libro concorso fiabe 2009

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SOCIETÀ DANTE ALIGHIERI

Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus

IL SOGNO, IL MAGICO, IL FANTASTICO I nonni accompagnano i nipoti nel mondo delle fiabe

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Prima edizione: settembre 2009

ISBN 978 88 6129 424 0 © Copyright 2009 by CLEUP sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049/8753496) www.cleup.it Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. Grafica di copertina di Massimo Maltauro. –2–


Indice

Presentazioni Dalla poesia alla fiaba: l’apporto culturale dei longevi per la coesione sociale intergenerazionale Angelo Ferro, Presidente Fondazione OIC Onlus Fiabe come desideri, come sogni, come trasmissione di cultura Antonia Arslan, Presidente della Giuria

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La fiaba come radice vera della cultura popolare Luisa Scimemi di San Bonifacio, Presidente Società Dante Alighieri, Sezione di Padova

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Qualcosa, forse, sta cambiando Ugo Savoia, Direttore «Corriere del Veneto»

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La fiaba e il libro, traghettatori intergenerazionali di sapere Fabio Franceschi, Presidente Grafica Veneta SpA Il senso di una partnership rinnovata Ambrogio Fassina, Presidente CLEUP

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Opere selezionate Agnese, nonna cantastorie Ci sono nuvole e nuvole Una grassa rana rosa... Strada facendo Storia di cani e gatti Dialogo La fola del fiume Agno-Guà (e delle Anguane) Piero pipeta Questa è la storia di Giovanin senza paura L’età dei metai pressiosi Del Signor Coriandolo e della Pulce L’idromèle dello gnomo lituano Il re distratto La leggenda della Principessa Cornaro Storie di una volta Uso improprio di una “bareta” Anna e il segreto del Tempo

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I partecipanti

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Premio Paul Harris Fellow Distretto Rotary 2060

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I promotori

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Presentazioni

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Dalla poesia alla fiaba: l’apporto culturale dei longevi per la coesione sociale intergenerazionale

Ci sono motivazioni oggettive, razionali, scientifiche, che giustificano la scelta dell’OIC di promuovere anche quest’anno un concorso letterario. Motivazioni delle quali sovente parliamo nell’ampia produzione di documenti, comunicati, convegni, libri, internet, giornali che come Fondazione promuoviamo insieme a partner che sostengono e credono nella nostra filosofia della “risorsa longevità”. Motivazioni serie, fondate, ma che rischiano talvolta di non riuscire a parlare al cuore delle persone; motivazioni costrette ad adottare un linguaggio da addetti ai lavori, da specialisti e studiosi, seppure fortemente orientati alla divulgazione. È stata dunque l’indimenticabile esperienza del calore umano sperimentato nell’edizione dello scorso anno che ha innervato la ricerca per il 2009 di un ambito ancora più aperto e vitale, convinti che la produzione intellettuale sia una chiave fondamentale per lo sviluppo di una nuova cultura della longevità. Aver visto tante persone di diversa esperienza e formazione esprimere in versi un così ricco caleidoscopio di sentimenti e umanità ci ha spinto quindi ad esplorare il più complesso territorio della prosa, concentrandoci in quella che ci piace definire l’arte della fiaba. Fiaba significa fantastico, emozioni, capacità di far vivere esperienze e capire situazioni inedite. Sempre supportati da un narratore, affettuoso e attento a non spingere troppo né

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sul tasto della paura (certamente la nonna mangiata dal lupo non è immagine rassicurante) né su quello della divagazione fantastica (che porta a straniamento e fuga della realtà). Un narratore di mondi e magie che è sempre pronto a fornire l’affettuoso supporto della rassicurazione e della positiva prospettiva esperienziale, proprio come da sempre fanno le mamme, i genitori ma soprattutto i nonni e le nonne, sovente oggi le uniche persone con tempo a disposizione per raccontare favole ai bambini, sia che si tratti dei propri veri nipoti sia di quelli putatitivi (come quotidianamente ci capita di vedere nel Centro Infanzia del “Civitas Vitae” con l’attività dei Nonni del Cuore). Per non essere egoisti non abbiamo riservato la partecipazione solo alla numerosa e multietnica famiglia dell’OIC ma anche ad altri longevi che si sono riconosciuti negli ideali e nella visione dell’iniziativa. Abbiamo ricevuto fiabe da persone di diversissima estrazione e provenienza, da chi è capace di adottare sofisticati strumenti di videoimpaginazione a chi ha manoscritto di getto il proprio racconto sul primo pezzo di carta che poteva agguantare, fosse anche una vecchia agenda. In tutti gli elaborati è emerso il forte desiderio di protagonismo delle persone anziane, desiderose non di rincorrere effimeri ideali di vita passata ma coscienti di un nuovo e diverso ruolo sociale, di facilitatori di diverse forme e modalità di convivenza civile, desiderosi di cogliere le opportunità che l’inedito allungamento della vita propone loro. Come Fondazione OIC ne ricaviamo un arricchimento umano e relazionale senza pari, una ricarica dalla quale usciamo rafforzati nella consapevolezza che la costruzione di reti intergenerazionali e di congrui contesti generatori di relazioni, rappresentano la chiave strategica per un futuro migliore per riappropriarci di un destino comunitario solidale.

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Raccogliamo oggi in questo semplice libretto gli elaborati selezionati dalla Giuria, con il rammarico che i limiti tipografici ci abbiano imposto una selezione dei lavori ricevuti (che rimarranno comunque disponibili per la lettura sul nostro sito internet) ma con la soddisfazione di aver portato avanti le frontiere della longevitĂ nella costruzione del bene comune. Angelo Ferro Presidente Fondazione OIC Onlus

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Fiabe come desideri, come sogni, come trasmissione di cultura

Un pacco di fiabe, tutte da gustare. Mi ci sono immersa con la lenta gioia di chi ritrova un’abitudine dimenticata, il piacere dei lunghi pomeriggi infantili, delle sere in montagna con nonna Virginia, che sapeva solo due storie ma le raccontava sempre con autentica gioia, come noi nipoti le ascoltavamo con entusiasmo. Certo, dalle fiabe i lettori, piccoli o grandi che siano, non si aspettano delle novità. Anzi, i personaggi in gioco sono pochi, e riconoscibili, frammenti di un mondo di sogno e di nostalgia che ognuno di noi tiene ben serrato nel suo cuore segreto: re e regine e misteriosi vagabondi, principi valorosi e belle fanciulle, spesso in numero di tre, pastori e pastorelle, giullari sapienti, vecchiette argute e matrigne malefiche, orchi e mostri vari, animali buoni o cattivi, ma dotati di tutte le virtù e i difetti degli esseri umani. E tutti si mettono in viaggio per il vasto mondo. Ogni scrittore di fiabe riprende e combina variamente queste immagini, questi simboli eterni, secondo il suo gusto e la sua epoca, senza mai negarli del tutto, da Apuleio ai fratelli Grimm, da La Fontaine a Oscar Wilde. E le storie che ognuno di loro inventa non negano le precedenti, ma le continuano, aggiungendo nuove tessere a un mosaico già ricco, perché in ogni storia raccontata ne sono depositate molte di più antiche, e ogni voce nuova arricchisce un tronco che non si stanca di buttar gemme. Magari adottando nuove forme di espressione e facendo uso di una certa verve ironica, la dimensione fiabesca è dav-

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vero perenne, e colma un bisogno profondo che è presente in ognuno di noi. E così oggi, dai volonterosi e appassionati narratori che si sono cimentati in questo concorso – spesso con una candida freschezza e una semplicità essenziale assai cattivanti – noi riceviamo un insegnamento che è ancora prezioso, e che questo libretto elegantemente dimostra. Passano gli anni, cambiano le epoche e i costumi: ma dietro l’apparente turbinosa velocità dei cambiamenti, delle mode e delle modernizzazioni che tanto ci impressionano, resistono impavide le strutture profonde della mente e del cuore, la precezione istintiva del bene e del male, le categorie del giudizio. E ognuno di questi graziosi racconti, ciascuno a suo modo, ci trasmette saggezza e ci dà consolazione. Antonia Arslan Presidente della Giuria

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La fiaba come radice vera della cultura popolare

Il sogno, il magico, il fantastico, tre termini coinvolgenti e suggestivi che rinviano alla nozione, ormai d’uso comune, di immaginario collettivo: ricco e prezioso patrimonio di esperienze, simboli e concetti condivisi da una pluralità di individui che vi attingono, sia pur inconsciamente, per interagire e aderire con efficacia creativa alla realtà in eterno divenire che li circonda. Sono le caratteristiche fondamentali, seducenti e allusive, di quanto noi oggi definiamo ‘cultura’ in senso lato. Sogni, sortilegi e fantasie sono, infatti, sostanza lieve e persistente di miti e leggende di tutto il mondo; elementi costitutivi dell’arte e della letteratura, di lontane memorie, di modelli di vita, di valori da tramandare e trasformare in usi e costumi esemplari; riferimenti oggettivi, e tuttavia in perpetua metamorfosi, che danno significato e bellezza alla nostra limitata esperienza personale. La consuetudine popolare, nel corso dei secoli, ha raccolto tutto ciò in un apparato di semplice consultazione, nella ‘mitologia domestica’ di favole e fiabe che si tramandano di generazione in generazione, che trasformano situazioni e nozioni complesse in un linguaggio accessibile a tutti, anche agli infanti, inesperti di logos per antonomasia, traducendole in metafore colorate di emozioni, di virtù e competenze da acquisire, di vizi, paure e disvalori da scongiurare, e riconoscibili fin dalla più giovane età. Questo prodigioso grimaldello di lettura e di interpretazione del mondo è in mano, per natura, alle generazioni più

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ricche di esperienza vissuta: la tenera saggezza dei nonni, dei più longevi, si rivela provvidenzialmente in grado di aggiustarne il tiro, sia nel senso del linguaggio usato, che dei contenuti, in prospettiva della formazione e dello sviluppo armonioso delle generazioni future. Riscrivere o reinventare le favole alla luce delle proprie personali esperienze di vita si rivela dunque la nuova, allettante sfida lanciata quest’anno dalla Fondazione Opera Immacolata Concezione e raccolta – come la precedente centrata sulla Poesia – con entusiasmo dai tanti ospiti e amici coinvolti in quest’iniziativa ideata e voluta con lungimirante sensibilità dallo stesso Presidente dell’OIC, prof. Angelo Ferro. Nella trama delicata e arcana delle fiabe, selezionate dalla Commissione presieduta da Antonia Arslan e pubblicate in questo volume, i lettori di oggi riscoprono le tracce delle generazioni che li hanno preceduti e che, disegnando per i più giovani un paradigma etico di riferimento ‘a canone aperto’, li inducono a misurarsi, a loro volta, quasi per gioco, con le provocazioni spontanee e irrinunciabili dei sogni e della fantasia.

Luisa Scimemi di San Bonifacio Presidente Società Dante Alighieri, Sezione di Padova

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Qualcosa, forse, sta cambiando

Forse qualcosa sta cambiando, in meglio, nel rapporto di questa società ‘giovane’ per definizione – nei consumi, nella pubblicità, nel marketing, nel commercio – con l’universo di chi ha avuto il dono di veder scorrere molti giorni, molti mesi, molti anni, davanti ai propri occhi. Non sappiamo di chi sia il merito di questo cambiamento e non sappiamo se e quanto durerà, ma è di sicuro un passo importante. Qualcuno parla di evoluzione culturale e qualcuno addirittura di effetto-Borghetti. Eugenio Francesco Borghetti, ingegnere lombardo di origini venete, è l’orgoglioso settantenne che voleva fare volontariato ma si è sentito rispondere che era troppo anziano. Ha chiesto di guidare almeno le ambulanze, ma anche in quel caso ha ricevuto un secco no come risposta. Anziché starsene buono, ha raccontato ai giornali la sua assurda vicenda scatenando un dibattito che è stato utilissimo per sollevare il problema sul ruolo, sull’importanza e sull’utilità dei longevi, e al tempo stesso sgombrare il campo da un’ignoranza diffusa e da tante ipocrisie. Quasi contemporaneamente, quando si dice il caso, partiva una campagna pubblicitaria televisiva che potremmo definire rivoluzionaria: un uomo molto in là con gli anni va in ospedale a trovare la nipotina appena nata e comincia con lei un dialogo mentale bellissimo e commovente.

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Per la prima volta o quasi nella storia della comunicazione è stato usato un testimonial ‘vero’, con la sua esperienza e la sua aria vissuta, per pubblicizzare un prodotto. Non un finto giovane, non una nonna petulante che spiega quale candeggina usare per non rovinare i tessuti. Questo spot riaffiora scorrendo le fiabe scritte dagli ospiti dell’Oic quando ci si imbatte in quella del signor Giancarlo Gasparon. Il titolo è proprio Dialogo, comincia con la domanda di un bambino («Che cosa hai pensato nonno quando sono nato? ») e rappresenta una bella fotografia del rapporto tra due generazioni anagraficamente lontane, ma unite dal piacere di narrare e da quello di ascoltare racconti distanti nel tempo, quella dimensione quasi onirica in cui un bambino si stupisce sempre di scoprire che suo nonno, quello che oggi vede con i capelli bianchi e qualche ruga, è stato giovane e curioso come lui. È la poesia della vita, sono mondi che si parlano e che riescono a comunicare senza pregiudizi perché percepiscono di essere utili l’uno all’altro, senza contrapposizioni e senza esclusioni. È l’ideale passaggio del testimone culturale tra generazioni che ha accompagnato l’evoluzione dell’uomo fino a pochi decenni fa, quando si è misteriosamente interrotto. Noi quel testimone vogliamo che riprenda la sua funzione originaria, che riprenda la sua corsa, anche se la strada è ancora lunga. E per farlo può essere utile rileggere le parole del professor Marcello Cesa Bianchi, 83 anni, docente di Psicologia dell’invecchiamento, un vero guru della longevità che scrive libri e gira l’Italia per conferenze e dibattiti sul tema, parole che sono il suo ‘manifesto’ e che dovrebbero essere oggetto di studio anche nelle scuole. Eccole: «Purtroppo c’è la tendenza a credere che conti la questione cronologica più di quella fisica o psicologica. Non è così. Non esiste un modello standard legato a un’età. È

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assurdo anche solo pensarlo perché la variabilità individuale è notevolissima, come capisce chiunque. La realtà è che ci sono tante psicologie quanti sono gli anziani, settantenni o ultracentenari che siano». Il problema, però, è spiegarlo a quelli che hanno detto no all’ingegner Borghetti... Ugo Savoia Direttore «Corriere del Veneto»

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La fiaba e il libro, traghettatori intergenerazionali di sapere

Con grande piacere abbiamo aderito al concorso letterario sulle fiabe raccontate dai nonni promossa quest’anno dalla Fondazione OIC onlus. Si tratta, infatti, di un progetto particolarmente coerente con la filosofia aziendale di Grafica Veneta per due specifici motivi. Innanzitutto da sempre nel nostro settore è necessario coniugare la necessaria evoluzione tecnologica (che oggi ad esempio ci consente di produrre grandi tirature nel ridottissimo tempo di 24 ore) con il recupero dell’esperienza e financo della saggezza di chi si è occupato da anni di stampa. Per questo motivo nel nostro stabilimento affianchiamo infatti maestranze giovani a persone esperte perché è solo dalla sintesi e incontro di esperienze intergenerazionali che può avvenire il trasferimento non solo di competenza professionale ma anche di un sistema di valori ed esperienze che solo una vita vissuta compiutamente, con le sue gioie e dolori, consente di maturare e trasferire nel tempo come prezioso patrimonio sociale. Il secondo motivo di convinta adesione riguarda la nostra specifica competenza nella produzione di libri e in particolare di fiabe, tra le quali mi piace ricordare la stupefacente esperienza di produzione della saga di Harry Potter, con milioni e milioni di pezzi stampati in diverse lingue e distribuiti in tutto il mondo. Fa indubbiamente piacere (ed ovviamente non solo dal punto di vista aziendale...) constatare come nell’epoca dell’elettronica e della digitalizzazione, del ‘tutto veloce’ rimanga la necessità di possedere un supporto cartaceo contenente storie, fantasie, esperienze fantastiche, – 17 –


un elemento fisico da trasferire tra le persone e nel tempo, costituendo in fondo un piccolo punto di riferimento e incontro culturale non solo per i giovani (i primi appassionati lettori della saga del maghetto scozzese) ma anche per i loro genitori e nonni, diventati essi stessi lettori magari perché stupiti e attirati dalla capacità di coinvolgimento ed attrazione di questi racconti. In fondo molti dei più recenti successi letterari sono proprio sbocciati grazie al passaparola tra le persone, scavalcando asettiche scelte editoriali a favore di proposte nate nella comunità dei lettori. E chissà che anche tra i validi partecipanti del concorso di quest’anno non possa sbocciare un nuovo fantastico autore di storie fantastiche! Fabio Franceschi Presidente Grafica Veneta Spa

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Il senso di una partnership rinnovata

La fiaba, tra i racconti popolari, è il genere più conosciuto ma, proprio per questo, presenta una certa difficoltà di definizione e di differenziazione rispetto ad altre forme di racconto. Così Luciano Morbiato scrive nel suo recente libro pubblicato da CLEUP dal titolo Contastorie. Ma qui, ciò che veramente conta sottolineare è la ‘magia’, la ‘suggestione’ e il ‘meraviglioso’ che gli autori delle fiabe proposte ci fanno ‘sentire’. Ancora una volta Angelo Ferro ha voluto onorare la CLEUP, e me come suo presidente, con l’invito a prendere parte e a promuovere l’evento “Il sogno, il magico il fantastico. I nonni accompagnano i nipoti nel mondo delle fiabe”. Come già nella passata edizione, anche oggi occorrono alcune riflessioni soprattutto sul fluire del tempo che finché scorre indica la nostra condizione di viventi. I racconti del ‘nonno’ partono tutti e sempre da una posizione di esperienza acquisita negli anni e quindi da una ‘età’ avanzata, un’età ‘cronologica’ avanzata. Ma l’età cronologica spesso non coincide con l’età ‘biologica’ e ancor meno spesso con l’età ‘psicologica’. Quale persona, infatti, in un’età cronologica avanzata prende carta e penna, oppure un computer, e si mette a tradurre la sua fantasia e i suoi pensieri in poesie e racconti, se non è psicologicamente giovane ed entusiasta? Ed ecco che qui si comprende il ruolo che la vita in comunità svolge nel creare interessi, definire nuovi obiettivi, intessere relazioni e continuare a provare nuovo piacere in nuove attività.

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Essere giovani nella testa aiuta a vivere meglio e come le tendenze della moderna medicina tentano di dimostrare, serenitĂ e ottimismo sembrano essere i farmaci migliori anche se apparentemente meno costosi. Questa iniziativa e le fiabe che leggeremo in questo libretto, assieme a quelle che tutti i partecipanti hanno inviato, ne sono la prova. Non resta quindi che augurare a tutti una buona lettura insieme ai nostri cari, in attesa che Angelo ci dia notizie della prossima iniziativa. Ambrogio Fassina Presidente CLEUP

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Il sogno, il magico, il fantastico Opere selezionate

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Agnese, nonna cantastorie di Valeria Balasso

“Dai nonna, racconta”. Agnese guarda la nipotina. È una fotocopia di suo padre. Il visetto rotondo, gli arruffati capelli chiari, gli occhi blu. Ma il sorriso che rivolge praticamente a tutte le persone che incontra è sicuramente un dono esclusivo del Creatore. Un regalo che, assieme all’incontenibile allegria, la rende speciale. “Ma forse tutti i bambini sono speciali e preziosi per i loro nonni”, riflette Agnese prima di chiedere: “Che cosa ti devo raccontare Martina?” “La storia di Azzurra.” “Ancora?” Un abbraccio e una raffica di baci piovono sul viso di Agnese: “Sì, ti prego nonna, è meravigliosa.” La ‘s’ scivola nel buco lasciato dai due dentini caduti e rende divertente la parlata della piccola. “Sposta questa sedia all’ombra del noce. Fa caldo oggi al sole.” Martina non se lo fa ripetere due volte. È un compito che svolge volentieri. Visto che fra poco dovrà spingere la carrozzina di Pietro, si allena con quello della nonna. La bambina si muove con attenzione, ma grande è la tentazione di correre veloce sul prato. È sicura che per entrambe sarebbe un grande divertimento. Ma scaccia subito il pensiero e mantiene un passo regolare perché ‘sente’ sulla schiena lo sguardo della mamma. – 23 –


“I tuoi occhi sono come il radar dell’antifurto” aveva sbottato Martina un giorno mentre cercava di arrampicarsi sull’albero. Esperienza molto ambita e, naturalmente, vietatissima. “Nina – è il nomignolo con il quale il papà la chiama nei momenti particolari – non rispondere con quel tono e cerca di essere più ubbidiente, altrimenti...” La frase era rimasta in sospeso. Altrimenti cosa? Stavano cercando di non ridere per la battuta della piccola, ma come tutti gli adulti volevano mantenere un tono di sussiego. “Altrimenti – bisbigliano fra loro – l’autorità dove finisce?” “A farsi benedire” aveva risposto sghignazzando nonno Augusto. Un gigante con un pancione che a dormirci sopra era come stare in una nuvola. L’intervento non era stato apprezzato e un’occhiataccia se l’era presa pure lui. “Tutto a posto nonna? Dai, racconta”. Distesa sull’erba guarda Agnese che sorride per quella tenera complicità che c’è fra di loro. “Lo prometti che non racconterai quello che ti sto per riferire?” chiede sottovoce la nonna-cantastorie. Con un sussurro la bambina risponde: “Sì, come sempre, non ho detto nulla alla mamma e al papà. Solo a Gae, il mio angelo. Lui si era distratto e non aveva ascoltato il tuo racconto. Era molto infelice. Mi ha confidato, con tanta tristezza, che lui non ce l’ha mai avuta una nonna”. Gli occhi di Agnese luccicano come quelli di Martina. “Azzurra era il nome della più giovane e bella delle anguane che vivevano sulle rive dell’Astico. I capelli biondi, profumati di gelsomino, gli occhi trasparenti come le acque del fiume, i denti bianchissimi come le nevi delle montagne. E una voce, una voce così dolce che placava ogni dolore, alleggeriva ogni ansia e calmava la rabbia più inquietante. – 24 –


Viveva con le sue amiche in territori poco accessibili, ma il mio bisnonno Checco, che conosceva ogni sentiero della Valle dell’Astico, aveva visto dove si nascondevano... Era una sera di agosto, una grande luna piena illuminava una piccola radura sfiorata dall’acqua. Un gruppo di donne molto belle stendevano lenzuola candide e con leggerezza ballavano tra i salici. Lievi come libellule sembravano appena uscite da un libro di fiabe. Checco restò ammutolito. Era giovane e un po’ incosciente. Lo sapeva che non doveva avvicinarsi, ma dimenticò gli avvertimenti dei vecchi e come un folletto raggiunse il luogo proibito. Le anguane fuggirono. In un istante si trovò da solo. Questa almeno fu la sua prima sensazione. Stava per andarsene quando un’ombra uscì dal bosco di betulle. Checco la guardò con i suoi occhi blu. Buoni, ingenui. Forse per questo l’anguana non ebbe paura di lui. Sorrise e intonò una meravigliosa melodia. Poi una quiete assoluta pervase tutto lo spazio. Per qualche istante il tempo cessò di esistere”. Sembrava che la stessa magia aleggiasse attorno ad Agnese e a Martina. Il finale, noto ad entrambe, riecheggiò nelle loro menti. La giovane anguana si rivolse a Checco con dolcezza: “Mi chiamo Azzurra. Nel tuo sguardo leggo una grande bontà. Mi fido di te. Non dovrai indicare a nessuno la strada per raggiungere questo spazio. Per noi sarebbe la fine. Dovremmo andarcene molto lontano. Per sempre. E tu non potresti mai più ascoltare i nostri canti. Danzò per qualche istante prima di avvicinarsi all’acqua. Lui la guardava incantato. Preso da una strana malìa non si rese conto che Azzurra stava già attraversando il fiume, sfiorando appena i ciottoli bianchi che formavano uno sconosciuto sentiero fra le acque dell’Astico. Raggiunta l’altra riva iniziò a recitare una cantilena: Una coroncina di fiori ho intrecciato per il mio amore una canzone intonerò e sarà solo in tuo onore ma tu non tradire mai il segreto del mio abitare altrimenti da un incantesimo non ti potrai liberare.

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Il ragazzo sentiva le parole ma non vedeva più la splendida fanciulla. Abbassò lo sguardo e una lacrima cadde sull’erba accanto a una piccola ghirlanda di non-ti-scordardi-me che raccolse e conservò per sempre. Non tornò mai in quel prato e non indicò a nessuno il passaggio segreto che portava alla radura delle anguane, ma qualche volta il vento gli portava la voce di Azzurra, il suo primo indimenticabile amore”. Ancora una volta Martina è affascinata dall’incredibile vicenda. Non si accorge nemmeno dell’arrivo di nonno Augusto che ammira con affetto la moglie e la nipotina. Il viso di Agnese è sereno. Sono passati i giorni del dolore causato dalla brutta frattura alla gamba. Fra qualche settimana tornerà a camminare. Si sorridono e si stringono le mani. Non sono necessarie tante parole dopo quasi quarant’anni di matrimonio. Martina, con le braccia sotto la testa fissa la prima, luminosa stella della sera. Poi guarda i due amatissimi nonni e, rivolgendo loro il suo speciale sorriso, li rende felici.

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Ci sono nuvole e nuvole di Suzanna Cole Luxardo

Era passata poco più di un’ora dal pranzo, e Mati, scivolando come un gatto e con un eccellente coordinamento da ginnasta – incredibile, dicevano i suoi, per soli 4 anni – perlustrava la casa. Di sopra la mamma procedeva col solito tichetè-tachetè al computer. Chissà che divertimento provava, tante ore curva su una tastiera che non faceva mai musica, solo tichetètachetè. Il papà era al lavoro, non rientrava mai a pranzo. La sorellina Zara dormiva beata nel lettino: stava – come al solito – con le ginocchia verso la pancia, il sederino in alto, il tronco allungato e le braccia in avanti. La mamma diceva sorridendo “Ma che razza di bambine abbiamo fatto, una sembra una stella marina, l’altra una piccola musulmana”. – In effetti, Mati dormiva sempre con i quattro arti distesi al massimo, tutta spalancata sulla pancia o sulla schiena. Per lei era davvero un mistero come Zara potesse respirare così rannicchiata. Mati cercò la nonna, che si trovava in giardino su una sdraio con in testa un vecchio cappello di paglia, persino bucato qua e là, ma che a lei stava bene. La nonna leggeva, come sempre. Santa patata, quanto leggeva questa nonna! Ma Mati l’amava moltissimo, anche se usava strane espressioni. Certe cose, diceva la nonna che era straniera, di lingua madre inglese, non si possono concepire in italiano: ed una di queste era quality time.

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Quality time voleva dire che la nonna smetteva di leggere o scaricare la lavastoviglie, o qualsiasi altra attività, e stava interamente con lei sola, con Mati. In quality time si poteva andare lungo l’argine, l’una sul triciclo e l’altra camminando allegramente, annusare fiori e cespugli, stare sdraiate sull’erba e inventare animali e fantasmi sulle nuvole. Se il tempo era cattivo, si poteva stare sotto braccio alla nonna e ‘leggere’. Mati adorava seguire la nonna su un libro chiamato Mother Goose (Mamma Oca): più che storielle erano brevi filastrocche in rima, che quasi sembravano canzoncine. Hickory dickory dock The mouse ran up the clock The clock struck one The mouse fell down Hickory dickory dock

La copertina faceva vedere un enorme orologio a pendolo (la nonna a fatica aveva spiegato a Mati le ore e le lancette) e un topolino stecchito a terra. Questa filastrocca faceva ridere Mati, perché ogni tanto in garage la mamma scopriva un topolino di campagna e si metteva a gridare a squarciagola: Amooore, vieni qui! Ammazzalo, è orrendo. Amooore, aiutami!, mentre Mati che aveva incontrato topolini in giardino o nei campi li trovava semplicemente adorabili. Ma la cosa più bella del quality time era che Mati poteva chiedere tutto, ma proprio tutto, alla nonna straniera e lei non diceva mai: Ma che domande! o Sei ancora troppo piccola per chiedere certe cose! Questa nonna cercava sempre una risposta adeguata alla sua grande curiosità e alla sua poca età. Così Mati un giorno si avvicinò alla nonna, che un po’ leggeva e un po’ pisolava, e chiese se questo era il momento buono per un po’ di quality time. Ma certo, sorrise la nonna.

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Cos’è l’adossione? – Adozione, tesoro. Perché me lo chiedi? – Perché ogni tanto lo sento dire in cucina, mentre la mamma prepara la pasta e papà la bacia sul collo, oppure nella loro camera da letto quando pensano che io e Zara si sia addormentate. E allora, è una cosa brutta o bella? E perché ne parlano sempre sottovoce? La nonna allora le spiegò che in molti parti del mondo ci sono tanti bambini senza genitori, a causa delle guerre o delle malattie. – (Mati ricordava quanto spesso si vedevano in tv bambini africani con le pance gonfie e le mosche sugli occhi, e come papà cambiasse bruscamente canale, dicendo “Non sono cose per te, tesoro”) – Ma per fortuna ci sono anche tante coppie di sposi che hanno una bella casa e tanto, tanto amore tra loro, che sembra uscire come una nuvola dalle finestre e da sotto la porta. E vogliono veramente un bambino da amare e da crescere... La faccenda dell’amore in forma di nuvole piaceva molto a Mati, così rimase un po’ concentrata, poi sospirò come se avesse compiuto un’operazione di aritmetica, e domandò: Ma allora, nonna, ci sarebbero qui le case per quei poveri bambini senza papà e senza mamma? Perché non li mettono in quelle con tutto l’amore che esce dalle finestre e da sotto le porte? Sì, tesoro, si fa anche se non ce ne sono mai abbastanza. Ma si trova sempre brava gente che aiuta le coppie che desiderano essere genitori ad accogliere i bambini che hanno tanto bisogno di una vera famiglia. E proprio questo si chiama ‘adozione’. Mati, soddisfatta per la risposta, si buttò sul petto della nonna, tirò su le gambe e cominciò a sognare... se la mamma e il papà parlavano così sottovoce significava che ci voleva tempo, non era il caso di dirlo né a lei né tanto meno alla piccola Zara. Ma come avrebbero fatto? Lei e Zara avevano già assieme la camera blu, forse lo studio verde di papà an-

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drebbe al nuovo bambino? O lui per i primi tempi sarebbe stato – come era capitato a loro stesse quando erano piccole, piccole – nell’attico grande con mamma e papà? – Quanti pensieri! Intanto la nonna le strofinava la schiena ritmicamente, proprio lungo la colonna dove le piaceva di più. Nonna? – Sì, tesoro – Posso dire a papà che adesso so che cos’è l’adozione? – Perché no? Anche lui è stato accolto in una casa da dove le nuvole di amore uscivano da tutte le parti.

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Una grassa rana rosa... Strada facendo di Donatella De Mori, Luciana Fiscon, Annalisa Masato, Giovanni Migliavacca e Gabriella Penello

Un giorno una rana rosa, piuttosto grossa, passeggiava pigramente sul sentiero che portava allo stagno per incontrare qualche rana con cui scambiare due chiacchere. Un tasso le aveva detto che poco distante c’era un bel gruppetto di rane con cui fare amicizia. Si sentiva sola e perciò questa le pareva una bella notizia. Aveva indossato per l’occasione la sua bella corona d’oro che le aveva lasciato in eredità il nonno materno, rosa anche lui. Strada facendo e saltellando di qua e di là incontrava alcuni grilli o le farfalle che volavano di fiore in fiore, cosa che le dava grande allegria. Finalmente arriva allo stagno e trova alcune rane che con il loro gracidare rompevano quel silenzio. Le salutò cordialmente e si accorse che il loro colore era diverso dal suo (verde scuro). Cosa importava il colore diverso, l’importante era stare in loro compagnia, chiacchierare, fare alcuni salti nello stagno per poi crogiolarsi al sole. Ognuna raccontava la sua storia e così dentro di sé si sentiva meno sola e avrebbe voluto che quel giorno si fermasse. All’improvviso scese la sera e decisero di incamminarsi verso casa, con la promessa di ritrovarsi il giorno seguente, così da riprendere il racconto dei loro desideri e delle loro speranze, lasciato in sospeso il giorno precedente.

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La rana rosa si ritrovò di nuovo sola ma meno triste del solito, aveva trovato degli amici, quindi soddisfatta, si rannicchiò in un angolino pieno di fiori profumati. In attesa di prendere sonno, in quella bellissima notte di plenilunio, la rana ripensava a quanto era successo nella scorsa giornata e, per la prima volta prese coscienza della differenza con i nuovi amici, lei era rosa! Il giorno seguente le rane si ritrovarono e, oltre a giocare, ripresero i loro racconti, così la rana rosa venne a sapere che i nuovi amici erano orfani e vivevano con la nonna – i genitori erano morti travolti da un automezzo mentre attraversavano, sulla strisce, una strada per andare a trovare dei parenti in uno stagno vicino – a sua volta la rana rosa raccontò che era sola in quanto non aveva conosciuto i genitori scomparsi quando era ancore girino e che il nonno, che l’aveva allevata era morto recentemente regalandole la corona d’oro che portava in testa. A mezzogiorno la rana rosa fu invitata a pranzo così avrebbe conosciuto la loro nonna a cui volevano molto bene. Appena entrata in casa, la nonna, che era una gentile anziana rana verde, esclamo! “MA ALLORA QUELLA LEGGENDA ERA VERA” lasciando a bocca aperta per lo stupore le giovani rane. Le giovani rane per la curiosità dimenticarono perfino di avere fame e pregarono la nonna di raccontare di quale leggenda si trattasse. La nonna si fece un po’ pregare ma poi le fece sedere attorno alla sua poltrona e incominciò a raccontare: “Ero ancora piccola quando mia nonna mi raccontò la storia delle rana rosa e delle rane azzurre. Tanti secoli prima nel nord del paese c’erano due magnifici stagni non molto lontani uno dall’altro dove vivevano in pace e serenità due distinte colonie di rane, nello stagno sud vivevano le rane rosa e in quello più a nord le rane azzurre. In quel tempo ci fu una grande siccità (pensate non piovve per tre anni consecutivi), i due stagni si prosciugarono e i due gruppi di rane dovettero emi– 32 –


grare verso sud, non si conoscevano ma quasi contemporaneamente si ritrovarono sulle rive di un magnifico grande stagno, stupiti perché nessuno dei due gruppi pensava che potessero esistere rane di colore diverso dal proprio. Erano due gruppi di rane molto gentili la loro differenza era solo nel colore della pelle. Fecero subito amicizia e di comune accordo si sistemarono nello stagno. Erano rane bellissime al punto che molte rane azzurre sposavano rane rosa e viceversa; c’era tanta felicità in quel bellissimo stagno che ben presto si popolò di una miriade di girini ma la sorpresa più grande fu quando questi diventarono rane VERDI.” La storia era finita e dopo qualche minuto di attonito silenzio le rane verdi si girarono verso la rana rosa abbracciandola felici di aver trovato la certezza delle loro radici in quella nobile rana con quella bella corona d’oro in testa e la rana rosa aveva trovato una famigliola che sentiva come se fosse la sua.

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Storia di cani e gatti di Anita Feltrin Garbuio

Un tempo, quando voi bambini non eravate ancora nati, la mia famiglia era composta da un papà, una mamma e tre ragazzi, due bambine e un maschietto. In casa nostra c’erano sempre stati dei cani, ma gatti mai. Un giorno un’amica mi regalò un micino, piccolo e delicato, ma con una voce così possente che faceva quasi tremare i vetri; miaoooo... miaooo... faceva sempre: lo chiamammo Pavarotti. In famiglia c’erano già due cani: due magnifici pastori dal pelo rossiccio che si chiamavano Toi e Tea. La mia casa era grande, aveva un giardino, un terrazzo lungo tutta la casa e una scala scoperta che portava in cortile... Una mattina, in terrazza, la mia bambina più grande scoprì un gatto sconosciuto che mangiava dalle ciotole delle nostre bestie, gli andò vicino e, visto che era mite, lo accarezzò. Mamma... mamma, disse, vieni a vedere che bel gatto... Andai fuori e scoprii che quel bel gatto era una gattina, lei mangiò e quindi se ne andò ma ogni giorno tornò a mangiare e a farsi coccolare dai miei bambini. Un bel giorno la vidi spuntare dalla scala con un gattino in bocca e lo posò sul tappeto della porta d’entrata, poi tornò giù e andò a prenderne un altro, quindi un terzo e poi si accomodò insieme alla sua famigliola tutti insieme sul tappeto. – 34 –


Così fecero tutti amicizia con Toi e Tea e con il nostro Pavarotti. Un giorno c’erano solo i tre gattini e non vedevo ritornare la mamma gatta, ero preoccupata. I gattini erano piccoli ed avevano ancora bisogno del latte della mamma... Cerca e cerca... e la gatta non tornava. Poi ad un certo punto una mia vicina mi disse: “Guardi che c’è un gatto morto in mezzo alla strada, forse è quello che cercava lei.” Purtroppo era vero, e così i tre gattini erano rimasti orfani. Allora i miei bambini presero dei biberon delle bambole e diedero il latte ai gattini. I cani Toi e Tea giocarono con loro e Pavarotti sembrava il loro fratello maggiore. Toi, che era un cane molto intelligente, andava a prendere i gatti piccoli e li portava in giardino e insegnava loro a camminare e li faceva rotolare sul prato. Se qualcuno veniva a farci visita, Toi e Tea facevano a gara per accompagnarli a vedere i gattini. Così pian piano crebbero e anche senza la loro mamma, diventarono dei bravi gatti simpatici e giocosi: si arrampicavano sugli alberi, andavano a caccia di topi e uno dei tre, che chiamavamo Catty, andava a dormire sotto il letto di mio figlio e si nascondeva così bene, che era impossibile scoprirlo. Questa storia è vera, è un ricordo per i miei nipotini.

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Dialogo di Giancarlo Gasparon

Cosa hai pensato Nonno quando sono nato? Drento de mi go’ dito: Che bela creatura, più bela e anca de più de tuto el Gran Creato. Nonno cos’è il Creato? El xé come ‘na bela fiaba! El xé la storia de la vita; vien fantolin vien fora che ‘ndemo dove la luçe no ne disturbarà i oci; ’ndemo in mezo a la laguna, dove paron xé el nero, el nero de la note. Ti ga forse paura... Paura? mi sento più sicuro se mi dai la tua mano. Semo rivai. Vardemose d’intorno; drento de sto nero... xé sparìo el mondo. Tanti tanti ani fa el gnente quà ghe gera e dopo... un Gran Boto... Nonno si dice Big Bang. Lo so, lo so... ma... a mi no me piaze parlar in lingua come che fa to màre... me disturbaria massa el barbusso... dove gèro restà? ah sì! varda, varda in alto, là... là su nel çielo, quelo... quelo xe el Creato da quel Gran Boto nato! Co’ tute quele so’ stele che ghe fa belo el mantelo e varda... varda... ... varda più in là varda più lontan del çielo e perdite, perdemose insieme e sarà come esser in mèzo a un mar e...

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... e io sarò Capitano Uncino... Cossa? Uncino... gànzo... chi sarìa sto’ capitano... mai sentìo. Tornemo, tornemo nel mar de stele; tornemo nel Creato nato dal ‘niente; e vardemo tute ‘ste maravegie. Capitan mio... ti vedi? quelo xé el Gran Caro... Nonno si chiama anche Orsa Maggiore ... e là vissina ghe xé la Stela Polar; più lontan, lassemose sbrissar longo el timon del Caro, la coa dell’orsa, fin da Arturo, varda che belessa... quela xé Sirio e quelo xé Orione co’ tre stele che ghé fa cintura... respira putèo mio, respiremo insieme... e ... respirando a fondo sentir che drento entra par caressarne el cuor la Man de Chi nel mondo ga’ messo tuto questo e con un sufiar de vento vita el ‘na donà e amor e ‘desso varda quela... che stela... che stela! par mi xé la più bela... ...io non la vedo. Sono tante, ...e belle ...e grandi ...e piccine... Spèta un momento che me cucia... cussì me meto più vissin de ti e me fasso picinin; ti lo vedi el me brasso? vaghe drio e pian’ riva fin al deo... Il tuo? si el deo... che te mostra... fra le stele del firmamento giosse del çelo d’argento quela xé la stela regina regina de le stele – 37 –


Nonno adesso la vedo! è proprio bella! ha un nome, come si chiama? Tesoro mio tute gà un nome e lo gà anca quéla... ...un nome tanto belo... quélo de to Nona quando da putèla la se strenzeva al Nono e lu co’ amor la ciamàva “CEA”.

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La fola del fiume Agno-Guà (e delle Anguane) di Armando Girotti

Un giorno di primavera un vecchio ed una bambina passeggiavano nel bosco dietro casa. Di lontano si vedeva la bella Montagna Spaccata mentre presso di loro un ruscello gorgheggiava la sua armonia. La bimba, incuriosita da quel mormorio, si rivolse al vecchio con queste parole: “Nonno, senti anche tu uscire dalle acque del torrente un suono armonioso?” “Sì, bimba cara, e, posto che non ne conosci il motivo, ti racconto perché avviene ciò.” “Una volta, tanto tempo fa, in questo bosco, dove noi ora ci troviamo, viveva un giovane che, per sfamarsi, andava a caccia su quella montagna e pescava in questo rigagnolo. Un bel giorno, avventurandosi per un sentiero, udì un canto melodioso provenire di lontano. Incuriosito, seguì quel suono musicale e, inoltratosi nella selva, chi vide? Una seducente ninfa dei boschi che, immersa nel ruscello, cantava mentre si pettinava i lunghi capelli rossi. Rimase come bloccato e per un attimo quasi pietrificato, stregato com’era da quel canto soave e da quella immagine che gli si parava dinanzi. «Chi sei tu – chiese il giovane – che con quella bella voce così piena di vita incanti i passanti?» Non sapeva il meschino che in quel bosco aleggiava un incantesimo: chiunque avesse anche solo adocchiato in volto la ninfa, costui sarebbe caduto a terra addormentato. E fu così che, mentre Guà, questo era il nome della naiade, si volgeva per rispondergli, il ragazzo cadde assopito.

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Lei gli si avvicinò per rianimarlo, ma nulla poté; cercò allora di portarlo tra le frasche del bosco, prendendosi cura di lui, fin nella sua dimora, dentro il cavo di un albero, ma il giovane, nonostante le cure amorose, non si svegliava. Era un bel ragazzo dai capelli biondo oro con dei riccioli che incorniciavano un volto disteso; forse sognava visioni serene e miraggi incantati. La ninfa gli preparò bacche e mirtilli per il risveglio, frutti di bosco ed erbe aromatiche; rimase a lungo a guardarlo e, sapendo che il canto lo avrebbe risvegliato, cantava, cantava, cantava, ma lui non dava segni di vita. Passarono i giorni e la ninfa era ormai prostrata nel vederlo sempre assopito. Si ricordò però di quanto le aveva suggerito un tempo sua madre, la Maga del Bosco: “Quando vuoi avere un buon consiglio, vieni da me.” Fu per questo che Guà entrò nel fitto del bosco, là dove la luce mai entrava, proseguì fino alla Montagna Spaccata, fin dentro la casa di sua madre e le chiese: “Quale magia può ridestare il bel giovane che mi guardò nel volto?” La Maga lo sapeva, il canto da solo non bastava e così le rispose: “Torna da lui e, mentre intoni una canzone melodiosa, accosta le tue labbra a quelle del giovane e lui riemergerà dal sonno.” Piena di aspettativa Guà tornò di corsa dal suo Agno, questo era il nome del bel giovane, intonò un canto melodioso, si chinò, accostò le sue labbra... e... e il prodigio accadde: il giovane si risvegliò. Quale fu lo stupore del giovane nell’incrociare gli occhi azzurri della ninfa, così vicini ai suoi! Quale la meraviglia nel sentire il contatto delle labbra, la dolce carezza dei lunghi capelli! Non poté non innamorarsi. E così fu, ma non sapeva il bell’Agno che un altro sortilegio gravava sulla vita di Guà: sarebbe svanita tra le nuvole quando sua madre, la Maga del Bosco, fosse morta. I vecchi saggi del luogo glielo rivelarono, cercando di distoglierlo da quella decisione, ma il giovane era troppo innamorato per ascoltarli; la stessa Maga intervenne a ricordargli il maleficio per dissuaderlo, ma nessuna ragione valse di fronte all’amore. – 40 –


Anzi, il giovane costruì una capanna vicino al tronco che li aveva visti uniti e lì dimorarono vivendo giorni felici tra giochi e passatempi. Ma una brutta notte d’inverno la Maga s’ammalò e Guà si doleva perché sapeva che, mentre sua madre era sul letto di morte, l’incantesimo incombeva su di lei e ben presto sarebbe svanita tra le nuvole. Furono giorni tristi quelli dell’attesa del sortilegio che tosto avvenne: Guà scomparve in cielo tra le nuvole. Quale fu il dolore del giovane! Non aveva pace, correva disperato per ogni luogo finché, affranto, si accasciò a terra svenuto vicino ad un masso della Montagna Spaccata. Dall’alto del cielo Guà, presa da compassione per il dolore dell’amato, si fece pioggia per accarezzare il suo volto, una pioggia prima sottile e persistente, poi sempre più intensa tanto che formò un ruscello sempre più impetuoso e cho oggi si chiama, per merito di quell’amore, ‘Agno’. “Ecco, bimba mia – proseguì il vecchio – questo è il fiume che è dinanzi a noi. Esso è impregnato del canto di quella ninfa che ha dato poi il nome a tutte le ninfe del bosco, le anGuàne. E per non scordare questo amore i vecchi del luogo hanno deciso di unire i due amanti e chiamano questo fiume Agno, a monte, e Guà, a valle”.

P.S.1: L’Agno nasce nei pressi del monte Carega in quelle che vengono chiamate le Piccole Dolomiti; vicino a Tezze di Arzignano modifica il suo nome in Guà, quindi si biforca in due rami, il Fratta a nord e il Frassine a sud, per ricongiungersi poi nel canale Gorzone. P.S.2: Sulle Anguane c’è tutta una mitologia che le rappresenta in vari modi.

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Piero pipeta di Franca Gobbo

Ghe gera na volta un tae che se ciamava Piero Pipeta. Un giorno el ghe ga dito a so popà: “Popà, dame ea me parte de eredità che vago in giro pal mondo in serca de fortuna.” “Cossa vuto che te daga: a go soeo tre soldi e un saco” E Piero Pipeta ga dito: – Va ben, grassie. – El ga ciapà su i tre soldi e el sacco e el ze ndà via. Paea strada el ga incontrà un veceto che ghe gà domandà ea carità.” “Cossa vuto che te daga, a go solo tre soldi e un saco: un soldo pal pan, un soldo pal vin, e un soldo pal tabaco.Ben, ciapa on soldo e starò sensa el pan.” Camina, camina, el trova n’altro veceto che ghe domanda ea carità. “Cossa vuto che te daga, a go soeo do soldi e un saco. Ben, ciapa on soldo anca ti, vorà dire che starò sensa el tabaco.” Camina,camina el trova n’altro veceto che ghe domanda ea carità. “Cossa vuto che te daga, a go soeo on soldo e el saco, te darò el soldo, vorà dire che starò sensa el vin. Camina, camina e ghe vien fame. El va dentro dal fornaro e el ghe dise: – Dame on toco de pan –. – Sensa schei no se magna – Sì che magno –. – No che no magnè. – Sì che magno. – No che no magnè. – – Ben, pan, salta tuto dentro al saco –. – 42 –


El pan ze saltà tuto dentro el saco. – A par carità, par carità, – dise el fornaro, – dame indrio el pan che te ne dago quanto che te voi. – E el ghe ne gà dà quanto ch’el gà vossudo. Camina, camina, ghe vien voia de fumare. El va dentro dal tabacaro e el ghe domanda on fià de tabaco. – Sensa schei no se tabaca. – Sì che tabaco. – No che no tabachè –. – Sì che tabaco. – No che no tabachè. – – Va ben, tabaco, salta tuto dentro al saco –. El tabaco ze saltà tuto dentro al saco. – Ah, par carità, lassamelo qua, che te ne dago quanto che te voi. – El ghe na dà quanto chel ga vossudo. Camina, camina, el va dentro na ostaria e el ghe domanda se i gà na camera par dormire. El paron ghe dise pianeto aea serva: – Demoghe ea camera dei diavoli. – Piero Pipeta va in leto e de eà de on toco el sente on diavolo che siga: – Piero Pipeta, vien via co mi, – Dove? – Via co mi–. – Vien da basso –, dize Piero Pipeta, – che invese de uno saremo in do. – El diavolo vien da basso, el finisse dentro al saco e Piero Pipeta lo copa de bote. El va in letto ancora e dopo el sente n’altro diavolo che siga: – Piero Pipeta, vien via co mi. – Dove? – Via co mi. – – Vien da basso, che invese de do saremo in tre. – El diavolo va dabasso e el finisse dentro el saco e Piero Pipeta lo copa de bote. El va in leto e el se gera pena indormensà chel sente n’altro diavolo: – Piero Pipeta, vien via co mi. – Dove? – Via co mi –. – Vien dabasso, che invese de tre saremo in quattro.– – 43 –


El diavolo va dabasso e el casca dentro al saco e Piero Pipeta cominsia a bastonare. – Ah, par carità, par carità, lassame la vita che te dago quanti schei che te voi. – Aeora Piero Pipeta ghe gà salvà ea vita. El ghe gà dito al diavolo chel se taiasse el deo e scrivesse col sangue chel ghe lassava tuti i schei. Pì tardi el paron de l’ostaria el manda ea serva a vardare pal buso dea seratura sel dormiva e invese la vede che Piero Pipeta el zè drio contare tanti schei. – Paron, paron, el ze drio contare tanti schei. – – Ndemo dai carabinieri e ghe dizemo che el ne i ga robai a nualtri. – Riva i carabinieri e i bate a la porta dea camera. – Chi zè? – La forza. – Qua no entra ea forsa. – – Si che entremo. – E i zè entrai. I voeva portarlo in prason. Ma i gà visto ea carta scrita col sangue del diavolo, e aeora i ga messo in prason paron, parona e serva. Cussì Piero Pipeta ze restà paron lu de l’ostaria. Ma dopo on toco el se gà stufà, e ciapà su el so saco, lè ndà ancora in giro pal mondo. El riva in paradiso. San Piero domanda: – Chi zè? – Piero Pipeta. – – Qua no entra Piero Pipeta –. – In Paradiso no i me voe, ndarò in purgatorio. – – Chi zè? – Piero Pipeta –. – Qua no entra Piero Pipeta –. – Gnanca qua no i me voe, ndarò all’inferno –. – Chi zè? – Piero Pipeta. – – Via, via de qua, che te me ghe quasi copa de bote, – urla el diavolo El torna in Paradiso e el ghe dize a San Piero: – Almanco verzì ea porta, che veda come che zè fato el paradiso. – I verze ea porta e lu svelto el buta dentro el saco. – 44 –


I sara subito ea porta. El se mete a sigare: – ah, el me saco, el me saco. Demelo, demelo... – I verze ea porta e el va dentro a torse el saco e el dize: – Qua ghe so e qua ghe stago. – El zè ancora là.

I ga’ fato nosse, nossette, candeette, I me ga dà na peà e i me gà buttà qua. Gero su na foia de osmarin e no i me ga gnanca dito: Toh, putea, on goto de vin.

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Questa è la storia di Giovanin senza paura di Pulcra Maria Gorghetto e Milena Gorghetto

In un paesino di montagna viveva un ragazzino assieme alla sua mamma. Si chiamava Giovanin. Erano molto poveri, ma egli sognava spesso di diventare ricco e forte, sognava di sposare perfino la figlia di un re, un sogno questo che la sua mamma considerava pazzerello e buffo. Giovanin passava le giornate andando al pascolo con le sue tre pecore, e qui, fantasticava che da grande sarebbe diventato ricco e avrebbe fatto grandi cose. Intanto il tempo passava, e lui e la mamma diventavano sempre più poveri. Un giorno mentre era al pascolo incontrò un signore che aveva tre cani e i due si mettono a chiacchierare. L’uomo racconta che i suoi cani sanno fare tante cose, mentre lui suona il flauto loro saltano e ballano.... sanno anche parlare, fanno tutto ciò che viene detto loro. – Io – disse l’uomo, – con loro, andando per i paesi, mi sono arricchito, ma ora sono stanco, vorrei un po’ di pace e fare una vita tranquilla. Ad un certo punto lo strano signore chiese a Giovanni di scambiare gli animali. Mi dispiace tanto, ma se vado a casa senza pecore di sicuro la mamma si arrabbierà. Questo signore insistette, si mise a suonare il flauto e i cani cominciarono a ballare e far piroette per tanto tempo senza stancarsi, dopodichè mise per terra il suo cappello e,

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sentendo questa musica, arrivò talmente tanta gente che il cappello si riempì di monetine. Giovanin, senza tanto pensarci, gli disse: – Ti cedo le mie pecore, se tu mi dai i tuoi cani e il cappello pieno di soldi. – Affare fatto – rispose l’uomo. – Ora dimmi come si chiamano i cani – chiese il ragazzo, ed il signore glieli consegnò presentandoli: questo è Zanna, questo Sbrana e l’ultimo Ascolta. Giovanin tornò a casa dalla sua mamma con i cani suonando il piffero mentre i cani saltavano e ballavano, facevano salti alti come non mai... e la mamma incantata da questo spettacolo gli chiese spiegazioni: – Dove sono le pecore? – Le ho scambiate con i cani! – Giovanin senza parlare le consegnò il cappello pieno di soldi e disse arrossendo: – Mamma non arrabbiarti, io me ne andrò in giro per il mondo in cerca di fortuna, però appena posso tornerò! E così partì con il piffero e i suoi cani per paesi lontani. Ad ogni paese che si fermava riscuoteva un gran successo e così, paese dopo paese, si arricchì sempre più. Un giorno decise di ritornare dalla sua mamma, le consegnò tutti i soldi che aveva guadagnato e le disse: – Potresti farti una casa qui in paese – e lei che amava tanto le montagne rispose – Se devo proprio farmi una casa la farò qua e la farò bella grande con un meraviglioso giardino pieno di piante, fiori, frutta e ti aspetterò. Vorrei passare la vecchiaia assieme a te e la tua sposa se un giorno l’avrai. Giovanin rispose: – Sì mamma, vedrai che un giorno realizzerò il mio sogno. E così ripartì con i suoi cani e il suo flauto a conoscere altri paesi. Cammina e cammina arrivò in un luogo molto lontano e si accorse che la gente era tutta in agitazione. Lui chiese cosa fosse successo – Non lo sai? Gli orchi Rodamonte, Rostirolo e Restilbrando che sono i figli della Signora della Montagna Rossa, hanno rapito le tre figlie del re.

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Giovanin esclamò: – Mamma che disgrazia! – Intanto si sentivano da lontano i banditori del re con il tamburo che ripetevano: – ta-ta-ta, chi troverà almeno una figlia del re la sposerà, ta-ta-ta... ta-ta-ta, chi troverà almeno una figlia del re la sposerà, ta-ta-ta... Giovanin, corse subito dal re per avere informazioni. Il re gli disse di avere tre figlie bellissime e tanto care, la più grande si chiamava Pomponia, la seconda Pamela e la terza Porzia. Il giovane promise di trovarne almeno una e di sposarla. Dopo aver consegnato a Giovanin un carro con due cavalli coperte e cibo, egli partì per le montagne insidiose dove vivevano gli orchi. Corse e corse finché potè con i cavalli e poi a piedi camminò e camminò finchè vide da molto lontano un lumicino – Quella sarà senz’altro una casa, disse Giovanin. Piano piano si avvicinò e disse al suo cane: – Ascolta. Ascolta bene come è la situazione, ed il cane obbediente rispose: – Quella è la casa dell’orco ma egli è andato a caccia, in casa c’è solo una donna che piange. Quindi entrarono e videro in un angolo la povera ragazza. – Chi sei? Sei la principessa? E come ti chiami? – Sì, rispose ella, sono la principessa Pomponia. Improvvisamente entrò di prepotenza l’orco che disse: – Cosa fai in casa mia? – Sono un povero viandante, cerco ospitalità e mi chiamo Giovanin. – Lo sai chi sono io? Sono l’orco Rodamonte figlio della Signora della Montagna Rossa e nella mia dimora non accetto sconosciuti. Ora mi faccio una bella scorpacciata di te e dei tuoi cani. L’orco si avvicinò ma Giovanin rivolto ai suoi cani gridò: – Zanna! Azzannalo, Sbrana, sbranalo, Ascolta aiutali, e fatelo a pezzettini come un salame. I cani obbedirono, brin brun bran l’orco non esisteva più e la principessa Pomponia fu salva.

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Tutto felice per questa straordinaria impresa Giovanin disse: Dai andiamo che ti riporto da tuo padre il re, ma la principessa lo supplicò di salvare anche le sue sorelle. Egli acconsentì, ma prima di uscire, aiutato dai cani, prese un grande sacco, ci infilò l’oro e altri beni preziosi che possedeva l’Orco Rodamonte. Arrivati al carro, caricò i beni, la principessa che coprì con delle coperte e le raccomandò di aspettarlo. Egli si incamminò con i suoi tre cani, finchè da lontano sentì un rumore pesante di passi. Disse al primo cane. – Ascolta! Ascolta cos’è questo rumore. Il cane rispose che erano rumori di passi che si stavano allontanando ed il castello era libero. Quando entrarono videro la seconda principessa, ancora più bella dell’altra e, dopo aver chiesto il suo nome, ella rispose: – Sono la principessa Pamela, portami subito a casa da mio padre perchè se torna l’orco Rostirolo ci mangerà tutti quanti! Ad un certo punto si sentirono i forti passi del gigantesco orco e – cain cain, sento odor di cristianin. Allora il ragazzo dopo essersi accorto che le finestre erano tutte aperte ordinò ai suoi cani: – Uscite e quando vi chiamerò saltate dalle finestre. Ed i cani obbedirono. L’orco entrò in casa con l’acquolina in bocca dicendo: – Lo so che sei qui, chi sei, cosa vuoi? Sei venuto a prendermi la principessa? Giovanin, timidamente, per calmare l’orco rispose: – Vorrei solo un po’ d’acqua, ma... la principessa è tua? – Come osi rispondermi in questo modo? Io sono l’orco Rostirolo figlio della Signora della Montagna Rossa, mia madre è strega e anche maga e se sapesse che sei qui ti farà un incantesimo. – Ma lei non lo sa –, rispose Giovanin. L’orco, stanco delle insolenze esclamò: – Non voglio più sentirti, adesso ci penso io, con un sol boccone ti mangerò!

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Giovanin ormai non aveva più paura di niente e chiamò i suoi cani dicendo: – Zanna, azzannalo! – Sbrana, sbranalo! – Ascolta! Aiutali, fatelo a pezzettini come un salame. Brin Brun Bran, anche l’orco Rostirolo fece una brutta fine. Giovanin prese il solito sacco e portò via tutti i beni preziosi dell’orco e insieme alla principessa tornarono al carro. Le due sorelle si abbracciarono forte ma i loro occhi erano tristi e Giovanin che aveva già capito tutto, decise di ripartire subito alla ricerca dell’ultima sorella. Ma egli non sapeva che c’erano altri tre personaggi che cercavano le principesse e non avevano buone intenzioni! Cammina, cammina, vide da lontano un castello ancora più grande e bello delle prime due dimore, sembrava addirittura una fortezza con poche finestre, sempre fidandosi del suo cane Ascolta gli ordinò di cogliere qualche informazione utile. Il cane facendosi serio gli disse: – L’orco è in casa, lo sento brontolare con la principessa, è di cattivo umore e ti conviene aspettare quando non c’è. – Bene! rispose Giovanin, aspetteremo. Dopo un giorno e una notte l’orco Restilbrando non si mosse perchè aveva saputo della morte dei fratelli. Essendo molto sospettoso e furbo teneva chiuse porte e finestre ed attendeva la visita del giovane ragazzo per mangiarselo. Ma Giovanin non avendo paura di niente, dopo essersi consigliato con i suoi cani, bussò alla porta nei panni di un umile pellegrino e aspettò che l’orco aprisse. – L’orco con un vocione da far tremare tutto il castello rispose: – “Chi è?” – Sono un povero pellegrino che chiede un po’ di cibo, non mangio da diversi giorni, sono sfinito. Va bene, entra! – disse l’orco, e pensò tanto ti mangerò!

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Quando Giovanin entrò finse di svenire proprio accanto alla finestra, cadendo fracassò la vetrata e, d’accordo con i suoi cani, e gridò forte: – Zanna!, azzannalo, Sbrana! sbranalo, Ascolta!, aiutali, fatelo a pezzettini come un salame. I cani entrarono dalla finestra rotta, l’orco non fece a tempo a voltarsi che era già la fine. Brin brun bran anche Restilbrando non esisteva più. Giovanin cercò la principessa. – Dove sei? Disse. – Sono qui, – rispose ella e piano piano apparve a Giovanin come un raggio di sole;era tanto bella che egli subito se ne innamorò. Come ti chiami? – Porzia, sono la terza filgia del re. Udendo il suono della sua voce si innamorò ancora di più e si baciarono. – Vuoi sposarmi? Le chiese Giovanin lei fece un cenno affermativo con la testa e i due felici tenendosi per mano andarono incontro alle sorelle. Prima però riempirono il sacco con i beni dell’orco. Mentre camminavano Giovanin pensava alla sua mamma e alla sposa che aveva a fianco. Giunti al posto dove aveva lasciato le due sorelle vide, con grande meraviglia che erano in compagnia di due giovanotti, ma un terzo, senza farsi vedere si precipitò di sorpresa addosso a Giovanin dandogli una bastonata in testa, e fuggirono lasciandolo a terra mezzo morto in mezzo alle montagne scure ed insidiose. Se ne andarono con tutto il carico: le principesse e il bottino sottratto agli orchi. Per fortuna tralasciarono i cani i quali, leccarono le ferite al padrone, lo curarono procurandogli acqua e cibo. Giovanin anche se amareggiato decise di cercare le principesse perchè non poteva dimenticare la sua Porzia. Giunto alla porte del paese vide sentì le campane suonare a festa, la gente cantava e ballava per le strade. – Cosa succede! – chiese Giovanin. Come, non lo sai? Dissero, – Oggi le figlie del re sposano i loro tre coraggiosi salvatori. – 51 –


A Giovanin venne un tuffo al cuore, si avvicinò ai cani per chiedere consiglio, ed essi suggerirono di mescolarsi ai giocolieri di corte. Così fece, cominciò a suonare, i cani cominciarono a ballare e saltare e pian piano si avvicinarono al banchetto del re. Le principesse di scatto si alzarono in piedi: avevano subito riconosciuto il loro vero salvatore e di frante al re e a tutta la corte rivelarono la verità. Nel frattempo i tre furfanti cercarono di fuggire ma vennero presi dalle guardie del re. Pomponia e Pamela chiesero la grazia per i loro due fidanzati pentiti perchè essi non parteciparono alla furia e alla cattiveria del loro amico. Allora il re ordinò alle guardie di chiudere in prigione il terzo giovane e... di buttare via la chiave. Dopodichè inchinatosi davanti a Giovanin concesse la mano di Porzia e tutti in fila procedettero verso l’altare per il doveroso “sì”. Il ragazzo che fu soprannominato Giovanin Senza Paura con la sua principessa e i suoi fedeli cani dopo la cerimonia partì per il paese natale in mezzo alle montagne che amava tanto e giunto a casa gridò – mamma sono arrivato e per sempre, ho qui con me la figlia del re. La mamma felicissima fece una grande torta con i frutti del suo giardino e vissero felici e contenti per tutta la vita.

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L’età dei metai pressiosi di Gianna Longo

Desso vojo contarve ‘na storia: ghe xe un puteo, co so nono, che i xe sentai so na panchina, sol cortivo davanti casa, là che i se gode el primo soe tiepido de marso. E, el puteo, ghe domanda a so nono: “nono, ma ti... che età gheto?” “eh!” ghe fa so nono “caro mio, se te savessi... mi go a età che a xe quea de i metai pressiosi!” “oh!” fa el puteo sgranando i oci “e cossa voe dire?” E ora el nono “desso te spiego caro nevodeto mio, vedito, mi go... i cavei de argento, i denti de oro, se el dentista no me ga imbrojà, e e gambe de piombo, che fao na fadiga strascinarle vanti!” El puteo stupito el ghe domanda uncora: “e nono dime... cossa xe che se fa so sta età pressiosa?” E el nono: “eh, se poe fare tute che e robe che no se ga avuo tempo de far prima, ma mi personalmente, me dedico alla investigassione! Infatti so sempre là che indago, e serco, e vanti in serca... e dove gavarò messo i ociai, e dove gavarò ficcà e ciavi, e dove gavarò posà el capeo... che a mi, me pare impossibile, ma basta che me serva na roba e te poi star sicuro che no a cato altro! E ora vardo... de qua... deà... insomma fao l’investigatore!”

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“ma che beo lavoro interessante che te fe ti nono!” esclama el puteo. “ah, ma no fao mia soeo queo! Te ghe da saere, caro nevodeto mio, che mi, me interesso anca de storia! So un studioso de storia!” “davero nono, ti te studi a storia, come mi scuoea?!” ghe fa el puteo sempre pì impressionà. “eh, caro mio, mi so dirte tuto queo che xe capità da quando che so nato, fin desso! Te sé quando che te me vedi che so là so na carena co i oci sarai che pare che dorma?! E invesse no! ...mi so là che medito!... che me ripasso i nomi e i visi de e persone che go conossu, e de chi che i jera fioi, e che laoro che fea so pare, e dove che i abitaa, e co chi che i vivea... eh... go tanto mi da ricordare, da ripassare... e te vojo dire anca n’altra roba, caro nevodeto mio... me so speciaixà che a va tanto de moda desso e a xe a meteorologia! Mi so sempre che tempo che fa un quò e che farà el dì dopo parchè varda, se me fa mae e gambe, a xe piova sicura... se me fa mae el coeo vol dire che riva aria fredda de tramontana... se go mae a testa, vol dire che el tempo se buta a sirocco... e se me vien mal de schina, el tempo xe in movimento e el ga voja de cambiare!” El puteo el xe tuto estasià, amirà, e el ghe fa a so nono: “oh nono! Quante robe che te fè e te sé ti! Che bea che xe a to età, voria tanto averla anca mi!” “eh!... sta tranquio beo, sta tranquio, che a riva si, anca par ti! No sta aver pressa desso, che un dì taccà de che altro a fa presto rivare!... parchè i ani, co i se inviai, no li ferma pì nessuno, e i core sempre pì svelti, e i se posa uno sora che altro e ti no te te incorsi gnanca de che mucio che te ghe fato! Però setto cossa che go da dirte, caro nevodeto mio, che te ghe rason ti!... a xe proprio na bea età questa... a età de chi che ga oci che ga visto tante robe, e che ga a boca che ga

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saiudà e parlà co tanta xente, e e man che ga laorà e caressà tanto ...e che ga el cuore che xe pien de tuto el ben che se ga dato e che se ga ricevuo! Sì ...a se proprio na bea età (a vostra!)”.

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Del Signor Coriandolo e della Pulce di Maria Pia Lo Vullo

C’era una volta... UN REEEE... direte voi bambini... Nooooo, io rispondo, non è un RE. C’era una volta una pulce; sì, avete capito proprio bene, UNA PULCE! Era sua consuetudine saltare sullo stivale di un gentiluomo di campagna, più precisamente del non molto anziano Signor Coriandolo; piano, piano risaliva il gambale e una volta sull’orlo si lasciava precipitare all’interno sino alla caviglia; poi trovava il modo di penetrare dentro la calza per poter succhiare un po’ di sangue; per la pulce era proprio pasto sostanzioso. Mentre sentiva scorrere la goccia del sangue dentro di sé, pensava: anch’io un giorno sarò una ‘gentilpulce’. Il signor Coriandolo, quando veniva punto, provava sempre un gran fastidio e si grattava in continuazione la caviglia e tutta la gamba; bisogna dire, ad onor del vero, che se non la sentiva arrivare la cercava. Si recava nella stalla dove custodiva un vecchio tarlato cassettone; lo apriva, frugava fra carte ingiallite, spostava tele di ragno, qualche vecchio indumento di lana; lui sapeva che la pulce andava a riposare in quel ‘magico’ posto. Un giorno, stanco ed un po’ arrabbiato, catturò la pulce proprio mentre stava riposando fra dei vecchi e bucati calzini di lana; la rinchiuse in una scatolina. Aveva però un cuore molto buono; pensando che non voleva far del male a quella fastidiosa ‘simpatica amica’, ogni tanto la faceva uscire; la prendeva delicatamente fra il suo grosso

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pollice ed il dito indice e la posava lui stesso sulla sua caviglia, così consentiva alla pulce di nutrirsi. Il signor Coriandolo era veramente ‘nobile di cuore’. Dovete sapere che ogni due mesi il gentiluomo partiva per andare a controllare i suoi possedimenti. Era un lungo e faticoso viaggio di circa quindici giorni. I preparativi lo impegnavano molto. Faceva strigliare e sellare il suo non proprio veloce destriero, un cavallo dalla folta criniera e dalla lunga coda bianca. Indossava gli abiti più comodi, non tralasciando i vecchi ma ancora utili guanti che servivano a proteggere le sue mani quando stringevano le redini; infine sistemava vicino alla sella un nodoso bastone. Dovendo attraversare dei boschi poteva succedere d’incontrare qualche brigante! ed allora quel bastone lo usava per difendersi. Nella tasca destra del suo giaccone indovinate cosa riponeva? Sì! avete indovinato... proprio la scatolina con dentro la pulce; c’era ormai un legame fra i due e non se la sentiva di lasciarla. Erano diventati ‘fratelli di sangue’. A chi con riverenza gli chiedeva cosa contenesse la scatola lui rispondeva: “caramelle al miele” ed aggiungeva che servivano non solo per il raffreddore ma anche per la voce, perché lui doveva parlare molto con i suoi mezzadri. Una bugia così la si può raccontare vero? Se non altro per il bene di quel povero animaletto! Voi sapete bene che si deve dire solo la verità! La mamma ve lo dice sempre e sono sicurissimamente sicura che voi bugie non ne dite. Bravi! Ricordatevi che questa è solo una favola. Passarono mesi. Ogni giorno la stessa cerimonia finché... LA PULCE MORÌ... direte voi... No, cari bambini. Il signor Coriandolo si accorse con grande stupore che la pulce cresceva. Cresceva e crescendo si riempiva di tanti puntini colorati e di una strana ‘lanugine’ al punto di non poter sapere più che animale fosse. Non pas-

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sava settimana senza che il signor Coriandolo lo cambiasse di scatola. Iniziò con quella del tabacco che lui usava respirare con il naso ogni mattina per poi starnutire violentemente; poi lo mise in una scatola rotonda ormai vuota, prima conteneva la cipria che usava dopo il bagno; ed ancora una scatola di scarpe, una cappelliera... Ma quello strano animale continuava a trasformarsi finché, meraviglia delle meraviglie, un bel giorno spuntarono delle coloratissime penne. Ora io so cosa vi state chiedendo... e rispondo subito. Quando quello ‘strano animale’ usciva dalla scatola, il gentiluomo lo metteva dolcemente sul pavimento; lo guardava mentre cercava in modo buffo di muoversi (non sapeva fare più quei salti che tutte le pulci sanno fare); lo studiava mentre tentava di prendere con uno strano becco le briciole dello stesso biscotto che lui stava mangiando e che lasciava volutamente cadere sul tappeto. Ancora pochi giorni... e ‘la pulce’ terminò la sua metamorfosi. Divenne un UCCELLO COLORATISSIMO. Non c’erano più scatole per poterlo contenere; allora, perché non metterlo nella gabbia che era al centro del giardino? pensò il signor Coriandolo. Era una buona idea, avrebbe finalmente utilizzato quella bianca grande voliera vuota. Da allora, chi si trovava a passare da quelle parti si fermava davanti al suo cancello per osservare quel magnifico pennuto multicolore; rimaneva a bocca aperta, meravigliandosi per la sua bellezza e maestosità. Notava però con un certo stupore che dal becco non usciva alcun suono: era un uccello senza voce. Il signor Coriandolo non perdeva occasione per raccontare ai passanti l’incredibile storia. Ma non dava spiegazione sul mutismo del suo animale. Si sentiva orgoglioso; ma ancor più molto felice. La sua bontà e il suo amore per un piccolo fastidioso animale erano stati contraccambiati con quel dono così preziosamente colorato. Lo guardava e i suoi ormai stanchi occhi si riempivano di lacrime di gioia. Anche l’uccello lo guardava; vedeva in lui

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quel caro amico che gli aveva sempre dedicato qualche secondo della giornata per nutrirlo. Lo guardava e... cantava; cantava infatti solo per lui. Lo ripagava di quella piccola goccia di sangue... “Cip Cip Cip”. Entrambi avevano creduto nella favola della bontà. Entrambi avevano capito che l’amicizia fra uomini ed animali è preziosa ed è indissolubile. Se credete che tutto questo sia vero, come io ci credo, fatelo anche voi cari bambini: “Cip Cip Cip”, per tre volte alla sera e dopo andate a ‘nanna’ accompagnati dalla vostra mamma; vi assicuro che i vostri sogni saranno meravigliosi...

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L’idromèle dello gnomo lituano di F. Ave Maturano Verzegnassi

Oggi vi voglio raccontare una piccola storia di gnomi. Non di gnomi vecchi e barbuti, ma di gnomi bambini: due fratelli, Margherita e Càrpino, ed una loro amica di nome Dalia. A proposito, lo sapete che questi ometti hanno molto spesso nomi di piante? Le femminucce si chiamano con nomi di fiori e i maschietti con nomi di alberi. Ma non divaghiamo: dunque, vi dicevo che abitano tutti in un bosco lontano in casette scavate sotto gli alberi e conoscono tutti gli animali e tutte le piante. Avete capito bene: piante e animali. In quell’angolo sperduto e fantastico sono tutti amici e possono parlare e giocare tra loro. È bello abitare laggiù dove accadono tante cose straordinarie e certamente non ci si annoia mai. Beh! Forse ho esagerato nel dire mai, ma state a sentire. Un giorno, era quasi estate, il sole splendeva e non c’era un alito di vento, i moscerini ronzavano instancabili, le farfalle andavano di fiore in fiore, gli scarabei stercorari costruivano le loro palline, le coccinelle andavano a caccia di afidi... insomma tutto il bosco era al lavoro; solo i nostri tre amici, annoiati fino al tormento, erano seduti sul prato e chiacchieravano del più e del meno. La signora Ortensia, nonna dei due fratellini, guardando il gruppetto scosse la testa e poi li chiamò. Càrpino pensò: – Vuoi vedere che c’è qualcosa di buono da mangiare?

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Margherita pensò: – Chissà cosa ci mostrerà la nonna! Dalia pensò: – Vorrei tanto fare qualcosa di nuovo! La nonna pensò: – Vediamo se riesco a scuotere quei tre dall’attacco di pigrite che li ha colpiti! Quando entrarono nella grande cucina trovarono sul tavolo dei biscotti al miele e una caraffa di succo di mirtilli. Il maschietto prese vita e strillò: – Evviva, si mangia! Margherita, che non aveva guardato solo i biscotti ma anche i recipienti sul ripiano, chiese: – Nonna, cosa prepari? E Dalia: – Cosa fa di bello? Càrpino non prese parte al fuoco di fila delle domande, non poteva dire nulla: aveva la bocca piena ed era troppo occupato a masticare. – Fate merenda, poi vi dirò – disse la nonna. Si sedette e mentre i tre amici sgranocchiavano biscotti richiamò alla mente la sua bella festa con tutti gli amici del bosco per ricordare gli avvenimenti dell’anno appena passato e i numerosi brindisi alla salute di tutti i partecipanti. Non so se siete a conoscenza del fatto che gli gnomi non festeggiano il compleanno, ma l’anno che è appena trascorso... e forse non saprete neppure che non fanno una sola festa, ma tante che durano settimane: ma guai a parlare di compleanno! – Ricordo Alcalino che mi regalò una bellissima arnica, che carino! – esclamò Ortensia piena di tenerezza pensando al un suo terribile nipotino. – Io mi ricordo che lo zio Solfuro da un certo punto in poi è diventato più giallo che mai! – disse Margherita pensando al papà di suo cugino.

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– ...e ricordate la zia Allumina che perdeva polvere come se nevicasse? – rise Càrpino pensando alla zia che si truccava moltissimo il viso e anche i capelli con una cipria bianca come il gesso. – Io ricordo il signor Lanio Collurio e il mitico Svasso che, abbracciati, cantavano delle canzoni inventate sul momento con mille squet, squet e tanti iuic, iuic... – rise Dalia ricordando quei due amici stonati e, secondo lei, visibilmente ubriachi. – Per me fu l’idromèle a farli diventare così allegri! – sentenziò Càrpino. – Solo allegri? Molto, ma moooolto allegri! – concluse Dalia e rise anche lei. – Vuoi dire che si sono ubriacati? – chiese Margherita spalancando gli occhi. – Ma no! Erano solo molto festosi! – esclamò la nonna in difesa dei suoi amici e parenti. – Il dottor Dip dormiva come al solito abbandonato su una poltrona! – continuò Càrpino che con gli occhi della mente rivedeva l’illustre etologo con una pianta in mano e gli occhi chiusi. – Non puoi dire come al solito – lo rimbeccò la sorella – di più del solito! L’ho sentito addirittura russare! – È crollato al primo bicchiere, non ha fatto in tempo neppure a dare la pianta di pinguicola alla nonna – continuò il fratello. – Beh!?... Allora?... Basta con queste chiacchiere! – disse Ortensia con aria severa e poi continuò: – Non potete negare: è stata una bella festa, si è parlato tanto dell’anno che era trascorso, abbiamo mangiato tante cose buone e... – ...e avete bevuto tanto idromèle... – continuò malizioso Càrpino. – A proposito di idromèle, ho proprio intenzione di prepararne ancora un po’ in vista di un’altra riunione – tagliò corto la nonna e poi: – 62 –


– Quello che avevo è finito e credo che arriverà ancora qualcuno per fare festa, per parlare dell’anno passato e stare qualche ora in allegria. – Lo dicevo io che avevate bevuto tanto! – insistette il ragazzino. – L’avete bevuto tutto! Altroché! – esclamò Margherita. – L’unico che aveva un’aria sveglia e vivace era il professor Protodrilus – riprese Dalia pensando all’allegra combriccola. – Più che vivace, direi vorace! – sospirò il goloso Càrpino, ricordando tutti i biscotti che l’illustre personaggio aveva divorato sotto i suoi occhi disperati, senza che potesse impedire il disastro. – Insomma siete proprio dei pettegoli – sbuffò la signora Ortensia. – Quando si fa una festa bisogna stare insieme allegramente... basta con queste ciance, visto che avete fatto merenda, ora aiutatemi a preparare l’idromèle. – Ma noi non siamo capaci! – esclamarono i tre in coro. – Sì che lo siete... e poi è così semplice! – disse la nonna alzando le spalle. – Cosa dobbiamo fare? – chiese sua nipote. La vecchia signora non le rispose, era troppo occupata a borbottare tra sé: – In dispensa c’è tanto succo di mirtilli, quindi non ne farò molto... solo un po’ per brindare... vediamo cosa ci serve... prendiamo il lievito di birra – e poi disse ad alta voce – Margherita per favore metti in quel pentolone 100 grammi d’acqua e ... – Nonna, non potrò mai sollevare il pentolone con 100 grammi d’acqua! Sapete, gli gnomi sono piccoli, piiiiccoli e per loro una pentola con 100 grammi d’acqua è molto pesante. – Non ti preoccupare, lo faremo tutti insieme – rispose la nonna e poi rivolta a Dalia: – Sii gentile, pesa 16 grammi di miele. – Dov’è? – chiese la bimba. – 63 –


– Nella credenza. – Ed io non faccio niente? – strillò Càrpino facendo sobbalzare tutti. – Certo che fai qualcosa anche tu! Prendi la grattugia e gratta la buccia di quel piccolissimo limone, solo la parte gialla mi raccomando! Poi, quando hai finito, io lo spremerò. Intanto le due bambine misero insieme la pentola sul fornello, Ortensia accese il fuoco, aggiunse il miele all’acqua e poi mise in un piattino una puntina di lievito di birra. Dopo un po’, sotto lo sguardo impaziente di Càrpino, l’acqua cominciò a bollire e il monello strillò come era solito fare quando era preso dall’entusiasmo: – Nonna bolle! Bolle! Presto! Bolle! – Non ti agitare spegni il fuoco e... – ...eeee? – chiesero i tre. – Aspetteremo che si raffreddi a 20°C. – Come faremo a sapere che sono 20°C? – chiese Margherita che era una precisina. – Con il termometro, naturalmente! – strillò Càrpino. La nonna e le bimbe si guardarono rassegnate: quel ragazzino fracassone era irrecuperabile! Mentre aspettavano chiacchierarono e scherzarono ricordando ancora la festa e l’effetto dell’idromèle sugli invitati. La signora Ortensia misurava di tanto in tanto la temperatura e, quando l’acqua raggiunse 20°C, i tre, uno alla volta, misero qualcosa nella pentola: il lievito, la buccia grattugiata e il succo del limone. La nonna infine mise il coperchio e disse: – Ecco fatto! Ora bisogna aspettare dodici ore, cioè fino a domani, poi verseremo l’idromèle nelle bottiglie e chiuderemo molto bene con i tappi. – Nonna, chi ti ha insegnato a fare tante cose? – chiese Margherita. – Il tempo! La vecchiaia! L’esperienza! – rispose sospirando la vecchia signora e poi: – 64 –


– Veramente questa ricetta la diede a mio padre un vecchio gnomo lituano che passò di qui più di cento anni fa. – Oh! Così tanto! – esclamò Dalia che, essendo una gnometta bambina, non era abituata agli intervalli di tempo degli adulti, per i quali cento anni erano solo una parentesi della vita. A proposito lo sapete che gli gnomi vivono circa quattrocento anni? La nonna raccontò: – Questo amico di mio padre era un importante mercante e un giorno capitò da queste parti per affari, bevve il nostro idromèle e non gli piacque, sicché ci insegnò come lo facevano al suo paese. Da allora l’abbiamo preparato sempre in quel modo e tutti quelli che lo hanno assaggiato sono rimasti soddisfatti. Proprio così, questa ricetta non è mai stata data a nessuno perché la consideriamo un segreto di famiglia. – Nonna, se è un segreto di famiglia, come mai l’abbiamo preparato insieme a Dalia? – chiese Càrpino. – Perché lei è una di noi – risposero in coro Margherita ed Ortensia. Quelle parole fecero capire a Dalia quanto era grande l’affetto dei suoi amici. Sorrise e pensò: – Sono fortunata a vivere qui! Il proverbio dice proprio il vero: chi trova un amico trova un tesoro! I tre bambini erano impazienti di travasare la bevanda appena fatta, ma erano anche rassegnati ad aspettare l’indomani, quindi chiacchierarono della festa che la nonna aveva intenzione di preparare e sperarono che arrivasse presto quel giorno: a loro interessava incontrare il cugino Alcalino, il terribile gnometto dai capelli blu che sapeva fare gli esperimenti. Tanto per non rimanere seduti, decisero di continuare la chiacchierata passeggiando... e così, passo passo, non si accorsero di aver imboccato il sentiero che portava alla vecchia quercia sotto cui c’era la casa di Dalia, perciò a quel punto non restava che salutarsi. – 65 –


– Ci dispiace, avremmo voluto rimanere ancora con te – disse Càrpino – Ma è tardi, anche noi dobbiamo tornare: la nonna ci aspetta! – aggiunse giudiziosamente Margherita. – Poco male, ci vediamo domani e imbottigliamo! – esclamò Dalia. – Evviva! – strillò Càrpino e, tanto per cambiare, corse lungo il sentiero incurante dei richiami della sorella. Dalia non vedeva l’ora che arrivasse l’indomani per tornare dai suoi amici ad imbottigliare l’idromèle, e poi... chissà, stando insieme, cosa avrebbero potuto inventare per divertirsi! Riuscivano a fare sempre nuovi giochi! Il sole era quasi tramontato e i suoi amici grilli, che facevano parte di un’importante orchestra, già cantavano. La bimba ne fu felice, perché quei trilli, che ogni sera si diffondevano tutt ’intorno nel prato, parevano dirle: – Sei arrivata! Ora sei a casa. Passando davanti all’ingresso della piccola tana dove facevano le prove, non poté fare a meno di mormorare al suoi amici: – Com’è bello sentirvi cantare! Arrivederci, vi voglio bene. Aprì la porta ed i rumori ed il profumino che arrivavano dalla cucina dove mamma Violetta preparava la cena, le misero appetito. Salutò, incominciò ad aiutarla e le raccontò che dalla signora Ortensia avevano fatto l’idromèle con la ricetta dello gnomo lituano e che l’indomani lo avrebbero imbottigliato. Dopo cena lessero la favola della buonanotte e poi a nanna. La bimba nel suo lettino si rese conto di essere molto stanca e di non riuscire a tenere gli occhi aperti, ma non poteva fare a meno di ripensare alle ore trascorse con i suoi amici: era stata proprio una bella giornata! Volete preparare anche voi l’idromèle?

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Fatevi aiutare dalla mamma o forse è meglio dalla nonna che, sono sicura, fa sempre tutto quello che le chiedete. Se siete abbastanza grandi e sapete fare le moltiplicazioni moltiplicate per dieci le dosi della nonna Ortensia, pesate 5 grammi di lievito di birra e seguite le istruzioni. Dopo aver messo l’idromèle nella bottiglia appoggiatela su un ripiano al buio ed al fresco e lasciatela riposare per un po’ tempo. E poi? Poi cin, cin con l’idromèle!

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Il re distratto di Fedora Peruzzo Chemello

C’era una volta un re distratto. Di giorno si vestiva da sera e la sera da mattina. Tutte quisquilie per voi e per me, ma non per un re che ha un certo decoro da mantenere e delle regole da rispettare. A volte appoggiava la corona dove gli capitava – perché le corone sono fatte di oro massiccio, e a portarle in testa tutto il giorno ci si stufa parecchio – e poi non sapeva più dove l’aveva messa. Tutta la corte allora doveva mobilitarsi alla ricerca della corona, che veniva puntualmente ritrovata nei posti più strani: nella doccia, dentro il frigorifero... A volte le distrazioni del re erano innocue – come i calzini spaiati – ma certe altre si sfiorava l’incidente diplomatico. Come quella volta che il re si dimenticò di avere un impegno ufficiale e se ne andò tranquillamente a pescare. O come quell’altra volta che pestò lo strascico della regina Ruspona e la mandò a gambe all’aria – e la vista dei mutandoni della regina non fu propriamente uno spettacolo regale... Questi incidenti preoccupavano non poco la corte, che un bel giorno decise che era arrivato il momento di risolvere il problema del re. A questo scopo venne diffuso un bando per riunire i più grandi maghi del pianeta: chi fosse riuscito a risolvere il difetto del re avrebbe ricevuto in cambio una favolosa ricompensa. Dopo una settimana esatta dall’emissione del bando la corte era già invasa da uno stuolo di maghi. I consiglieri del re, tramite attente selezioni, ne scelsero alla fine solo tre. Il giorno dopo il re incontrò di persona il primo mago, che gli – 68 –


disse: – Vostra Grazia, ho un rimedio antichissimo della mia regione, che tramandiamo nel mio paese da generazioni. Lei non deve fare altro che fare un nodo al Suo regale fazzoletto ogni volta che dovrà ricordarsi di un impegno: quando vedrà il nodo, si ricorderà dell’impegno. Il re, non molto convinto, accettò: – E sia il fazzoletto. Dopo cinque minuti, però, il fazzoletto l’aveva già perso, e così il re si mise a fare nodi dappertutto: alle tende, alle tovaglie, persino alla barba dei poveri consiglieri... Dopo qualche ora la corte era tutto un groviglio! Ai consiglieri del re non restò altro che decretare fallito l’esperimento e chiamare il secondo mago. Il secondo mago si presentò dal re e disse: – Sua Maestà, il Suo è sicuramente un problema di alimentazione. Le propongo di seguire per un certo periodo la dieta del baccalà, un alimento ricco di fosforo che l’aiuterà sicuramente ad essere meno distratto. Questa volta il re, che era un goloso di baccalà, era già più contento e rispose al mago: – E sia il baccalà! La dieta era molto rigorosa: alla mattina pane, burro e baccalà, a mezzogiorno baccalà e alla sera pure. Dopo i primi entusiasmi, la monotonia di questa dieta cominciò a stancare il re, che non solo continuava a dimenticare le cose come prima, ma in più aveva un alito talmente fetente che i consiglieri non riuscivano a stare due minuti con lui senza correre ad aprire una finestra. Così la corte decretò fallito anche questo tentativo e interpellò l’ultimo mago. Il terzo mago si presentò davanti al re con un imbuto in mano: – Vostra Regale Altezza, ho un metodo infallibile, sperimentato con successo in molti casi simili al vostro. Con questo imbuto riempirò le Sue regali orecchie di sale. Vedrà che con un po’ più di sale in testa sarà sicuramente meno distratto. Il re, un po’ perplesso ma ancora speranzoso, si sottopose alla cura. Purtroppo per il re, però, questa cura non era adatta alla sua salute, perché il re soffriva da tempo di pressione alta – e si sa che il sale e la pressione non vanno – 69 –


d’accordo. E così la cura fu interrotta senza avere nemmeno il tempo di capire se fosse efficace o meno. Il re, afflitto e sconsolato, se ne andò fuori dal castello per fare una passeggiata solitaria e rimuginare sui suoi guai. Cammina cammina si inoltrò nel Regno vicino al suo, con cui era in guerra da quando era nato. Il re era talmente immerso nei suoi pensieri che si scordò di essere in guerra con quel paese, e quando incontrò il re suo nemico gli augurò distrattamente il buongiorno. Figurarsi la sorpresa di questo re che non solo si trovava di fronte il suo avversario più temibile, ma lo salutava pure come se niente fosse! Colpito da questo fatto straordinario, il re nemico lo interpretò come un tentativo di riconciliazione e lo accolse benevolmente. Allora i due regni si riappacificarono con grandi feste: forse la distrazione del re aveva contagiato il suo popolo o forse era passato talmente tanto tempo dall’inizio della guerra che nessuno si ricordava più il motivo di tanto odio. Fu così che anche il popolo del re distratto si scoprì un po’ distratto. E ne fu contento.

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La leggenda della Principessa Cornaro di Emanuela Prior

Tanto tempo fa nel periodo di Pasqua c’era l’abitudine di portare di casa in casa la Santa Comunione agli infermi in processione. Il sacrestano stava davanti e suonava una campanella per avvertire le famiglie che passava il Signore Gesù, in modo che tutti uscissero a pregare. Il sacerdote, che portava le Ostie, lo coprivano con un ombrello tutto ricamato in segno di riverenza. Mia mamma mi raccontava spesso che un giorno la Contessa Cornaro, Principessa dell’Isola di Cipro, partì da Venezia per andare ad Asolo dove aveva un bellissimo palazzo in compagnia della sua cagnolina prediletta. Passando per Torreselle (vicino a Piombino Dese) incontrò la gente che andava in processione; il conducente della carrozza si fermò e levandosi il cappello in segno di rispetto disse: “Signora, ci fermiamo che passa il padrone del mondo!” Ma la Signora rispose: “No! Anche se lui è il padrone del mondo io sono la padrona di questa terra!” Non fece nemmeno in tempo a finire queste parole che all’improvviso si sfasciò tutta la carrozza e si aprì una voragine nella terra che la risucchiò! Solo la cagnetta si salvò scappando lontano, lontano continuando ad abbaiare tutta spaventata!

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Da quel giorno, quando d’estate viene un temporale, si sente in quella strada una cagnolina abbaiare. Nessuno l’ha mai vista ma tutti sanno che si tratta della cagnetta della principessa ed è per questo che quella strada viene chiamata da tutti “a stradea mata”.

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Storie di una volta di Francesca Rigoni

Cappuccetto Rosso, Biancaneve, Cenerentola e altre fiabe le ho conosciute dopo che a scuola avevo imparato a leggere e con la mancetta della domenica ogni tanto mi compravo un libricino che narrava una di queste storie fantastiche. Mi ricordo che rimasi molto impressionata dalla Bella Addormentata perché la nonna teneva in soffitta proprio un vecchio oggetto con tanto di fusi come quello della fiaba e quante volte lo avevo toccato! Le storie che ci raccontavano allora i nonni avevano di solito come protagonisti personaggi mostruosi e cattivi. C’erano così i ‘Sanguinei’ spiritelli maligni e dispettosi che si divertivano a fare scherzi cattivi specie se ti trovavi fuori casa quando faceva buio e dallo spavento ti si rizzavano i capelli e tutto il sangue ti andava alla testa. E le ‘Strie’? Vecchie, magre, naso adunco, occhi di brace, capelli arruffati, ghigno sdentato come residenza le grandi voragini che ancor oggi trovi camminando nei boschi e dove finivano i malcapitati che capitavano sotto le loro sgrinfie? Poi c’era l’‘Orco’ (ancor oggi ad Asiago c’è una via chiamata Val d’Orco) non ho mai capito com’era fatto ma so solo che mangiava i bambini cattivi. Quante volte sentivo dire: “Su, presto putei in leto che xè qua i sanguinei”, “Mamma mia che sporco che te si, desso te fasso portar via dall’Orco”, “Daghe sempre la man alla zia che no te porta via la stria”.

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E poi c’era il capo di tutti il ‘Diavolo’ forcone in mano, coda lunga, lingua di fuoco, la sua casa era lontano, in mezzo alle montagne che brividi passare ancor oggi accanto al “Buso del diavolo” dove tante volte si rischiava di finire se gli adulti scoprivano una marachella o una piccola bugia. Mai qualcosa di allegro, di simpatico, un principino che ti dava il bacio della buona notte, per fortuna che da piccoli il sonno arrivava lo stesso. Il dubbio, ora che sono grande, è che dalle pance vuote o riempite a polenta e patate, patate e polenta potevano nascere solo personaggi negativi. Quando si andava a camminare nel bosco mio papà, che per fortuna aveva da mangiare non solo la polenta ma anche un pezzo di formaggio, una fetta di salame e alla domenica della carne, ci narrava la storia degli elfi, folletti simpatici e allegri che, in un tempo remoto, abitavano in pace le montagne dell’Altopiano dei sette Comuni. Poi arrivarono gli uomini e finché furono pochi gli elfi vissero con loro in armonia poi, l’avidità e l’invidia del genere umano li costrinsero a scappare sempre più nel folto del bosco fino a che la loro regina decise con una grande magia di renderli tutti invisibili. Ed ecco che papà diceva: “Parlate piano nel bosco, non disturbate gli elfi e se una brezza leggera passerà sulla vostra guancia è la loro carezza di ringraziamento. Abbiate rispetto delle piante, dei fiori, non fate i maleducati in casa di questi magici folletti e loro vi premieranno con tanti bei sogni e magari vi faranno trovare al mattino un piccolo regalo sotto il cuscino. È così che ho imparato ad amare la natura, il bosco e ancora oggi quando cammino per le mulattiere e per i tanti sentieri molti nati durante la grande guerra, mi piace fantasticare e immaginare di avere degli elfi a tenermi compagnia e qualche volta mi ritrovo a sorridere da sola perché c’è qualcosa che mi rende serena e contenta. Addio Strie, Sanguinei, Orchi, Diavoli..., solo un po’ di nostalgia per un’infanzia ormai lontana. – 74 –


Uso improprio di una “bareta” di Francesca Rigoni

“Su nonno raccontami di quella volta che hai perso la bareta”. “Ma dai putei, la xè vecia”. “Sì nonno, ma ci diverte, siamo stufi di giocare con il Nintendo...!” “E va ben...” Un giorno che ‘ndavo par ‘na stradeta me son distratto e go perso la me bareta! Dopo qualche giorno me xè sta dito che la gaveva catà ‘na veceta. Alora son ‘ndà da la veceta a farme dar la mi bareta, ma la veceta me ga dito: “Se te vol la bareta te devi portarme sinque ciope de pan”. Me la cavo con poco go pensà e son ‘ndà dal fornaro par farme dare el pan ma el fornaro me ga dito: “Se te vol el pan te devi portarme la farina”. Son ‘ndà allora dal munaro par farme dar la farina ma anca qua el munaro me ga dito: “Se te vol la farina te devi portarme el frumento”. Camina, camina son rivà al campo par farme dare el frumento, ma el campo me ga dito: “Se te vol el frumento te devi portarme bon concime”. Son ‘ndà alora dale vache par tore el luame ma, te pareva, anca quele voleva qualcosa:”Se te vol el luame te devi portare un poco de fen”. Santa pasiensa son ‘ndà dal prà par farme dare el fen, ma el prà me ga dito: “Se te vol el fen, serve la falsa”. – 75 –


Volevo lasar perdere ma infine son ‘ndà dal falsaro che el me ga dato la falsa, go portà la falsa al prà, el prà me ga dato el fen, lo go portà alle vache, le vache me ga dato el luame, go portà el luame al campo, el campo me ga dato el frumento, go portà el frumento al munaro che me ga dato la farina, go portà la farina al fornaio e... finalmente go ciapà le sinque ciope de pan. Tutto contento con in man le ciope de pan ancora calde son ‘ndà da la veceta che, anche se un po’ sporca, me ga ridato la bareta. Cari putei, sete ani la go sudà, sete ani la go lavà ma ancora la spusava de caca seca e dopo tutta sta fadiga non la go gnanca più portà. “Ma allora nonno la bareta l’hai buttata via?”. “Eh no la go tacà su un ciò in granaro e ogni volta che la guardo penso: Go fato ben a rivoler la mi roba a ogni costo o fasevo meio lasar perdere? No me son ancora dato una risposta, ma de sicuro la veceta el me pan se lo ga magnà de gusto”.

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Anna e il segreto del Tempo di Giuseppina Sforza

I Il faro e la casa vicino al mare In un paese lontano, ad un passo dal mare, vivevano Anna, la sua mamma e nonno Guido. Ogni sera, alla finestra della sua cameretta, Anna aveva un appuntamento con la luce del faro, rimanendo sempre catturata dall’istante in cui la luminosità spariva, lasciando il posto all’oscurità più completa e, con ansia e timore insieme, aspettava il momento che precedeva la scomparsa, ora della luce, ora del buio. Il faro era suo amico, come lo era il nonno, che viveva con lei e la mamma da sempre, per quanto ricordasse. Del suo papà invece, aveva pochi ricordi: le sue mani e la sua voce. Ricordi vaghi, lontani ma allo stesso tempo precisi, inconfondibili e, soprattutto, indimenticabili. Anche la mamma a volte fissava fuori dalla finestra e ad Anna sembrava assorta e triste, mentre guardava lontano. In quei momenti la bambina la osservava così, senza parlare, per non disturbarla nei suoi pensieri. Ma in qualche occasione non aveva saputo frenare il desiderio di capire perché la mamma guardasse così intensamente oltre la loro casa, oltre lo stesso mare. “Sei triste, mamma?” le chiedeva allora toccandole la mano, come per riportarla lì, vicino a lei. “Non sono triste, tesoro, penso al Tempo che passa.” “Cos’è il Tempo, mamma? È tuo amico? E perché dici che passa?” “Il Tempo è un signore potente e solitario, ed ha pochi amici. Non tutti gli vogliono bene perché a volte quando passa si porta via qualcosa, o qualcuno.” – 77 –


Quella sera Anna andò all’appuntamento con il suo amico faro un po’ pensierosa. Nella sua testa ancora risentiva le parole della mamma riguardo al passare di quel misterioso signor Tempo e rivedeva la sua espressione malinconica davanti alla finestra. Mentre osservava come ogni sera l’alternarsi del buio e dell’oscurità, assaporando dentro di sé i passaggi che sempre riuscivano a emozionarla sebbene fossero scanditi e prevedibili, Anna desiderò che quel segreto riguardo al passare del Tempo le venisse svelato. Chissà, forse un giorno, quando lei era ancora piccola, il Tempo passando aveva portato via con sé il suo papà e, se questo era un segreto, pensò che allora, quando avesse scoperto qualcosa di più sul Tempo, il suo passare, ciò che portava via con sé e perché era – come diceva la mamma – un Signore misterioso e solitario, avrebbe finalmente capito tante cose. Pensò a nonno Guido, al suo passo che vedeva farsi sempre più lento, ai racconti che qualche volta le aveva fatto di luoghi, persone, fatti strani e lontani. Di persone che lei non aveva mai conosciuto se non attraverso vecchie fotografie che il nonno teneva in un album di pelle logorata dalle tante volte in cui era stato sfogliato; persone che vestivano abiti strani, dai volti allegri o seri, che portavano strani cappelli o buffi baffi. “Queste persone non ci sono più” – le aveva detto il nonno – “ma ora sono in cielo e vivono sempre nel mio cuore”. Davanti al faro, quella sera, Anna pensò che avrebbe parlato con il nonno di quel segreto del Signor Tempo. Sicuramente lui sapeva, e l’avrebbe aiutata a capire. II Sulla spiaggia con il nonno Il mattino dopo chiese a nonno Guido se voleva fare con lei una passeggiata lungo il mare, per raccogliere conchiglie. Era una fresca e soleggiata giornata, il vento spazzava via le nuvole, una dopo l’altra e il cielo era limpido, come piaceva a lei. Il nonno camminava piano e ogni tanto Anna correva – 78 –


avanti, attratta da ciò che il mare aveva depositato lungo la riva. Poi tornava da lui che la prendeva per mano e le raccontava, per ogni oggetto trovato, la sua storia. “Da dove vengono le conchiglie, nonno?” “Da lontano, da molto lontano – rispondeva – oggi il mare le ha portate qui perché noi le troviamo e vediamo quanto sono belle.” “Sono i regali del mare per noi?” “Sì, il mare fa sempre dei regali, però sta a noi saperli trovare perché forse domani non ci saranno più. “Il mare è nostro amico, allora, vero nonno?” “A volte lo è, ma non sempre. È così grande e potente che può anche trascinare via con sé quello che trova sulla riva quando diventa agitato e soffia forte il vento.” “Può portare via le cose e le persone come fa il Tempo, nonno?” Nonno Guido la guardò negli occhi seri che lo stavano fissando in attesa della sua risposta. Le fece cenno di sedersi vicino a lui. “Guarda, – le disse accennando al mare e all’orizzonte – “cosa vedi?” “Vedo il mare e il cielo che si toccano in un punto lontano lontano. “E il Tempo lo vedi?” “No, è forse dentro al mare? So che il mare è tanto profondo. Forse lì in fondo, lontano lontano c’è la casa del Signor Tempo, quello che quando passa si porta via sempre qualcosa, o qualcuno. Lo dice la mamma.” Il nonno sorrise e le accarezzò i capelli. “Tu hai mai parlato al signor Tempo, nonno?” “Certo che l’ho incontrato tesoro. Ognuno di noi lo incontra nella vita. Anche tu, ne sono certo.” “Pensi che potrei parlargli? Ho tante cose da chiedergli, ma come faccio a trovare la sua casa se si trova in fondo al mare?” “Non ti preoccupare, bambina, il Tempo ora lo sa che lo stai cercando e lo vuoi amico. Lo sarà, se tu lo desideri e saprai ascoltare, e aspettare.” “Ma come farò a riconoscerlo?”

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“Quando lo incontrerai, lo saprai da sola. Il Tempo è uno strano signore, sai. A volte corre veloce e ride come un ragazzino birichino che fa i dispetti e non si lascia prendere, altre volte è come una giornata grigia di pioggia che ci lascia tristi e malinconici, desiderosi del sole.” Allora aveva ragione la mamma a dire che il tempo è un signore misterioso! Nonno Guido si alzò lentamente e guardò quella dolce bambina dagli occhi seri e dal sorriso caldo come il sole di un mattino d’estate. Anna gli prese la mano e risentì nella sua stretta quella del suo papà. Avevano le stesse mani, lui e il nonno. Calde, grandi e morbide. Quando il nonno le accarezzava il viso, le guance, la testa, poteva chiudere gli occhi come faceva con le conchiglie e sentiva il mare che le parlava. Sentiva la voce del suo papà quando la chiamava per nome e risentiva il suo profumo, così fresco, come il vento che accarezza i capelli quando è primavera. Tornando verso casa, Anna seguì il nonno nei suoi passi lenti standogli accanto, con la mano stretta nella sua. III La casa del Signor Tempo Quella sera, ed ogni sera dopo quella chiacchierata col nonno, Anna cominciò a guardare il faro con occhi diversi, perché le piaceva pensare che, forse, ciò che l’aveva sempre attratta in quell’alternarsi misterioso di luce e buio, era proprio uno dei misteri del Tempo. E pensò che, forse, non solo il Signor Tempo abitava proprio lì, nella casa del faro, ma anche che così le parlava da sempre, chiamandola ad osservare i momenti in cui la luce appare e poi scompare, lasciando posto al buio, e quegli spazi di tempo, lunghissimi nell’attesa, che seguono fra l’un e l’altro. Una notte in cui il vento soffiava forte e il mare si agitava minaccioso, Anna trovò rifugio tra le braccia della mamma. “Non avere paura, tesoro, noi siamo al sicuro qui, siamo a casa. Tra un po’ tutto

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sarà passato, il vento se ne andrà e il mare tornerà calmo come prima.” “Ma il Tempo, quando porta via con sé le cose, dove le mette? Ha una casa il signor Tempo?” La mamma sorrise. La sua bambina a volte la sorprendeva per come sapeva diventare di colpo seria e piena di domande così importanti, e difficili. Nei suoi silenzi e nelle sue domande Anna assomigliava al suo papà e, come lui, quando sorrideva si illuminava di un sorriso caldo, come il sole di un mattino d’estate. “Mamma, il papà ora ha una casa come noi, per ripararsi dal vento e dal mare quando sono così arrabbiati?” “È il nostro cuore la sua casa, tesoro.” “Anche il nonno dice che le persone che non ci sono più abitano nel suo cuore. Ma allora è il Tempo che le porta lì, dopo che è passato?” “Questo io non lo so tesoro, però di sicuro il nonno ha un cuore grande, gentile e generoso. È una benedizione averlo accanto a noi”. Cullata dalle parole della mamma e rassicurata nelle sue paure, Anna si addormentò e sognò la casa del Tempo. Grande, bellissima, con tante porte e lunghi corridoi e tanta tanta luce che entrava dalle finestre e dal soffitto e inondava le stanze rivelando colori scintillanti. Alcune porte erano chiuse, ma nel sogno Anna sentiva che non le sarebbe stato per sempre inaccessibile il segreto che in quel momento celavano. In una delle stanze aperte inondate di luce le parve di vedere una figura di uomo che sorrideva e la chiamava per nome. Era la voce del suo papà, lo sapeva, la riconosceva distintamente. IV I ricordi del nonno, segno di amicizia con il Tempo Al suo risveglio Anna, ripensando al sogno della notte, si ricordò delle parole di nonno Guido: “Non ti preoccupare,

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ora il Tempo lo sa che lo cerchi per essergli amica. Ti parlerà, o forse ti sta già parlando.” Gli raccontò del sogno, delle stanze, delle porte, dei colori, della luce e della voce del papà. “Quando vediamo nei sogni le persone che non sono più con noi è un po’ come se tornassero, vero nonno? Anche a te succede di rivedere la nonna e le persone delle fotografie che sono nel tuo album?” “Sì tesoro, e poi io che sono vecchio ho anche molti ricordi. I bei ricordi dei momenti vissuti con tua nonna, quelli tristi delle persone care che ho visto morire durante la guerra, quelli dei momenti passati con gli amici, con i miei fratelli, con le persone con cui ho lavorato per molti anni.” “E nemmeno il Signor Tempo te li può portare via, i tuoi ricordi?” “Sicuramente molti me li ha portati via sai, tesoro, ma non tutti, e poi mi lascia sempre i più belli, i più importanti, quelli che, quando ci penso, mi fanno capire quanto sia stato fortunato nella mia vita ad aver vissuto e amato così tanto: la nonna, i miei figli, il mio lavoro, i miei amici, i nipoti, e poi il sole, il mare, la luce del giorno e il buio della notte, i giorni di festa quando si ballava in paese.” Anna lo ascoltava rapita: le piaceva sentir parlare il nonno e si sentiva importante quando lui le raccontava della sua vita. Gli occhi di nonno Guido in quel momento brillavano di una luce che gli ringiovaniva il viso e Anna pensò per un attimo che forse lui e il Tempo erano davvero amici. Questo pensiero la confortò, facendole sentire più vicino quel misterioso Signore di cui sapeva così poco: dove abitava? e poteva diventare suo amico, così come lo era del nonno? Avrebbe potuto un giorno parlargli e chiedere del suo papà? Ed era vero che quando passava portava via con sé sempre qualcosa o qualcuno? E perché lo faceva, se era proprio così? E qualche volta, al suo passaggio, poteva anche portare dei regali come faceva il mare con le conchiglie? Si disse che questo Signore misterioso e solitario forse sarebbe diventato più buono e generoso se lei gli avesse voluto bene, e non ne avesse avuto paura. Forse, il Signor Tempo era solo triste perché aveva pochi amici.

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V Il regalo del mare... e del Tempo Un giorno di fine estate, la mamma si alzò presto al mattino per cominciare i preparativi della festa di compleanno di nonno Guido. “Vado a prendere dei fiori per la festa del nonno?” – chiese Anna già elettrizzata all’idea della bella giornata che la attendeva –. “Sì tesoro, prendi i più bei fiori che trovi. Voglio che il nonno abbia una festa di compleanno indimenticabile. Vorrei che sentisse quanto gli vogliamo bene e quanto lui sia prezioso per noi.” Anna uscì col proposito non solo di raccogliere dei fiori per abbellire la festa ma anche di cercare un regalo per il suo amato nonno. Decise di andare sulla spiaggia e si sedette per ascoltare il mare. Si mise ad ascoltare il rumore delle onde, certa che, qualche consiglio, lui, il mare, le avrebbe dato. E chissà, se la casa del tempo era lì, nel mare, forse proprio lui, il Signore misterioso che era così amico del nonno, le avrebbe saputo suggerire qualcosa di speciale da regalargli per il suo compleanno. Immersa in questi pensieri e cullata dal rumore delle onde, Anna si addormentò e sognò la casa del Tempo. C’erano le stanze illuminate dalla luce e tanti visi sorridenti, c’erano le porte chiuse e il suo papà che la chiamava per nome. E sognò che il Signore di quella grande casa le diceva di guardare e di ascoltare, perché un regalo c’era anche per lei, se avesse saputo aspettare. Quando si svegliò, Anna riaprendo gli occhi guardò verso il mare e vide qualcosa che attirava la sua attenzione. Si alzò e si incamminò in direzione di un oggetto che luccicava abbandonato sulla riva. Era una conchiglia, bella come non ne aveva mai viste prima, ed era certa che al suo arrivo lì, quel mattino, quando si era messa ad ascoltare il mare, quella meraviglia scintillante non c’era. – 83 –


Era di madreperla dorata, grande e perfetta, unica e straordinaria nella sua bellezza. Stava appoggiata sulla sabbia, e sembrava depositata dal mare proprio per lei, dopo aver compiuto un lungo viaggio. Anna la raccolse e lasciò che all’orecchio il mare le cantasse la sua canzone. La sua voce dava vita a quella conchiglia che rivelava così, in quel momento, solo a lei, il suo straordinario valore. Ripensò allora alle parole che la mamma le aveva detto quel mattino: “Vorrei che il nonno sentisse quanto prezioso è per tutti noi”, e si sentì felice al pensiero che il Signor Tempo, attraverso il mare, avesse portato quel regalo speciale che lei desiderava fare a nonno Guido. Si incamminò verso casa reggendo delicatamente tra le mani la conchiglia luccicante dalla voce melodiosa. Il mare, il sole e il Tempo l’avevano resa così come ora appariva a lei: brillante come l’oro, perfettamente curata e levigata in tutto il suo labirinto di angoli e cavità. Quanto aveva lavorato il Tempo per fare tutto ciò? e se era proprio così, che quel regalo per il nonno lo aveva lasciato il mare mentre lei dormiva esaudendo il suo desiderio, allora forse il misterioso Signor Tempo a volte faceva dei doni segreti alle persone! VI Festa di compleanno del nonno Giunta a casa Anna sistemò i fiori in un vaso e la conchiglia in una scatola che legò con una ciocca dorata. La casa profumava dei dolci e delle cose buone preparate dalla mamma e intanto cominciavano ad arrivare amici del nonno, vicini di casa, amiche e amici di Anna, tutti pronti e desiderosi di festeggiare il compleanno di nonno Guido. “È meraviglioso questo regalo!” – disse non appena aprì il pacchetto che Anna gli porse tutta emozionata –. Il nonno era commosso e sfiorò delicatamente con la mano quella conchiglia che sembrava d’oro. “Senti la musica, nonno?” –disse Anna appoggiando la conchiglia al suo orecchio –. – 84 –


“Un tempo ballavo con tua nonna che si muoveva così bene! Sentiva la musica ovunque, come te bambina... quella del mare, degli uccelli al mattino presto, della pioggia sul tetto, del vento durante il temporale...” Anna si strinse forte al nonno e la mamma li guardò: erano così belli, la sua bambina e quel dolce, forte vecchio dal volto segnato, la schiena curva e gli occhi ancora attenti, e buoni. Anna aveva lo stesso sorriso del suo papà, caldo e generoso come una giornata d’agosto ed il nonno era con loro, anche se a volte, come in quel momento, sembrava portato lontano, dai ricordi, dalla nostalgia, dal Tempo. Le venne d’istinto il desiderio di toccare la sua mano e di dirgli senza parlare: non te ne andare, stai con noi, non fuggire via. In quel momento il nonno le porse all’orecchio la conchiglia e le disse: “Senti la musica? Qui ci sono tutti i segreti del mare, che l’hanno cullata per chissà quanto tempo prima di arrivare a noi...” “È proprio così, sai nonno” – disse Anna tutta orgogliosa – “questo è un regalo del mare. Io ho espresso un desiderio, ho chiuso gli occhi e poi l’ho vista!” Dopo che tutti gli amici se ne furono andati, grati e sorridenti per la bella giornata di festa, Anna, la mamma e nonno Guido si sedettero vicini vicini sui gradini dietro la casa, a guardare il mare. Spuntò la luce del faro e ad Anna sembrò che quel punto luminoso, che andava e veniva, le facesse l’occhiolino, complice affettuoso del loro segreto. “Ti manca tanto la nonna, vero? – disse Anna guardando il nonno che ora le appariva un po’ stanco e silenzioso –. “Mi manca, certo, ma sai tesoro, il Tempo piano piano guarisce tante ferite, anche quelle del cuore. E lei ora è nel mio cuore e mi accompagna sempre, ogni giorno quando apro gli occhi al mattino e quando li chiudo la sera. E, un giorno, quando verrà il mio Tempo, mi porterà da lei, e dal tuo papà, e ci abbracceremo felici di esserci ritrovati, e avremo tante cose ancora da raccontarci e ancora tanto tantissimo amore da offrirci, ancora di più di quello che ci siamo dati quando eravamo insieme in questa casa.”

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“Il Tempo ha guarito anche il tuo cuore, mamma? Il Tempo l’ha messo al sicuro nel tuo cuore come ha fatto con la nonna?” “Sì tesoro, il nonno ha ragione. Quando meno ce l’aspettiamo, un giorno, all’improvviso, scopriamo che il nostro cuore si è fatto più grande, per fare posto al dolore di aver perso quelle persone che abbiamo amato e che non sono più con noi. Il Tempo, e l’Amore, quando stanno insieme, fanno grandi cose senza che noi ce ne rendiamo conto.” Quando venne il momento di andare a dormire, Anna chiese alla mamma di non chiudere le imposte, perché da lì, dal suo letto, poteva intravedere la luce del faro. “Va bene cara” – le disse sfiorandole la fronte con un bacio – “ti fa compagnia vero? Anche a me piace guardarlo sai. È come se la sua luce ci ricordasse, anche di notte, che non siamo soli, e dov’è la nostra casa e che, se per qualche motivo temiamo di averla persa, lui ci aiuterà a ritrovarla.” “Posso entrare? “– chiese il nonno bussando piano alla porta – “volevo darti la buona notte, fiorellino mio.” Si avvicinò al suo letto, tenendo in una mano la conchiglia dorata e melodiosa. “Tienila vicino a te, questa notte. La appoggio sul comodino perché sono sicuro che deve ancora svelarti tanti suoi segreti.” VII Anna in sogno parla al Signor Tempo Anna socchiuse gli occhi e si addormentò così, sorridendo del suo sorriso caldo come una giornata d’estate. Quella notte sognò la casa del Tempo, circondata dal mare e avvolta da una luce morbida e soffusa. C’erano angoli, cavità e percorsi sinuosi come quelli della conchiglia dorata e melodiosa che aveva regalato al nonno e una musica dolce e conosciuta si spandeva nell’aria che profumava di mare e di sole. Anna cominciò a cantare, accompagnata dalla musica e poi sentì

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che non era sola, lì, in quella casa circondata dal rumore delle onde. “Sono Anna – disse – “sei tu vero il padrone di questa casa? Sei tu il Signor Tempo? Io vorrei essere tua amica.” E il Tempo rispose. Anna sentì la sua voce che le diceva quanto era stata coraggiosa ad attraversare il mare per andarlo a cercare nella sua casa. “Poche persone si mettono in viaggio per cercarmi, e capire chi sono.” “Io so chi sei – disse Anna trionfante – “sei amico di nonno Guido. Io gli voglio molto bene, sai...” “Questo lo so, e so anche che desideravi conoscermi. Sei una bambina bella e forte e diventerai una donna saggia. Che cosa sai di me?” “So che nonno Guido di te non ha paura perché dice che gli hai lasciato i ricordi più belli e che quelli non può portali via nessuno, nemmeno tu che sei così potente. Ma so anche che tu sei triste se con te non c’è l’Amore, me l’ha detto la mamma.” “Che altro dice la tua mamma di me?” “Dice che un giorno sei passato e le hai portato via il mio papà. Porti via le persone perché ti senti solo qui, in mezzo al mare?” “E tu, Anna, cosa pensi di me? Pensi che sono cattivo e faccio soffrire le persone?” “Io penso che tu le persone non le porti via del tutto, perché non spariscono mai dalla nostra vita. Penso che, dopo averle portate via, le riporti da un’altra parte.” “E dove sarebbe questa altra parte? “ “Nel nostro cuore. Lo dice il nonno e lo dice anche la mamma. Ed è il nostro cuore la loro vera casa.” “Sei molto saggia Anna, e anch’io voglio essere tuo amico. Spesso le persone non mi vogliono bene e mi tengono prigioniero della loro paura. Ma non mi conoscono e non mi cercano, come hai fatto tu. E sai perché sei così saggia e coraggiosa? Perché nonno Guido ti ha insegnato a non aver paura di me.”

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“Volevo anche ringraziarti.” “Di cosa, Anna?” “Del regalo che mi hai portato attraverso il mare questa mattina. La conchiglia più grande e più bella che abbia mai visto. Anche il nonno è stato felice di questo regalo. A me piace il mare: di giorno mi fa trovare le conchiglie sulla riva, e di notte c’è il faro che mi parla e mi fa sentire al sicuro, a casa.” “Sai molte cose di me, Anna. E io ora voglio dirti un’ultima cosa.” “È un segreto? “ “Sì... il segreto è l’Amore. Senza l’Amore io passo triste e tutto diventa grigio come una cupa giornata d’inverno. Ma quando l’Amore mi accompagna, ogni cosa splende e si rivela per quella che è. Quando l’Amore mi accompagna, le persone possono cambiare, crescere, capire, vivere, amare, perché i loro cuori cambiano. E arrivano ai segreti, a toccare i segreti nascosti in loro, in chi gli sta vicino, negli altri. Ma perché questo accada dobbiamo agire io, il Tempo, e l’Amore. Insieme.” VIII Anna è pronta per un nuovo viaggio Una mattina Anna si svegliò e, come sempre faceva, aprì la finestra per guardare il mare, e il cielo. Era una limpida giornata d’inizio estate e si sentì felice al pensiero che presto, dopo quella estate, avrebbe iniziato una nuova scuola e sicuramente una nuova vita, con tante cose da imparare e compagni nuovi da incontrare, nuovi luoghi da conoscere. Scese in cucina e, quando la mamma la vide, la salutò con un sorriso. “Come sei bella, figlia mia! E come sei cresciuta! In breve tempo, quasi non mi sono accorta quanto sei diventata grande. E sono così orgogliosa di te! anche il tuo papà lo sarebbe, anzi, sono certa che ti vede e gioisce come me al vederti crescere così bella e radiosa!”

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Anna si guardò attorno: sulla credenza c’era una foto del nonno con lei bambina e la conchiglia dorata fra le mani. Sorridevano felici e la mamma, dietro le loro spalle, li abbracciava e li guardava con occhi pieni d’amore. Nonno Guido non era più con loro e Anna aveva saputo cosa significava e quanto faceva soffrire perdere una persona amata. E in un certo senso aveva fatto anche esperienza di ciò che aveva detto la mamma, quando lei era bambina: “Il cuore, con il Tempo e l’Amore, ad un certo punto, senza che ce ne rendiamo conto, si fa più grande per accogliere il dolore di aver perduto chi abbiamo amato.” Guardò la mamma: era sempre molto bella e, pur avendo sofferto molto per la mancanza del nonno, ora le appariva serena e, accanto a lei, un uomo dolce e silenzioso a volte la teneva per mano e la guardava negli occhi. In quel momento Anna ripensò all’ultimo segreto che, in una notte lontana, le era stato svelato in sogno dal Tempo. E il cuore le si allargò di felicità e gratitudine quando dentro di sé sentì, per un attimo, che lei, ora, era pronta e forse vicina a fare un altro viaggio, per conoscere l’Amore, il compagno del Tempo, e non averne paura. Per conoscere i luoghi dove abitava, desiderosa di offrirgli un posto, in quel suo cuore che sentiva così grande e vivo. E sorrise, del suo sorriso caldo e luminoso come una giornata d’estate.

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I partecipanti

Balasso Valeria Bianchi Liva Anna Angela Bigotto Olivo Biju Jessi Bortoletto Clementina Bresolin Maria Cattaruzza Roberto Ciriello Stefania Cole Luxardo Suzanna Costacurta Mario Cotet Nicoletta Cozzarini Dina De Mori Donatella F.Ave Maturano Verzegnassi C Ferltrin Garbuio Anita Ferro Sara Fileni Antonietta Fiscon Luciana G.R. Galeazzo Camilla Gardin Franco Gasparon Giancarlo Gavazzi Laura Gerosa vana Giacchini Sofia Simoni Girotti Armando Gobbo Franca Gorghetto Milena Gorghetto Pulcra Maria Grandina Ines

Hanter Valentina Lo Vullo Maria Pia Longo Gianna Lovato Giuseppe Lunardelli Maria Marcon Loretta Masato Annalisa Mazzon Rita Migliavacca Giovanni Milanese Luisa Nardin Donatella Oetiker Heidi Ortu Peschiera Eles Paloschi Angelo Parpinel Luciana Parpinello Lodovica Pedrini Maria Cristina Pedrini Monica Penello Gabriella Peruzzo Chemello Fedora Piutti Igino Polizzari Onorata Prior Emanuela Prosperi Anita Ratti Paola Rigoni Francesca Rossato Bertilla Rossato Franca Sforza Giuseppina Sforza Giusi

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Simonetto Federica Sinigaglia Clara Trozzo Maria Beatrice Vanni Maria Teresa

Viel Renato Zago Noemi Zanetti Giannina Zorzetto Franca

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Premio Paul Harris Fellow Distretto Rotary 2060

Il distretto 2060 si estende sull’area delle Tre Venezie, un territorio di elevato, recente sviluppo economico grazie ad una “imprenditorialità di popolo” che a partire dal dopoguerra ha trasformato in quantità e in qualità le locali condizioni di vita. L’impegno al lavoro, l’approccio solidale verso il prossimo, la volontà di progredire ancorata ai valori del merito, della professionalità, dell’intraprendenza, del ‘bene comune’, hanno rappresentato i riferimenti portanti delle generazioni uscite dal conflitto mondiale con l’obiettivo di creare e diffondere benessere. Quelle generazioni costituiscono oggi un’ampia fascia di popolazione che porta il Nordest a essere tra le zone d’Italia a più elevata presenza di over 65. Di fronte ai profondi, incisivi, continui cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni che ci fanno vivere in una società frammentata e disarticolata, priva di pulsioni unitarie, con crescenti separatezze tra generazioni e tra culture, con costanti lacerazioni di tradizioni e di comportamenti, senza il retroterra della memoria, la longevità diventa risorsa quando trova contesti che le consentono di produrre quei beni relazionali necessari ad una società per essere tale, oggi invece mancanti e disattesi. Infatti, solo attraverso relazioni – ispirate da una maturata direzione di senso e dal rispetto verso la vita, motivate da logiche non di tornaconto egoistico ma di partecipazione aperta e disinteressata, dettate da istanze di fiducia verso gli altri – si possono riscoprire i significati veri di comunità e di cittadinanza, realizzando così coesione sociale. Questa tipologia di relazioni è oggettivamente incardinata nelle persone longeve che, completato il ciclo lavorativo, credono in un ruolo alto della terza età, ben diverso e lontano sia dalle illusioni di vacue rincorse giovanilistiche che dalle tristi cesure del – 92 –


ripiegamento in se stessi. Produrre relazioni nella società, grazie al tempo disponibile e all’accumulazione esperienziale, è la capability strategica della longevità. Una funzione positiva di progresso e di futuro, coerente con l’identità rotariana del servire, di rottura con le prassi assistenzialistiche e geriatriche alle quali normalmente si associa la dinamica dell’anzianità. Una funzione cui la Fondazione Opera Immacolata Concezione ha dato corpo ed anima nel Civitas Vitae di Padova e che il Distretto 2060 del Rotary International intende premiare per la straordinarietà innovativa e per l’eccellenza realizzativa che onorano il territorio distrettuale. Paul Harris Fellow è l’onorificenza rotariana che la Fondazione del Rotary International attribuisce a persone o enti in segno di apprezzamento e riconoscenza per il tangibile e significativo apporto nel promuovere una migliore comprensione reciproca e amichevoli relazioni tra popoli di tutto il mondo. Pertanto con il conferimento del premio all’Opera Immacolata Concezione la Rotary Foundation ha voluto riconoscere l’importanza e la validità sociale dell’attività svolta dall’Ente in favore dell’umanità sofferente.

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I promotori

Tra le grandi onlus europee, la Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus da oltre 50 anni fornisce servizi integrati per persone longeve e diversamente abili, grazie a nove residenze nelle province di Padova, Venezia, Treviso e Vicenza e un Centro Polifunzionale (il Civitas Vitae di Padova). Perno di una comunità multietnica di oltre 5.500 persone (2.200 ospiti, 1.500 dipendenti di 24 nazionalità diverse nonché le relative famiglie), promuove un approccio alla terza età basato sul mantenimento delle competenze e abilità seppur residue, valorizzando la capacità del longevo di costruire beni relazionali anche intergenerazionali. www.oiconlus.it La Società Dante Alighieri, fondata a Roma nel 1889 con il compito di salvaguardare e diffondere la lingua e la cultura italiana nel mondo, promuove “un’opera altamente ed essenzialmente civile e pacifica, a cui ogni italiano, qualunque sia la sua fede religiosa o le opinioni politiche, deve sentire il bisogno e il dovere di prendere parte”. Aderire ad uno dei 500 Comitati della Dante diffusi in tutto il mondo è per chiunque motivo di fierezza e di considerazione: significa esprimere, rappresentare e sostenere princìpi e valori universali, operando secondo ideali di solidarietà, di progresso e umanità da tutti condivisi. www.ladante.it GRAFICA VENETA Spa di Trebaseleghe in provincia di Padova è uno dei più vasti e attrezzati luoghi europei per il confezionamento di milioni di libri. In quasi dieci anni d’attività ha raggiunto una posizione di rilievo nella produzione libraria internazionale collaborando con i più – 94 –


importanti editori, augurandosi che in un futuro prossimo ogni persona abbia vicino almeno un libro. Quale operatore di mercato, investita di una responsabilità sociale, l’azienda si impegna con la propria attività a divulgare la cultura in tutto il mondo attraverso la stampa di volumi nel convinto rispetto per l’ambiente. Data la particolarità della materia prima utilizzata, si prefigge inoltre di ridurre l’incidenza dei costi sociali, migliorando l’efficienza dei processi produttivi, utilizzando materie prime provenienti da foreste razionalmente gestite. Tutto ciò in un ambito che privilegia la qualità, come dimostrano le certificazioni per gli standard qualitativi e di tutela ambientale come il marchio Forest Stewardship Council, meglio conosciuto con l’acronimo FSC rilasciato da un’ organizzazione internazionale non governativa, indipendente e senza fini di lucro. www.graficaveneta.com La casa editrice CLEUP (Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova) è presente da oltre 40 anni nel panorama editoriale ed è specializzata nella stampa di testi universitari e professionali, contando all’interno del catalogo un numero significativo di pubblicazioni volte alla conoscenza e valorizzazione del territorio e della cultura. Accanto all’Università di Padova, principale partner istituzionale, CLEUP annovera collaborazioni con numerosi altri atenei italiani e con importanti centri di ricerca, fondazioni e associazioni. www.cleup.it

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PA FI G A NI INA D CU TO IG R D RA A I S TA FI M CA PA V RE EN ET A _______________________________________________________________ Stampato nel mese di settembre 2009 GRAFICA VENETA

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