli di un avvocato; oppure ai figli dei macchinisti delle ferrovie, oppure ai figli delle infermiere! Assurdo solo pensarlo, eppure settanta anni fa nessuno trovò assurdo che un simile divieto venisse imposto per legge ai figli degli ebrei! Ma cosa era successo? Il governo italiano aveva emesso delle leggi “per la difesa della razza”. Queste leggi stabilivano che i cittadini anche se italiani, di razza ebraica (notare: non cittadini italiani di religione ebraica, ma cittadini italiani di razza ebraica) erano considerati un pericolo per gli altri cittadini (da qui la necessità di difendere la razza). Di conseguenza diventavano operative una serie di discriminazioni: fra queste era previsto che gli ebrei non potevano insegnare né nelle università né nelle scuole; non potevano avere domestici di “altra razza”; non potevano avere impieghi statali; non potevano essere militari: tutte cose che io, nella mia beata ingenuità di un bambino di sette anni non capivo poi tanto. Ma una cosa l’ho capita subito: non potevo tornare a scuola insieme ai miei compagni. Di andare all’università nemmeno parlarne. Mio fratello maggiore (eravamo cinque fratelli), che sarebbe dovuto andare all’Università, riuscì a emigrare negli Stati Uniti dove si è laureato, ha preso la cittadinanza americana e dove vive tuttora. Altri due fratelli dovevano andare alle scuole medie e ginnasiali, ma la cosa non fu possibile perché gli studenti di – 60 –
queste classi potevano solo studiare privatamente. Fu così che i professori ebrei espulsi dalle scuole misero in piedi una specie di scuola privata per aiutare questi ragazzi a non interrompere gli studi. Ogni anno, come tutti gli studenti delle scuole private, dovevano sostenere un esame, ma a differenza degli altri questi esami venivano sostenuti in un’aula allestita appositamente per gli studenti ebrei e i risultati degli esami venivano esposti sui tabelloni dove accanto al nome, veniva indicato chiaramente “di razza ebraica”. Per le scuole elementari la cosa era leggermente diversa: esisteva una disposizione che permetteva di costituire una sezione speciale per bambini di razza ebraica. Ricordo piuttosto vagamente i giorni febbrili che si conclusero con la concessione, da parte del direttore della Scuola Vanvitelli, il Dott. Muro, di un’aula speciale dove ragazzini ebrei di età diversa potevano riunirsi per completare gli studi elementari. Si trattava della “Sezione speciale per fanciulli di razza ebraica”, così la legge ci definiva, e dava il permesso per la costituzione di questa sezione speciale a condizione che i ragazzini fossero almeno dieci. Napoli era ed è una piccola Comunità ebraica e, fatta la conta, ci ritrovammo a essere solo nove. Quindi la sezione speciale non poteva essere creata! E allora facemmo un piccolo imbroglio: iscrivemmo alla prima anche il mio fratellino più piccolo (allora la legge voleva che i ragazzini della prima elementare compissero i sei anni entro il 31 dicembre, ma mio fratello a novembre ne avrebbe compiuto solo cinque, facemmo finta di sbagliare e il Dott. Muro… sbagliò anche lui e finse di non accorgersi che mio fratello aveva solo cinque anni. E così nacque la “sezione speciale”. Ma cosa aveva di speciale? Qui i miei ricordi sono molto nitidi. Innanzi tutto la nostra aula aveva la porta che dava direttamente sulla strada, in modo che noi non… contaminassimo gli altri ragazzini. Poi, per essere più tranquilli, noi entravamo e uscivamo in orario diverso dagli altri (un quar– 61 –
to d’ora prima) così come facevamo anche la ricreazione in orario diverso. E la ginnastica? Non si poteva fare in palestra, dovevamo farla in classe. E la visione (obbligatoria) dei film di propaganda il sabato che allora si chiama “Sabato fascista”? Quelli potevamo, anzi dovevamo vederli, ma seduti nelle ultime file di sedie e con almeno tre file di sedie vuote tra noi e gli altri ragazzini. Quando, nel 1998 un gruppo di insegnanti della scuola Vanvitelli trovò in archivio notizie di questa sezione speciale di cui ignoravano l’esistenza, dopo un primo momento di incredulità, si attivarono per rintracciare qualcuno di quei dieci ragazzini di sessanta anni prima. Ne trovarono otto perché nel frattempo uno era morto per malattia e uno perché era stato deportato ad Auschwitz insieme a tutta la sua famiglia e non era più tornato. Così ci ritrovammo nella nostra vecchia aula, e noi otto uomini e donne ormai anziani, ci sedemmo (a fatica) nei nostri piccoli banchi! E ci chiesero di raccontare qualcosa di quel periodo. Mi trovai così a raccontare cose di sessanta anni prima, cose di cui non avevo mai parlato né con i miei figli né con i miei nipoti, fatti oramai vecchi e (così credevo) ormai digeriti. Invece ho rivissuto improvvisamente l’umiliazione di essere isolato e indicato come “diverso”. E mi è venuta una grande rabbia; avrei voluto urlare con tutta la forza dei miei polmoni che io non ero diverso dagli altri, che non era giusto trattarmi in quel modo. Avrei voluto urlare in quel momento per quanto non avevo urlato sessanta anni prima. Ma non ne sono stato capace: un nodo alla gola me lo ha impedito. E allora ho fatto una promessa a me stesso: finchè il Signore mi darà la forza cercherò di portare questa mia testimonianza raccontandola soprattutto ai giovani perché non dimentichino e perché una testimonianza diretta “raccontata” vale molto di più di un libro o di un documentario. – 62 –
Evviva i nonni! di Angelo Frison
Se non ci fossero, i nonni bisognerebbe inventarli. Questa frase la ripeto a tutti quando si parla di famiglia, di figli, di generazioni. Ho un ricordo bellissimo dei miei nonni. Nel periodo dell’ultima guerra, mentre mio padre era in servizio militare mia madre si ammalò gravemente e, così, io e le mie due sorelline fummo accolti dai nonni materni nella loro grande casa. Quella dei nonni era una famiglia patriarcale in cui, con essi, convivevano due figli sposati, uno dei quali aveva due figli e l’altro tre, e due figlie ancora da sposare. In tutti eravamo in sedici: otto adulti e otto bambini. Ho ricordi indelebili della nonna. Al mattino, quando apriva la porta del pollaio, a mano a mano che le galline uscivano le prendeva in mano, metteva un dito sotto la loro coda e diceva: «Questa oggi farà l’uovo». Con questo sistema lei sapeva quante uova le galline avrebbero fatto in giornata e verso sera, quando andava a prendere le uova nel fienile dove le galline erano abituate a deporle, non sempre le trovava del numero che aveva previsto. Allora mandava noi nipotini a cercarle. Noi entravamo entusiasticamente in azione e ci divertivamo da matti nella ricerca. Oggi i tempi sono cambiati e non ci sono più famiglie patriarcali come quella. Adesso, quando si sposano, i figli vogliono essere indipendenti dai genitori; il desiderio di formare una famiglia propria libera dai condizionamenti, anche da parte dei propri genitori, è molto sentito. È giusto che sia così e per un po’ i “vecchi” sono lasciati da parte. Ma con la nascita dei nipoti anche noi nonni rientriamo in gioco. – 63 –
Nonno da parecchi anni, ripercorro in queste poche righe l’esperienza che ho acquisito con la venuta dei nipoti nella mia casa. Mia figlia ebbe un bambino e, dopo i sei mesi di maternità riconosciutile dalla legge, dovette riprendere il lavoro: ecco giungere allora da noi nonni il primo nipotino a scombussolare il nostro quieto vivere, solidamente tranquillo da anni. Per abituarci al nuovo ritmo di vita impostoci dalla presenza del bambino ci vollero parecchi giorni, ma ora c’era Luca e noi nonni ci adattammo alle sue esigenze. Non passò neanche un anno e pure l’altra figlia rimase incinta. Dopo i sei mesi di maternità che le spettavano anche lei dovette riprendere il lavoro e, seguendo l’esempio della sorella, ci portò Eleonora. Si potrebbe pensare che accudire due bambini piccoli per i nonni sia stata una faticaccia, ma, avendoli accolti con amore come avevamo fatto noi, la fatica si tramutò in gioia. Passò qualche anno e nacque Marco, fratello di Luca, e a sei mesi dalla nascita anche lui venne ad aggiungersi agli altri due. Con l’arrivo del terzo nipote abbiamo dovuto rivedere tutto lo svolgersi della giornata e ripartirci più ordinatamente i compiti. Mia moglie seguiva le necessità strettamente personali dei nipotini, mentre io li facevo giocare, li portavo al parco-giochi parrocchiale, facevo far loro dei giretti con la bici seduti su un sicuro seggiolino. Eravamo davvero impegnati al massimo, ma eravamo contenti: ci sentivamo utili e, soprattutto, riamati dai nipoti. Abbiamo altri due nipoti, Andrea e Beatrice, che però venivano, e vengono, da noi nonni solo saltuariamente, in quanto le loro madri hanno scelto di non lavorare per rimanere a casa con i figli. Attualmente siamo, per così dire, disoccupati, perché ormai i primi nipoti sono cresciuti e vanno a scuola, ma fra due mesi nascerà Elena, e allora… Nel frattempo non è che i nostri nipoti non li vediamo più. Anzi: nei giorni festivi la – 64 –
nostra casa sembra un agriturismo in cui si aggirano nipoti di tutte le età. I più piccoli giocano con i lego o disegnano, i più grandi giocano con il computer mentre i loro genitori sono impegnati in animose discussioni di politica e i nonni sono affaccendati tra i fornelli in cucina. All’ora di pranzo, però, figli, nipoti e nonni ci ritroviamo seduti tutti insieme attorno alla tavola imbandita. E fra un boccone e l’altro vengono fuori le più disparate discussioni e ricordi del passato. «Nonno! Nonno!», alza la voce Luca sovrastando tutte le altre. «Ti ricordi della cavallina quando mi portavi a fare i giretti in bici e ci fermavamo a darle da mangiare erba attraverso le maglie della rete di recinzione?». Interrompendolo, Eleonora aggiunge in fretta: «Nonno! Ti ricordi di quando mi portavi al parco giochi in parrocchia e, prima che suonasse la campana di mezzogiorno, mi dicevi: “Guarda la campana più grande del campanile” e, spostando lo sguardo sul tuo orologio, mi dicevi: “Sta attenta: uno, due eee… tre!”, e al tre vedevo la campana che cominciava a muoversi e a suonare. A quel tempo pensavo che fosse il tuo orologio a far suonare la campana». Marco, parlando ancora più forte, quasi urla: «Nonno! Ti ricordi la fabbrica che aveva preso fuoco e di cui erano rimasti in piedi solo i muri anneriti dal fumo? Quando le passavamo davanti io dicevo: “Tutto bruciato! Tutto bruciato!”». Queste sono le cose importanti per noi nonni. Ci fanno dimenticare le fatiche, le piccole e grandi magagne che ci opprimono quotidianamente e che ci possono portare alla depressione. Nostri medici e nostre vere medicine sono i nipoti. Stando con loro non si invecchia mai; diventiamo più allegri, spiritosi, si ha voglia di scherzare, ci si sente vivi, perché amati. A me e a mia moglie essi hanno sempre rivolto domande in continuazione, specialmente quando erano nell’‘età dei perché’; erano curiosi di sapere e occorreva essere in grado di rispondere alle loro domande. Ecco, così, che ci – 65 –
costringevano a consultare enciclopedie, testi e vocabolari come quando eravamo studenti, e in questo modo la nostra memoria è rimasta sveglia. Sono sempre contento quando vengono i miei nipoti, perché stando in mezzo a loro mi sento felice al punto che, talvolta, mi sento nonno di tutti i nipoti del mondo. Allora, preso da un entusiasmo che non so contenere, sento in me una forza interiore che mi fa mentalmente gridare a tutti i nonni del mondo: “Evviva i nipoti!”, ma anche, e soprattutto: “Evviva i nonni!”.
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Una famiglia di campagna di Sofia Giachin
Facevo parte di una famiglia numerosa, venticinque persone, lavoravamo una grande campagna, mio nonno e mia nonna erano nati nel 1880, avevano sette figli quattro maschi e tre femmine. Mio padre e gli zii dopo il matrimonio continuarono a vivere nella casa paterna, anche le due zie nubili rimasero in casa. Noi ragazzi eravamo in dodici fra fratelli e cugini, comunque ci sentivamo tutti fratelli, dormivamo in due grandi camere una per i maschi e una per le femmine, noi ragazze avevamo un solo guardaroba e bastava per tutte, gli abiti che possedevamo erano sempre in ordine e puliti, così era per le scarpe. Ci difendevamo l’uno con l’altro e coprivamo le marachelle dei più vivaci, insomma eravamo una vera squadra. Venne ad abitare da noi la mamma di nonna, era rimasta vedova e sola, lei sapeva che poteva contare sulla nonna ma anche su tutti noi. La bisnonna Lucia aiutava la nonna in cucina, anche il pane veniva fatto in casa, il forno era in cortile, nel periodo che precedeva la Pasqua venivano in molti a cucinare le focacce nel nostro forno. Nella nostra fattoria c’era un gran lavoro per tutti e veniva suddiviso conforme le capacità individuali, era a conduzione famigliare e il nonno aveva la direzione di tutto perché aveva esperienza, capacità e saggezza, era un uomo severo ma giusto. Avevamo colture molto estese, oltre al foraggio e granaglie coltivavamo frutta e verdura. – 67 –
Seminavamo anche la canapa, quando la raccoglievamo veniva messa a macerare nel fosso e dopo essere stata trattata veniva filata e tessuta al telaio, diventata tela venivano confezionate lenzuola, federe tovaglie e strofinacci. D’inverno non c’era molto lavoro nei campi e allora le donne si dedicavano ai lavori di cucito, lo facevano soprattutto le zie che non avevano figli da accudire; alle volte c’era qualche battibecco fra di loro, allora la nonna diceva: «Se si tace le cose vanno a posto da sole», e la cosa finiva lì. Nei periodi dei raccolti non ce la facevamo a fare tutto il lavoro da soli, allora i vicini ci davano una mano, noi aiutavamo loro. Avevamo una grande cucina, gli adulti mangiavano in un tavolo, noi ragazzi in un altro, se parlavamo ad alta voce la nonna veniva ad ammonirci, allora arrivava la bisnonna Lucia, lei ci affascinava, con le sue fiabe fantastiche ci trasportava in un mondo incantato fatto di fate, streghe e folletti, a quel tempo la televisione non c’era. Se veniva qualche mendicante all’ora di pranzo il nonno lo faceva entrare e mangiava con noi. La nonna insegnava alle nipoti più grandi a fare i lavori di casa, era buona la nonna, ci dava qualche moneta di mancia e diceva: «Domenica dopo la messa andate a prendervi un gelato». Ricordo una notte di Natale, il fuoco nel camino scoppiettava e mandava una grande luce, Franco il maggiore dei cugini che tutti ammiravamo perché era buono e bravo a scuola e, insegnava a fare i compiti e a studiare il catechismo a tutti noi, era in piedi accanto all’albero di Natale ed esclamò: «Desidero andare in seminario per diventare sacerdote!». Guardai la nonna, nonostante fosse in un angolo della cucina vidi luccicare le lacrime sulle sue guance, le andai vicino e le presi una mano, lei in preda alla commozione disse: «È il
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primo uccellino che lascia il nido, ma attraverso la preghiera saremo sempre insieme». La domenica andavamo in chiesa tutti a piedi, i più grandi tenevano per mano i più piccoli, le strade allora non erano asfaltate e le auto erano pochissime. Ricordo con nostalgia i pomeriggi estivi, i grandi dopo pranzo andavano un po’ a riposare, noi ragazzi andavamo in cortile, giocavamo a trea e a dama, c’erano dei platani altissimi con le loro fronde coprivano d’ombra tutto il cortile. A casa nostra veniva spesso qualcuno, c’era chi chiedeva qualche attrezzo da lavoro in prestito e chi aveva bisogno di bere, allora andava a dissetarsi al pozzo. Il cigolio della carrucola del pozzo, lo starnazzare delle anatre nella roggia, il chiocciare delle chiocce che scorgevano la poiana e temevano che rubasse i pulcini, le galline poi, facevano di quelle buche in cortile da farlo sembrare un enorme scolapasta, non c’era mai il tempo per annoiarsi. I fusari, anche loro venivano da noi per riposare all’ombra, arrivavano a piedi dalle montagne, calzavano scarpe di panno leggere ingegnosamente fatte a mano, portavano sulla schiena la gerla con gli oggetti di legno intagliati fatti durante l’inverno, ammiravo molto quei lavori nella nostra cucina c’erano molte cose fatte a mano da loro. Il sabato noi ragazze lucidavamo gli utensili di rame che erano in cucina, quando la luce del sole arrivava alla parete dove erano appesi sembrava una cosa irreale la nonna ci teneva molto a quello splendore. Lavoravamo e pregavamo, rapportavamo tutto con la fede, se c’era il temporale che minacciava la caduta della grandine accendevamo le candele davanti alle immagini sacre, avevamo paura che il maltempo distruggesse il nostro lavoro, se c’era siccità facevamo un triduo di preghiere per la pioggia. Con il cibo stabilivamo la relazione e condivisione con la religione, a Pasqua preparavamo l’agnello, il cotechino con la – 69 –
lingua il giorno dell’Ascensione, l’anatra per il rosario, osservavamo con rispetto i giorni di astinenza e di digiuno. Sono passati molti anni da allora, la campagna non c’è più, al suo posto ci sono strade, palazzi e case, ma io con gli occhi del cuore rivedo tutto come allora. La famiglia è il valore più grande, ci dà il calore e la sicurezza di cui abbiamo bisogno per tutta la vita.
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Suona ancora di Anna Girardi
Il salotto è una bolla di luce e silenzio. Lo sgabello scricchiola appena mentre, sedendomi, alzo lentamente il coperchio del pianoforte che ho davanti e spoglio i tasti dal rettangolo di stoffa che li ricopre. Resto immobile, mentre un esercito di particelle di polvere si alza in volo per farsi trafiggere dai raggi del sole che entrano obliqui dalla porta finestra. Appoggio le mani sui tasti, li accarezzo facendo attenzione a non imprimere abbastanza pressione da farli suonare. Stendo le dita e mi sorprendo a pensare a come esse si siano allungate dalla prima volta in cui hanno toccato questo pianoforte; sorrido al pensiero che, pur essendo cresciute, queste mie mani non siano abbastanza grandi per trattenere tutti i ricordi di cui sono colme. Indugio ancora un po’ nel silenzio d’agosto, mentre mi chiedo come sarà la prima nota che uscirà dalla cassa armonica dopo tutto questo tempo. Non ho più suonato da allora. Qualcosa mi dice che è arrivato il momento di ricominciare. Lui vorrebbe che fosse così. «Suonalo ancora, dai». Una bimbetta dalla carnagione chiarissima e una lunga treccia che scivola lungo la schiena prova e riprova il brano che dovrà suonare al saggio di fine anno della scuola di pianoforte a cui è iscritta da alcuni mesi. «Nonno, continuo a sbagliare. Non riesco!» «Dai dai, insisti, che io ti ascolto.» La bimba si rimette a suonare, le sue piccole dita sottili – 71 –
si muovono sui tasti incerte e immature: ci vorranno ancora anni prima di raggiungere una buona tecnica, ma ora deve fare bella figura, suo nonno la sta ascoltando e non può deluderlo. Mentre tiene un accordo alza per un secondo lo sguardo: lui è lì, davanti a lei, con l’espressione seria e concentrata, eppure non c’è traccia di severità in quegli occhi azzurri e limpidi, solo un infinito affetto. È un uomo d’altri tempi, non è abituato a slanci e manifestazioni plateali di sentimenti, eppure basta guardarlo per capire quanto sia emozionato, ora che la sera è arrivata e lui siede, con il resto della famiglia, sulle poltroncine rosse della platea di un minuscolo teatro, osservando nella penombra la bimba china sui tasti. Ha sempre amato la musica: fin da giovane ha ascoltato tutto ciò che le possibilità gli permettevano e ha coltivato, quasi di nascosto, la passione per il violino, tanto da acquisire la tecnica necessaria per poterlo costruire. La bimba conosce bene il profumo di legno e vernici che la investe quando apre la porta del garage dove il nonno sta lavorando, lo stesso profumo che resta su di lui anche quando si trovano altrove, come se quella passione non lo abbandonasse mai e rimanesse attaccata alla pelle. Forse è per questo che, da quando la bimba ha memoria, in casa si è sempre respirata musica, è per questo che non ricorda un solo giorno senza note ed è per questo che ha trovato così naturale, un giorno, alzare il pesante coperchio di quello strano mobile nero del salotto e trovarci dentro una meravigliosa scatola piena di suoni magici che aspettavano solo le sue mani per poter essere messi in ordine. Sorride, ora, la bambina: si è alzata in piedi e sta ricevendo l’applauso del pubblico presente. Un po’ imbarazzata, stringe al petto lo spartito che ha eseguito poco prima e alza lo sguardo dai suoi sandaletti comprati per l’occasione. In quarta fila, trova gli occhi azzurri che ogni pomeriggio la osservano e la guidano mentre fa i compiti all’ombra della betulla in giardino: sono colmi di orgoglio e di una dolcezza che, in altre situazioni, non ammetterà mai, ma che, – 72 –
in quell’istante che appartiene solo a loro, le mostra senza remora alcuna, donandole un altro dei ricordi che terrà per sempre stretti tra le dita. L’ultimo accordo dell’Adagio al chiaro di luna si spegne sotto le mie mani e si dissolve tra le particelle di polvere che continuano a danzarmi attorno. Resto immobile con le dita appoggiate alla tastiera, ascoltando il silenzio, sperando per un secondo di riconoscere, tra la luce e le note, una voce che non posso più sentire. Poi, mentre un raggio di sole attraversa il vetro e mi si posa sulle dita, chiudo gli occhi e, finalmente, sorrido: profumo di vernici e legno, profumo di ricordi a fiamma viva, profumo di un passato che non si cancella e che, ogni volta in cui una nota nascerà, mi si siederà di nuovo accanto e, con occhi azzurri severi e dolcissimi, mi dirà: «Suona ancora, che io ti ascolto».
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“Lui e Lei” due nonni speciali di Maria Pia Lo Vullo
Seduta nella mia poltrona, in compagnia del silenzio che danza in punta di piedi avvolgendomi tutta, mi ritrovo a pensare. Sono cose passate, lontane nel tempo; ricordi non sempre piacevoli ma pur sempre “ricordi”. I NONNI! Io non li ho conosciuti e non ho fotografie per poterli guardare. Porto però il nome di mia nonna materna; ne sono orgogliosa e, per una strana sensazione che sempre mi accompagna, sono convinta di assomigliarle. Ci sono sempre, però, delle figure sostitutive ed è per questo che mi ritengo una fortunata. Lasciamo spazio proprio al ricordo di queste figure; come sono entrate nella mia vita e quanta gratitudine porto ancora nel mio cuore. Mia mamma Ellade, per poter arrotondare lo stipendio del mio papà, stirava presso una ricca famiglia veneziana. Presso la stessa famiglia lavorava come cuoca una mia zia, Erminia, sorella di mia madre. La signora “Lei” diceva sempre che nessuno sapeva stirare come mia madre; il signore “Lui” asseriva che la zia era un’ottima cuoca. “Lei” era veneziana e “Lui” era di Finale Emilia, il paese d’origine di mia zia e di mamma. Io ero ancora piccola e mamma mi portava con sé. Dalla fondamenta Cannaregio, dove abitavamo, si andava a piedi sino a campo S. Maurizio, per raggiungere il palazzo, in Calle del Dose (Doge), ove “Lei e Lui” risiedevano; un bel po’ strada; camminavamo circa un’ora. C’era il vaporetto sul Canal Grande, ma non c’erano i soldi per il biglietto. Io arrivavo sfinita; pregustavo però alcuni momenti che si ripetevano ogni qual volta mi trovavo in quella “casa”. Mi – 74 –
portavo il quaderno e libro di scuola; li posavo con molta attenzione su di un tavolo antico e mentre mia madre lavorava io potevo studiare. Mi piaceva studiare. In particolare mi piaceva studiare immersa in quell’ambiente da favola. Alle 17, puntualissimo appariva il maggiordomo Giovanni. Aveva il dono di stupirmi per quel suo apparire in guanti bianchi e giacca ogni volta diversa, a righe nere-gialle, nere-viola, verde-rosa, nere-rosse. Portava un vassoio con il the che io bevevo, anche se non mi piaceva; posavo lo sguardo su tutto ciò che mi circondava e lo sorseggiavo assaporando non il the, ma la tazzina che lo conteneva come fosse un prezioso gioiello… Ma quando mai avrei potuto avere tutto questo? Una “casa” disposta su quattro piani; ogni piano un salotto; in ogni salotto un pianoforte (uno addirittura in avorio). Pur non sapendo suonare, su uno di quei pianoforti mi era permesso di provare a muovere le mie piccole, poi grandi, dita. Un giorno il cuore mi saltò in gola perché mi accorsi che alle mie spalle c’era la loro figlia Bianca e la sua cara amica Franca Valeri che mi applaudivano; vollero insegnarmi un motivetto che ancora ricordo e suono, provando una piacevole emozione. Non fu l’unica volta che mi sentii ascoltata; mi trovai alle spalle anche Emma Grammatica, l’attrice di prosa, che abitava in un palazzo in Campo S. Maurizio. I signori erano di religione ebraica, lui era Rabbino del “Gheto” (Ghetto) di Venezia. Avevano anche un figlio maschio che rifugiatosi a Londra per sfuggire alle deportazioni degli Ebrei, trasmetteva attraverso Radio Londra; trasmissioni che si annunciavano con uno strano, da tutti segretamente atteso, suono: ta-ta-ta-tam. Mi volevano molto bene e mi facevano fare le vacanze nella loro villa sul Terraglio, la via che portava a Treviso. Era come vivere in un sogno. Una stanza da letto solo per me, il bagno con tanto di vasca, a casa non l’avevo, e cosa preziosa, il permesso di entrare nella “stanza degli armadi”, dove la loro figlia Bianca riponeva e custodiva tutti i suoi vestiti. Ve– 75 –
stiti che avevo la gioia di provare perché, pur essendoci una differenza d’età, le nostre due figure erano simili. Mi ammiravo allo specchio, incredula di potermi vedere in abiti così belli, fantasiosi, morbidi e profumati. Ecco perché “Lui e Lei” li consideravo e ancora li ricordo come i miei secondi nonni. Nonni che mi chiamavano scherzosamente “Pancoto” per il mio carattere troppo tenero. Nonni che mi hanno insegnato, congiuntamente ai miei genitori, che esistono il rispetto verso il prossimo, l’altruismo e in particolare il valore delle cose che la vita ci fa conoscere, ci regala o toglie. Due nonni speciali! Come dimenticare quel vissuto? Ora i miei genitori riposano a Venezia nell’isola di S. Michele e “Loro” riposano al Lido di Venezia. Li ho sempre tutti e quattro nel mio cuore e con tanto affetto li ricordo; affetto che, pur non avendoli conosciuti, porto anche per i miei quattro nonni veri.
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Nell’amore uniti di Rita Mazzon
Mio padre per lavoro era stato trasferito a Udine. Io ero piccola e mi sembrava che quella città fosse molto lontana. Cambiavo città, cambiavo scuola, lasciavo la mia amica del cuore Anna e soprattutto lasciavo la mia nonna. Furono anni di lontananze, di partenze e di abbandoni. Mio padre faceva il viaggiatore di commercio ed era sempre via. Mia madre si chiudeva in una specie di mutismo creativo e nella stanzetta dava sfogo al suo talento da pittrice. Io vivevo per la maggior parte della giornata nella grande soffitta popolata dalle mie fantasie. Eravamo chiusi nella nostra solitudine, e le poche volte che ci trovavamo assieme non bastavano ad aprire il nostro cuore ai discorsi. Aspettavo, contavo i giorni, in cui si programmava di ritornare per qualche giorno a Padova. Lì mi sentivo in una piazza piena di carezze e di baci. Lì diventavo il centro di tutte le attenzioni. La nonna viveva con il figlio sposato, che aveva avuto due bambini. Nella stessa casa c’era mia zia che aveva il complesso di essere zitella. Al piano superiore della casa viveva un’altra zia sposata che aveva tre figli. Una parentela allargata. Una girandola di zii e cugini. Quando arrivavamo nella casa c’era un chiacchiericcio continuo. – 77 –
Tutti volevano sapere le ultime novità, dato che le lettere erano poche e le telefonate costose. La nonna mi chiedeva se ero stata brava a scuola e per ogni voto buono che avevo preso mi dava un bacio e una caramella. Nella cucina bollivano sempre i pentoloni con il brodo o le pignatte colme di sugo. La nonna mi preparava il risotto, perché sapeva che mi piaceva. Alla fine del pranzo una fetta di torta margherita si trovava sempre sul mio piatto. Io mi coccolavo tra le braccia della mia nonna, così bella, morbida, paffutella. Lei mi raccontava della sua gioventù, di quando aveva i capelli lunghi e biondi. Io pensavo che mi raccontasse una favola, perché non ho mai creduto che fosse stata giovane. Se faceva bel tempo giocavo con i miei cugini nel grande cortile. Ci divertivamo a rincorrerci, a saltare con la corda. La sera, dopo aver bevuto il latte e sussurrato una preghiera al buon Angelo Custode, si andava a dormire nel grande lettone. C’era sempre posto in quel letto. Sembrava una fisarmonica che si aprisse ad ogni nuovo arrivato. Non c’era mai freddo in quella casa. Tutto era riscaldato dal nostro amore. Non c’era la possibilità che qualcuno si mettesse in un angolo e si sentisse solo, perché subito veniva coccolato in un abbraccio. Andavo così a mendicare a ognuno una parola per portarla via e tenerla stretta. Mi sarebbe servita per quando sarei ritornata nella soffitta. Infatti spesso parlavo da sola, dando corpo ai miei cari, che si materializzavano dalla memoria di quei momenti passati in compagnia. La cucina era la stanza più importante della casa. Lì si mangiava sul tavolo grosso di legno, dove la nonna stendeva con il matterello le tagliatelle gialle. Lì la zia lavorava a maglia seduta sulla sedia impagliata e noi cugini ci davamo una mano a fare i compiti. Non erano
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poi tanto giusti, ma era uno spasso ridere, scherzare. La nonna ogni tanto ci zittiva, ma poi si metteva a ridere con noi. Quando arrivava il giorno di partire mi sembrava che ogni volta si staccasse un pezzo dal mio cuore. Sapevo che a Udine avrei ritrovato il silenzio di sempre. Mi pesava il senso di quell’abbandono. Avrei voluto tenerli tutti fissi, incollati a me i miei cari, portarmi la nonna dentro la valigia, ma non si poteva. Ancora adesso che ho le strade delle mie rughe ispessite sulla fronte, mi piace passare il dito sulla pelle e ripercorrere all’indietro il mio cammino. Quasi volessi ripassare la lezione della vita insegnatami da loro. Il volto amato dei miei cari rappresenta l’attaccamento alle mie origini. Mi ricordo delle parole della nonna, che mi diceva: «Si possono risolvere tutti i problemi della vita, restando nell’amore uniti».
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Ninna nanna… pupa zuccherosa di Giancarla Milan
Quando è nata Laura i suoi genitori vivevano con me e con mio figlio più giovane. Io lavoravo ancora, ma dal tardo pomeriggio fino alle sette di mattina la bimba era tutta mia. Io arrivavo a casa e mio figlio e mia nuora partivano per andare ad aprire il loro esercizio pubblico fino a notte inoltrata. Era la mia prima nipotina e il papà le aveva dato lo stesso nome di quella sorellina che era nata prima di lui ma che non aveva mai conosciuto. È facile intuire quanto io adorassi Laura e quanto rappresentasse per me quella figlia che mi era mancata. Dormiva nella sua culla vicino al mio letto, l’addormentavo tenendola per mano e trascorrevo tutta la notte rivolta verso di lei. Al suono della sveglia ero io che le davo il biberon di latte e dopo averla lavata e cambiata spingevo la culla con la bimba nella camera dei suoi genitori e io me ne andavo a lavorare tutta felice. Come facevo con i miei figli quando erano piccoli, il mio pensiero la seguiva durante tutta la giornata e vedevo ovunque quei suoi occhi azzurro chiaro. La nostra era un po’ la casa madre, rallegrata da una famiglia gioiosa che riuniva nei giorni di festa tutti i parenti perché si sa che dalla nonna si mangia bene, la nonna tiene tutte le fotografie, la nonna sa attaccare un bottone, ti rifà la piega scucita dei pantaloni, la nonna ti lascia fare i salti sui letti e sulle poltrone… C’era anche un immenso giardino e quindi spazio per Luna e Sole, i due cuccioli che i miei figli erano andati a prendere in un canile. – 80 –
Col tempo era arrivato anche Thomas, con due occhioni ancora più azzurri di Laura. Come nonna ero già esperta e quindi facilitata nei rapporti con il nuovo nipotino. Eravamo sereni, forse anche felici, una famiglia allargata dove nessuno rubava spazio agli altri, dove ognuno aveva il proprio ruolo, dove nessuno interferiva sul comportamento degli altri e dove ai bambini veniva garantita una crescita senza discontinuità di amore e di protezione. Mio figlio minore si era sposato, io ero stata trasferita da Padova a Venezia con il mio lavoro. La grande casa si stava svuotando e ognuno di noi era andato a vivere con il proprio nucleo famigliare. Io ovviamente da sola. Luna e Sole erano gli unici a essere rimasti nella grande casa con i nuovi padroni. Avevo delle serate vuote, rispetto alla vita di prima. Trovavo anche il tempo per riascoltare le cassette registrate con i nipoti mentre cantavano le canzoni dello Zecchino d’oro o le interviste che facevo loro per godermi quell’infinità di risposte fantasiose, o la ninna nanna di Gabriella Ferri che iniziava con “E fai la ninna nanna bimba bella, e fai la ninna nanna pupa zuccherosa…”. Quanto piaceva a Laura! E sorridevo spesso pensando a quante ne combinavano nel loro nuovo appartamento con mamma e papà, come quando avevano deciso di comprare una tenda da campeggio e l’avevano poi montata nel soggiorno per provarla. Occupava l’intero spazio della grande stanza e avevano dormito in tenda, felicemente tutti insieme, senza che a nessuno passasse per la testa di trasferirsi in camera da letto. Ecco, pensando a questo mi ero spesso chiesta quanto probabilmente avessero avuto tutti voglia di un po’ di libertà, di fare pazzie… nella grande casa della nonna questo non sarebbe mai stato possibile. Quando sono nata io, i miei genitori vivevano in una grande tenuta di campagna con nonni e zii. Ero la prima nipotina e i miei nonni mi adoravano, ma dopo qualche anno – 81 –
mamma e papà avevano deciso di trasferirsi in città. Ritornavamo in campagna tutte le domeniche e durante le vacanze. Non c’era un posto migliore per me, ma forse per i miei genitori era molto importante formarsi la loro famiglia ed essere indipendenti. Quando anche i nonni decisero di lasciare la tenuta e di andare a vivere con un figlio molto lontano da noi, ricordo che mi sembrava di averli perduti per sempre. Iniziava invece un rapporto epistolare meraviglioso e io conservo ancora adesso le lettere che mi scriveva soprattutto mia nonna quando studiavo in Inghilterra e perfino quando ero già sposata, dandomi dei consigli e facendomi delle raccomandazioni. «Laura non sta bene, piange disperata e vuole il suo papà. Adesso è a letto con me, abbracciata a me, non so più che cosa dirle. Lo sapevo che con lei sarebbe stato difficile…» Mi arriva questo messaggio in piena notte, al mare, dove sto trascorrendo qualche giorno di vacanza nel tentativo di ricaricarmi, di trovare nuove energie. Rivedo Laura ancora piccola, in moto con il suo papà, abbracciata strettamente a lui nella corsa verso il mare, mentre la mamma seguiva in macchina terrorizzata che la bimba cadesse. Laura ha ormai quindici anni, un’adolescente che si rivolge alla mamma, una mamma che chiede aiuto alla suocera. Un rapporto fra tre generazioni, dove quella che sta in mezzo non ha più bisogno di libertà e indipendenza ormai raggiunte, ma si sente fragile e incapace di lenire il dolore dei figli in un momento così delicato e difficile. E allora mi rendo conto quanto sia ancora importante il mio ruolo di nonna, quanto più forte sia la mia generazione in questa battaglia, quanto sia necessario che al più presto io dimentichi di essermi sentita disumana, impotente, crudele, una nullità, quando mio figlio mi supplicava: «Mamma, tu che puoi tutto, portami a casa» e io non ho potuto farlo, non mi avrebbero permesso di farlo… aggrappandoci tutti a quel sottilissimo filo di speranza. – 82 –
Thomas quel giorno compiva tredici anni. Io avevo scelto di staccare il telefono e di trascorrere la giornata da sola, andando a cercare tra i ricordi… i primi pensierini dei miei nipoti. Thomas aveva scritto del suo papà: «Mio papà è forte, ha tanti muscoli e mi difenderà sempre». Il giorno dopo sarebbe stato lui, magrolino e con pochi muscoli a essere il più forte e accompagnare il suo papà. Era stato lui a dare il terribile annuncio alla bisnonna, a consolarla, a tenerle la mano. A scuola i suoi compagni avevano portato dolci e bibite per festeggiare ugualmente il suo compleanno e avevano sospeso la recita di Natale per essergli accanto nell’estremo saluto al giovane papà. Sono infinitamente belli e grandiosi questi nostri adolescenti. E poi c’è il piccolo Andrea. Sotto il cuscino del suo lettino custodisce gelosamente un vecchio portafoglio sgualcito del papà. Disegna e scrive spesso letterine per lui, che depone tra i fiori davanti alla sua foto. Non guarda più gli aerei aspettando il suo ritorno… Generazioni a confronto, nei momenti di gioia e nel grande dolore. Ogni generazione ha le proprie risorse, le proprie capacità, le proprie debolezze e le proprie forze. L’importante è rivolgersi sempre, quando ci sentiamo perduti, a chi in quel momento riteniamo più forte di noi, fosse anche un bambino. Ne ho avuto la conferma quando la mia attività al Museo Veneto del Giocattolo mi ha permesso di essere a contatto con centinaia di bambini e di adolescenti. Sono stati una medicina e un grande sollievo, anche se qualche volta non sono riuscita a frenare la commozione quando mi si presentava un bimbo con gli occhi neri e un casco di capelli biondi. Nei più piccoli ho amato la loro spontaneità, la loro ingenuità, il loro chiamarti “nonna” anche se non ti hanno mai visto prima, il loro fingere di non essere in grado di infilarsi una scarpina solo per averti in esclusiva per un attimo; nei più – 83 –
grandi ho apprezzato il loro confidarsi e il loro esprimersi con i propri sentimenti ed emozioni, ecco tutto questo è entrato nel cuore di una nonna e lo ha reso vellutato dopo un profondo graffio. “E fai la ninna nanna bimba bella, e fai la ninna nanna pupa zuccherosa…” Sì, quando Laura verrà a stare con me un po’ di tempo la terrò stretta tra le mie braccia e le canterò la sua ninna nanna preferita per farla addormentare… sono certa che le piacerà.
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A casa con i nonni di Alfredo Modenato
Purtroppo i nonni non li conobbi; sono morti di crepacuore, dopo la fine della guerra, attendendo i figli che, senza poter inviare notizie, tornarono troppo tardi dal fronte. Nacqui nel ventuno e ora, sulla soglia dei novantadue ringrazio il Signore perché viva è in me ancora la fiamma del ricordo delle nonne. La paterna nonna Gegia, la “nona dele bale”, conduceva una osteria con gioco di bocce e la trovavamo mentre mesceva “ombre ” sul bancone o serviva gli anziani che, ai tavoli, giocavano a carte. Con noi abitava Marietta, la nonna materna, e con lei divisi la camera da letto per nove anni. Conduceva la sua vita casalinga con metodica precisione, accompagnata da un sorriso, accennato ma continuo, e dalla dolcezza dello sguardo che mi inseguiva costantemente. Giocava con me, ma meglio esprimeva il calore del suo affetto tenendomi in braccio o appoggiato al suo grembo. Emanava il profumo dell’amore, ove la saggezza si esprimeva più che nella ricerca, nella felicità della dolcezza di un passato che si trasformava in un luminoso avvenire. Dopo i piccoli sprazzi fra le nebbie della fanciullezza, il primo che si affaccia al sole dei ricordi è la lunga passeggiata con cui mi portò a iscrivermi alle elementari a Marghera. Al mattino, assestava i letti della nostra stanza, preparava la colazione, puliva i pavimenti e le sue faccende si realizzavano col rito di una funzione sacra.
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Dopo pranzo, sparecchiata la tavola, si metteva – pareva avesse soggezione – nell’angolo del focolare, accendendo la sua pipa di terracotta. Tempo permettendo, usciva sulla grande terrazza, passava in rivista e curava le piccole piante e i tanti fiori. Era il tempo delle vacanze; ogni giorno andavo a prendere il pane all’unico negozietto di legno, installato in quella landa su cui si stendeva la zona industriale di Porto Marghera. Avevo undici anni quando, quel giorno, rientrando col pane, alcune persone, in servizio nella portineria della fabbrica, cercarono di trattenermi mentre stavo per imboccare la scala che conduceva al nostro appartamento; ma io sfuggii dalle loro mani e, di corsa, salii la scala, senza sapere la causa; un raptus improvviso, un richiamo dell’anima! Trovai la nonna a letto, assistita dal medico. Era caduta per uno svenimento davanti al lavello mentre stava pulendo il cucchiaio che considerava di sua esclusiva appartenenza. Sette giorni le fui accanto al capezzale, pregando e sperando… Ora, a ottant’anni di distanza, sento la sua mano che si posa sul capo e benedice… e m’accompagna sui cammini della memoria, facendomi ritornare bambino, gioire del suo amore che, spontaneo, emanava dalla sua dedizione e disegnava tenerezze di madre antica.
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Se chiudo gli occhi di Emanuela Prior
Se chiudo gli occhi vedo ancora quella grande casa in cui abitavamo in ventisei persone… si arrivava perfino al quarto grado di parentela! Eravamo in tanti e noi bambini non potevamo mangiare in cucina con i grandi ma stavamo sui gradini della scala che portavano al granaio… come i polli! La nostra cena era un bicchiere di latte e solo i figli del padrone potevano gustarsi una scodella di caffelatte con lo zucchero. Io per assaggiare un po’ di zucchero dovevo guardarmi bene di non essere vista da nessuno: quando il padrone, che era un invalido di guerra, mi mandava a comprare due etti di zucchero non riuscivo a resistere alla tentazione… di nascosto aprivo il sacchetto, leccavo un dito, lo affondavo dentro e poi dritto in bocca. Velocemente mi pulivo e richiudevo il sacchetto come era prima perché nessuno doveva sospettare di nulla. Quanti ricordi mi tornano alla mente... ma questo racconto lo voglio dedicare a mio nonno Bepi che mi voleva tanto bene. Avevo otto anni e una sera, dopo la recita del santo rosario, lui si è avvicinato dicendomi: «A letto subito! Domani mattina prima che suoni l’Ave Maria dobbiamo andare nel terreno che tua nonna ha ereditato!». E io, borbottando tra me e me perché dopo i campi ci sarebbe stata la scuola, sono andata a letto contenta perché il nonno aveva scelto me per aiutarlo. L’indomani prima delle cinque è venuto a chiamarmi e con i buoi e le mucche abbiamo attraversato il paese; siamo arrivati nel terreno che era ancora buio, ci siamo seduti – 87 –
e io ho preso sonno! Mi sono svegliata perché ho sentito qualcosa muoversi sotto il mio sedere, era una piccola biscia! Suonava l’Ave Maria e insieme abbiamo detto l’Angelus Domini. Abbiamo munto una mucca per fare colazione e ci siamo incamminati verso casa. Puntuale alle otto e mezza sono arrivata a scuola. Avevo otto anni e oggi che ne ho ottantanove molti sono i ricordi che ho perso ma dentro di me, insieme al viso e al modo di parlarmi di mio nonno, rimangono i colori del cielo alle cinque di mattina, il suono delle campane dell’Ave Maria, il silenzio del paese che dorme, il mio sedere muoversi sopra la biscia, il sapore del latte appena munto… rimangono in me e mi fanno sentire viva!
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In casa di Carla Ravazzolo
5 aprile Mattone, malta leggera, mattone, malta leggera, colpetto di cazzuola. Mattone, malta leggera, mattone, malta leggera, altro colpetto di cazzuola. Sono diventato veloce e preciso, chi l’avrebbe detto… Mi sto costruendo intorno una piccola casa. Quasi ogni notte quello che ho costruito viene demolito, e tutti i mattoni e gli attrezzi vengono ordinati in un angolo sopra una stuoia che mio figlio ha comprato apposta per non rovinare il pavimento. Giusto, non voglio rovinare niente, anzi voglio costruire qualcosa di nuovo. Ci ho messo mesi a fargli capire, e non ha capito, che non è mia intenzione rinchiudermi in una specie di loculo, o separarmi dal mondo che mi sta intorno. 9 aprile Sono rimasto a casa da solo per il fine settimana e sono riuscito quasi ad arrivare al coperto: io non sono molto alto e quindi ho previsto la copertura a un metro e novanta. E lì ero arrivato, dopo un sabato e una domenica senza quasi pause, quando è tornato; ho visto subito che ci era rimasto molto male. Per tranquillizzarlo ho dovuto innanzi tutto promettere che avrei aumentato la dimensione delle mie finestre: forse non aveva torto nel dire che più che finestre sembravano feritoie e che anche parlare attraverso aperture così piccole può diventare un problema. Diceva che da dentro non è possibile parlare, al massimo sparare. – 89 –
In realtà non ho mica tanta voglia di parlare, ho sprecato voce tutta la vita a parlare, spiegare, rimproverare, rispiegare, interrogare. Ora voglio solo costruire qualcosa di pratico, che si possa vedere ogni sera; mattone su mattone voglio tirare su i muri e avere una piccola casa fatta da me. Quattro mura, uno e novanta per uno e novanta, una apertura piccola ma sufficiente da sessanta sulla facciata, su ognuno degli altri lati una finestra non più piccola, ho dovuto cedere, di cinquanta per cinquanta. Abbiamo demolito tutto. 16 aprile Quando arriverò al tetto, sarà da vedere come realizzarlo. Non mi dispiacerebbe mettere delle travi, ricavare un piccolo solaio per esempio, ma per la copertura esterna ancora non ho deciso. Dovrò discutere tutti questi particolari con mio figlio, che da qualche anno, da quando si è separato dalla moglie, è tornato a vivere con me nella nostra casa di famiglia: è bella e grande, casa di campagna, o meglio che una volta era di campagna perché con il passare del tempo è diventata di periferia e con un altro po’ di tempo quasi di prima periferia. Ma è rimasta grande, solida e con un grande ambiente al piano terra che è diventato il mio terreno da lottizzare e da costruire. 17 aprile So che passo di volta in volta per stravagante, malato, eccentrico, poco in sé o mica tanto giusto, tutto sommato innocuo o un po’ molesto, presenza confortante o sconfortante a seconda dei momenti e delle persone. Mio figlio non capisce ma neanche io avrei capito alla sua età. È in quella fase della vita in cui l’immagine che si vuole dare di sé supera quello che si desidera essere e ancor più quello che si è. Un padre come me oggi può essere imbarazzante, lo capisco. Talvolta mi piacerebbe dirgli che anche lui da ragazzo è stato imbarazzante per me. Ma è un bravo – 90 –
figlio e non voglio rendergli la vita difficile. E in fondo mi dispiace anche che sia costretto ogni sera a smontare i miei mattoni e a sistemare le mie cose. Gli ho detto più volte di lasciare stare; quando avrò finito pulirò tutto e rimarrà solo la mia piccola casa dentro la casa che ormai è sua perché voglio che sia sua. 24 aprile Si preoccupa, dice che in casa nostra potremmo vivere in cinque o sei senza mai pestarci i piedi, e ha ragione, che posso prendermi tutto lo spazio che voglio, e non ha ragione perché non ho la mia piccola casa e insiste, insiste perché io esca; ma io non voglio uscire, voglio entrare. Voglio essere nella sua realtà con la mia piccola ben fatta e ben rifinita realtà. 26 aprile Le cose stanno cambiando rapidamente. Da qualche mese frequenta, come dice lui, una ragazza. Carina, ben educata, gentile. Parla poco ma, cosa ben più importante, capisce. Sento che qualche sera si ferma a dormire con lui e ne sono contento. Forse lui gliel’ha riferito perché una mattina di qualche giorno fa, quando sono andato per riprendere il mio lavoro, ho trovato davanti a quella che sarà la soglia della mia porta tre piccole piantine. Parla poco ma capisce, l’ho detto. 29 aprile Quando dico che le cose stanno cambiando rapidamente, sono probabilmente troppo lento nel dirlo e scriverlo; cambiano molto più rapidamente di quanto pensassi. La ragazza ha una bambina. È anche lei carina, ben educata, gentile. Ma non parla poco, anzi chiede molto. Vuole sapere tutto sul progetto della mia casa, domanda cosa ci metterò dentro una volta che l’avrò finita, di che colore farò le pareti e se inviterò qualcuno per fare una festa. Non è questo l’intento, le spiego, ma non si sa mai. – 91 –
6 maggio Ieri pomeriggio mio figlio è tornato a casa presto. Siccome so che non gli piace vedermi con mattoni malta cazzuola, ho interrotto il mio lavoro e ho iniziato a sistemare in giro. Si è fermato a fare due chiacchiere, come fa ogni giorno; ma stavolta ho capito che aveva qualcosa per la testa. Infatti dopo un po’ ha iniziato a parlarmi di questa ragazza; mi ha confidato che ci tiene davvero molto a lei e anche alla bambina. Si vede, gli ho detto, e mi sembra una bella cosa, ne sono contento. Allora mi ha chiesto un favore: per il compleanno la piccola gli ha chiesto di poter far campeggio con una piccola tenda vicino alla mia casa in costruzione. Pensavo di poterla accontentare? Gli promettevo di pensarci? 9 maggio Ci ho riflettuto parecchio, anzi in questi giorni non ho fatto altro. Non so quali pensieri mi sono passati per la testa, non so se ho avuto timore di offenderlo o se ho voluto compiacerlo o se mi ha fatto felice la richiesta, non so davvero perché, ma ho accettato. Credo che se l’esperimento funzionerà, potrebbe essere divertente ampliare il mio progetto a una bifamiliare e anche oltre.
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La mistica ortodossa di Annamaria Ridolfi De Zan
Per andare da mio nonno Sandro c’erano due possibilità di entrata. Una per il portone di casa, l’altra per la Roma. Passato il portone, attraversato un androne grande e scuro, diritto, una porta finestra fra due finestre. Poi un giardino senza sole, in mezzo un marciapiede e di fronte la porta di casa sua. Una porta sempre aperta incorniciava sullo sfondo una porta finestra su un giardino. Pieno di sole. Si intravedevano rose da orto. Attraverso questo giardino raggiungevo il suo ufficio. L’altra entrata era per la Roma. Qualche passo in più rispetto alla prima. Un cancello di ferro e rotaie. Suonavo e veniva sempre ad aprire la Roma: la portinaia. Era l’accesso alla fabbrica della Saffa. A sinistra, nella strada di terra battuta le rotaie. A destra, prolungamento della portineria, un edificio basso a un solo piano, dentro un odore greve di ufficio. Gli uffici si aprivano uno dentro l’altro, il pavimento di legno scricchiolava ad ogni passo, l’ultimo in fondo era quello del nonno. Dalle finestre del suo ufficio incorniciate d’estate di rose da orto si vedeva il giardino pieno di sole, sfondo della prima, vera e propria entrata di casa sua. La strada di terra battuta. Sulle rotaie carrelli di ferro. Fra «tira su le gambe! tienti salda!...» e nostre grida esaltanti ci spingeva fino a dove in fondo si aprivano campi fra enormi capannoni e cataste di legname. Qui il suo orto, la sua campagna in città, campagna solo per lui e per me, per noi che la desideravamo. L’avevamo a portata di mano. Fuori del cancello la città, l’acqua, i monumenti, il ponte dei tre archi tra i monti e il mare. Di qua del cancello, noi, la terra – 93 –
battuta, le rose spampanate, i carrelli treni, i campi di erba alta, l’odore del legno, l’orto. Ero una bambina di otto anni e non capivo perché dovevo entrare in quell’orto con tanta circospezione. Pian piano apriva il cancello di legno, subito mi diceva di stare attenta a dove mettevo i piedi. Rapito poi dalla presenza delle sue piante si occupava di loro e io più libera andavo fra i pomodori. Speravo di riuscire a staccarne uno, senza essere vista, per poi nascosta fra le verdure annusare quel profumo che mi restava nelle mani, che esalava proprio là dove lo avevo staccato. Un profumo indefinibile, misto di terra, di mare, di sole. Mi rivelò in quell’orto il rispetto religioso verso la natura. In silenzio le offriva il suo amore più vero e più nascosto. Mi era richiesta una concentrazione come mai in altre occasioni. Entrare a casa sua, era entrare in un porto di mare, posto per tutti, tanto posto per i cappotti, entrare per una stanza o per l’altra era lo stesso, fosse lo studio dal pavimento di legno lucido o la cucina. Ma nell’orto in fondo, no. Era un posto in fondo, in fondo all’anima. Era come entrare nella sua chiesa dei greci, dove fin da piccola mi portava tenendomi per mano, la mia piccola mano nella sua grande e forte. Le candeline accese nella sabbia, per i morti. Per i suoi morti. Greci ortodossi da secoli a Venezia. Religione di culto, religione del ritrovarsi nel silenzio fra gli alti banchi di legno, nell’intenso e inebriante profumo dell’incenso, fra i canti lunghi, estenuanti e penetranti, fra preghiere recitate in greco da lui e dai suoi fratelli e sorelle e io che non capivo niente e mi sentivo in paradiso.
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La mia fragile forte Nonna di Luigino Righetto
Vivo l’età in cui si diventa nonni e ripenso spesso alla figura esile, debole all’apparenza, che mi ha accompagnato con discrezione alla giovinezza. Alta un metro e mezzo, aveva il capo coperto da un velo nero stretto con un nodo sulle spalle, che nascondeva i suoi candidi capelli raccolti in crocchia a formare un mazzocchio sulla nuca. Gli occhi limpidi e trasparenti come un cristallo, donavano al suo viso segnato da profonde rughe, scavate dall’età e dalle sofferenze, una luce brillante che rendeva serena la sua bellezza senile, aggraziata da un timido sorriso che lasciava intravedere le nude gengive e il suo unico dente canino. Le piccole mani nodose erano segnate da grosse vene. L’unico vestito che ha sempre indossato era una lunga tunica nera che le copriva le caviglie e lasciava spuntare un paio di nere ciabatte che nelle occasioni importanti lucidava con cura. Era la mia Nonna paterna, per me la nonna più bella del mondo. La ricordo vecchia e l’ho vista consumarsi lentamente fino a conservare solo la magra corteccia di uno scheletro minuto. Alla fragilità del corpo contrapponeva una grande forza d’animo in contrasto con una mite bontà che nella mia vita non ho più ritrovato in altre persone.
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Gli ultimi ricordi che ho di lei sono le lacrime e le parole chi mi ha detto quando sono partito per il servizio militare, dandomi l’ultimo bacio: «Vai vai bello mio, noi non ci rivedremo più». È stata profetica. È morta solo un mese dopo, mentre ero lontano da casa. Ho saputo in seguito che dopo la mia partenza, già minata dal male, girava per casa depressa, stordita e assente, come alla ricerca di qualche cosa che le mancava. Cosa le sarà passato per la mente? Forse il ricordo di mio nonno, partito per la guerra e mai più tornato? Ho vissuto con lei fino ai vent’anni e il rammarico che mi porto nel cuore è di non averla potuta salutare per l’ultima volta. Ottenuto un permesso, dopo un lungo viaggio, sono arrivato in paese per i suoi funerali, ma sceso dal pullman, un amico di famiglia, con gli occhi gonfi di pianto mi ha informato che la nonna era stata sepolta il giorno prima. Non volevo crederci e mi sono recato al cimitero poco lontano. Le alte mura e i cancelli in ferro che racchiudevano il cimitero, a me bambino, apparivano come un castello. Purtroppo il tumulo di terra fresca e la foto che ritraeva la nonna con gli occhi chiari e il sorriso triste ma dolce, mi hanno confermato la realtà e da quel giorno anche per me quel luogo è diventato il cimitero. Mi ha preso un brivido e in solitudine ho pianto perché non avrei più potuto tenermi abbracciato a quella mia piccola e fragile nonnina che tanto bene mi aveva voluto e le ho detto: «Nonna, ora tu sei finalmente felice, ma io non potrò più sentire la tua mano delicata accarezzarmi i capelli.» In un attimo ho rivisto il film della sua vita. Il suo rapporto stretto con me e i miei fratelli, le sue poche gioie e le sue tante tribolazioni. Mi sono tornate alla mente le fiabe che mi aveva raccontato e i tanti racconti delle vicende della sua vita. Ho realizzato che giovane vedova di guerra aveva – 96 –
allevato da sola senza mai lamentarsi, quattro bambini, che non ricordavano il loro padre assente da casa per il servizio militare. Ho rivissuto le tante sere prima di addormentarmi quando già al caldo sotto le coperte, in una camera gelida e mai riscaldata, la sentivo arrivare leggera e silenziosa per coricarsi. Si avvicinava con discrezione, mi chiedeva se avevo recitato le preghiere della sera e con la sua flebile voce sussurrava il pater ave e gloria, prima in latino poi in italiano, quasi che le prime non fossero state capite da Dio, poi le preghiere dei defunti e altre invocazioni. Mentre si coricava, rimboccandosi le coperte, recitava in dialetto l’ultima preghiera che ancora ricordo: A leto me ne vo De sveiarme mi no so Vu Madona che savì Quante Grazie me donarì Confession, Comunion, òjo Santo Nel nome del Padre...
Me ne vado a letto ma non so se domani sarò ancora vivo Voi Madonna che conoscete il mio futuro Mi auguro mi diate la grazia di ricevere la Confessione, la Comunione e l’unzione delle infermi Nel nome del Padre...
Con il tempo ho capito il suo abbandono alla volontà divina e la piena fiducia nella sua misericordia, e il profondo desiderio di cristiana praticante di ricevere con coscienza gli ultimi sacramenti. Un turbinio di ricordi affollano ora la mia mente ma posso trascrivere poche significative memorie per ricordare gli insegnamenti ricevuti più con l’esempio che con le parole. A casa eravamo in otto: papà, mamma, cinque fratelli e la Nonna. Lei, come spesso succede fra gli anziani, si era ricavata il ruolo di saggia.
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Non era né saccente né invadente ma la sua discrezione ci portava quasi inconsapevolmente a chiedere sempre il suo parere quando c’erano delle decisioni importanti da prendere. Trovava sempre il tempo di ascoltare tutti. I miei genitori, consapevoli del suo patrimonio di esperienza, tenevano in grande conto il suo pensiero e i suoi consigli. Noi bambini e ragazzi avevamo quasi una venerazione nei suoi confronti. Leggeva senza occhiali il settimanale «Famiglia Cristiana» e ne commentava criticamente gli articoli più importanti, lasciandoci stupiti della sua capacità di comprendere e commentare quanto aveva letto. Aveva frequentato solo la seconda elementare. Quando combinavo delle marachelle e succedeva spesso, a volte ero punito e mandato a letto senza cena. Mia Nonna non interveniva mai in mia difesa, ma nel silenzio della notte, quando tutti erano a letto mi dimostrava il suo amore portandomi qualche cosa da mangiare. Mi raccomandava di non riferirlo alla mamma, ma sono convinto che qualche volta fossero d’accordo fra di loro. In quelle occasioni non mancava di rimproverarmi e con un leggero ticchettio della mano sulla mia fronte ripeteva una sua frase ricorrente: «Lazaròn, quando xe che te metaré giudissio». Ora che i bollori di gioventù sono svaniti, ti assicuro Nonna, che vorrei essere buono come lo sei stata tu.
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La mia famiglia: ieri un alveare, oggi piccole cellette di Francesca Rigoni
Quando mi capita di andare in ricognizione nella “caneva” (cantina) della casa dei miei genitori alla ricerca di qualcosa, un martello, un cacciavite o solo per tuffarmi un po’ nel passato, a volte mi accompagna mia nipote Alice. La cosa mi fa felice perché le sue domande, la sua curiosità danno fondo alla memoria e inizio così il gioco dei ricordi con la speranza di trasmetterle conoscenza di cose, di fatti che stiamo perdendo. «Zia, cos’è quel quadro mezzo nascosto là in fondo?» «Oh, quello è il ritratto del bisnonno Federico, il papà della mamma di mio papà, di tuo nonno Pasquale dunque; quanto tempo è passato da quando troneggiava imperiosio nella “stua” o tinello della casa del Ferro: ci han sempre detto che era molto severo e i suoi occhi incutevano timore anche in foto. Vedi anche ora sembra scrutarci e ammonirci, se non sbaglio stai studiando il Risorgimento, ecco lui è vissuto in quell’epoca, pensa che la tua bisnonna di secondo nome faceva Italia: altri tempi!» «Zia, sento spesso nominare gli anni in cui avete abitato al Ferro, me ne parli un po’?» «Volentieri, io ci ho vissuto solo i primi dodici anni della mia vita e forse perché ero bambina li ricordo con tanta nostalgia ma quanto lavoro, quanti sacrifici per i tuoi nonni!» «Alla solitaria casa del Ferro i tuoi bisnonni erano arrivati nel 1929 dopo aver passato la Grande Guerra, il profugato, generato sette figli (due femmine e cinque maschi di cui uno disabile), la divisione dal ceppo originario inevitabile: troppe – 99 –
le bocche da sfamare, pochi i campi di proprietà da lavorare. Padroni di casa e terreno erano dei signori veneziani e noi siamo stati loro fittavoli per ben quarant’anni ma facciamo un salto nel tempo a quando tua nonna, mia mamma, entra a far parte della famiglia pochi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.» «Uffa zia, ma erano sempre in guerra una volta?» «Purtroppo sì e dopo la guerra rimanevano solo dolore e povertà ma torniamo alla nostra storia.» «Nonno Cristiano e nonna Anna arrivati alla sessantina ormai avevano esaurito le forze, allora si invecchiava prima, le due figlie femmine si erano sposate e in casa urgeva la presenza di un’altra figura femminile con cinque maschi in casa. Solo tuo nonno Pasquale aveva la morosa, la nonna Caterina, e così si affrettarono le nozze. Ci pensi arrivare in una nuova casa poco più che ventenne e trovarsi subito immersa in una montagna di lavoro? Sarà stato l’amore, saranno stati altri tempi ma per tua nonna non penso sia stato proprio facile. Allora ai suoceri si dava ancora del voi, non si ribatteva nulla, si obbediva e basta, e se il nonno Cristiano era di pasta buona, la nonna Anna invece, a detta di tutti, compresi i suoi fratelli e sorelle, aveva ereditato il carattere duro del padre. Era lei il patriarca di famiglia, teneva ben stretti i cordoni della borsa e con l’arrivo di mia mamma decise solo di comandare e farsi servire.» «Ma quanto grande era la casa per starci tutti? Una cameretta tutta per te l’hai mai avuta?» «Scherzi? La casa era sì grande, di giorno si viveva negli spazi comuni, cucina, “stua”, la sera d’inverno si faceva il filò nella stalla e d’estate si lavorava fino a tardi giusto in tempo per andare a dormire. Le stanze da letto erano quattro, la più grande la occupava nonna Anna anche dopo la morte di nonno Cristiano, con lei dormivano tua zia Anna e tuo zio Aldo, un’altra era occupata da mio zio Attilio, nel frattempo anche lui sposato, nella più piccola c’era lo zio Vittorio che, a causa della sua disabilità, ogni tanto ne combinava una del– 100 –
le sue. Tornando alla cameretta tutta mia, io dormivo in un lettino accanto al letto dei miei genitori e sai chi dormiva in mezzo a loro? Il tuo papà, ultimo arrivato in famiglia.» «Mamma mia, chissà che confusione ma i giochi, le tue cose dove le tenevi?» «Ah, non era un problema: avevo così poco! Fin da piccola però ho sempre amato leggere: tutto quello che trovavo in casa e i libri della biblioteca scolastica erano i miei giocattoli!» «Meno male che il fratello più giovane del nonno, lo zio Toni, è emigrato in Australia, se no dove avrebbe dormito con la sua famiglia?» «Beh, lo zio Toni è emigrato come tanti perché dopo la guerra c’era tanta fame e poco lavoro ma se fosse rimasto, stai tranquilla che un posto lo trovavano: la casa aveva anche il granaio, oggi è un lusso avere una mansarda! D’estate poi la famiglia aumentava ancora: arrivavano le sorelle della nonna Anna con i figli dalla campagna a “prendere l’aria buona”, c’erano “le opere”, i lavoranti, assunti nei periodi di grande lavoro; mi ricordo bene dell’ultimo nell’estate del ’69, l’ultima passata al Ferro: Luigi, un ventenne sardo, spaesato, la prima volta lontano dalla famiglia, a stento si capiva il suo dialetto mischiato all’italiano, difficile il suo adattamento, ma dopo di noi ha trovato lavoro in pianura e ogni tanto torna a trovarci.» «Ho poi un bellissimo ricordo di una signora del padovano di nome Virginia, una vecchietta esile e dolce che, fin che la salute gliel’ha permesso, passava l’estate da noi; era diventata una seconda nonna, ci coccolava, ci narrava storie, cosa che non faceva nonna Anna, sempre dura, severa fino alla morte. A volte mi chiedo se era il suo carattere o se è stata la vita a renderla così.» «La casa del Ferro, seppur isolata, è sempre stata piena di vita, di persone anche tanto diverse tra loro, per molti versi una scuola ed è per questo che ne parlo sempre volentieri perché voglio mantenerla viva con i ricordi. Non ho – 101 –
vissuto male qui in questa casa ai Rigoni, dopotutto è stato un ritorno alle origini, ma il mondo ha preso a correre e tutto è cambiato: le stanze da troppo piene una alla volta si son svuotate. La nonna Anna è morta, accudita in casa fino all’ultimo e così gli zii; noi fratelli, uno per volta ci siam sposati e il conquistato benessere ha fatto sì che ognuno “ndasse star par conto suo”, ci siam costruiti delle piccole cellette fuori dall’alveare nel quale son rimasti solo i tuoi nonni.» «Beh zia, non so se mi sarebbe piaciuto vivere così, sono così contenta di avere uno spazio tutto mio!» «Pur con tutta la nostalgia che senti nella mia voce, nemmeno io cambierei la mia vita di oggi con quella di allora ma con la crisi che c’è in giro, mi sa che ci sarà un ritorno al passato: forse bisognerà tornare agli alveari!»
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La mia nonna di Giuseppina Sanguin
La mia nonna materna… una persona dolcissima. Dopo la morte del nonno, la nonna materna, era venuta ad abitare con la mia famiglia. A causa della vecchiaia aveva le gambe che non la sorreggevano più così passava le giornate seduta in poltrona davanti alla finestra che dava sulla strada riconoscendo, a volte, le persone che passavano, nonostante l’età. A poco a poco mi affezionai a lei, la portavo al bagno appena tornavo da scuola, le portavo da mangiare e poi l’aiutavo ad andare a letto per il sonnellino pomeridiano. La sera, stessa cosa: bagno, camicia da notte e poi la mettevo a letto. Tutto questo andò avanti per diversi anni. Finita la scuola, andai a lavorare. Quando, a mezzogiorno, rientravo dal lavoro, la prima cosa che facevo era correre in camera perché sapevo che mi aspettava per andare al bagno e voleva solo me (diceva che avevo pazienza). Poi andavo a pranzare. Naturalmente c’era mia mamma che le faceva il bagno e l’accudiva quando io non ero in casa. Il sabato era il giorno della “barba”, dato che le erano cresciuti dei peletti sopra la bocca a mo’ di baffo e, una volta al mese, le tagliavo i capelli. La cosa bella di mia nonna era che, con lei, si poteva parlare di tutto e aveva una risposta per tutto. Per me era un’amica e una mamma. Mi ha insegnato un sacco di cose della vita e come dovevo comportarmi in tutte – 103 –
le occasioni che mi potevano capitare. Insomma… quando avevo qualche problema c’era sempre lei pronta ad ascoltarmi e a risolvere tutto con dolcezza e serenità. Io dormivo con mia nonna nel lettone e mi rannicchiavo tutta vicino a lei e mi sentivo protetta. Una mattina di gennaio l’ho salutata come sempre prima di andare al lavoro ma… era diverso dal solito perché aveva preso l’influenza e non stava bene. Allora le ho raccomandato di stare al caldo e di coprirsi perché faceva molto freddo. Le diedi lo sciroppo e andai al lavoro. Al mio rientro, a mezzogiorno, volevo correre subito da lei ma mia mamma mi fermò! Mi disse che la nonna non c’era più: era morta! Non sono andata a vederla. La volevo ricordare così, con il suo dolcissimo sorriso e la serenità che solo lei mi sapeva infondere. Da allora sono passati trentasette anni ma la mia nonnina sarà con me finchè avrò vita! Ogni volta che la penso vedo il suo sorriso e la vedo che mi parla come solo lei sapeva fare. Ciao nonna. Ti voglio tanto bene. Tua Bepina
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Diario di un’amicizia Scuola Don Milani – Classe IaB e IaC
Mestre, 16 gennaio 2012 Caro diario, ti voglio inaugurare, raccontandoti la storia di una nuova amicizia che mi sta regalando tante emozioni. Tutto è iniziato proprio oggi da una comune gita fatta con la classe, in quella che credevamo fosse una semplice struttura per anziani. Invece ai nostri occhi si è aperto uno spettacolo completamente inimmaginabile: da fuori la struttura era immensa e sembrava incutere un certo timore. Ci attendavamo una specie di “ospedale-casa” di quelli che si vedono ovunque e ci chiedevamo come mai, tra tutte le gite possibili, fosse proprio quella la nostra meta. Sapevamo solo che avremmo incontrato dei nonni speciali; i “nonni del cuore”. Chissà come sarebbero stati; come ci avrebbero accolti, se avremmo imparato qualcosa di nuovo, se gli saremmo piaciuti, se ci saremmo divertiti o annoiati. Questi erano gli interrogativi che vagavano nella nostra mente. Ma eccoci entrare nell’edificio grande e misterioso che fissavamo con aria interessata e titubante. C’è stato un attimo di suspance, riuscivo a vedere nello sguardo dei miei compagni la curiosità dell’attesa, ho trattenuto il fiato, finché non ho visto un nonno sorridente venirci incontro. Il suo sorriso trasmetteva un senso di accoglienza; sentivo che sarebbe stata una giornata speciale. – 105 –
Siamo stati colpiti dalla grandezza degli spazi, dall’ordine e dalla pulizia, sembrava di essere in un hotel a cinque stelle! Stranamente eravamo tutti silenziosi, ci sentivamo piccoli come formiche. Una signora bionda, dall’aria efficiente, ci ha presentato il gruppo di nonni che ci avrebbe accompagnato a visitare il Museo del Giocattolo. Ci aspettavamo dei “vecchietti”, invece erano persone giovanili, spiritose, accoglienti, vivaci e piene di storie da raccontarci. Dopo pochi minuti ci sembrava di conoscerli da sempre!!! È stato un vero tuffo nel passato. Di vetrina in vetrina ci sembrava di vedere i nonni bambini divertirsi con quei giochi: servire il the alle bambole, fare la guerra con soldatini di latta, con le macchinine e costruire modellini di treni. Seguendo i loro racconti potevamo vagare con la fantasia in un mondo misterioso e a noi sconosciuto. Finita la visita del museo siamo andati nel laboratorio del giocattolo dove ci hanno messo a disposizione materiali di tutti i tipi: bottiglie di plastica, conchiglie, lana, tessuti, pizzo, bottoni, cartone e tappi di sughero. Di fronte a tutto ciò ci sentivamo pieni di dubbi: cosa avremmo potuto fare con tutto quel materiale di scarto? Ma i nonni sono venuti in nostro aiuto. Divisi in gruppi abbiamo cominciato a lavorare armati di forbici, colla e tanta fantasia, ascoltando i loro suggerimenti abbiamo creato dei piccoli capolavori. Sembrava un’impresa impossibile, ma ce l’abbiamo fatta! Non pensavamo che i nonni sapessero realizzare dei giochi meravigliosi e che la loro fantasia ci travolgesse. I ragazzi più grandi di noi hanno un’immagine completamente diversa sugli anziani, da quella che abbiamo avuto modo di sperimentare in prima persona. Ma questi nonni sono completamente diversi! Che dire? Abbiamo scoperto che hanno persino un loro blog. Sarebbe bello poter comunicare con loro! – 106 –
Mestre, 6 aprile 2012 Caro diario, non avrei mai potuto immaginare di partecipare a un vero e proprio scambio intergenerazionale attraverso il pc! I nonni ci hanno accolti con entusiasmo nel loro blog e li abbiamo invitati a raccontarci dei giochi che utilizzavano durante l’infanzia per passare il tempo, dei loro amici, dei luoghi per loro indimenticabili. Ma anche noi abbiamo lasciato i nostri ricordi… e soprattutto le nostre emozioni. Adesso darei tutto per tornare indietro nel tempo, è un peccato che non posso; comunque sono felice perché di tutti quei bei momenti mi è rimasta almeno una cosa importante che avrò per sempre “I RICORDI PIÙ BELLI DELLA MIA INFANZIA”… Tatiana Bei tempi quando ero alle materne!!! Tuttora gioco, non bisogna perdere questi momenti. È necessario portarli nel cuore e non è vero che crescendo non si debba più giocare. Anzi, si deve giocare di più altrimenti si invecchia dentro e si MUORE. Samuele Penso che crescere avendo un gioco sempre al tuo fianco sia una cosa magnifica e che ti faccia crescere con gioia e serenità. Secondo me il laboratorio fatto con voi, nonni del cuore, è una cosa stupenda ...tutti i bambini dovrebbero avere l’opportunità di parteciparvi, perché ti insegna che anche da oggetti di riciclo si può creare un magnifico gioco. È stata un’esperienza magnifica! Secondo me il giocattolo che preferivi quando eri piccolo non te lo scordi mai, perché è come dimenticarsi di andare in bicicletta: una cosa impossibile. Matteo – 107 –
E che dire delle nostre e loro sensazioni che sono emerse? Abbiamo lasciato spazio a quello che ci accadeva “dentro”. Quando parlo con voi mi sento come una ballerina, perché quando sono felice io ballo e scateno tutta la mia energia. Il mio cuore si riempie di gioia e soprattutto sono felice quando ricevo commenti, anche se ci sono scritte due parole. Insomma quando parlo con voi mi sento così! Un bacio. Vale
Carissimi ragazzi/e della “Don Milani”, ci ho pensato un po’, ma penso che questa immagine possa rendere l’idea della vostra irruzione nel nostro Blog: un’onda del mare che porta dei ragazzi e della ragazze e che quasi ci travolge lasciandoci, a volte, senza fiato e senza parole. Noi nonni siamo un po’ ‘lenti’ e abbiamo i nostri ritmi e voi ci avete… travolto! E a noi fa molto piacere essere travolti!!! Un abbraccio a tutti Paolo
Mestre, 9 maggio 2012 Caro diario, il laboratorio autobiografico con i nonni del cuore è molto divertente, ma soprattutto sempre più educativo e costruttivo. Essendo in contatto quasi costantemente con loro, riescono a darci consigli e ci raccontano com’erano alla nostra età, ma in particolare ci insegnano a trovare la bellezza e lo stupore nelle piccole cose. Non serve andare tanto lontano per vedere cose magni-
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fiche nel mondo, basta solo che ci guardiamo intorno… È importante avere uno sguardo di questo tipo, perché un giorno impareremo a guardare ciò che ci circonda, capendo quanto sia importante. A volte dalle piccole cose si capisce tutto, anche da un semplice gesto, tipo una carezza o un sorriso. Si può provare gioia da un sorriso di un bambino, dalla carezza che ti fa un amico per consolarti oppure da uno schiaffo che ti tira per farti capire qual è la cosa giusta da fare, lo schiaffo fa male ma fa meno male di una bugia… Insomma questo blog mi sta aiutando a crescere mentalmente e a fare riflessioni che prima non avevo mai fatto, adesso riesco a vedere cose che non vedevo… Mestre, 9 giugno 2012 Caro diario, sono arrivate le vacanze! In un certo senso sono contenta perché ho più tempo di rilassarmi e di stare con amici e famiglia. Una cosa però mi mancherà, il contatto con i nonni. Non avendo il pc con me, non riuscirò a comunicare con loro via blog. Ti dico però che, anche se non li sentirò fisicamente, porterò nel cuore l’immagine di ognuno di loro, dell’allegria, della gioia e dell’amore che mi hanno donato in questi mesi, fiduciosa di poterli ritrovare presto. Che fantastica storia questa nuova amicizia!
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C’era una volta... Il gioco di una volta Scuola Primaria G. Bonetto
C’era una volta un piccolo indiano faceva augh! con una mano legava la squaw al palo della tortura ma poi la liberava senza paura. Oggi c’è la lotta tra i Gormiti noi li vediamo spesso, sono dei veri miti! C’era una volta il gioco dei tappi di bottiglia li raccoglieva tutta la famiglia, che meraviglia! I bambini in strada, in casa o nel cortile facevano gare a non finire. Oggi c’è la pista con le automobiline telecomandate che vanno a pile e sono molto amate corrono veloci e filano come un razzo ogni bambino come noi ne va pazzo! C’era una volta una bambola di pezza la nonnina da bambina le faceva una carezza per lei era una vera bellezza! – 110 –
La sua nonna le cuciva i vestitini e con la lana le faceva i cappellini le bambine ci giocavano da mattina a sera facevano finta che fosse una bambina vera. Ora c’è la Barbie affascinante alta, bella, sportiva ed elegante, vestita da sposa in un ristorante, di vestiti, borsette e scarpe ne ha tante! Ha la villa con giardino e piscina, l’automobile, il castello, è fidanzata con Ken un ragazzo muscoloso e bello. C’era una volta il gioco dello scalone era detto anche campana e campanone era un percorso di abilità si saltava su un piede o due di qua e di là e dava molta felicità, si calciava un sasso molto più piccolo di un masso, chi riusciva a farlo tutto era un vero asso, chi arrivava alla casella paradiso vinceva e faceva un bel sorriso! Ora c’è la Wii con pedana e schermo ti metti in salotto e pratichi sport stando quasi fermo, molti ce l’hanno ma costa tanti soldini forse non è un gioco molto adatto ai bambini.
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Prima c’era l’album con la raccolta dei calciatori che facevano gol e rigori, le figurine erano dei veri tesori. Ora, cosa molto strana, c’è una raccolta alla settimana, le raccolte sono tante e ognuna per noi è importante: c’è quella dei cucciolotti, dei Gormiti, del gatto con gli stivali di cani, di gatti e perfino di... maiali! C’era una volta la corda per saltare bambine e bambini ci volevano giocare era divertente: anche le zie facevano acrobazie. Che pazzie! Si giocava al mare o in montagna e dopo si mangiava la lasagna perchè con i saltelli veniva fame a più non posso tanto da mangiarti perfino un osso! I giochi dei nonni costavano pochi soldini ma divertivano molto i bambini. Oggi di giochi noi ne abbiamo tanti ce li regalano genitori nonni e parenti eppure noi non siamo mai contenti. Che impazienti! Invece i giochi di una volta erano una vera magia bastava un legno, una corda e... tanta fantasia! – 112 –
Insieme di Antonietta Sforza
I ricordi più belli della mia vita sono quelli che mi riportano bambina, a casa dei nonni paterni, in un paese del Sud, allora povero e selvaggio dove l’acqua si comprava da carrettini ambulanti e il terreno sempre arsiccio dava vita a ulivi secolari che si incolonnavano in lunghissime file fino all’orizzonte. Il paesaggio per lunghi tratti non offriva alternative, racchiuso tra muretti di pietra rozzamente ammucchiata che delineavano gli argini delle lunghe e larghissime proprietà private. Era ancora una terra di latifondi che appartenevano a vecchi signori addirittura spesso blasonati come i conti Ceci e Spagnoletti, che non vivevano però sulle proprie terre ma in città più grandi e più moderne come Napoli o Roma. Il cosiddetto “ceto medio borghese” era quello degli studiosi che si occupavano di cultura umanistica, giurisprudenza, medicina e farmacia, commerci di prodotti a volte famosi e richiesti anche all’estero. Quasi tutte le forze di ordine pubblico e difesa dei cittadini erano formate da uomini del Sud. Facevano parte di questo grado sociale i miei nonni paterni che appartenevano agli studiosi di giurisprudenza: mio nonno Francesco Sforza era infatti il pretore del suo paese, Andria, in provincia di Bari, costruito su lievi ondulazioni del terreno, a pochi chilometri della costa adriatica. Era una piccola città ma popolosa, come tutte le altre di questa regione, perché i contadini, a sera, ritornavano a casa dai campi. La mia famiglia, purtroppo per noi bambini, non poteva vivere in quel paese perché mio padre dirigeva una filiale dell’allora Banco di Roma a Bari; tutte le nostre feste però – 113 –
avevano come meta il paese dei nonni. Arrivavamo in carrozza: eravamo in otto, un po’ pigiati ma tutti impazienti e felici. La casa dei nonni era una costruzione seicentesca col classico atrio per i cavalli e due rampe di scale curve e divergenti che portavano agli appartamenti del primo piano; i più grandetti di noi si catapultavano su per le scale per buttarsi per primi nelle braccia che si aprivano verso di noi con esclamazioni gioiose e lacrime di felicità! Anche il nonno, in quelle occasioni sfoggiava luminosi sorrisi, dimenticando la consueta austerità forense. Era un uomo alto e robusto, capelli a spazzola e sguardo severo di occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia (come quelli di papà mio) e capaci di inchiodarti senza bisogno di parole. La nonna, invece, era una donnina fine e graziosa, sempre sorridente e continuamente indaffarata per preparare a mano sul tagliere “maccheroni” di tanti imprevedibili formati o pasticcini di mandorle con o senza cioccolato che si chiamavano “amaretti”. A casa dei nonni tutte le feste erano pregne di un’atmosfera incantata che prometteva allegria e tanti giochi rumorosi e felici con i numerosi cuginetti di ambo i sessi, di varie età e temperamento ma tutti ansiosi di godere con un po’ di libertà quelle feste magiche come favole. Messi insieme eravamo tredici di strettissima consanguineità, poiché i nostri padri erano rispettivamente fratelli e le nostre madri sorelle! I primi quattro portavano i nomi dei relativi nonni e i primogeniti si chiamavano immancabilmente come il nonno paterno e cioè Francesco Sforza. Era stato un condottiero spericolato e audace, rude ma tenero d’animo, bruto ma molto amato dalle donne, padre di un numero imprecisato di figli dei quali però si prendeva assidua cura: fu un suo omonimo pronipote a conquistare per sé e per i suoi le terre di Puglia con il titolo di Duca di Bari nel 1600.
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Ci si sedeva a tavola per consumare i pasti per i quali la nonna aveva preparato ghiotte specialità paesane: il nonno era naturalmente a capotavola, da cui dominava figli e nipoti, ai quali distribuiva personalmente le varie porzioni. La festa a me più cara era quella della Pasqua, perché mi piaceva pensare che Gesù fosse risorto, dispensando con le sue mani luce e bene a tutti. In quel giorno santo della Pasqua il nonno aveva accanto a sé una ciotola bianca dalla quale si affacciava un rametto di ulivo con cui il nonno impartiva la benedizione a tutti i convitati. Quando si arrivava al dolce pasquale, i nipoti più avanti negli studi leggevano una propria letterina beneaugurante, a volte anche in francese o spagnolo, ricevendo in cambio una bella moneta d’argento. Finite le feste la mia famiglia prendeva la via del ritorno cercando di scacciare la malinconia con il pensiero che nelle seguenti ferie estive i nonni sarebbero stati nostri ospiti al mare insieme a un gruppo di nipoti, a turno, il premio dei successi scolastici.
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La valigia dei ricordi di Clara Sinigaglia
Ecco che alla fermata del bus sta arrivando nonno “Antonio Primo” con il suo calesse trainato da “Roma”, una maestosa cavalla bianca con il mantello a macchie grigiastre. «Che emozione, non sono mai salita sul calesse!». Alla fermata del bus stavo con la mamma che tutti gli anni mi accompagnava in vacanza e per l’occasione si vestiva bene e metteva pure un bel rossetto che io chiamavo “rosso scioco”: era un momento speciale per entrambe. Salite sul calesse, i soliti baci e abbracci. Un leggero plaid sulle gambe (con quel caldo!) e via per strade sterrate e polverose soprattutto in quella stagione. Ben presto saremmo arrivate alla fattoria e lungo il tragitto la mamma chiede al nonno: «Come steo vù messere?» “Oddio” pensai, “la mamma parla un’altra lingua, mai sentito niente di simile!” Così per tutto il viaggio mamma e nonno continuarono a chiacchierare: io percepivo solo una serie di suoni e fonemi inimmaginabili, compresi i versi che il nonno faceva per guidare la cavalla che, mi sa, capiva più di me. Rinunciavo poi ad ascoltarli per godermi tutto ciò che lentamente passava davanti ai miei occhi: chilometri di campagna con distese di fieno tagliato che, asciugandosi al sole, emanava un profumo speciale. A tratti si sentiva pure la puzza delle stalle che olezzava l’aria calda di quel mattino. In quel lento trottare l’aria mi scompigliava i capelli e gli insettini che si impigliavano nella mia chioma mi solleticavano con piacere, quasi il loro fosse un benvenuto. – 116 –
Dopo venti minuti circa arrivammo alla fattoria dei nonni: qui sono stata assalita dai baci e dagli abbracci di zii e cugini che mi attendevano con ansia. Era quasi l’ora di pranzo e tutti aspettavano solo noi per sedersi a tavola: la mamma prima di sera sarebbe dovuta rientrare a casa. Che bella tavolata e quante cose buone ci avevano preparato, il meglio della cucina povera contadina, con i prodotti piantati e coltivati da loro. Il nonno era il primo a sedere capotavola, poi toccava a tutti gli altri: le zie e la nonna invece servivano il pranzo. “Mamma mia” pensai contando tutti quanti, “siamo in quattordici, vuoi vedere che mi trovo proprio in una tradizionale famiglia allargata? Chissà quante belle giornate mi aspettano”. Proprio così, giorno per giorno cercavo di adeguarmi a questo tipo di vita, del tutto diverso da quello di città. Al mattino nonni e zii si alzavano molto presto, tanti erano i lavori da fare. Io li osservavo e li ammiravo per la loro laboriosità. Dopo una sostanziosa colazione gli zii prendevano accordi per i lavori da compiere in giornata e poi tutti si avviavano verso i campi, non prima di aver rassettato la stalla, munto le mucche e sistemato il fieno. Se non dovevo aiutare la nonna anch’io andavo con gli zii sui campi, allegramente, con le gambe penzoloni su una vecchia carretta di legno trainata da un trattore, che brividi! A mezzogiorno circa rientravamo a casa, ci davamo una rinfrescata alla fontana che stava nell’aia e poi tutti a tavola a trovare un po’ di ristoro, tanto eravamo affamati e assetati. Quando sedevo a tavola la nonna e gli zii mi guardavano compiaciuti perché mangiavo sempre di tutto (dovevo diventare grande!). A me piaceva tanto la casa dei nonni: insieme si condivideva tutto, ognuno aveva il suo ruolo, c’erano collaborazione e rispetto, in particolar modo verso i nonni. Ogni decisione da prendere veniva discussa assieme, anche animatamente, – 117 –
a pranzo o a cena, tutti lì seduti a tavola banchettando con un buon bicchier di vino che riusciva sempre a mettere tutti d’accordo. Nelle prime ore pomeridiane faceva molto caldo e tutti andavano un po’ a riposare: se io non ne avevo voglia mi ritiravo nel tinello vicino alla cucina ed eseguivo i compiti per le vacanze. Qualche volta mi raggiungeva zia Luigia che sedeva vicino a me a riparare la biancheria e i calzini bucati: io la spiavo e mi veniva da ridere perché si addormentava e russava con il lavoro in mano, tanto era stanca! Per non parlare della sera quando veniva a raccontarmi le favole, che però non finiva mai, poiché anche in questa occasione il sonno prendeva il sopravvento fino a farle dondolare la testa. Cara zia Luigia, se chiudo gli occhi sento ancora il profumo di borotalco della mia camera e ricordo le piste che facevano i topini sul granaio sopra la mia stanza. Ricordo che non avevo paura di nulla e i miei cugini più grandi ne approfittavano per spaventarmi con innocui serpentelli di campagna, anche se poi erano proprio loro a scappare. Se nonna Maria si accorgeva di questi stupidi scherzi o altri dispetti nei miei confronti, mi difendeva sempre, usando pure qualsiasi arnese alla sua portata. Nonna Maria era una donna piccolina e le volevo un gran bene: dietro ai suoi grandi occhiali brillavano due occhietti dal colore speciale “azzurro tenerezza” e, nonostante la sua figura esile, era una vera forza della natura. Instancabile e operosa, teneva a bada l’intera famiglia ed erano guai se qualcuno le mancava di rispetto perché se serviva si faceva temere come era giusto che fosse. Ben presto le vacanze sarebbero terminate e una leggera malinconia mi attanagliava dentro: ero però ansiosa di rivedere mamma e papà pur sapendo che al mio ritorno dalle vacanze tutto sarebbe tornato come prima. Un altro anno da trascorrere tra casa, chiesa e scuola, con i soliti impegni che ti accompagnano anno dopo anno. Ma c’è una cosa però: l’allegra bambina di quel tempo ha fatto tesoro di tutto quello che ha imparato durante le – 118 –
vacanze, tesoro che le è servito nella vita di tutti i giorni. Dentro alla valigia, oltre ai vestitini, ha messo l’esperienza che ogni anno ha condiviso con tanta gioia in quella famiglia allargata nella quale si è sentita accolta, ascoltata e amata. Un patrimonio di valori che all’occorrenza usa aprendo quella valigia dei ricordi che profumano sì di stalla, ma soprattutto di un’infanzia felice.
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Nonno d’America di Lorenza Toson
Ero tornato dall’America un Natale e mia nipote doveva avere sui quattro o cinque anni. Ne aveva sette e già andava a scuola. Aveva capelli rossi e una quantità di lentiggini tale da farla apparire molto più furba di quanto fosse in realtà. Era con mio figlio all’aeroporto. Li stavo a osservare nascosto dietro al vetro del check in. Marco aveva perso i capelli e aveva un’aria afflitta così che, per contrasto, la piccola appariva scoppiettante come un petardo. Nel momento in cui avevo deciso di farmi avanti, mio figlio aveva cambiato espressione. Per un attimo lo avevo rivisto bambino con le guance rotonde e gli occhi allegri: aveva sorriso, ma era un sorriso diverso, come se dentro la testa minuscoli cavi avessero cominciato ad avvolgersi per sollevare le labbra, subito dopo i cavi erano stati rilasciati e l’espressione era tornata quella di prima. «Ti vedo bene. Questa è Linda. Linda, questo è il nonno». La piccola mi scrutava. Come mi vedevano gli occhi di una bambina? Come un vecchio? Come un estraneo? Come un vecchio estraneo di cui non le importava nulla? Aveva sollevato un piede chiedendo: «Ti piacciono le mie scarpe?» Non ero riuscito a risponderle. La casa di mio figlio era come la ricordavo: ordinata, non grande. Chissà nella testa di Marco che fine aveva fatto la villa a Valnerina, la casa della sua infanzia. I due piani di stanze grandi, il parco con gli alberi, i colli, le cascate, il fiume, il torrente. Un appartamento era più semplice: non c’era il pensiero del giardino, dell’erba, la lunga siepe da tagliare. Era comodo ricevere un assegno ogni mese. Questo, pensa– 120 –
va. Così aveva affittato tutto, villa, mobili, ricordi; tranne l’argenteria sparsa tra il soggiorno e il salotto della casa di sua moglie nel centro di Terni. Nemmeno il tavolo in ciliegio si era preso, e sì che ne avrebbe avuto bisogno, stavamo stretti intorno al rettangolo di formica. La moglie di Marco sorrideva evasiva. Eravamo a cena ma lei non stava mai seduta: i piatti arrivavano e scomparivano come per magia. Non ero riuscito a mangiare niente. «È vero che dipingi quadri e che hai un sacco di soldi?» Ah! La capacità di sintesi dei bambini! Sì, dipingevo, ma non ero così ricco. Pensavo a quali discorsi doveva aver sentito per rivolgermi una domanda come quella, a quanto avesse fantasticato, per conto suo. E chissà di cosa si parlava, se adesso la conversazione era così difficile. Le frasi andavano a scatti, si bloccavano e ripartivano. A volte parlavamo in quattro, tutti insieme. Ero stato grato a Linda quando mi aveva portato nella sua camera. Una stanza con un letto, un armadio, una scrivania incassata in una libreria. Legato al termosifone c’era un cane di pezza, un bassotto con lunghe orecchie. Istintivamente lo avevo liberato togliendogli il guinzaglio, lo avevo preso in braccio. «No!» Linda teneva le mani tra i capelli in un gesto drammatico. «È cattivo, morde!» «Morde perché è legato». Lo avevo posato sul pavimento e, con due dita, avevo mosso la coda di pezza. «Non vedi com’è felice di essere libero?» «Ora fa la cacca», aveva concluso. «No, tu la fai dappertutto?» «Ma no!», aveva risposto aggressiva, «sono una bambina!» «Anche i cani sanno imparare tante cose, come te». Più di te, avevo pensato, senza dirlo. «Mio papà dice che sono sporchi». Ero rimasto zitto. Marco era cresciuto con tanti cani. Cosa gli era rimasto di loro? Solo la cacca che facevamo sparire dal giardino? Intanto Linda aveva acceso la radio, ballava. «Guarda!» aveva ordinato. Sollevava le gambe, le braccia. «Sono brava?»
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Non avevo risposto, ero già in un taxi diretto all’albergo. Mi ha scritto molti anni dopo. «Il papà non sopporta sia andata a vivere nella tua casa. Si aspetta gli paghi l’affitto o mi sposi. Forse un giorno, chissà, intanto sto bene sotto il salice a studiare, o a spasso per le colline con i miei cani. Cani, già e non li tengo legati al termosifone! Un bacio intercontinentale. Linda». Alla sesta lettera ho capito quanto bisogno aveva di comunicare, proprio come me. Avevo risposto: «Vieni», ma era una bugia, una di quelle che si raccontano due persone che si sono incontrate una sola volta e che poi, per un motivo o per l’altro, tristezza e solitudine, continuano a cercarsi senza stare insieme mai. Spesso, la sera, le sue lettere davanti, la immaginavo inerpicarsi per i sentieri o scendere le gole profonde fino alla Cascata delle Marmore. Nel teatro dei ricordi respiravo gli scenari vissuti e amati tanto da rammentarne ogni dettaglio. Uno spettacolo che non sopportavo dopo la morte di Maria. Ero partito per New York dopo le nozze di Marco, a un mese dal funerale. Il lavoro era una scusa per arginare i ricordi. Quale illusione! Dietro ogni pensiero, ogni nuovo quadro, la tristezza: la stessa che intuivo tra le dissimulatrici righe di Linda. Sprofondato nella poltrona, in certe notti newyorchesi la immaginavo a primavera nel mezzo del verde anfiteatro naturale cullata dalle legittime speranze di una giovane donna. Ma c’erano altre notti in cui mi sorprendevo a sognarla osservare un temporale: folate di vento flagellavano i rami del salice e la tempesta montava. Il fiume Nera diventava cattivo, l’aria sollevava colonne d’acqua dalla cascata e si schiantavano sulle pietre tra spruzzi e schiuma bianca. Allora temevo in una sorta di corrispondenza tra la violenza degli elementi e il tumulto della sua coscienza inquieta. Quella sera era diventata l’alba: ero ancora in poltrona, mezzo addormentato. Pioveva e le gocce sbattevano contro la finestra. Un indizio. – 122 –
Alla fine ci siamo incontrati. All’aeroporto l’ho riconosciuta subito per via dei capelli e qualche altra cosa che non ha nome. In auto, aveva detto: «Come sono felice di essere con te». Non avevo risposto, non riuscivo a parlare. Intanto guidavo, ai semafori rossi mi fermavo, con il verde ripartivo. Noi due insieme. Seduti uno di fianco all’altra. Questo era tutto. E non era poco.
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La Cappella del Nonno di Maria Visnadi
Mio nonno Visnadi Giovanni Battista aveva tre figli che erano partiti per la Grande Guerra del 1918. Il suo desiderio era quello che ritornassero a casa sani e salvi; se ciò fosse accaduto in segno di ringraziamento a Dio diceva che avrebbe costruito una grande cappella con la Madonna a Fontanelle (Tv). Finita la guerra i suoi figli sono tornati a casa e pertanto mio nonno ha mantenuto la sua promessa, facendo richiesta al comune di poter avviare il lavori per la costruzione della cappella. Il comune ha accettato e quindi mio nonno con l’aiuto della nonna e dei figli rientrati ha iniziato subito i lavori. A Fontanelle c’è una chiesa molto antica, semplice che costeggia il fiume Monticano; poco dopo una discesa si può vedere ancor oggi la cappella che ha costruito il nonno. La cappella è di grandi dimensioni, rotonda e dentro vi è una statua della Madonna in piedi. Durante il mese di maggio di ogni anno si tiene il rosario e la festa del patrono. Io ricordo che i miei nonni erano grandi lavoratori e il nonno si è prodigato molto per la costruzione di questa cappella; le sue fatiche sono valse a tenere unita tutta la famiglia; i suoi figli gli sono stati sempre riconoscenti per la sua opera. Lui adesso non c’è più e nemmeno i suoi figli. Ma io e mia sorella Bianca, l’unica ancora viva, così come i miei nipoti, ricordiamo ancora la cappella costruita da mio nonno. Questa sua grande opera ha permesso di legare le generazioni della nostra famiglia e non solo, perchè ieri come oggi sono molte altre le famiglie che vanno a pregare. L’ultimo custode della cappella è un figlio di un mio cugino, che tiene in ordine la cappella nei giorni nostri. – 124 –
Una famiglia matrioska L’incrocio interetnico (e casuale) di quattro generazioni di Andrea Zampella
Enrica e io (Paolo) non volevamo crederci. Quella sera di primavera, cercammo in fretta una farmacia di turno e, trovatala, subito a casa per avere certezze! Nostra figlia Jasmine, sedicenne, venuta dall’India all’età di tre anni, era incinta, ormai non c’erano più dubbi. Subito dopo l’inequivocabile “test”, pensieri e immagini del passato e di un futuro problematico si aggrovigliavano. Nei lunghi silenzi, a tratti ci uscivano domande senza un filo logico, forse un modo per esorcizzare chissà quale male sconosciuto o trovarne risvolti positivi. Superato lo choc, si fa per dire, ad attendere l’evento eravamo in tanti a casa. Enrica, moglie e amante meravigliosa, grande lavoratrice in casa e fuori, oltre trent’anni passati insieme nelle tempeste e nella felicità. Milanese, efficientina, perfettina… irraggiungibile. Di fronte a lei un mediocre come me, mezzo terrone cresciuto in Friuli, di natura abbondante in tutto nelle cose che non contano, non avrebbe mai potuto rischiare la propria “autostima”, quella dei “normali” s’intende. La bisnonna, Veronica (mamma di Enrica), originaria delle calle alte del sacro Piave, sempre generosa di ricordi e consigli di circostanza, anche lei perfettina e un po’… rompina, come tutte le suocere. Dimitri, della bianca Russia, padre inconsapevole (incosciente nel nostro primo pensiero) del nascituro, sempre con lo sguardo stralunato ma di un ottimismo sconfinato verso l’aiuto e la compren-
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sione di chiunque incontrasse. Nostra figlia Jasmine, minuta in origine e ora sempre più “tondeggiante”, studentessa e mamma precoce. Joy, fratello di sangue di Jasmine e adottati insieme, un tipo riservato, molto “fisico”, tutto casa-lavoro e patronato dove, ormai adulto, ancor oggi continuava a giocare e dar sfogo alla sua vitalità. Katia, la figlia maggiore, italiana, anch’essa adottata da piccola, una bambinona cresciutella, chiassosa e, come tanti in famiglia, carente di affetto. Dopo poco tempo, nei giorni in cui soggiornava da noi, Dimitri lasciò la provvisoria sistemazione di circostanza nella camera di Joy per passare in quella di Jasmine; superate le comprensibili turbolenze e incomprensioni delle prime settimane dovevamo realizzare tutti che Dimitri non era un abusivo, volente o nolente ci aveva proprio messo del suo nella “vicenda” con sentimenti sinceri (confidavamo tutti) verso nostra figlia. In quei mesi di attesa ognuno di noi progettava il futuro a breve, ciascuno dal suo punto di vista, ciascuno si sentiva a suo modo madre e padre del piccolino in arrivo. Lo scambio di idee provocava spesso confusione e fraintendimenti. Il piccolo Andrea nacque dunque sanissimo la mattina di un freddo gennaio. Tutta la famiglia era eccitatissima: mentre intorno alla sala parto aleggiavano gli effetti dei “rosari” della bisnonna Veronica, la nonna Enrica e il papà Dimitri assistevano in sala parto all’evento, il sottoscritto in prossimità, poté entrare appena ripulito il neonato – parto perfetto – mentre dai cellulari viaggiava la notizia. Chissà perché il neonato della tua famiglia è sempre un bellissimo bambino, vispo e intelligente e nessuno si arrischia mai di predire che sarà un bimbo – nella migliore delle ipotesi – normale, talvolta capriccioso, noioso e poco somigliante a qualcuno. Dico questo perché per noi, Andrea era veramente il bimbo più bello che potevamo aspettarci, guardandolo ogni imbarazzo e disagio del presente e ogni incertezza sul futuro svanivano come per incanto. Ma torniamo indietro a quando Jasmine entrò nel quinto mese e contemporaneamente iniziava l’ultimo anno delle superiori, – 126 –
riflettendo su come eravamo messi in famiglia e sul “dopo”, pensai “da fuori di testa” che avrei potuto spendermi in un ruolo decisivo, quanto sfidante. A un atto improvvido e di impulso si doveva contrapporre un piccolo ma utile comportamento della “ragione”. Per farla breve decisi di lasciare in anticipo la mia professione – non che mi mancassero le soddisfazioni, anche materiali – e di andare in esodo, una specie di pre-pensionamento, un anticipo concordato e certo della pensione, per fare il nonno-baby sitter (mia moglie doveva lavorare ancora e gli altri erano tutti impegnati). Proprio a me toccava questa cosa, un “segno” dall’Alto (si dice così quando prendi una botta in testa), chissà un regalo inatteso e insperato, mettiamola così (ma forse le cose più inattese si sarebbero manifestate più in là). Come padre adottivo di bimbi avuti sopra i tre anni (li prendi come sono, non li scegli), né io né mia moglie ci eravamo cimentati in prima persona con pannolini, poppate, ruttini, pianti da mal di pancia ecc. Anzi dirò di più, molti anni prima, avendo “sofferto” la nascita e lo svezzamento in sequenza ravvicinata dei tre miei fratelli minori, in allora solo scocciatori capaci di monopolizzare l’altrui attenzione distogliendola dal sottoscritto, capite con quale disagio e al tempo stesso con quale incoscienza mi apprestavo al ruolo di nutrice. Dico “nutrice” (un termine senza il maschile!) perché nelle prime ore della giornata di scuola somministravo con il biberon al piccolo Andrea il latte che mia figlia si era “tirato” ore prima. Poi nell’intervallo pomeridiano si tornava alla poppata doc e tra una poppata e l’altra il piccolino passava il tempo col nonno Paolo. Che coppia, quante avventure in macchina, lui tranquillo nel suo ovetto come in una culla, insieme nel traffico, anche cinquanta-sessanta km al giorno (casa-scuola-casa, dal nostro paesello in collina a Padova e ritorno) con ogni condizione di tempo. A volte anche con neve e ghiaccio in tornanti ripidi. E poi posteggiare in città, vicino alla scuola di Jasmine per non far prender freddo al piccolo. Condividevamo lo stupore nei nostri confronti di giovani (ma anche meno giovani) donne – 127 –
“materne” che certo – a noi due maschietti – non poteva dispiacere. Condizionati dagli eventi, Andrea, ma soprattutto mamma Jasmine e papà Dimitri crescevano cercando di acquisire una sempre maggiore maturità per metter su famiglia. I nonni di Andrea si preoccupavano delle esigenze materiali anche se le spiacevoli e involontarie interferenze sui baby genitori erano inevitabili vivendo tutti e otto sotto lo stesso tetto. La bisnonna Veronica anche lei interveniva spesso e, quando veniva tacitata, si rifugiava in un taumaturgico “rosario” sempre a portata di mano; le coccole però, al piccolo Andrea, erano quelle del tempo antico, cantilene ormai in disuso ma sempre efficaci. Katia mostrò subito verso Andrea l’affetto tipico della zia spensierata e un po’ matta, ma tanto simpatica. Con Joy invece il confronto era sugli oggetti e sui piccoli giochini, la memoria dell’infanzia di Joy si rifletteva in quella di Andrea, un’infanzia dove si giocava con poco… con quello che c’era. In Andrea si riscattava la generazione di Jasmine e di Joy. Tra fratelli (madre e zio di Andrea) un legame fortissimo da replicare sul piccolo Andrea nella memoria riconoscente ma sfumata degli avi indiani, una famiglia indiana atipica, dentro una famiglia interetnica ancora da formare, a loro volta dentro una grande famiglia eterogenea di quattro generazioni: una specie di famiglia sul modello matrioska. Enrica rivelò nell’attaccamento al piccolo Andrea la parte più dolce e materna, quella forse rimasta nascosta e riservata a un neonato del quale non si era mai potuta curare, un lutto forse solo parzialmente cancellato da tre bambini non suoi e adottati ben dopo lo svezzamento. Quando meno se l’aspettava… proprio improbabili, oltre che infinite, le vie del Signore! E Dimitri?... anche lui era rimasto orfano da piccolo nella fredda Russia, dopo i 18 anni esule in Italia grazie a una brava famiglia di Padova che lo accolse; mille mestieri avrebbe affrontato senza mai perdersi d’animo; anche lui lottava per avere affetto e sicurezza. Quel figlio capitato per caso, lo – 128 –
aveva messo inizialmente in una posizione complicata, ma poi, paradossalmente veniva riabilitato, accolto e aiutato ad avere riferimenti precisi nei quali lui aveva caparbiamente sempre sperato. Col crescere di Andrea, gli orfani si sentivano meno orfani, i genitori provavano a essere sempre più genitori e i neofiti nonni sempre migliori nonni in una famiglia inizialmente sparigliata e disorientata, dove ancora si fa gran chiasso, spesso si sbattono le porte, volano parole grosse e ciascuno vuol primeggiare, ma con qualche grammo in più di consapevolezza in un’affettuosa turbolenza. Vite incrociatesi “per caso”, con il cuore mai staccatosi dalle proprie lontane origini e lo sguardo fiducioso verso un futuro ruvido ma sempre appassionato, in un fluire di generazioni che lasciano a quelle che seguono generosamente un po’ di vita buona.
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I partecipanti
Acevedo Alica Andreatta Virginia Angela Livia Anna Atehortua Carlos Baggio Antonia Balasso Valeria Bartolomei Milena Bellotto Gemma Bernardi Giustina Bertolini Gilmo Bilato Adelia Boldrin Francesca Bortoletto Clementina Bottignolo Elisa Bozzetto Marisa Bresolato Maria Grazia Buio Marina Cabianca Federica Caccin Gianmarco Campi Adelina Canton Osanna Carpanese Anna Lucia Carta Giovanna Castagnotto Gabriella Cavasin Mary Cerinato Maria Ceron Margherita Chiorboli Donatella Civolani Teresa Conte Sandra
Corazza Irma Da Ros Bruno Dal Bo Oliva Dalla Pietà Giacomo Daniele Marilina Daurù Claudia De Mori Donatella De Fort Ida De Marchi Christian Di Prossimo Maria Duca Marilena Esposito Matilde Fagherazzi Annamaria Feltrin Anita Ferlito Elena Ferrasin Carolina Fiorotto Aurora Foà Dario Foralosso Giampiero Forese Rino Franciosi Carla Frison Angelo Gasperin Ilenia Genovese Angelica Giachin Sofia Girardi Anna Greblo Carolina Grotto Giuseppe Gruppo di lavoro “S. Chiara” Lo Vullo Maria Pia – 131 –
Logari Giuliana Longato Marilena Longato Giulia Longo Cesira Marcolin Argenide Mazzoccato Enrica Mazzon Rita Meneghetti Luigi Menegon Loretta Merialdo Alberto Mescalchin Maria Migliavacca Giovanni Milan Giancarla Milanese Annamaria Miniati Benita Missaglia Michele Modenato Alfredo Montagnini Marina Moretti Ilenia Omacini Renato Operatori I piano Ortolan Maria Paggiarin Maria Rosa Pallaro Maria Pampuch Elisabetta Parpinello Lodovica Percacini Bona Perini Romana Piccioli Francesco Pillon Lidia Pilotto Roberta Pollastri Giorgia Prior Emanuela Pugnali Lina Ragazzo Silvia Ravazzolo Carla
Ravazzolo Maria Grazia Redolfi De Zan Annamaria Reggi Maria Grazia Righetto Luigino Rigoni Francesca Rizzo Renato Roncato Maria Rosin Angela Rossato Sonia Sailer Annarosa Sanguin Giuseppina Schiavon Maria Scuola Don Milani – Classe IaB e IaC Scuola Primaria G. Bonetto Sforza Antonietta Simonetto Federica Sinigaglia Clara Soavi Mina Soldà Silvano Soldi Carmen Solombrino Fulvia Spanò M. Iose Tacchetto Rosanna Tamiello Paola Tonello Marilena Toson Lorenza Trozzo Beatrice Maria Turetta Lucia Venturato Roberta Visnadi Maria Zago Noemi Zampella Andrea Zenari Orietta Zin Valentina Zorzetto Franca
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Civitas Vitae, la prima infrastruttura di coesione sociale in Italia
Il mondo sta, per la prima volta, sperimentando una situazione sconosciuta e fortunata: poter vivere normalmente fino a quasi cent’anni è un evento sconosciuto nella storia. Dobbiamo vivere questa nuova fase come un’opportunità; bisogna avere il coraggio di modificare giudizi, comportamenti e strumenti. Ecco perchè è il momento di inventare anche delle infrastrutture di coesione sociale specificatamente disegnate su questi nuovi e sconosciuti fabbisogni: l’apporto del pubblico sarà sicuramente importante, il contributo del no profit sarà molto importante, la centralità della famiglia sarà veramente fondamentale. Corrado Passera - Ministro dello Sviluppo Economico L’invecchiamento di massa è un inarrestabile fenomeno demografico che, generando profonde modificazioni sociali ed economiche, viene oggi letto più come una minaccia che come una conquista del genere umano: la Fondazione OIC onlus crede invece che sia un inedito scenario che apre a nuove opportunità. Per OIC l’anziano non è un essere umano al capolinea, ma una preziosa risorsa, eventualmente contenuta in un contenitore fragile. E proprio in quanto risorsa, il longevo va salvaguardato, creando contesti in cui possa vivere con pienezza, sviluppando relazioni tra persone, tra generazioni, tra ruoli, tra ambienti, generando così beneficio non solo per se stesso ma per l’intera comunità. In questa logica la Fondazione OIC ha realizzato alle porte di Padova una vera e propria palestra, un laboratorio sociale intergenerazionale a disposizione del territorio, un contesto per esercitarsi ed allenarsi, a partire dalle più giovani generazioni, a vivere e crescere in armonia di inclusione, sussidiarietà e solidarietà. – 133 –
Civitas Vitae - la prima infrastruttura di coesione
“Il mondo sta, per la prima volta, sperimentando una situazio normalmente fino a quasi cent’anni è un evento sconosciuto n fase come un’opportunità; bisogna avere il coraggio di modif Ecco perchè è il momento di inventare anche delle in specificatamente disegnate su questi nuovi e sconosciuti f sicuramente importante, il contributo del no profit sarà molto im veramente fondamenta Corrado Pa
Quattro sono i riferimenti dell’agire quotidiano del Civitas Vitae:
1. cultura del limite: è la fragilità che produce coesione L’invecchiamento di massa ed è unstiinarrestabile
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profonde modificazioni ed economiche, viene oggi mola la capacità di condividere situazioni difficili, sociali con l’obietuna conquista del genere umano: la Fondazione OIC o tivo per superarle in spirito comunitario scenario che apre a nuove opportunità. Per OIC l’anziano non è un essere umano al ca 2. esperienza: solo il patrimonio esperienziale longeeventualmenteproprio contenutadei in un contenitore fragile. E pr salvaguardato, creando contesti in cui possa vivere c vi può offrire alle nuove generazioni uno sguardo d’insieme persone, tra generazioni, tra ruoli, tra ambienti, generand l’interapositivo comunità. sulla prospettiva di vita, dandole ma unper senso In questa logica la Fondazione OIC ha realizzato alle un laboratorio sociale intergenerazionale a disp 3. intergenerazionalità: mettere in palestra, rapporto sinergico la prima esercitarsi ed allenarsi, a partire dalle più giovani genera e la terza età del vivere consenteinclusione, ad entrambe un reciproco sussidiarietà e solidarietà. arricchimento costruito sul dono Quattro sono ii riferimenti dell’agire quotidiano del Civita 1. cultura del limite: è la fragilità che produce condividere situazioni difficili, con l’obiettivo per su 4. apertura e connessione: quanto avviene al Civitas Vitae non 2. esperienza: solo il patrimonio esperienziale pro rimane chiuso al suo interno ma è condiviso con comunità generazioni unolasguardo d’insieme sulla prospetti intergenerazionalità: mettere in rapporto sinerg civile nazionale ed internazionale. 3.Grazie alle più avanzate consente ad entrambe un reciproco arricchimento 4. apertura e connessione: quanto avviene al Ci tecnologie internet è possibile vivere il Civitas Vitae (i suoi interno ma è condiviso con la comunità civile na eventi, i suoi servizi, ecc.) anche dalla più propria abitazione, al- è possibile vive avanzate tecnologie internet servizi, ecc.) anche dalla propria abitazione, allacc lacciando così ulteriori nuovi legami. Il Civitas Vitae di OIC è quindi la prima infrastruttur
costruita nella c
possa essere as Il Civitas Vitae di OIC è quindi vita nella prima la prima infrastruttura di coesione di popolazione vera e propria sociale (ICS) in Italia, costruita nella declinata in co convinzione che la risorsa longevità catalizzatori d realizzati in co possa essere asset fondante per reapubblica. Collegate da 2 lizzare progetti di vita nella prima e più moderne terza età, cioè al servizio delle fasce convivono arm attività di formazione e ricerca, abitazioni di popolazione oggi più fragili e meno sociosanitarie, tutelate: una vera e propria nonchè edifici per la pratica sportiva e luoghi di aggrega rete inserita in un ampio polmone città integrata di oltre 12 ettari, declinata in componenti sinergi-verde volutamente che ed animata da catalizzatori di relazione, pensati, promossi e realizzati in collaborazione con l’iniziativa privata e pubblica. Collegate da 2 km di ampi corridoi sotterranei e dalle più moderne strumentazioni informatiche, qui convivono armonicamente strutture sanitarie e sociosanitarie, attività di formazione e ricerca, abitazioni private ed organizzazioni commerciali nonché edifici per la pratica sportiva e luoghi di aggregazione sociale e culturale. Una grande rete inserita in un ampio polmone verde volutamente senza soluzione di continuità con il territorio circostante: ogni giorno mediamente 3.000 persone entrano in contatto con il Civitas Vitae, siano esse operatori, medici, dipendenti, familiari, visitatori, bambini, famiglie, scolaresche, istituzioni ecc.
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Elementi diversi ma non distanti perchè uniti in relazione sistemica Ogni componente del Civitas Vitae esprime tutto il suo potenziale in quanto connesso all’altro. Non è quindi possibile enuclearne solo alcuni (per esempio quelli sociosanitari) riproducendo in altro luogo solo una parte specifica di questo social-lab, dato che verrebbe a mancare quel patrimonio di relazioni e valore aggiunto che è invece naturalmente generato dall’essere parte del tutto. Qui dunque convivono: ● strutture sociosanitarie: ○ Residenza Santa Chiara, ospita 480 persone non autosufficienti, in ambienti dotati di ogni comfort e di tutti i servizi medico-infermieristici. ○ Struttura intermedia, un Ospedale di Comunità per l’assistenza post acuzie e la riabilitazione, gestito in collaborazione con l’USL16 di Padova. ○ N.A.I.S.S. - nucleo ad alta intensità sociosanitaria, perno della rete dei servizi residenziali territoriali dell’USL16, accoglie persone non in grado di proseguire la convalescenza presso il proprio domicilio. ○ Residenza del sollievo Paolo VI, circa 40 posti per persone in stato terminale (hospice) o di minima coscienza (coma vigile), gestita in collaborazione con l’USL16 di Padova. ○ Residenza Pio XII per circa 220 persone anziane non autosufficienti, con ricettività e servizi ai più alti standard di mercato. ○ Casa della Sussidiarietà Filippo Franceschi, attiva da fine 2012, ospita su tre piani, religiosi/e anziani o in servizio presso il Civitas Vitae, giovani disabili anche come coach per non autosufficienti anziani nonché ambulatori di medicina generale ed attività commerciali. ○ Centro di riabilitazione, con servizi integrati di logopedia, ergoterapia, fisioterapia, recupero postrianimazione, fisiokinesiterapia, idroterapia, servizi ambulatoriali, punto prelievi (in collaborazione con USL16).
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● strutture residenziali e relazionali ○ Residenze Airone per persone longeve autosufficienti,
un complesso strutturato come le antiche corti venete, formato da 11 villette con appartamenti da 27 a 77 mq, comunicanti tra loro mediante percorsi protetti. ○ Auditorium S. Pontello, un sistema di sale attrezzate di oltre 1.200 metri quadri con capienza fino a 320 posti, punto di interrelazione con l’esterno per convegni, congressi, incontri, esposizioni, mostre ecc. ○ Centro Benessere, servizi per il tempo libero e la cura della persona: biblioteca, mediateca, connessione internet, bar, animazione sociale, parrucchiera, barbiere, pedicure, podologo. ● strutture educative e culturali ○ Centro formazione e ricerca Varotto-Berto, qui vengono formati (anche in collaborazione con Enti esterni) sia gli operatori OIC sia i gruppi di longevi attivi che scelgono di frequentare i percorsi (gratuiti) Terza Età Protagonista. Vengono inoltre “inventate” e sperimentate soluzioni materiali ed immateriali per il maggior/miglior benessere degli ospiti. ○ Centro Infanzia Intergenerazionale C.G. Ferro, asilo nido e scuola materna: dove viene data forma concreta alla costruzione di relazioni intergenerazionali e offerto un supporto pratico e pedagogico alle famiglie del territorio e della comunità OIC. ○ Museo Veneto del Giocattolo: riconosciuto dalla Regione Veneto, raccoglie una collezione straordinaria di giocattoli dello scorso secolo, consentendo così un gioioso ritorno all’infanzia dei longevi. Vengono ospitate ogni settimana numerose scolaresche che partecipano ad iniziative didattiche (laboratori del riuso) animate dal team dei Nonni del Cuore in Azione. ○ Autodromo didattico, un sistema di strade ed arredo urbano dove imparare l’educazione stradale e conseguire la patente per ciclomotore, accompagnati sia da Ospiti delle residenze sia da longevi attivi, con la collaborazione
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tecnica della Polizia Municipale e dell’Associazione Amici della bicicletta, sotto l’egida dell’Ufficio Scolastico di Padova. ○ Accademia dei Talenti, un contesto declinato in sale/ ambienti attrezzate per diverse attività (dalla musica alla meccanica, dalla danza al videogioco, dall’agricoltura al design etc.) dove adolescenti e ragazzi sono stimolati a sviluppare le proprie aspirazioni e le proprie capacità sul “cosa fare da grandi”, con la collaborazione di longevi esperti nei diversi campi. ○ Palazzetto sportivo, omologato Coni per diverse discipline, a disposizione sia per esercizi sportivi da parte di persone con disabilità, sia per associazioni sportive, sia per manifestazioni di aggregazione etc. Queste tre realtà si pongono come strumenti educativi/ formativi all’incontro con l’altro (la strada quale struttura di comunicazione) alle “regole” attraverso lo sport, al lavoro mettendo a frutto le proprie attitudini/inclinazioni. ○ Parco della Vita e delle Esperienze con orti sociali, area giochi per i più piccoli, percorso vita attrezzato, punto di ristoro, bocciodromo con tribuna, laghetto per modellismo navale e prossimamente anche un nucleo per la pet-therapy. Polivalenza e varietà delle attività del Civitas Vitae ogni giorno rinforzano, sia in quanti vi lavorano sia in quanti lo frequentano, quel senso di appartenenza ad una comunità civile che così riesce ad armonizzare in modo vitale le differenze di stato, di ruolo, di salute, di identità individuale. Civitas Vitae - i motori delle relazioni Come avviene in ogni borgo o contesto sociale, non sono comunque le strutture fisiche a dare vita alla comunità bensì le singole persone e le loro aggregazioni. Per questo motivo l’esperienza del Civitas Vitae è un quotidiano rinnovarsi grazie all’intreccio relazionale promosso anche da specifiche organizzazioni: ● Agorà: un’associazione di longevi attivi quali civil servant per – 137 –
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collaborare con istituzioni pubbliche e private in progetti che vanno dalla cultura dell’alimentazione al supporto a consumi e acquisti, dalla costruzione di reti intergenerazionali nelle scuole allo studio delle tecnologie informatiche etc. È lo sbocco operativo di quanti, per 6 mesi, sviluppano i percorsi di Terza Età Protagonista riservati ad over 65, che maturano la coscienza liberamente di dedicarsi agli altri con iniziative strutturate; ad esempio in questo senso, ha realizzato i corsi per la qualifica di amministratore di sostegno, una nuova figura giuridica nata per supportare in modo disinteressato persone longeve nella delicata fase del passaggio generazionale. Dal 2008 ha promosso la prima community online di longevi e gestisce un’innovativa mediateca digitale. Nonni del Cuore, gruppo di longevi soci di Agorà che hanno seguito uno specifico corso di oltre 600 ore per imparare ad interagire in modo pedagogicamente corretto (al di là cioè del naturale affetto) con bimbi ed adolescenti in modo da diffondere e allargare antropologicamente quel risultato di gioia e proprio dell’approccio nonno/nipote. Si occupano dell’animazione dei laboratori didattici del Museo del Giocattolo, di specifiche attività all’interno del Centro Infanzia, dell’animazione dell’autodromo didattico e dell’Accademia dei Talenti con le finalità sopra descritte. Comitato ospiti: organo di rappresentanza di Ospiti e familiari eletti nelle residenze della Fondazione OIC, con votazione democratica ogni sei anni, si dedica allo sviluppo delle relazioni tra strutture operative ed Ospiti: una sorta di ombudsman ante litteram, introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001 reso obbligatorio dalla Regione Veneto. VADA - Volontari Amici degli Anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, si «spendono» a favore degli Ospiti per combatterne la solitudine, per supportare chi si trova in situazione fragile e delicata, per dare consistenza all’ideale di famiglia allargata caratteristico del modello Civitas Vitae. Cilpress: cooperativa i cui soci, tutti over sessantacinque, concretizzano la loro carica imprenditoriale in attività di «relational service»: dall’accompagnamento in ospedale alla consegna di pasti a domicilio fino ad arrivare al Banco Ausili,
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Comitato ospiti: organo di rappresentanza di Ospiti e familiari eletti nelle residenze della Fondazione OIC, con ogni sei si dedica allo sviluppo un riferimento di votazione gestionedemocratica e riparazione dianni, ausili per disabili delle relazioni tra strutture operative ed Ospiti: una sorta di ombudsman ante litteram, realizzato insieme alla ong israeliana Yad Sarah. introdotto in OIC fin dal 1987 e solo nel 2001 reso obbligatorio dalla Regione Veneto. ● VADAInsieme - Volontari Amici degli Anziani: unisce quanti, in spirito di solidarietà, a questi momenti strutturati, il Civitas Vitae colla- si «spendono» a favore degli Ospiti per combatterne la solitudine, per supportare chi si bora quotidianamente con tanti attivi all'ideale nel territorio edallargata in trova in situazione fragile e delicata, per soggetti dare consistenza di famiglia caratteristico del modello Civitas Vitae. particolare con il Consiglio di quartiere Armistizio, le parrocchie, il ● Cilpress: cooperativa i cui soci, tutti over sessantacinque, concretizzano la loro carica Comune e la inProvincia di Padova, il Centro Servizi per il Volontariaimprenditoriale attività di «relational service»: dall’accompagnamento in ospedale alla consegna di pasti a domicilio fino ad arrivare al Banco Ausili, un riferimento di gestione to, diverse scuole primarie e secondarie, l’Università di Padova, il e riparazione di ausili per disabili realizzato insieme alla ong israeliana Yad Sarah. Museo Civico di Rovereto, l’Accademia di Arti Grafiche di Venezia Insieme a questi momenti strutturati, il Civitas Vitae collabora quotidianamente con tanti soggetti attivi nel territoriodiverse ed in particolare il Consiglio di quartiere Armistizio, lediparrocchie, nonché impresecon private. Il tutto in un’atmosfera agire il Comune e la Provincia di Padova, il Centro Servizi per il Volontariato, diverse scuole primarie e donativo e di fervida spiritualità che infonde speranza, concretasecondarie, l’Università di Padova, il Museo Civico di Rovereto, l’Accademia di Arti Grafiche di un imprese futuro private. migliore. Veneziamente, nonché per diverse Il tutto in un’atmosfera di agire donativo e di fervida spiritualità che infonde speranza, concretamente, per un futuro migliore.
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I promotori
L’Associazione Opera Immacolata Concezione nasce il 5 agosto 1955 per iniziativa di Mons. Antonio Varotto e Nella Maria Berto, un sacerdote ed un’assistente sociale che si trovarono a dover individuare una soluzione per otto anziane domestiche ormai non più in grado di lavorare. Con un’operazione di completa rottura con gli schemi dell’epoca, si inventarono un approccio comunitario alla vecchiaia, basato sulla sinergia dei momenti di riposo, di tempo libero, di attività lavorative, di volontariato, di spiritualità, di preghiera; il tutto vissuto con una cultura dell’accoglienza solidale ed aperta al territorio, fortemente professionale anche in virtù delle precedenti esperienze di lavoro. Dalla iniziale residenza di via Gustavo Modena a Padova (prima in Italia ad avere solo stanze a uno e due letti con bagno e servizi, una grande cucina aperta dove divertirsi a fare manicaretti, sale da pranzo e ritrovi dislocati in ogni piano) l’Associazione è evoluta fino all’attuale assetto di fondazione onlus, prima in Italia ad avere una governance duale, capace di accogliere oltre 2.200 ospiti sulla base di 9 Centri Residenziali, grazie al lavoro di oltre 1.500 dipendenti di 28 diverse nazionalità. www.oiconlus.it
Se in Italia venissero messe a sistema le logiche di approccio alla longevità dell’OIC, otterremmo in poco tempo un incremento del PIL del 7%. Giuseppe De Rita - Censis -2009
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La Società Dante Alighieri, fondata a Roma nel 1889 con il compito di salvaguardare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo, promuove “un’opera altamente ed essenzialmente civile e pacifica, a cui ogni italiano, qualunque sia la sua fede religiosa o le opinioni politiche, deve sentire il bisogno e il dovere di prendere parte”. Aderire ad uno dei 500 Comitati della Dante diffusi in tutto il mondo è per chiunque motivo di fierezza e di considerazione: significa esprimere, rappresentare e sostenere princìpi e valori universali, operando secondo ideali di solidarietà, di progresso e umanità da tutti condivisi. www.ladante.it GRAFICA VENETA Spa di Trebaseleghe in provincia di Padova è uno dei più vasti e attrezzati luoghi europei per il confezionamento di milioni di libri. In oltre dieci anni d’attività ha raggiunto una posizione di rilievo nella produzione libraria internazionale collaborando con i più importanti editori, augurandosi che in un futuro prossimo ogni persona abbia vicino almeno un libro. Quale operatore di mercato, investita di una responsabilità sociale, l’azienda si impegna con la propria attività a divulgare la cultura in tutto il mondo attraverso la stampa di volumi nel convinto rispetto per l’ambiente. Data la particolarità della materia prima utilizzata, si prefigge inoltre di ridurre l’incidenza dei costi sociali, migliorando l’efficienza dei processi produttivi, utilizzando materie prime provenienti da foreste razionalmente gestite. Tutto ciò in un ambito che privilegia la qualità, come dimostrano le certificazioni per gli standard qualitativi e di tutela ambientale come il marchio Forest Stewardship Council, meglio conosciuto con l’acronimo FSC, rilasciato da un’organizzazione internazionale non governativa, indipendente e senza fini di lucro. www.graficaveneta.com La casa editrice Cleup (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova) è presente da cinquant’anni anni nel panorama editoriale ed è specializzata nella stampa di testi universitari e professionali, contando all’interno del catalogo un numero significativo di pubblicazioni volte alla conoscenza e valorizzazione del territorio e della cultura. Accanto all’Università di Padova, principale
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partner istituzionale, Cleup annovera collaborazioni con numerosi altri atenei italiani e con importanti centri di ricerca, fondazioni e associazioni, aderendo in pieno alla sua filosofia: UniversitĂ e Territorio per Cultura. www.cleup.it
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The first carbon-free printing company in the world
Finito di di stampare nelnel mese di settembre 2012presso presso Finito stampare mese di settembre
Via Malcanton, 2 - Trebaseleghe (PD) Printed in Italy – 144 –