Fondazione Opera Immacolata Concezione Onlus
Fabiana Pesci
Giovanni Viafora
Quando la vita continua storie di persone normali con pagine scelte da Ishtar 2 di Antonia Arslan
Questo libro è stampato col sole
Azienda carbon-free
Da distribuire gratuitamente in abbinamento al «Corriere della Sera» e a «il mattino di Padova».
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Quando la Vita Continua
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Fondazione Fondazione SOCIETÀ SOCIETÀ Opera Immacolata Opera Immacolata Concezione Concezione Onlus Onlus DANTE ALIGHIERI DANTE ALIGHIERI
Fabiana Pesci
Giovanni Viafora
Quando la Vita Continua storie di persone normali con pagine scelte da Ishtar 2 di Antonia Arslan
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Prima edizione: novembre 2010 ISBN 978 88 6129 605 3
© Copyright 2010 by cleup sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” Via G. Belzoni, 118/3 – Padova (Tel. 049 8753496) www.cleup.it
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. Grafica di copertina di Massimo Maltauro.
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Indice
Premessa
È iniziato così il nostro percorso… di Fabiana Pesci e Giovanni Viafori Presentazioni
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La straordinarietà dell’ordinarietà di Angelo Ferro Presidente Fondazione OIC onlus
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Vite silenziose piene di parole di Alessandro Russello direttore del «Corriere del Veneto»
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Vita di Omar Monestier direttore de «il mattino di Padova»
Ishtar 2 di Antonia Arslan
Pagine selezionate dall’Autrice
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Il contesto
Comprendere lo stato vegetativo di Paolo Fusaro U.O.S. Stati Vegetativi - ASL 16 Padova
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Lo stato vegetativo di Giampiero Giron Università degli Studi di Padova
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Gli stati di confine tra la vita e la morte di Ambrogio Fassina Università degli Studi di Padova
Il contesto familiare: impatto sulle persone e sulla società di Carlo Nazor Psicologo e responsabile del progetto di ricerca Le vite
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Alicia, dal perù con amore di Fabiana Pesci
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Quell’osso duro di bechir di Fabiana Pesci
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Beniamina, la leonessa di Fabiana Pesci
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Un amore possibile di giovanni viafora
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Gli occhi di Francesca di giovanni viafora
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Un viaggio speciale di giovanni viafora
Il silenzio delle parole di Giovanni Cinefra Associazione AgorĂ Laboratorio Terza EtĂ Protagonista
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Premessa
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È iniziato così il nostro percorso…
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di Fabiana Pesci e Giovanni Viafora
Il 4 dicembre 2009 – circa un anno fa – ci siamo trovati all’OIC alla conferenza stampa dedicata alla presentazione di una iniziativa per la qualità della vita delle persone in stato vegetativo. L’invito per e-mail aveva un sapore “intrigante”. Questo il testo ricevuto: IL MASSAGGIO PLANTARE DELL’ANTICA TRADIZIONE BONTOC COME SUPPORTO PER LA QUALITÀ DI VITA DELLE PERSONE IN STATO VEGETATIVO PARTE ALL’OIC DI PADOVA IL PROGETTO SPERIMENTALE/ESPERIENZIALE Padova – venerdì 4 dicembre 2009
Inizia la prossima settimana presso il Reparto Pazienti in Stato Vegetativo situato nel Centro Civitas Vitae di Padova (reparto nato come partnership tra l’USL16 e la Fondazione OIC onlus,) un progetto sperimentale/esperienziale che introduce le tecniche del massaggio plantare dell’antica tradizione Bontoc come supporto per la qualità di vita delle persone in stato vegetativo o di demenza senile. La tecnica “bontoc” nasce all’inizio del XII secolo nelle Filippine come metodologia per rilassare/ritemprare/
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rasserenare le persone. Questa metodologia è alla base di molte successive pratiche di medicina non convenzionale, quale ad esempio la reflessologia plantare. Il progetto, che fa parte della collaborazione tra la Fondazione OIC Onlus e la St. Louis University di Baguio City, è stato reso possibile dalla fattiva collaborazione dell’ULSS16 (interessata a sperimentare nuove metodiche palliative), in una logica di “experience based medicine” e dal tenace supporto della sen. Casellati nel superamento delle viscosità burocratico/diplomatiche che hanno rischiato di minare questo innovativo progetto. “Non pensiamo che questa tecnica possa far riprendere i pazienti dal grave stato di disabilità in cui si trovano ma riteniamo possa essere un modo per migliorare la qualità di vita del sistema simbiotico paziente/familiari. Senza escludere magari l’attivazione di un nuovo canale di comunicazione con queste persone – dichiara Angelo Ferro, presidente della Fondazione OIC Onlus – Non abbiamo la pretesa di fare sperimentazione scientifica ma di essere, insieme all’USL16, uno stimolo per il mondo scientifico, ricollegandoci idealmente anche alle attività del prof. Stephen Laureys in Belgio, un’esperienza della quale si è recentissimamente parlato su tutti i giornali”. Il progetto avrà la durata di circa 8 mesi e sarà portato avanti dalla terapista Katherene De Vera Bengson, giunta in Italia dalle Filippine specificatamente per questa iniziativa. Una conferenza stampa è convocata per le ore 12.00 di venerdì 4 dicembre presso la Residenza Paolo VI del Centro Civitas Vitae (via Gemona 10, Padova). Saranno presenti – oltre ad Angelo Ferro (presidente Fondazione OIC onlus) – Elisabetta Casellati (sottosegretario alla Giustizia), Fortunato Rao (direttore generale ULSS16), Eugenio Castegnaro (direttore U.O Lungodegenza ULSS 16), Paolo Fusaro (responsabile Reparto Pazienti in Stato Vegetativo), insieme ai Preposti Operativi OIC.
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All’invito era accompagnata questa paginetta esplicativa della tradizione Bontoc nel nord delle filippine. Massaggio Plantare – tradizione Bontoc Provincia della Montagna – Filippine
È un tecnica tradizionale di “massaggio ai piedi” che proviene dalle abitudini di inizio XII secolo delle popolazioni filippine abitanti nelle zone della Cordigliera, un territorio montagnoso nella fascia settentrionale dell’isola con cime di oltre 4.000 metri e con vallate molto strette. Le comunicazioni tra gli indigeni avvenivano con lunghe camminate necessarie per poter coltivare i pochi appezzamenti in piano* (sono famosi in tutto il mondo i terrazzamenti per la coltivazione di riso di questa zona in cui l’acqua piovana, proveniente dalle sommità, riempiva questi appezzamenti e poi l’eccesso si trasferiva in quello sottostante con una sequenza di decine e decine di piccole risaie in verticale). Il segno di accoglienza era concentrato nel massaggio ai piedi: far sedere l’ospite/viandante e massaggiargli i piedi per “rilassarlo/ritemprarlo/rasserenarlo” e quindi idoneo a riprendere le fatiche del viaggio. L’approccio molto dolce del movimento delle mani e l’attenzione a particolari punti di sensibilità costituiscono ingredienti caratterizzanti questo tipo di riflessologia plantare. Il massaggio viene eseguito nell’“ato”, istituzione sociale, politica e religiosa che sta alla base dell’“ili” (villaggio). Esso è la base di controllo della società, dove i membri imparano gli usi e costumi, le leggi, le proibizioni, la storia e le tradizioni popolari. “Ato” è inoltre il luogo dove vie-
* Questi terrazzamenti – chiamati Banaue Rice Terraces – sono stati riconosciuti dall’UNESCO – da pochi anni – come Patrimonio dell’umanità.
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ne insegnato ai giovani Bontoc il massaggio ai piedi, nella loro maniera. ***
Siamo giunti incuriositi all’incontro, con lo spirito dei giornalisti che vogliono vedere di persona i fatti prima di raccontarli. E ci siamo trovati immersi in una atmosfera aperta, cordiale, gioiosa, pronta ad accogliere con interesse questa tipologia di wellness innovativa e mai praticata. Nell’aria nessuna malinconia, sofferenza o inquietudine. Il clima non rifletteva quell’approccio sul fine vita che fa leva su concetti quali l’inutilità di un’etica della cura o su posizioni che riguardano il prevalere di opzioni sul come morire. I pazienti si distendevano, sembravano esprimere percezione di questi massaggi rilassanti fatti da due bacchettini sulle mani e sui piedi, mossi con velocità, tecnica, energia e dolcezza da Katherene. Alla fine dunque siamo usciti con la voglia di trasferire queste impressioni nei due articoli che il giorno dopo sarebbero apparsi su «il mattino di Padova» e su «Corriere del Veneto». Ma ci rimaneva la curiosità, l’interesse professionale di entrare in questo mondo rappresentato all’esterno in modo tanto differente da come era vissuto. Nacque così, parlando con i nostri direttori, l’idea di raccontare alcune storie, alcune iniziative, alcune esperienze anche come coerenza deontologica del nostro essere informatori di ciò che accade senza lasciarci influenzare da ideologie o scelte di campo, guardando esclusivamente l’uomo. Perché i quotidiani narrano ciò che fa l’uomo, gli eventi che accadono nella famiglia umana.
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ÂŤil mattino di PadovaÂť, sabato 5 novembre 2009, pag. 21.
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ÂŤCorriere del VenetoÂť, sabato 5 dicembre 2009, pag. 10.
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Presentazioni
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La straordinarietà dell’ordinarietà
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di Angelo Ferro*
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molte le cose che rendono questo piccolo libro straordinario. Innanzitutto è il primo caso di collaborazione tra due quotidiani locali che combattono tra loro ogni giorno per l’attenzione del lettore ma che, per la prima volta, si trovano uniti nell’affrontare un tema tanto delicato quanto profondo e coinvolgente quale quello della tutela della vita delle persone in stato vegetativo. Va reso merito ai due direttori Omar Monestrier e Alessandro Russello (senza dimenticarne il predecessore Ugo Savoia) di aver deciso di fare propria una battaglia che per numeri statistici è così di nicchia da non muovere gli interessi di case farmaceutiche e di medici ma “solo” di interrogare profondamente la coscienza delle persone quando drammatici episodi di cronaca vengono improvvisamente portati alla ribalta e, spesso, spietatamente strumentalizzati per questioni politiche se non di audience. La seconda straordinarietà è che siamo riusciti (od almeno ci speriamo...) a creare un libretto che, pur contenendo tante storie di dolore, riesce a dare uno spiraglio di vita e di speranza. Al di là delle individuali fedi religiose, le diverse voci presenti in quest’opera offrono un caleidoscopio di spunti che aiutano a capire come le Persone siano tali fino al momento del loro ultimo respiro, a pre-
* Presidente Fondazione OIC onlus.
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scindere dalla loro capacità di relazione ed interazione, drammaticamente bloccata e congelata dal particolarissimo stato di salute nel quale si trovano. Ma soprattutto abbiamo cercato di raccontare come la vita comunque continui, secondo modalità e relazioni sorprendenti, diverse ma non necessariamente peggiori da quelle che magari vorremmo o ci saremmo aspettati. La terza ma non ultima straordinarietà risiede nell’altissima qualità dei contributi qui raccolti, dove si affiancano l’eccellenza delle discipline medico-scientifiche (ma sempre scandite con una grandissima umanità di relazione) con la capacità di pensiero ed introspezione che solo i grandi scrittori riescono a tradurre in parole semplici e profonde, facendo sintesi della drammatica esperienza personale per tramutarla in occasione di riflessione ed approfondimento. Tutte le persone che, nei diversi ruoli, hanno collaborato a questo libretto, che è frutto della fatica quotidiana di due valenti giornalisti quali Fabiana Pesci e Giovanni Viafora, della preziosa collaborazione editoriale di Cleup e del suo Presidente Ambrogio Fassina, dell’instancabile supporto industriale di Fabio Franceschi e della sua Grafica Veneta, sono fiduciose che il loro lavoro possa essere accolto e letto senza pregiudizio, dedicandogli anche solo un po’ di tempo ogni tanto, nella speranza di riuscire a lasciare un positivo segno di serenità, utile viatico anche in occasione delle ormai prossime festività natalizie.
Vita
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di Omar Monestier*
Vita. È quel che c’è in questo libricino, una testimonian-
za di vita che sfida la morte, che non cede allo sconforto e alla rassegnazione. Qui troverete le esperienze di persone normali che si sono trovate catapultate, senza volerlo, dentro una dimensione straordinaria. Non trovo altra espressione che questa. Le storie raccolte, poche fra migliaia, spezzano con la forza del loro carico emotivo il lungo rituale dei luoghi comuni. Il dramma umano di chi vive in bilico fra la vita così come noi la immaginiamo e la morte come pensiano che sia si diluisce, si stempera, diventa altro. È questo “altro” che abbiamo cercato di raccontare, rifuggendo dal pietismo e dai dibattiti sullo “staccare la spina”. Nella sua chiara e rivendicata appartenenza a un sentire religioso, l’Opera Immacolata Concezione mette a disposizione gli strumenti professionali e un contesto specializzato a chi ha bisogno e chiede di essere aiutato ma lascia ciascuno libero di decidere con quale sentimento affrontare il lungo percorso di affiancamento del proprio caro. Da laico, mi sento vicino all’Oic anche per questo. È bastato il racconto di una donna a convicermi che «il mattino di Padova» non poteva non essere dentro questa narrazione. L’ho incontrata per desiderio del professor Angelo Ferro, ancora quando questo libro non era che
* direttore de «il mattino di Padova».
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un’ipotesi. Lei, gli occhi raggianti, velati di tanto in tanto dalle lacrime, mi ha raccontato come ha accudito il marito, per anni, in una stanza dell’Oic. Minuti, ore, settimane e mesi tutti uguali in attesa di un movimento impercettibile che permettesse di intuire un guizzo vitale. E un uomo, il marito, sul quale riversare tutto quell’amore che prima dell’incidente che cambiò la vita sua e dei famigliari, non era mai venuto fuori con quell’intensità. C’era del dolore in quel racconto? Sì, c’era. Tuttavia non me ne rammento. Ricordo invece l’entusiasmo, la grinta. L’essersi scoperta fondamentale per l’altro, la voglia di Vita, appunto. Quegli occhi, che avrei voluto incontrare prima, hanno aperto anche i miei.
Vite silenziose piene di parole
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di Alessandro Russello*
Tra la legge di Dio e la legge degli uomini scorre la vita
piena di mistero. Mistero della nascita, mistero della fine. Per la religione nella dimensione della fede, per la scienza nella fede nella tecnica e nella possibilità – che non contraddice la stessa religione – di allungare i confini della vita dando orizzonte non certo alla presunzione di immortalità ma di accompagnamento dignitoso verso quella parola scandalosa che per paura o cultura rimuoviamo. Quando finisce una vita? Fino a quando «deve» rimanere appesa ad un filo che per quanto esile sembra non volersi, ostinatamente, spezzare? Se ci possiamo dividere sul fronte ideologico delle incertezze, di sicuro non sono un mistero le storie di vita che sul quel filo vivono la straordinarietà di una sfida. La sfida che tiene insieme chi dorme il sonno della coscienza ma non della presenza e chi queste vite le veglia con i piccoli-grandi gesti di chi parla e ascolta cercando un battito di ciglia, un sorriso, le parole che non possono uscire. Si chiama stato vegetativo ed è spesso figlio dei traumi e degli effetti della civiltà che in auto corre veloce e per gli stili di vita dà un colpo al cuore e uno al cervello. Incidenti stradali, ictus, consumo di neuroni di vite sfortunate o artificiali. Spesso casuali, a volte perseguite con lo sguardo nell’abisso. Storie traumatiche e storie fisiolo-
* direttore del «Corriere del Veneto».
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giche che aprono la strada, nella loro «invisibilità» che segue il clamore della cronaca, al grande fardello della loro sostenibilità. Che spaventa ma che spesso diventa Amore e fa ricominciare, da dove si pensano finite, nuove vite. Nel volume (e nel progetto) la cui pubblicazione il «Corriere del Veneto» si onora di condividere con l’Opera Immacolata Concezione – la casa della Vita e dei possibili orizzonti che dà servizio, umanità e scienza ai protagonisti di queste sfide – non c’è giudizio e non c’è ideologia. C’è la forza del racconto di coloro che con la stessa ostinazione di chi continua a vivere continuano a dare cura – oltre gli strumenti della medicina – attraverso la terapia della vicinanza, del suono della voce, della taumaturgica sensazione di stabilire comunque e sempre un contatto, una connessione che va oltre il visibile. Storie di mariti e mogli che si amano nel buio della coscienza e che lì pronunciano le parole con i codici del loro nuovo amore; storie di volontari che dopo aver seguito fino alla fine i loro cari non abbandonano la ricerca di presenza-assenza e si dedicano ad altri malati tenendo i diari dei sorrisi, dei sospiri o del racconto degli occhi che si stringono per rispondere senza poter dire. Storie di figli e sorelle e fratelli che cercano negli impercettibili movimenti dei loro cari sensazioni di risveglio come cercatori di respiro. «Loro hanno bisogno di sentire che ci sei, sentono tutto», ha raccontato una di queste volontarie. Scrivendo una diagnosi che ben prima e al di là della scienza appartiene alla forza umana di chi crede che la vita esiste oltre la coscienza e il suo filo tesse ogni giorno un nuovo racconto.
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Ishtar 2
di Antonia Arslan
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Pagine selezionate dall’Autrice
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Nel letto, è tutto un fruscio di campanellini. Ogni sobbal-
zo di pressione, ogni sospiro un po’ più forte, ogni tentativo di movimento rimbalza sul quadro di luci e lucette che sta alle tue spalle, ma tu non lo puoi vedere. Un grappolo di tubicini e fili è attaccato ben saldo all’incavo del collo, sul lato destro, tenuto fermo da strisce di cerotto trasparente, e un altro all’interno del polso sinistro, dove le vene affiorano blu o celesti, secondo la pressione. Niente di tutto questo puoi vedere coi tuoi occhi, che sono occhi stanchi del mondo, adombrati, fantastici, e vedono invece cose, chissà, che furono in quel posto in anni lontani, oppure che proprio non ci sono mai state. Ambigue parole di conforto scivolano sulla tua essenza profonda, rinchiusa giù in una valle antica, a molta misteriosa distanza. Come venendo a galla, in un nuoto senza sforzo, da fresche grotte marine, ogni tanto affiori e sorridi a te stessa, molto contenta di sentire te stessa, perché non sai quanto sei in pericolo. Il senso della paura ti viene di notte, e risale dalle tenebre dense, colme di un male primordiale, che si sprigionano dal rettangolo di finestra, buio e senza vetro, che dà sulla stanza vicina, dal quale di giorno ti pare che sempre occhieggi qualcuno, fissandoti, mentre sei stesa immobile sul letto; ma quando comincia la notte, quella finestra
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diventa un lago di viscide presenze, di immondi sussurri che ti chiamano, ti chiamano, e vorrebbero la tua disperazione. Una forza immensa e malvagia si sprigiona dalla buia apertura, e mi chiama, mi chiama. Francesca non c’è, con la sua lampada serena; non c’è Raffaella, né Susanna, né le altre. Sono sola di fronte al richiamo furioso e potente del male e del nulla, e so che nessuno verrà, che non posso chiamare nessuno in soccorso. I brandelli delle storie che ascolto di giorno, con avidità, per bisogno di sentire che ancora là fuori si vive, ci si muove, si discute e si ama, fluttuano e vengono inghiottiti dal vuoto spalancato di quel rettangolo oscuro. «Vieni da noi» ripete il sussurro malefico, e sento che si fa più vicino. «Non hai speranza, né forza, non puoi resistere.» Ma sulla finestra ecco si intrecciano robuste grate, e negli angoli stanno, con la spada sguainata, angeli guerrieri; io però li intravedo appena, non sono sicura che sapranno difendermi, e mi aggrappo al rumore di rotaie che ora sento nella testa, un frastuono assordante che mi impedisce di continuare ad ascoltare. È un treno che cor re su se stesso, circolarmente, ossessivamente, sta dentro la mia testa, sbatte sulle pareti del cranio, sferraglia violento contro i bordi rialzati del letto, lo scuote e mi scuote: ma anche mi difende dall’assalto esterno, rimbomba nelle orecchie accaldate, sprofondate nel cuscino bagnato, e mi sigilla. Ma poi anche le rotaie impazziscono, e riprendono il canto perverso dei sussurri. E io finalmente riesco a chiamare, e l’angelo di guardia quella notte viene, robusta e allegra, saluta con la mano e mi dice: «Calmati, cara. Non vuoi che anche noi dormiamo un pochino? Di là c’è il signor Danilo che è molto agitato». Io non posso spiegarle le voci e i sussurri, e dall’altra stanza ecco arriva un trepestio e un rumore di stoviglie, stanno cambiando Danilo, gli stanno dando da bere.
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E allora questi famigliari rumori scacciano per un po’ voci, sussurri e rotaie: ma la notte è lunga, ritorneranno. La battaglia deve proseguire. Solo l’aurora dalle dita di rosa, col suo quieto diffondersi, cancella le minacce notturne. La febbre è calata, i campanelli hanno smesso di suonare, è una tranquilla mattina di aprile. Ma i soffici ammassi in agguato negli angoli della stanza hanno ricominciato a muoversi. *** 4
La prima cosa che percepii, riaffiorando, furono le mani
della mia bambina sui capelli: «Sono qui, mamma, sono qui con te», ripeteva, e le sue parole calmavano un’ansia che non sapevo di avere, mi tenevano a galla su quel mare infido. Aprii gli occhi senza fatica, ma lei stava alle mie spalle, e mi accorsi che non potevo parlare, che non riuscivo a farle capire che la sentivo. E poi non avevo forza nelle mani, non sapevo bene dov’erano: in realtà, sapevo solo con certezza di essere in un ospedale di New York, e mi stupivo che lei fosse lì con me. Poi se ne andò, e ritornò dopo un tempo che mi parve infinito. Io avevo sete, tanta sete. Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, e sentivo la gola ostruita da qualcosa di viscido, ma pesante come un sasso. “Ho sete, voglio acqua” cercavo di dire, e mi raschiavo la gola per parlare, ma non ce la facevo a metter fuori la voce. Tentavo e ritentavo continuamente, e mi pareva che la voce uscisse, ma poi non la sentivo, neanche un soffio, neanche raschiante. Lei mi carezzava i capelli, e quel gesto era così strano da parte sua, così inaspettato da parte di una persona come mia figlia Cecilia, sempre riservata e poco propensa
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alle tenerezze, che io mi commossi, e mi veniva voglia di piangere. Poi di nuovo mi chiesi: “Ma come fa ad arrivare ogni giorno da Venezia a New York? Di solito ci vogliono almeno nove ore di viaggio”, e tentai di dirglielo, ma la voce non usciva. Tornò la sete, invece; e alla fine mi addormentai, ma non sapevo di dormire. Solo, un’onda andava e veniva nella mia testa, portando immagini, portando fluidi pensieri, incubi improvvisi. Arrivò l’infermiera Roberta, vispa, con la freschezza del mondo esterno, l’uniforme pulita e un sorriso ancora pieno di sonno. Cominciò a controllare il monitor dietro le mie spalle, le luci e i tubi, svelta, amore vole. Intorno al collo il collettino del grembiule faceva graziose pieghe. Ma poi se ne andò, e venne di nuovo la sera. Non c’era nessuno intorno, il buio si faceva di momento in momento più intenso, e la sete ancora più acuta. Riemergevo da un sonno opprimente, ma non potevo chiamare, solo aspettare, e un’acuta nostalgia mi prese, una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete. Fu in quel momento che tornarono in due, Roberta e un giovane, poco più di un ragazzo. Ogni tanto vengono in coppia, quando ti devono sollevare e cambiare. Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto. Poi Roberta andò ad aggiornare il diario. Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi, ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, che avevo bisogno di acqua. Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola. Stavano per andarsene, e l’infermiera uscì per prima. Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise. Poi disse, con semplicità: «Cosa stai pensando, cara, forse hai bisogno di un’acquata?».
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E, come fra sé, si rispose: «Certo che ne ha bisogno!», e uscì svelto, per ritornare dopo un momento con larghi teli bianchi e un catino d’acqua appena tiepida. Cominciò a bagnare i teli, e me li appoggiava sul corpo, dappertutto, con meticolosa attenzione, rimettendoli nell’acqua ogni tanto, tamponandomi con un angolo di tela la fronte e le labbra. Sentivo le gambe inerti e pesanti, come se fossero ricoperte di stoffa, e più tardi seppi che davvero lo erano, infilate in certe calze elastiche bianche che servono, mi dissero poi, a prevenire le trombosi. Ma allora non sapevo ancora niente della mia malattia. Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra, e perfino l’arsura in gola si attenuava, e il buio sembrava meno denso. Per mezz’ora, ci parlammo con gli occhi; ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa e diceva: «Ancora un po’, vero? Ti fa star meglio, si vede», e quando lo vennero a chiamare, rispose: «Non la posso ancora lasciare», e continuò a darmi acqua sul corpo.
Proprietà letteraria riservata © 2010 by Antonia Arslan. Published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara © 2010 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-17-04369-4 Prima edizione: novembre 2010
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Il contesto
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Comprendere lo stato vegetativo
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di Paolo Fusaro*
Sopra le nuvole c’è sempre il sole.
“Sopra
il camice di medico, bisogna saper indossare il vestito di uomo”: queste parole le ho sentite pronunciare all’Ordine dei Medici da un mio valente collega anziano; io ascoltavo incuriosito, il più giovane tra i consiglieri, cosciente di avere un enorme bagaglio scientifico dentro di me (come tutti i neolaureati freschi di studio), ma ancora incapace e improduttivo a dare fondo a queste conoscenze, così tenacemente sudate. Adesso, dopo più di venticinque anni, sono il responsabile medico di un reparto “speciale”, dove vivono le persone in stato vegetativo e che cosa è cambiato? Molto poco. Tutti si aspettano da noi medici di avere delle risposte e talvolta quasi delle sentenze; la moderna medicina ha raggiunto risultati incredibili, e questo è sotto gli occhi di tutti, ma ancora adesso... ci troviamo a discutere sui grandi temi della vita, delle scelte etiche in medicina e siamo ancora al punto di partenza, ognuno con le proprie opinioni. Ma allora che cos’è lo stato vegetativo; perché fa così impressione e sensazione parlane. In primis è un’alterazione dello stato di coscienza e la coscienza è lo stato di consapevolezza di sé e dell’ambiente circostante.
* U.O.S. Stati Vegetativi - ASL 16 Padova.
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La coscienza è intimamente legata al concetto di vigilanza, cioè allo stato di veglia coniugato alla capacità di attenzione; se vogliamo inserire alcuni concetti di neurofisiologia, allora potremo dire che questo ruolo è giocato nel nostro cervello dalla corteccia cerebrale e dalla sostanza reticolare ascendente. Al di là di spiegazioni scientifiche, che però esulano dalla nostra pubblicazione, preme ricordare che il nostro cervello è una “creazione molto complessa” che si basa sulla presenza di “strutture profonde”, molto simili a quelle degli animali, al cui interno troviamo la sostanza reticolare ascendente, importante nel controllo del ritmo sonno veglia. Ma come sappiamo tutti, ne esistono altre strutture che non hanno eguali in natura, come la corteccia cerebrale, cioè la parte superficiale degli emisferi cerebrali, la “materia grigia”, sede delle più elevate funzioni psichiche e intellettive, organizzata in aree e centri corticali, con funzioni motorie, sensitive, associative ecc. E questo è il frutto di un’evoluzione e di un cammino iniziato milioni di anni fa; ora siamo uomini sapiens sapiens e questo grazie anche all’abilità legata all’intelligenza, scintilla creativa indovata nel nostro cervello; ma per i fedeli questo è anche un chiaro segno della mano divina. Alcune gravi patologie, non solo neurologiche, e/o eventi traumatici, possono provocare e/o portare a un durevole stato di incoscienza che possiamo definire coma. Il coma rappresenta pertanto un più o meno profondo distacco da parte del paziente rispetto all’ambiente che lo circonda come conseguenza di una disfunzione neurologica. Questa disfunzione neurologica è legata per lo più a un danno diretto al cervello, come nel corso di un traumatismo o di un evento emorragico o di un arresto del flusso sanguigno che portata ad uno stato di anossia (mancanza di ossigeno).
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Ma se traduciamo tutto questo in modo più semplice e diciamo che le cause principali “del malfunzionamento cerebrale” sono l’incidente (magari stradale) e l’ictus o l’infarto del miocardio, allora comprendiamo che la dimensione del problema è enorme e non resta aperta alle sole scelte etiche. Nei paesi industrializzati stiamo parlando della prima causa di decesso sotto i quarant’anni (vittime della strada) e delle prime cause di morte in senso assoluto (malattie cerebro e cardiovascolari) …e per ognuno che muore non restano solo le persone completamente guarite, ma una ricca “scala di grigi”, con tutto il loro corteo di invalidità, per arrivare infine alle persone in stato vegetativo. Per stato vegetativo si intende la condizione di pazienti che, dopo un periodo di coma, riaprono gli occhi, riprendono il ritmo sonno veglia, recuperano tutte le funzioni del tronco cerebrale (controllo cardiorespiratorio, deglutizione, masticazione, riflessi oculari, controllo pupillare) ma non mostrano più alcun segno riconoscibile della presenza di funzioni cognitive. “Pertanto” il superamento dello stato di coma avviene quando il soggetto apre gli occhi… e si sveglia. Esiste una nomenclatura “varia ed abbondante” che genera confusione: 1. Coma vigile 2. Mutismo acinetico 3. Sindrome apallica 4. Decorticazione e decerebrazione 5. Minimo stato di coscienza 6. Sindrome locked-in … …in realtà sono tutti sinonimi e andrebbero riassunti con il termine stato vegetativo, a parte gli ultimi due (5 e 6), dove delle persone vivono in una condizione in cui eseguono a comando alcuni compiti semplici: questo testimonia un’embrionale ricomparsa delle funzioni
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cognitive, ma nulla può dirci sul reale stato di coscienza dell’individuo (minimo stato di coscienza), oppure si trovano nella drammatica condizione in cui il paziente è letteralmente imprigionato dalla paralisi totale del proprio corpo, ma riesce a dar segno di una certa integrità delle proprie funzioni cognitive, attraverso gli unici movimenti rimasti possibili, come l’ammiccamento o i movimenti oculari (locked-in sindrome). Pertanto si preferisce il termine stato vegetativo per indicare una più o meno vasta lesione della corteccia cerebrale con relativo risparmio del tronco encefalico; nel sistema nervoso “si spengono” le sue parti più recenti ed avanzate (il telencefalo, cioè di fatto la corteccia cerebrale) e funziona a regime ridotto con le strutture più antiche (dal punto di vista evoluzionistico) ed automatiche, come il diencefalo e il tronco cerebrale. Sono compromesse le funzioni della corteccia cerebrale e rimangono conservate funzioni autonome proprie dell’ipotalamo e del tronco dell’encefalo. Sono pazienti a cui mancano evidenti segni di coscienza di sé e dell’ambiente, che hanno subito gravi lesioni cerebrali secondarie, come abbiamo visto, soprattutto a ictus, infarto e gravi aritmie, traumi e come conseguenza insorge uno stato di coma e successiva evoluzione in S.V. L’assunto fondamentale è che la cessazione della coscienza non implica la cessazione della vita; l’esistenza e l’identità sono definite in termini di funzionalità cerebrale e quindi come capacità di mantenere un’omeostasi fisiologica e una funzionalità biologica. Pertanto l’autocoscienza non esaurisce la definizione di essere vivente e di identità. Esiste quindi una “contraddizione” tra l’esistenza fisica individuale e l’assenza della dimensione emotiva, affettiva e relazionale, come tutti noi siamo abituati a provare nella nostra quotidianità.
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Ci troviamo di fronte a un problema di “presenzaassenza” e questo comporta anche la difficoltà di comunicare una diagnosi di stato vegetativo per l’impossibilità, nell’esperienza dei familiari e dei curanti, di comprendere le implicazioni umane (cognitive, emotive e relazionali) e terapeutiche di un così grave stato di disabilità.
Il mio compito non è tanto quello di spiegare come mai la sostanza reticolare ascendente non attiva la ripresa della coscienza, dopo uno stato onirico (magari sognante); io non sono un ricercatore scientifico che può discutere perché dentro di noi esistono dei meccanismi primordiali che funzionano anche dopo un danno severo al cervello ma un clinico. Se molti di questi meccanismi, anche ai nostri giorni, sono ignoti a fior di neurofisiologici e studiosi emeriti, per i più è possibile comprendere come il nostro cervello resti o possa restare (anche in molti di coloro che hanno subito un grave danno), un serbatoio infinito di emozioni, che emergono incessantemente in ogni momento del giorno. L’unica differenza con noi “sani” è che non esistono più barriere mentali che possono filtrare questi fenomeni “naturali”; come un geiger che sbuffa incessantemente con il suo liquido dal profondo (magari ad orari precisi). E queste cose sono ben presenti a molti famigliari e amici che frequentano questo tipo di persone… e per coloro che non danno nessun tipo di risposta e non manifestano il meno che minimo stato emozionale? Sarebbe troppo semplice dire e ribadire che molte di queste persone non danno “nessun segnale di presenza” e si trovano in un completo stato di incoscienza; la medicina moderna sembra affermare questo. Ma da ex giovane consigliere dell’ordine dei medici posso senz’altro pensare che sono molte le risposte che
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la medicina moderna è riuscita a dare per molte patologie (pensate alle malattie infettive, ai vaccini e agli antibiotici), ma in tanti altri casi non si è ancora giunti a una certezza di vedute, anzi talvolta si riprende quello che si era escluso. Ecco perché ancora adesso sopra al camice provo ad indossare (magari immeritatamente) il vestito di uomo e mi avvicino a queste persone (e alle loro famiglie); la comunità scientifica nel frattempo dovrà continuare a tessere lentamente la tela della comprensione delle zone “più nascoste e profonde” della mente dell’uomo…
Gli stati di confine tra la vita e la morte
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di Ambrogio Fassina*
Il rapporto dell’uomo con il suo essere ‘vivo’ dovrebbe ri-
vestire almeno importanza pari a quello del suo essere ‘morto’. Di fatto, tuttavia, nessuno è in grado di definire in modo certo e ripetibile che cosa significhi essere morto se non con una serie di affermazioni ‘privative’. Questa incertezza ha determinato tutta la storia del pensiero umano fino a quando non sono intervenute scoperte scientifiche per le quali l’introduzione nella pratica medica di nuove tecnologie ha consentito di stabilire che sono ‘morti’ soggetti che hanno ancora in essere numerose funzioni vitali. Le nuove tecnologie ci hanno inoltre obbligato a confrontare situazioni di ‘vita/non vita’ e ‘morte/non morte’ per le quali non esistono regole di comportamento stabilite da normative civili e penali dei codici nazionali e internazionali. Come comportarsi quindi? Ricordo che in una delle poesie di giovanni Pascoli, nella raccolta Poemi conviviali, in un illuminante colloquio tra due vecchi che raccolgono erbe idonee alla autosoppressione, uno dice all’altro. “Chi bene non può, male a Chio non viva”. Senza entrare in problemi di etica che esulano da questo contesto e che ci porterebbero troppo lontano, gli stati di confine tra la vita e la morte prevedono la incapacità del soggetto a riconoscere lo stato del suo sé, ob-
* Università degli Studi di Padova.
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bligando altri a prendere decisioni con ricadute rilevanti sul soggetto interessato e sui suoi congiunti o addirittura sulla società, qualora questi ultimi fossero assenti. Pensare e ripensare il ‘bene’ nostro e delle persone a noi care deve ‘comprendere’ una previsione di un futuro immediato o a lungo termine per la quale non possiamo e non vogliamo accettare regole definite al di fuori delle singole situazioni. Solo credere in un bene diverso consente di affrontare e risolvere queste situazioni.
Lo stato vegetativo
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di Giampiero Giron*
La Multi Society Task Force ha definito (N. England J. Med. 330, 1499 e 1572, 1994) lo stato vegetativo come una condizione di completa incoscienza di sé e dell’ambiente circostante, accompagnata dalla persistenza del ritmo sonno-veglia e dal mantenimento completo o parziale delle funzioni autonomiche. Al fine di rendere più comprensibile la definizione suddetta va specificato che per coscienza s’intende, seppur grossolanamente, la percezione di se stessi ed il controllo dell’ambiente circostante e che per funzioni autonomiche si intendono la respirazione, la circolazione del sangue, la digestione e l’assimilazione dei cibi e la funzione emuntoria.
Lo stato vegetativo è generalmente conseguenza di un evento anossico cerebrale (arresto cardiocircolatorio) o di un grave trauma cranio encefalico, raramente di malattie metaboliche o degenerative, ed è dovuto a danno assonale diffuso a livello della sostanza bianca degli emisferi cerebrali, con conseguente interruzione delle connessioni fra corteccia e talamo, ovvero a danno corticale diffuso, condizione quest’ultima che si manifesta per lo più dopo arresto cardiaco. La diagnosi di stato vegetativo va sospettata se dopo un mese di coma il paziente non dimostra ripresa della * Università degli Studi di Padova.
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coscienza di sé e dell’ambiente, non manifesta risposte comportamentali costanti e riproducibili a stimoli visivi, acustici, tattili e dolorifici, non dà segni né di comprensione e né di espressione del linguaggio e, per contro, presenta ritmo sonno-veglia, funzioni autonomiche sufficienti a permettere la sopravvivenza ed il nursing, incontinenza sfinterica e riflessi del tronco e del midollo conservati, anche se non intatti. Le indagini strumentali non sono determinanti per la diagnosi di stato vegetativo, ma sono indicative dell’evoluzione di uno stato di coma verso quest’ultimo: – l’elettroencefalogramma mostra diffuso rallentamento con attività polimorfa delta o theta ovvero attività monotona di basso voltaggio ovvero ancora ritmo alfa persistente; – i potenziali evocati somatosensoriali sono assenti bilateralmente; – la risonanza magnetica (RM) mostra segni aspecifici di atrofia cerebrale globale; – la tomografia ad emissione di positroni (PET) evidenzia riduzione dell’attività metabolica encefalica, sia in termini di consumo di ossigeno che di utilizzazione di glucosio. Se un paziente, nel quale, in base ai suddetti criteri, sia stata posta diagnosi di stato vegetativo, non dà segni di recupero della coscienza, ad un anno di distanza in caso di accidente traumatico cerebrale o dopo tre mesi in caso di insulto anossico, le ulteriori possibilità di ripresa sono considerate nulle e lo stato vegetativo viene considerato permanente. È dunque evidente come la diagnosi di stato vegetativo sia eminentemente clinica e necessiti pertanto di ripetuti, accurati esami neurologici e di adeguato periodo di osservazione, in quanto è necessario porre diagnosi
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differenziate con la sindrome dell’imprigionato (locked in syndrom) e con la sindrome di minima responsività (minimally responsive). La “locked in syndrom” è provocata da lesioni ischemiche a livello della parte ventrale del ponte con conseguente danno a carico delle fibre corticomotorie discendenti, ma con conservazione dell’integrità del sistema reticolare ascendente. Ne deriva che il paziente pur essendo cosciente, e quindi in grado di percepire stimoli interni ed esterni, non è capace di attività motoria alcuna. La “minimally responsive syndrom” comprende quei pazienti che sono gravemente disabili, ma che dimostrano inequivocabilmente risposte intenzionali, anche se incostanti.
Molto scalpore hanno recentemente suscitato i risultati di indagini condotte su pazienti definiti in stato vegetativo che, sottoposti a risonanza magnetica funzionale, hanno dimostrato di possedere capacità integrative reagendo a stimoli e a frasi complesse in modo appropriato. Non solo, ma è stato pure dimostrato che un’osservazione protratta e l’impiego di una specifica scala di valutazione neurologica (la Recovery Coma Scale Revised) ha permesso di individuare segni di coscienza in ben 18 pazienti su di un gruppo di 44 definiti in stato vegetativo permanente. I risultati delle suddette ricerche, oltre ad aver riacceso il dibattito su quale sia l’approccio più corretto nei confronti di pazienti in stato vegetativo o con minimo livello di coscienza o con disabilità motoria estrema, hanno il merito di aver sollecitato maggiore attenzione da parte dei medici curanti sulla diagnostica differenziale fra le suddette entità morbose così da evitare diagnosi fatte con troppa facilità.
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Due sono le posizioni, del tutto contrapposte, che si fronteggiano sull’atteggiamento da tenere nei confronti dei pazienti in stato vegetativo: – vi è chi sostiene che la loro condizione porta ad escludere che possano essere ancora considerati persone e che la loro qualità di vita è miserabile. Non ha pertanto alcun senso garantire loro idratazione, nutrizione e nursing al fine di ottenere un prolungamento artificiale di una vita senza contenuti e senza valori; – vi è, per contro, chi afferma che nonostante la loro condizione fanno ancora parte a pieno titolo della comunità umana e quindi non solo ne conservano tutti i diritti, ma meritano anzi maggior attenzione in quanto in stato di grande fragilità e vulnerabilità. Inoltre, il giudizio sulla qualità di vita non può che essere personale, per cui non può competere ad altri di stimarne il valore. Il problema dell’approccio assistenziale è ancora più complesso nei casi di minima responsività e di locked in syndrom, in quanto pazienti che sarebbero in grado di provare dolore e sofferenza ed anche di giudicare la propria qualità di vita. Nella mia lunga carriera di medico ho avuto occasione di seguire diversi pazienti in stato vegetativo, in epoche nelle quali i mezzi diagnostici erano meno sofisticati degli attuali. Debbo dire che l’osservazione clinica protratta mi ha portato in alcuni casi a ritenere che fosse presente un minimo livello di percezione nei confronti di stimoli esterni con risposte intenzionali. Emblematico a questo proposito è il caso di Davide A. che ho seguito per ben 23 anni. Il 22 agosto 1985, quando non aveva ancora 15 anni, Davide, figlio unico che abitava con i genitori a Sarzana, vicino a La Spezia, saluta la mamma, dicendo: “Vado a scuola di ballo e poi al mare col mio amico Fabrizio”. Parte
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in sella al suo motorino, senza casco, come si usava allora, ma, all’uscita da una curva a gomito, finisce contro un’auto. Nella caduta batte violentemente il capo e la sua corteccia cerebrale muore. I genitori lo vedono che è già in Rianimazione all’Ospedale S. Martino di Genova e si sentono impazzire di fronte alla gravità del quadro clinico delineato dai medici curanti. Da Genova Davide viene trasferito al Policlinico di Padova per trattamento chirurgico di fistola tracheoesofagea conseguente a decubito del palloncino del catetere tracheale. È allora che conosco i genitori di Davide. A Padova Davide resta ricoverato per quasi un anno, durante il quale, mentre lo stato vegetativo va incontro a progressiva stabilizzazione, ho dovuto spiegare alla mamma e al papà, con la maggior delicatezza possibile, ma anche con la dovuta evidenza, che il loro figliolo non avrebbe più ripreso coscienza di sé e dell’ambiente circostante perché la sua corteccia cerebrale, che è la sede delle funzioni razionali, era ridotta ad uno strato sottile di tessuto connettivo a causa del danno provocato dal trauma. È stato un rapporto non facile, perché la mamma non accettava quella realtà che gli esami clinici e strumentali continuavano a confermare: “li facevo parlare senza ascoltarli” dirà, anni dopo, riferendosi a noi medici. Il rientro a domicilio è stato per la mamma di Davide un evento vissuto con grande preoccupazione, per il timore di non essere in grado di garantire adeguata assistenza, ma anche la molla ha fatto scattare la consapevolezza che suo figlio aveva assoluto bisogno di lei e quindi la inderogabile necessità di rientrare nella normalità. La mamma di Davide ritrova così la sua gentilezza irruente ed ironica, che la fa apparire come la più forte, mentre in realtà è lo spirito pratico del marito ed il suo atteggiamento rassicurante che contribuiscono in maniera determinante a ricostruire una famiglia normale. Per nor-
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malizzare il più possibile il rapporto con il figlio, la mamma gli toglie il sondino nasogastrico, presidio attraverso cui venivano veicolati gli alimenti, e lo nutre imboccandolo con il cucchiaio: “Una sfida. All’inizio mi era necessaria un’ora e mezza per ogni pasto, in quanto Davide sputava tutto. Ma adesso mastica e deglutisce e gli frullo solo la carne” mi ha detto con evidente soddisfazione nel corso di una delle prime visite di controllo a Padova. Ho infatti continuato a seguire Davide, anche se lui era lontano a Sarzana: la mamma mi telefonava ogni qual volta aveva necessità di consigli e, comunque, me lo riportava a Padova una o due volte all’anno per i necessari controlli: “Mentirei se dicessi che non spero più. Oscillo. So che non tornerà come prima, non sono stupida, ma sogno almeno che mi dica: mamma, mi fa male qui!”. E così Davide vola due volte negli Stati Uniti per essere sottoposto, a Filadelfia, al metodo ideato da Glenn Doman: “Cinquanta milioni in tutto. Sull’aereo ci facevano comperare sette posti solo per lui” mi ha poi raccontato la mamma. Il metodo Doman prevede un’aggressione continua di stimoli sensoriali e motori: cartelli con scritte sgargianti, rumori e suoni, ore di ginnastica, schermi luminosi etc. La mamma crede nel metodo e lo applica per cinque anni anche a casa, finchè crolla: “era troppo faticoso, dovevamo essere in cinque per la ginnastica. Allora mi aiutava mia madre, che ora non c’è più ed i ragazzi della Marina Militare in servizio nella base qui vicino. Ma quando è cambiato il comandante non li ho più visti.” Davide dava segnali che fanno riflettere: “Mentre prima potevi mettergli un ferro da stiro sul braccio, senza che nulla avvertisse e le pupille erano sempre dilatate, anche alla luce, nel corso degli anni ha fatto progressi, magari impercettibili, ma non per noi. Io penso che lui mi veda, che si accorga se lo tocco. Noi comunichiamo, in modo difficile da spiegare. Se lo chiamo, capita che giri la testa.
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Tossisce se li dà noia la televisione alta, la coperta troppo calda, la presenza di una pianta che gli provoca allergia. Se un cibo non gli piace, lo sputa ed il rifiuto si mantiene anche se gli ripropongo quel cibo a distanza di mesi” mi ha ripetuto più volte la mamma ed io stesso ho constatato l’effettiva realtà delle sue affermazioni. Con altre trenta famiglie di Sarzana il papà e la mamma di Davide fondano l’associazione pro disabili di Val Magra, “così almeno non devo più andare sola a farmi valere”, mi diceva la mamma, che peraltro riconosceva che il Comune garantiva un’ottima assistenza, “ma a prezzo di quante lotte, perfino per farmi rimborsare i pannoloni”. Il cuore di Davide cessa di battere nel 2008, quindi ben 23 anni dopo l’incidente, lasciando un vuoto incolmabile nei genitori. La personale esperienza mi ha posto da sempre nell’ambito di coloro che ritengono che i pazienti con gravi disturbi della coscienza meritino ogni attenzione assistenziale, in quanto persone particolarmente fragili e vulnerabili, e che non sia lecito interrompere l’idratazione, nutrizione e nursing sulla base di un nostro giudizio sulla loro qualità di vita. La percezione che questi pazienti possono avere della loro condizione è infatti funzione della loro minima capacità integrativa, della quale non abbiamo, almeno finora, alcun criterio oggettivo di valutazione.
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Il contesto familiare: impatto sulle persone e sulla società
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di Carlo Nazor*
Ogni malattia produce ripercussioni sul sistema familiare del malato. Nei casi di stato vegetativo, i familiari devono però far fronte a una condizione psicologicamente complessa e particolare, per la sua durata indefinita e imprevedibile ma soprattutto per la difficoltà di relazionarsi e convivere con la presenza/assenza del congiunto. Prestare attenzione alle storie e ai vissuti di queste persone è un’opportunità per entrare in una dimensione più intensa e profonda dell’esperienza umana, ed è inoltre la premessa indispensabile per rendere migliori i percorsi di assistenza e cura che, ancor più in questi casi, non possono prescindere dal contesto familiare del malato. In questo senso anche l’indagine scientifica si orienta in questa direzione: è attualmente in corso una ricerca, diretta dal prof. Erminio Gius dell’Università di Padova, che mira a individuare adeguate strategie per il sostegno psicologico delle famiglie e – con la collaborazione del Censis – per il contenimento dei costi sociali e sanitari che vanno a ricadere sui familiari delle persone in stato vegetativo. La ricerca è promossa e finanziata dalla Regione del Veneto, con il concorso della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, e viene condotta nel territorio delle Ulss di Adria, Asolo e Padova.
* Psicologo e responsabile del progetto di ricerca.
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Le vite
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Alicia, dal perù con amore
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di Fabiana Pesci
A quarantadue anni ha già vissuto almeno due vite. Due figli all’Università, un passato di agente di polizia, infermiera nel reparto di Patologia neonatale nell’ospedale militare di Lima, di insegnante. Alicia non si è mai lasciata scappare un’occasione. Ha grinta e fegato da vendere. È seduta su di una panchina del parco dell’Opera Immacolata Concezione, sua nuova casa, e guarda fisso verso l’orizzonte: “Io vengo da una cittadina del Nord del Perù, affacciata sul mare. Mio papà mi ha sempre insegnato a non aver paura di tuffarmi, di nuotare verso l’ignoto. Al tramonto ci sedevamo sulla sabbia. Mi diceva di accettare le nuove sfide, di non lasciarmi mai soffocare dal timore, di sentirmi sempre libera come un pesce immerso nell’oceano”. Alicia ha recepito alla lettera gli insegnamenti del padre. Oggi non ha alcun rimpianto. Salti nel vuoto? “Nella vita bisogna rischiare? Meglio pentirsi di una scelta che rimanere lì a rodersi per ciò che non si ha avuto il coraggio di fare”. Alicia ha avuto il coraggio di chiudersi dietro le spalle una vita che non faceva più per lei, di scommettere sul cambiamento. Di prendere un aereo all’insaputa del marito e di volare dall’altra parte del mondo. Sprovveduta? Nemmeno per idea. Ha messo piede in Italia che già conosceva perfettamente la lingua, con un lavoro ad attenderla, dopo aver sistemato i suoi ragazzi, 18 e 21 anni, nella migliori università del Paese. Ed oggi cammina fiera tra i corridoi dell’istituto di via Tobli-
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no alla Mandria. Fiera di non aver rifiutato l’opportunità di imprimere una svolta alla propria vita, fiera di non aver detto “no” per la paura di schiantarsi contro un fallimento. Sembra passata una vita da quel 25 gennaio di due anni fa, quando Alicia è giunta in Italia. Allora le tremavano le gambe. Il primo volo della sua vita, una tratta intercontinentale. Poi il primo treno della sua vita, non ci aveva mai messo piede. Infreddolita da un gelo pungente a lei ancora sconosciuto era riuscita in qualche modo ad arrivare fino a Giarre, una frazione di Abano Terme, a pochi chilometri dalla struttura per anziani della Mandria. È stato il giorno della sua rinascita. Oggi lavora con dedizione al Centro stati vegetativi dell’Oic. In lei il cuore di una madre, la professionalità di un’infermiera abituata a gestire una terapia intensiva neonatale, il piglio militaresco di un ex poliziotto, si coniugano alla perfezione. Sguardo dolce ed incedere fiero: con i “suoi” pazienti, gli ospiti dello speciale reparto destinato agli stati vegetativi, sposa alla perfezione la sensibilità di una mamma e la determinazione di una donna che non può permettersi di lasciarsi prendere dallo sconforto. Soffre a sentir definire i suoi assistiti nulla più che pezzi di legno. “Prima di parlare bisogna conoscere, informarsi. Se avevo paura prima di cominciare questa nuova esperienza di lavoro? Certo che sì. A Lima, nell’ospedale in cui lavoravo, non esisteva nulla di tutto ciò. La vita media è più breve, patologie cui qui in qualche modo si sopravvive lì sono per lo più mortali. Ma ho accettato di buon grado la sfida di imparare ad assistere malati che nel mio Paese forse nemmeno esistono”. L’ha aiutata moltissimo la sua esperienza di capo infermiera nel Centro di patologia neonatale dell’ospedale militare di Lima. “Trattare con bambini indifesi ed impauriti è un po’ come rapportarsi con i miei attuali pazienti”, racconta Alicia, occhi neri sullo sfondo di una pelle ambrata, incorniciati da una chioma bruna. Ognuno di loro ha una peculiarità, una storia difficile nascosta dietro il silenzio di chi
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non è più in grado di comunicare con le parole. Gli operatori dell’Oic devono solo scovare quali siano i nuovi mezzi di espressione di pazienti intrappolati nell’incapacità di dire ciò che sentono, che desiderano, ciò che fa loro male, paura. Alicia li conosce tutti. Ha fatto della sensibilità, dell’empatia, della comprensione il suo modo di essere in corsia. Ama il proprio lavoro, pretende il massimo comfort per i suoi pazienti, anche se non potrà mai sentire un “grazie”. “Le soddisfazioni ci sono – ammette – in primo luogo il sorriso dei familiari degli ospiti che ti ringraziano perché vedono i loro cari tranquilli, sereni, rilassati. Ma non si conclude di certo tutto qui. Con il tempo si affina anche la capacità di poter cogliere ciò che una persona in stato vegetativo è in grado a suo modo di comunicarti. Non si può spiegare con le parole. Sono sensazioni forti, che si percepiscono esclusivamente stando loro vicino. Uno sguardo, il respiro lento e rilassato di chi sa che si può fidare. Loro si affidano a noi completamente, il rapporto che si crea tra noi è strettissimo”. Alicia vive il suo lavoro come una missione, il benessere di chi cura. Non importa se siano bambini, adulti, anziani, il loro grado di coscienza. Per un breve periodo, prima di essere inserita agli stati vegetativi, ha lavorato anche in un altro reparto dell’Oic. Ricorda sorridendo di una signora non più nel pieno delle sue facoltà mentali, convinta di dover partire per un lungo viaggio. Era nervosa ed agitata perché la sua mente aveva partorito una storia campata in aria, che qualcuno le avesse rubato la valigia. E lei doveva correre a prendere il treno. Nessuno lì sapeva come gestirla. Alicia le si è avvicinata, l’ha ascoltata e poi le ha confidato che la sua valigia l’aveva presa in carico lei, la stava custodendo e che gliel’avrebbe restituita poco prima di partire. “La signora si è tranquillizzata immediatamente. Ho raccontato un aneddoto solo per far capire che a volte è sufficiente mettersi nei panni altrui per risolvere una situazione difficile”. Ascolto e dedizione al lavoro, la ricetta di un’infer-
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miera che è passata dal lavoro in una struttura militare ad una il cui obiettivo è il benessere del paziente all’interno di un quadro di valori cristiani e di solidarietà. Vive negli appartamenti di via Toblino e la sua vita si snoda quasi completamente nel perimetro della struttura. Si è gettata a capofitto nel lavoro per non lasciarsi rapire dall’angoscia di aver lasciato la sua famiglia dall’altra parte del mondo. A Lima aveva un marito e due figli. La sua mamma è stata portata via da una malattia. Sin da bambina sognava di fare l’infermiera. Determinata più che mai si è gettata nello studio. Contemporaneamente ha iniziato la scuola di Polizia. “Purtroppo a Lima non c’è lavoro per gli infermieri. Diventare poliziotto significa avere la garanzia di un’occupazione”. E così Alicia al mattino indossava la divisa, al pomeriggio e fino a sera inoltrata il camice: cinque anni sui libri e poi l’occasione, l’ospedale militare di Lima, destinato alla cura dei familiari delle forze armate peruviane. In poco tempo, coniugando capacità professionali, dedizione e sensibilità, è stata promossa caposala. Poi l’idea di aprire una scuola per infermieri. Nel frattempo si è sposata ed ha avuto due bambini. Una vita intensa, scandita da turni massacranti per potersi ricavare del tempo da dedicare a suo figlio e a sua figlia. Un’esistenza normale tra lavoro e famiglia, finché non si è spezzato qualcosa. Sua madre si è ammalata, il rapporto con il marito si è logorato fino a spezzarsi. In questa situazione è maturata l’idea di cambiare vita, in primo luogo per permettere ai suoi due ragazzi di studiare, di conseguire una laurea, in Perù lasciapassare per un lavoro ed una vita migliore. Si mette in contatto con una famiglia italiana che conosce bene il presidente dell’Oic Angelo Ferro. Alicia impara l’italiano quando è ancora in Perù, studia ancora. Prepara le carte per il trasferimento in Italia, ma c’è un “ma”. Il marito non le avrebbe mai permesso di lasciare il Paese. È un poliziotto e ha i mezzi per fermarla. Lei riesce ad ottenere il visto, ma teme di essere bloccata in aero-
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porto a Madrid, in stretto collegamento con Lima. Alicia non si è lasciata mettere i bastoni tra le ruote. Con i documenti in mano ha tirato il fiato ed è salita su di un aereo con destinazione Amsterdam, convinta di passare inosservata. E così è stato. Raggiunge Venezia: è il 25 gennaio. Da lì prende il primo treno della sua vita, in quarant’anni non ne aveva mai visto uno. Il suo terrore è perdersi, superare la sua destinazione e finire chissà dove. A Padova prende l’autobus. Alicia aveva preparato tutto. Il suo viaggio era calcolato al centimetro, ma non il freddo, la nebbia, il buio. Raggiunge la farmacia di Giarre, trova una persona di cuore che la sta ad ascoltare. In quel momento inizia la sua nuova vita. I primi giorni piange, piange in continuazione. Vorrebbe tornare indietro. Le mancano i suoi figli, la sua vecchia vita, teme di aver fatto il passo più lungo della gamba. Chiusa nella sua stanza di via Toblino si getta di nuovo nello studio: il suo titolo di infermiera qui in Italia è carta straccia. Deve sostenere un esame per l’abilitazione alla professione, per poi potersi iscrivere al collegio infermieri. All’insaputa di tutti, con mesi d’anticipo rispetto ai tempi concordati, Alicia si lancia di nuovo. Si sente preparata, dà l’esame e lo passa. Per lei è un’iniezione di fiducia. Dopo una fase difficile, stritolata tra il rimorso di aver lasciato i suoi figli in Perù e la paura di non farcela a ricominciare, Alicia torna a sorridere. Il lavoro comincia ad ingranare, si sente accolta in una grande famiglia, quella dell’Oic, fatta di colleghi, ospiti e loro familiari. Con quello che guadagna riesce a mantenere i suoi figli nell’Università migliore del Paese: “Lì ci vanno solo figli di ministri e diplomatici. Costa quasi trecento euro al mese. Sono in pochi in Perù quelli che se la possono permettere, tenuto conto che il mio stipendio, quando lavoravo a Lima, si aggirava proprio su quella cifra”. A soli quarantadue anni Alicia è già in pensione dal suo primo lavoro: “Ho lavorato vent’anni ed in più ho riscattato gli anni di studio. Faccio tutto per i miei figli. Loro sanno che de-
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vono studiare per garantirsi un futuro. La più piccola è al primo anno di Economia, il più grande al terzo di Ingegneria. Sono tra i migliori del loro corso. Mi mancano tantissimo. Ci sentiamo due volte al giorno per sentirci meno lontani. Il mio sogno è farli venire qui in Italia perché possano concludere gli studi all’Università di Padova. Tra poche settimane verranno a farmi visita, non ci vediamo da un anno. Ovviamente ho già detto loro che qui non si può improvvisare nulla. Vogliono venire? Devono imparare subito l’italiano, ancor prima di scendere dall’aereo”. Alicia teme che i suoi figli restino sconvolti nel vederla. Ha perso 25 chili a causa di tutto lo stress accumulato, il lavoro, il cambio di vita. Non sa di essere bellissima, una donna che ha sfidato la vita, che l’ha affrontata a muso duro e che ora sta raccogliendo i frutti di anni di battaglie. È ancora vulcanica. Non si sente per nulla arrivata. Il suo sogno è quello di fondare un’associazione in grado di rendere più agevoli gli spostamenti tra Italia e Perù. Sta lavorando per realizzare un altro sogno. A darle la forza di continuare a combattere anche la comprensione e l’affetto di tutte le persone che ha avuto modo di conoscere nell’ultimo anno. “Non c’è nulla che dia più soddisfazione del ringraziamento dei familiari degli ospiti cui presto assistenza. Sentirli vicini, sentirmi dire che grazie al mio lavoro li vedono più tranquilli, rilassati, non ha eguali. Quando sono giù di morale mi affido a Dio. Prego che mi dia la forza di continuare ad andare avanti. E ce la sto facendo”. Alicia non crede a quanti dicono che un paziente in stato vegetativo non sia null’altro che un pezzo di legno: “Non lo dico per una questione di fede, ma perché ci lavoro fianco a fianco ogni giorno. Percepiscono la mia presenza e reagiscono, ciascuno a modo proprio. Anche noi operatori abbiamo imparato a comprendere le esigenze di ogni paziente. Sono persone che non possono parlare, racchiuse in una dimensione diversa dalla nostra, ma che comunque riescono a farsi capire. Chi con uno
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sguardo, chi con il modo di respirare. È ovvio che ci vuole disponibilità anche da parte di coloro che devono recepire ciò che intendono: è spesso una questione di sensibilità, di empatia. È ovvio che se non si parla loro, se li si tratta come degli essere non più in grado di esprimere emozioni, non comunicheranno nulla. Rispetto per gli altri, preparazione professionale e dedizione per il proprio lavoro, sorriso sulle labbra quando si entra in corsia. Questo è il mio modo di intendere l’essere infermiera. Sia che ci si trovi di fronte ad un bambino in fin di vita che ad un anziano in stato vegetativo”.
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Un amore possibile
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di giovanni viafora
Luigi apre il suo diario: lo squaderna piano e vi sfila una fotografia. È bellissima. Sullo sfondo si vede una parete di roccia, in alta montagna; in primo piano, invece, ci sono un uomo e una donna che si tengono abbracciati: lui è dietro, fiero ed elegante; lei è davanti e sembra avere lo sguardo sereno di chi si sente amata. «Siamo io e mia moglie Romana, nove anni fa, durante un’escursione sulla cima Grigia del monte Tessa», sussurra Luigi con voce calma. Romana, seduta davanti a lui sulla sedia a rotelle, sembra quasi annuire. Entrambi hanno i capelli bianchi: sono lontani dalle vette alpine e dai pascoli immacolati della foto; ma si stringono con la stessa forza di allora. «Per me non è cambiato niente dopo quello che le è successo – dice Luigi senza alcuna esitazione – noi ci amiamo sempre allo stesso modo e niente ci separerà». Quella di Luigi e Romana è una storia d’amore, che sorprende e commuove: è la storia di un amore possibile, più forte di ogni barriera e di ogni confine. Luigi e Romana vivono in simbiosi, l’uno per l’altra. E così da circa un anno, da quando cioè lei, a causa di un’emorragia cerebrale, si è ridotta in uno stato di minima coscienza. Lui la segue ogni istante: la sveglia la mattina alle 8, le fa compagnia, l’accarezza, le legge libri e giornali. «Non posso fare a meno di stare con mia moglie – confessa Luigi, distinto nel suo abito chiaro al fianco della sua amata – lei ha ancora un ruolo fondamentale per me e per i nostri figli.
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È ancora il centro della nostra famiglia, grazie all’affetto che ci dà». Luigi, che ha 74 anni, uno in meno della sua signora, si apre subito al racconto, permettendo di decifrare così un rapporto che all’esterno effonde tenerezza e suscita ammirazione. «È adesso che faccio la vera vita di coppia – confida – quella vita che forse non avevo mai fatto prima, perché quando si entra nel vortice del lavoro si dimenticano le cose essenziali: il valore dell’amore, dell’affetto, della vita, delle cose che si stanno facendo, degli atti quotidiani. Si perde un valore immenso, che tante volte si viene a conoscere dopo, solo quando ti manca. A volte non te ne rendi conto, tutto scorre. Tutto appare scontato». Per riannodare i fili della storia di Luigi e Romana bisogna fare un salto indietro fino ai primi anni Sessanta. L’epoca del boom economico e della crescita. Luigi ricorda bene quel periodo. «Avevo vissuto la guerra da ragazzino – confessa – e per me era stata quasi un gioco: mi vedo ancora mentre scavalco il recinto della casa e vado a divertirmi con gli altri giovani del quartiere. Ci conoscevamo tutti. Sentivo dentro di me un grande senso di libertà. Anche Romana era così. Lei, nata da una modesta famiglia calabrese, aveva nel cuore uno forte spirito di vitalità e di indipendenza». L’incontro tra i due avviene a Roma. «Fu un mio caro amico a presentarmela – ripensa Luigi – uscimmo una domenica pomeriggio e qualche mese dopo eravamo già sposati. Io avevo 27 anni, lei 28: era già tardi per quei tempi, perché una volta ci si univa in matrimonio più giovani. Ma noi da allora non ci siamo più lasciati». Luigi interrompe il flusso dei ricordi e accarezza Romana, che sembra quasi ascoltarlo. «È vero amore che non ci siamo più lasciati?», le domanda lui con infinita pietà. Lei accenna quasi un segno di comprensione. «Sì, c’è proprio un rapporto di affetto – riprende Luigi – specialmente da parte sua. Il nostro è un rapporto d’amore che non si cancella: è nato così e lo abbiamo sempre ri-
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spettato. Abbiamo avuto problemi e passato momenti difficili come tutte le coppie: mi ricordo, per esempio, che abbiamo curato sua mamma in casa nostra per venti lunghi anni, assistendola fino a poco prima che morisse. Ma tra noi l’amore è rimasto vivo». Luigi si passa tra le mani ancora la foto a colori estratta all’inizio. «Siamo ancora quei due – sussurra – a Romana piaceva tanto la montagna e io la seguivo ovunque. È sempre stata una donna forte, tenace. E lo ha dimostrato anche in quello che le è capitato». Luigi, con uno sforzo allora, torna indietro nel tempo di circa un anno e mezzo. «Lei non mi ha voluto lasciare – afferma – ricordo i medici che, dopo l’emorragia che l’aveva colpita, dicevano che Romana sarebbe vissuta solo qualche ora. E invece no, lei ha combattuto e ce l’ha fatta. C’è voluto più di un mese, però, prima che aprisse gli occhi». Un mese difficile, di attesa e speranza. «All’inizio non te ne rendi conto – confessa Luigi – sembra sempre una cosa temporanea. Poi ti aggrappi a qualche cosa. I medici purtroppo hanno grandissimi limiti: scientifici e economici. E credo che in ospedale questo tipo di situazioni non venga vissuto bene: ci vorrebbero spazi più grandi, più vicini alla natura, per permettere ai pazienti di riscoprire lentamente il contatto con il verde e con le persone. Romana, comunque, alla fine ci ha dato un segnale». Luigi non può dimenticare quel momento. «Da quando Romana è stata male tengo un diario personale – confida – dove scrivo quotidianamente quello che succede, sperando di cogliere eventuali progressi o miglioramenti. Tra le pagine più belle che ho scritto c’è senz’altro quella che riguarda il giorno in cui mi sono reso conto che lei aveva un minimo di conoscenza. Mi si è aperto il cuore. In quel momento avevo la speranza che si riprendesse, più di quello che poi ha fatto. Ma non è detta l’ultima parola». Luigi fa una breve pausa, appoggia una mano sulla spalla di Romana, che gli è a fianco, e aggiunge. «L’altra bella pa-
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gina del mio diario – prosegue – è quella che ho annotato quando ho scoperto che lei mi sorrideva. Per me quella è stata una rivelazione. Sono piccoli atti, ma importanti. Come quando ci telefona nostro figlio: Romana lo ascolta dalla cornetta e poi alla fine me la riconsegna. Sono gesti che prima non faceva, piccole cose che ti riempiono il cuore». «Vero che mi sorridi?», la interroga dolcemente Luigi. Romana chiude gli occhi con leggerezza. «Ogni tanto poi fa delle azioni di collaborazione – annota con Luigi – sarà istintivo, ma lo fa. Insomma, qualcosa c’è, funziona. E questo qualcosa va coadiuvato e sfruttato per un miglioramento delle condizioni». Romana a suo modo replica alle carezze del marito. «Quando le metto il fazzoletto, lei alza il braccio – fa notare Luigi – però se un estraneo prova a fare lo stesso, senza dirle niente, non ci riesce. Il braccio è irrigidito. Bisogna dare un motivo al movimento. Con me lo muove, con gli altri no. Vedi: si tira la manica, se la sistema. Romana con me collabora». Luigi e Romana ormai si stanno avviando versi i 50 anni di matrimonio. «Li festeggeremo tra poco – conferma Luigi – e abbiamo pensato di andare insieme a Lourdes. C’è il sostegno medico e questo viaggio potrebbe esserci utile». L’uomo, però, sa che la vera festa sarà quella che si celebrerà nella quotidianità. «È così – ribatte Luigi – per noi non cambierà niente, sarà solo più intenso il nostro amore. Io sono qui con Romana tutti i giorni ed è questo il nostro rapporto di coppia. Di mattina me la porto in giro; poi di pomeriggio andiamo insieme a fare le attività. Qualche giorno fa abbiamo assistito ad un musical e abbiamo anche fatto conoscenza con altre signore. È stato come ai vecchi tempi. Poi leggiamo insieme degli articoli: proprio questa mattina gliene ho letto uno sulle alici, un pesce che lei sapeva cucinare molto bene». Luigi quindi svela un particolare. «Anche nell’abbigliamento cerco di metterle addosso le stesse cose che usava quando stava bene, in modo che si senta a suo agio».
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Romana e Luigi sembrano di nuovo guardarsi. E c’è purezza nei loro sguardi. «Siamo sempre gli stessi – chiude Luigi, che infila di nuovo la foto di lui e di Romana dentro il diario – la sera, prima di tornare a casa, saluto mia moglie e le dico: mi dai un bacio, me lo merito? E lei mi dà sempre un bacio».
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Quell’osso duro di bechir
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di Fabiana Pesci
Ce l’aveva fatta. In Italia da poco più di un decennio, aveva iniziato a lavorare come autotrasportatore. Poi il suo spirito imprenditoriale e la sua determinazione gli avevano permesso di farsi largo a fronte di enormi sacrifici, fino a divenire il titolare di una ditta di trasporti. Il cinque maggio del 2008 il terribile incidente: stava scaricando il suo camion quando viene arpionato da un muletto che prima lo solleva ad oltre due metri da terra e poi lo lascia cadere. Da quel giorno Bechir, oggi cinquantenne, è inchiodato ad un letto. “Stato vegetativo”, la diagnosi dei medici. Ma Bechir, originario della Tunisia, pare non abbia perso la voglia di combattere: da qualche mese il suo fisico ha ricominciato a reagire. Il capo che si rialza, il braccio che inizia a muoversi. Bechir ora è in grado di guardare nuovamente negli occhi la sua Catalina, la donna che non l’ha mai abbandonato. Ogni giorno è al suo fianco. Non ha mai perso la speranza di un suo recupero: assiste al miglioramento del suo compagno settimana dopo settimana, lo vede guadagnare quotidianamente centimetri di vita. Catalina non attende un risveglio, sa che Bechir non si è mai addormentato, attende il momento in cui riuscirà a liberarsi dallo stato in cui si trova, da quel black out causato da quella tremenda caduta che ha gettato un’intera famiglia nella disperazione. L’azienda di Bechir non c’è più, anni di lavoro e traguardi duramente tagliati si sono
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schiantati in quell’incidente: era giunto in Italia oltre dieci anni fa dalla Tunisia, alla ricerca di un futuro migliore. Aveva lasciato nel suo paese d’origine moglie e figlio. Qui aveva iniziato a fare il camionista in un’azienda padovana di autotrasporti. Dopo aver messo su casa ad Abano Terme voleva tentare il grande salto, mettersi in proprio. E così ha fatto, da dipendente, a costo di orari di lavoro massacranti, era riuscito a divenire imprenditore investendo tutti i suoi risparmi. Catalina e Bechir si sono conosciuti in ufficio. Lui aveva compreso che aveva bisogno di una persona che conoscesse bene il rumeno per poter allargare il proprio giro d’affari nell’ambito del trasporto su strada. Sceglie di assumere la giovane Catalina, allora trentenne: per lui è amore a prima vista. Si è innamorato di quegli occhi sinceri, di quel concentrato di grinta, voglia di emergere, perfettamente coniugati a sensibilità e dolcezza. Insieme lavorano e fanno passi da gigante. Bechir non è più un autotrasportatore, ha una ditta che va bene. Di pari passo cementa la sua storia d’amore con Catalina, che supera tutti i suoi pregiudizi sulla loro differenza d’età e di cultura. Tutto sembra aver preso la giusta direzione. Bechir però non è tipo da mollare la presa, non fa per lui la vita dietro una scrivania. Così continua a viaggiare per trasportare merci in tutta Europa. Nel maggio del 2008 decide di portare con sé Catalina. Destinazione, Francia. Macinano chilometri su chilometri, parlano di un progetto di vita a due ora che c’è la piena tranquillità economica. “Erano le 9 del mattino del 5 maggio del 2008 – racconta Catalina – come sempre Bechir era sceso dal camion per scaricare la merce. Una cosa che aveva fatto decine, se non centinaia di volte”. Tutto fila liscio fino a che Catalina non sente gridare. Bechir aveva appena aperto il cassone del camion, stava togliendo il telo che lo protegge per facilitare le operazioni di scarico della merce. Dall’altra parte del mezzo un uomo sopra un muletto non si accorge della sua presenza e comincia ad inforcare i pacchi:
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con loro prende anche Bechir. “È successo tutto in pochissimi secondi”, sospira Catalina, cui d’un tratto comincia a tremare la voce. Lei ha assistito impotente a quanto stava avvenendo: il muletto ha sollevato il suo compagno fino a portarlo a qualche metro da terra. Lei ha cominciato a gridare, gridare e piangere tentando di far capire all’operaio che cosa stava accadendo. Questi, preso dal panico perché non riusciva a comprendere che cosa volesse comunicargli Catalina, ha mollato d’un colpo i comandi. Bechir è precipitato a terra sbattendo violentemente il capo sull’asfalto. “Prima il terribile impatto, poi l’operaio è fuggito – racconta la giovane donna, che non riesce a trattenere le lacrime – lasciandomi sola. Sono corsa verso di lui, l’ho stretto forte a me. C’era sangue ovunque, ne perdeva tantissimo. Urlavo fino a sgolarmi chiedendo aiuto, ma nessuno mi ha sentito, o forse nessuno ha voluto ascoltarmi. Non sapevo che cosa fare. Ho cominciato a fargli la respirazione bocca a bocca ed il massaggio cardiaco. Bechir sembrava morto, ma lo sentivo respirare. I pochi minuti trascorsi con lui, sola in quel piazzale, sembravano interminabili. Poi l’arrivo dell’ambulanza. Un gruppo di medici gli si è avventato contro. Guardandoli negli occhi, nella concitazione di quel momento, ho capito quanto fosse grave la situazione”. Bechir è stato trasferito all’ospedale di Lione. L’equipe di specialisti francesi era stata molto chiara con Catalina: le avevano detto immediatamente che non ci sarebbe stato margine di miglioramento, i danni cerebrali riportati a seguito dell’urto al suolo erano tremendi. Catalina non si è lasciata abbattere. Con la grinta che la contraddistingue ha scelto di restare in Francia con lui, al suo fianco. Novanta giorni di ricovero e poi il rientro in Italia. Non si è lasciata spaventare da nulla, nonostante fosse sola, in un Paese straniero. L’ostacolo più grande che ha dovuto oltrepassare? Il suo stato civile. Non ha fatto in tempo a sposarsi con Bechir: “Un pezzo di carta vale molto di più dell’amore, della dedizione che ho dimostra-
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to in questi anni nei suoi confronti. In Francia non mi hanno reso le cose più difficili di quanto non lo fossero già, in Italia però è stato tutto più complicato”. Catalina ha fatto trasferire il suo Bechir all’ospedale di Camposampiero, nel reparto di lungodegenza. Lì è rimasto un anno. Gli è stata vicino ogni giorno. Con il fallimento della ditta di Bechir ovviamente ha perso anche il lavoro, ma non si è lasciata abbattere. Lei in cuor suo sapeva che stava facendo la cosa giusta. Dopo dodici mesi di ospedale però si era posto il problema del trasferimento. Ed ecco che le strade di Catalina e Bechir si incrociano con quelle del Centro stati vegetativi dell’Opera Immacolata Concezione. Le cure del personale infermieristico e medico, unite all’amore di Catalina, fanno il piccolo miracolo. Dopo un anno e tre mesi Bechir comincia a cercare di comunicare di nuovo: “È sempre stato un uomo volitivo, ostinato, determinato. Sapevo che non si sarebbe lasciato costringere ancora a lungo in quello stato. I primi miglioramenti li ho notati qualche mese fa. Braccia e gambe ben distese, non c’era più quella strana tensione nei suoi arti. Poi ha iniziato a sorreggere il capo da solo. Non credevo ai miei occhi”. Ora Bechir comunica più apertamente con Catalina e con il personale dell’Oic che sta tentando il tutto per tutto per riuscire a farlo progredire nel suo cammino di recupero: “È in grado di seguire le persone con lo sguardo, risponde agli stimoli uditivi. Riesco a capire se ad una domanda mi risponde affermativamente o negativamente. I medici non sanno dirmi molto: soprattutto non sanno fino a che punto potrà riacquistare autonomia, ma io sono fiduciosa. Bechir è un osso duro”. Lo staff che ha in cura il cinquantenne spiega che non tutti gli stati vegetativi sono uguali, non tutti i danni cerebrali sono equiparabili: per alcuni c’è margine di miglioramento. Non se ne parla nemmeno di gridare al miracolo, ma di certo il caso di Bechir sarà oggetto di studio da parte dei medici dell’Opera
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Immacolata Concezione. Tornerà com’era prima di quel 5 maggio 2008? Attualmente nessuno può saperlo. Ma Catalina è felice. Quello sguardo ricambiato, quel braccio che è riuscito a sollevarsi autonomamente ha spazzato via come una pioggia estiva due anni di dolore, senso di colpa, paura, disperazione. Non sa cosa aspettarsi dal domani, ma – in fondo in fondo come tutti i familiari dei pazienti del Centro stati vegetativi – non ha perso la speranza. Si è lasciata alle spalle dissapori con alcuni parenti tunisini di Bechir, con la persona che ora ne tutela gli interessi. “L’importante è che continui a migliorare, sta veramente compiendo passi da gigante”. Bechir ce l’ha fatta una prima volta. Ora sta gettando le basi per riuscirci nuovamente. Nel frattempo anche Catalina non si è data per vinta. Ha continuato a stare al fianco del suo uomo, ma ha dovuto rimboccarsi le maniche. Ha visto fallire l’azienda che aveva contribuito a far crescere, ha visto finire i pochi risparmi che aveva, denaro speso completamente per venire incontro alle esigenze di Bechir, per stargli accanto a Lione, a Camposampiero ed ora qui alla Mandria. Ha ricominciato a lavorare come impiegata in un’azienda di autotrasporti. Ha saputo fare del suo essere di nazionalità rumena un valore aggiunto anche qui in Italia. Si divide tra l’ufficio ed il centro di via Toblino. Discretamente, nonostante non abbia in mano alcuna carta che attesti il suo amore e la sua dedizione per Bechir, ogni giorno passa un po’ di tempo con lui. Cerca di proteggerlo, di spronarlo a vincere il suo stato. Per ora ha avuto ragione lei. Non ha mai creduto in quanti le dicevano che era inutile continuare a stargli vicino perché non poteva sentire nulla. Progetti per il futuro? “Non dico nulla. Gli ultimi tre anni li ho passati sulle montagne russe. Prima l’avvio dell’attività, poi l’incidente, la disperazione. Un anno e più senza alcun segnale ed ora il nuovo inizio. Non so dove arriverà Bechir, so solamente che resterò al suo fianco”.
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Gli occhi di Francesca
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di giovanni viafora
Francesca si avvicina piano al letto di Sabina. E le carezza il viso. «Stai bene, amore?», le sussurra lei in un orecchio. Sabina, che è nel mare scuro, non sente. Francesca allora la dà un bacio sulla fronte. E con lo stesso tono di voce, ripete: «Stai bene, amore? Se stai bene stringi forte le palpebre». Sabina è immobile, ma le sue pupille si muovono come le onde agitate dal vento. «Su, amore», la incoraggia Francesca. Un secondo ancora e Sabina serra stretti gli occhi. «Così, brava».
Francesca è nata nel 1951 in un piccolo paese di provincia. Ha un viso che sa di domeniche di festa e una camminata che somiglia ad un giro di liscio. L’abbiamo incontrata una mattina di pioggia in quella che è diventata la sua seconda casa, l’Opera immacolata concezione della Mandria a Padova. Ci siamo seduti di fronte a lei su una poltrona, in una stanza soleggiata del secondo piano dell’istituto, dove Francesca dal febbraio del 2008 si prodiga nell’assistenza di un’anziana scivolata in stato vegetativo a seguito di un infarto. «La mia Sabina», come ci ha dolcemente suggerito. La sua è una storia di amore, di ostinazione e di inconsapevolezza. «Io sto bene qui – ci ha raccontato –, perché con loro si può parlare, con loro puoi farti capire».
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Loro, dice Francesca. «Vedi, Sabina mi sente. Quando ho cominciato ad accudirla gli infermieri la tenevano seduta su una sedia a rotelle; ma lei non stava bene. In quella posizione sudava e la pressione le crollava. Allora ho pensato di tenerla sdraiata sul letto, magari con un cuscino dietro la testa. Ho percepito immediatamente che così stava meglio. “Sabina, amore”, le ho detto, “dimmi se va bene, stringimi gli occhi”. E lei me li ha stretti. È solo questione di mettersi in sintonia, di entrare in confidenza. All’inizio non è facile, ma si può fare. Bisogna creare un contatto, pescare nel buio un paio di fili. Era così anche con il mio Nereo».
«Caro Nereo». Basta pronunciare quel nome, che la voce di Francesca cambia intonazione. Riempiendosi di una vena dolce. «Lo stesso capitava con il mio Nereo. Lui conosceva i miei passi, sapeva distinguerli. Quando dal fondo del corridoio gli annunciavo: “Amore, sono qua”, lui sospirava. Come se dicesse: “Eccoti, sei arrivata”». Lentamente si mostra la vita di Francesca. «Ho cominciato a seguire Sabina una settimana dopo che Nereo morì. Non ce la facevo a stare a casa, sentivo che dovevo tornare. Quando i famigliari di Sabina mi hanno chiesto se potevo badare alla loro cara, non ci ho pensato un attimo. Sono tornata di nuovo qui. Perché questo è un lavoro che faccio col cuore». E con gli occhi. Soprattutto, con gli occhi.
Gli occhi di Francesca sono come un faro nella notte. Uno di quei fari sulle coste, cui i marinai si appendono quando navigano nel buio. «Il mio contatto con loro sono i miei occhi. Quando arrivai all’Istituto con Nereo, il dottore me lo disse molto bene. “Francesca, devi trovare un modo per avvicinarti a lui, per ascoltarlo”. E io ho capito
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subito che potevo farlo con lo sguardo. L’ho capito subito. Così è con Sabina, così è stato con Nereo». Francesca e Nereo, quante volte si saranno fissati negli occhi. Durante un giro di liscio, per esempio. «Noi ballavamo sai? Nereo mi portava almeno due volte a settimana in balera. Certo, poi con gli anni siamo andati sempre meno in pista, perché lui preferiva andare al bar con gli amici. Ma per me non è mai cambiato niente. Anche se non andavamo a ballare io lo aspettavo a casa, gli preparavo la cena. Gli piacevano gli asparagi». Francesca non ha più tolto lo sguardo di dosso a Nereo, neanche dopo l’incidente. «Durante il suo lungo sonno l’ho amato ancora di più – ci ha confessato –. Prima era di tutti, poi era diventato tutto per me. Me lo coccolavo, me lo stringevo al petto. Ci parlavamo». Francesca conserva alcune foto in una busta bianca. «Ecco, questo è lui, il giorno in cui lo portai a casa. Fu la vigilia di Natale del 2006. Dovevi vedere. Il medico era preoccupato: “Francesca come fai a tenerlo lontano dall’Istituto. E se gli viene una crisi, cosa facciamo?”. Ma io mi ero fatta dare dare le medicine, l’aspiratore, tutto. E lo portai a casa. Fu splendido. Nereo non fece neanche un colpo di tosse. Ti guardava così, e sembrava che dicesse “Sono davvero a casa mia?”». «E quella volta che Nereo vide per la prima volta la sua nipotina?». Francesca si emoziona ancora. «Lei era in carrozzina, aveva appena venti giorni. Mio figlio William la prese in braccio e la mostro al papà: “Questa è la tua nipotina, Nicole”, gli disse. Lui guardò la bimba, quindi guardò Willi, poi di nuovo la piccola. E scoppiò a piangere. E poi dicono che non capiscono, che non vedono. Non è vero. Piangemmo tutti quel giorno». Francesca aveva addobbato la stanza di Nereo come fosse quella di casa. «Perché non si sentisse solo, perché non fosse buttato così. Loro hanno bisogno di sentire
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che ci sei. Sentono tutto. Una volta venne qui una nostra amica di famiglia e si mise a parlare dell’incidente. Nereo iniziò tossire a forte, fino a che gli mancò il respiro. Non voleva sentire quelle cose. E quello era il suo modo per farcelo intendere». Francesca capì prima di tutti che Nereo se ne stava andando. Lo capì, come al suo solito, con gli occhi. «Sono stata otto giorni e otto notti seduta al suo fianco prima che si spegnesse. Io ero qua. C’erano i miei figli. Erano le due e mezza di pomeriggio del 2 febbraio 2008. Lui mi ha guardata con distacco. Allora io gli ho detto: “Nereo vuoi un abbraccio?”. Lui ha sospirato ed è morto. Voleva un abbraccio, me lo aveva chiesto con gli occhi. E nessuno si era accorto di niente. Solo io». Amore e inconsapevolezza. «No, non avrei mai pensato di avere questa forza. Quando è successo, i primi mesi sono stati un incubo. Nell’affrontare la cosa, i problemi. Poi però ho imparato a vivere con lui. Non avrei mai immaginato. Per anni mi sono svegliata alle cinque, ho stirato e lavato per i miei figli e poi sono venuta qui da Nereo. Fino alle nove di sera. Ma io qui stavo bene». «E sto bene anche adesso, perché mi sento appagata. Sento di fare del bene, è gratificante. Quando Nereo mi lasciò organizzai tutto da sola: il funerale, la bara, tutto. Ma tornata a casa mi sentii vuota. È stato così che una settimana dopo ero di nuovo all’Oic, vicino ad un altro di loro».
Nereo, il marito di Francesca, finì fuori strada con la sua auto il 19 aprile del 2003. Un incidente inspiegabile: stava rientrando a casa dopo aver offerto ai dipendenti della sua piccola azienda di trasporti un bicchiere di prosecco per festeggiare la Pasqua. Quella sera Francesca lo stava aspettando in cucina. Gli stava preparando gli asparagi, il piatto che lui preferiva.
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«Sabina amore, sei messa bene?», si volta Francesca verso la sua signora, una donna dalla pelle liscia e i capelli ordinati. «Ogni venerdì la lavo, la curo – sussurra Francesca nell’orecchio di Sabina –. E io sono contenta così. È gratificante farsi capire da loro. Entrare nel loro mondo. Non è da tutti».
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Beniamina, la leonessa
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di Fabiana Pesci
Un caschetto di capelli bianchi su di un corpo minuto, ma per nulla fragile. Un corpo che dentro cela la forza di una leonessa. La vita le ha riservato, a distanza di una decina, botte devastanti, colpi che avrebbero piegato chiunque. Lei no, ogni volta, aggrappandosi alla fede, è riuscita a rimettersi in piedi, ad andare avanti, a non fermarsi mai. Beniamina oggi ha 65 anni, è nata il 29 aprile. Abita con il marito in una villetta ad Albignasego, costruita con passione, fatica ed amore dal figlio Andrea, muratore fin quando un incidente stradale non lo ha costretto su di un letto, immobile. Gli ha lasciato la vita, ma nello schianto, come ricorda mamma Beniamina, “gli si sono spezzati i fili che collegano la volontà al cervello”. Non è in coma. “È come un bimbo di tre mesi, ha bisogno di tutto, sono certa che capisce, ma non può esprimersi. Muove gli occhi, ti segue con lo sguardo, dorme, si sveglia, ritrae la mano come se provasse una sensazione di dolore quando gli dai un affettuoso pizzicotto”. La mamma lo sente “vivo”, avverte che c’è, lo cura con tutto l’amore possibile, quello riservato ai figli più indifesi. Sa che solo un miracolo può riportarlo a com’era prima dell’incidente, avvenuto attorno alla mezzanotte di un giorno che ha segnato la sua vita: il 15 maggio di sei anni fa. Il 15 maggio. Se quella data fosse stata tolta dal calendario lei, Beniamina, avrebbe ancora sua sorella al fianco e suo papà vicino. Il 15 maggio di una trentina d’anni fa un tumore le ha portato via una sorella di soli 28
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anni. “Un colpo durissimo – ricorda – una di quelle botte che ti fanno guardare la vita in modo diverso”. In un altro 15 maggio che non dimenticherà mai si è spento il papà. Poi nella notte fra il 15 e il 16 maggio del 2004 l’incidente al figlio Andrea, che oggi ha 40 anni, papà di un ragazzo di 14 anni e di una bambina di 10. Nel pozzo delle sofferenze di Beniamina c’è anche la malattia del marito, pensionato da ventitré anni, ex lattivendolo, invalido, bisognoso di assistenza e di cure, che deve fare spesso ricorso all’ospedale. A se stessa Beniamina pensa poco o nulla. “Deve” far marciare la sua azienda familiare, non può fermarsi. Lavora ancora. Per alcune mattina a settimana esce presto di casa per prestare la sua opera di collaboratrice domestica. Nonostante possa contare sul sostegno di tre figlie Beniamina sente di dover donare tutta se stessa alla propria famiglia. Le ore di riposo nella giornata si contano sulle dita di una mano. Due-tre ore di sonno poi il pensiero corre all’Oic di via Toblino, dove, dal gennaio del 2005, è ricoverato il suo Andrea. Avrà bisogno di qualcosa? Avrà la febbre? Sentirà male? Sono gli interrogativi che attraversano le sue notti. Tiene sempre il cellulare acceso sul comodino. Non si sa mai che la chiamino perché al suo Andrea serve qualcosa. Poi quando il sonno se ne va, Beniamina apre un libro e legge, legge tanto. A volte il sonno ritorna e così lei si risveglia di soprassalto, quando il libro le cade dalle mani. Alle 7 meno 10 suona la sveglia: un caffè, una sigaretta e via che parte la sua giornata. Lava e aiuta il marito a rivestirsi, riassesta la casa, quindi esce per andare al lavoro o per raggiungere di buon mattino l’Opera Immacolata Concezione e tornare accanto ad Andrea. Pochi chilometri da Albignasego alla Mandria per chi può contare su di un’auto, un viaggio in tre tappe per chi la patente non ce l’ha: prima l’88, poi il tram, quindi il 22. Quando va bene il percorso lo compie nell’arco di una mezzora, ma quando il traffico è caotico saltano le coincidenze, così i tempi si allungano fino a 90 minuti. Non c’è pioggia o neve che le
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possa impedire di raggiungere l’Oic. Andrea ha bisogno di lei, gli serve il suo amore, il suo calore. “Se parli lui capisce, se lo accarezzi sembra che ti sorrida. Nemmeno l’amore più grande di una mamma riesce a intuire i suoi bisogni”. Quanto “pesa” questo tipo di vita a Beniamina? “Anch’io ho i miei momenti di tristezza – sussurra – anch’io mi abbatto quando accanto a mio figlio faccio domande e da lui non ricevo alcuna risposta. Le forze mi tornano quando chiedo l’aiuto a Dio. Il dolore c’è sempre, ma io cerco di dimenticare le tristezze gettandomi tutto dietro le spalle. In me non c’è sofferenza. Mi è rimasta l’ansia per questo figlio, perché non so quanto e soprattutto se soffre. Quando entro nella sua stanza lo saluto, gli sorrido, lo accudisco. Gli sto vicino. Più in là non posso andare. Sente male? Io vorrei che lui non soffrisse, ma mi sento impotente. Non riesco a capire. E questo per me si traduce in ansia”. Quando racconta la storia della sua famiglia, dopo un esordio quasi a monosillabi, Beniamina diventa un fiume in piena. Rivive i particolari, tutti gli episodi con un’impressionante lucidità. Ogni tanto si lasciare scappare un “ci vuole tanta fede a sopportare queste cose”. Ha organizzato la sua vita in modo tale da essere il più a lungo possibile accanto ad Andrea. A mezzogiorno il suo pranzo è costituito da un bicchier d’acqua e da un pacchetto di crackers. È così da quell’ormai lontana primavera del 2004. La notte fra il 15 e il 16 maggio il suo cellulare l’aveva lasciato spento. Del gravissimo incidente di suo figlio con la moto appena comprata seppe solo al mattino. “Stava vivendo un momento difficile Andrea. Aveva espresso il desiderio di prendersi una moto. Abbiamo detto sì a malincuore, in cambio lui ci aveva promesso di andare piano, soprattutto per amore dei suoi due bambini. Quella sera Andrea era uscito a mangiare una pizza proprio con i suoi due figli e la cognata. Al ritorno, a Rubano, un camioncino gli ha attraversato la strada. Andrea è stramazzato sull’asfalto mentre il conducente del mezzo investitore se n’è andato
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come se nulla fosse successo. Poi la corsa all’ospedale e il ricovero al centro Gallucci. “Quando sono andata a trovarlo ho immediatamente capito la gravità di quanto era successo. Una dottoressa mi ha spiegato che il mio Andrea non sarebbe stato più tornato come prima: il tremendo colpo alla testa gli aveva prodotto danni cerebrali irreversibili”. Venti giorni a Padova, nella Rianimazione cardiochirurgica, e poi il trasferimento all’ospedale di Vicenza per tentare un impossibile recupero. “Andavo tutti i giorni a trovarlo. Salivo in pullman alla mattina e tornavo alla sera. Una delle mie figlie mi veniva a prendere alla stazione delle corriere per riportami a casa”. E quando parla delle sue figlie, Beniamina va col ricordo alla più piccola, che oggi ha 23 anni. “Volevamo farla studiare – ricorda- ma dopo l’incidente di Andrea non è più stato possibile. E questo cambio di programma mi ha provocato un grande dispiacere. Avevamo fatto tanti sacrifici perché potesse andare all’Università”. Dopo i sei mesi a Vicenza il ritorno in città, dove si è aperta la possibilità di trasferire il figlio all’Oic della Mandria. “Una fortuna – racconta Beniamina – perché qui è come una famiglia”. Andrea per la sua mamma è rimasto sempre lo stesso, anche se ora è inchiodato ad un letto: era uomo forte e robusto, un lavoratore instancabile fin dall’età di 14 anni. Oggi dipende da lei come se fosse un “bambino di tre mesi”, ma l’amore di mamma Beniamina non è cambiato. “A volte c’è chi mi chiede se non fosse preferibile la morte istantanea piuttosto che una vita come questa. No, non l’ho mai pensato nemmeno per un attimo. E non lo penserò mai e poi mai”. Beniamina non ha dubbi, anche se servono energie a tonnellate per andare avanti, per assistere Andrea e per venire incontro alle crescenti esigenze del marito, “su e giù per gli ospedali”. Le condizioni di Andrea hanno “pesato” anche sullo stato di salute del papà, così come sullo stato d’animo dei figli. “Quando il più grande è venuto qua per la prima volta è andato vicino al suo papà, lo ha saluto e quando non
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ha ricevuto risposta è scoppiato in un pianto senza fine”. Solo allora quel bambino ha capito quel che era accaduto a suo padre. Ora, con il freddo che lascia il posto ad una primavera, sia pure ancora incerta, Beniamina porta Andrea a passeggiare nel parco dell’Oic. Mamma e figlio fuori insieme all’aria aperta, immersi nel verde e nella quiete. Nel 2006 con il treno dell’Unitalsi, Beniamina e Andrea si erano recati fino a Lourdes, davanti alla grotta della Madonna. “È stato bellissimo – ricorda la mamma – essere insieme a tantissima gente a pregare. Sembrava di essere in mezzo ad un oceano di fede. La sofferenza si era all’improvviso trasformata in gioia, il buio del dolore era diventato luce, il freddo della solitudine nel calore dell’amore. Giornate indimenticabili. Andrea non ha sofferto, sicuramente. Abbiamo viaggiato su un vagone ospedale attrezzatissimo, pieno di volontari ed infermieri”. Nei lunghi mesi trascorsi steso su di un letto, da Andrea mai un segnale di miglioramento, mai un lampo di normalità, anche se quegli occhi spalancati sulla vita sembrano riportare all’interno del corpo sentimenti appena percepiti, semplicemente abbozzati, come può fare un neonato. Piccoli segnali appena intinti di speranza che si trasformano in fari nella notte per mamma Beniamina. “Lui c’è” dice con sicurezza e questo gli basta per tirare avanti, per “gettarsi alla spalle” come dice lei, ogni dolore. Non si sente un’eroina per quello che fa, lo giudica un comportamento normale. Guai se qualcuno si rivolge a lei con un “poverina”. Non si sente tale. “È il comportamento che dovrebbe tenere ogni mamma e ogni moglie”. “Tante volte le mie figlie e i miei parenti mi dicono di fermarmi. Mi invitano a riposarmi, ad estraniarmi, a fare un viaggio. No, niente viaggi, anche perché viaggi non ne facevo nemmeno prima”. C’è Andrea che lo aspetta, il marito che ha bisogno di lei e quella sua bella casa da mandare avanti. Quella casa costruita da Andrea, con le sue mani. Tirata su da quel bra-
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vo muratore di suo figlio fra il 1991 ed il 1996, sottraendo ore al suo riposo, alla sue domeniche, ai giorni di festa. Beniamina va con la mente a quella casa vecchia dove si è formata la sua famiglia, mamma, papà e quattro figli, con Andrea, unico maschio, primo arrivato a rallegrare la loro unione. La voce le si addolcisce ancor più quando ricorda che nell’attesa di poter metter piede nella casa nuova, in tutta la sua vastità, dormivano in sei in un’unica stanza. Poi il tempo li ha fisicamente separati: “Ma siamo sempre molto uniti, non solo nei momenti di gioia” si affretta ad aggiungere Beniamina, mamma e moglie tanto semplice quanto solare. E che non ha mai tempo per essere triste. Neanche quando il ricordo affonda in quei tre drammatici “15 maggio” che hanno segnato la sua esistenza. Beniamina è la vittoria della vita sul dolore, con le armi della fede, dell’amore e della speranza. Anche in un miracolo dopo le tante sofferenze che le hanno prosciugato le lacrime.
Un viaggio speciale
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di giovanni viafora
Il dottor Eugenio Castegnaro, direttore della prima divisione di Lungodegenza dell’Ospedale di Padova, è seduto ad un tavolo spoglio del pianterreno, nella residenza dell’Oic alla Mandria. Avrebbe un vissuto bello da raccontare: i suoi quindici anni di coordinatore volontario dei medici dell’Unitalsi, l’Unione Nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali. Però indosso ha ancora il cappotto, come se volesse affrettarsi a dire qualcosa per non farsela scappare. E in effetti qualcosa c’è. Il dottore si accomoda bene sulla sedia, dà una sistemata agli occhiali e accenna un mezzo sorriso. «Anche i miei colleghi dicevano che ero matto – confida subito –. Ricordo bene che mi chiesero come mi sognassi di portare quei pazienti a Lourdes. Io però l’ho fatto e basta. Ed è stata un’esperienza stupenda». Ecco come comincia la storia di un viaggio speciale, quello dei quattro ospiti dell’Oic in stato vegetativo, che per la prima volta nel 2006 il dottor Castegnaro ha portato in pellegrinaggio a Lourdes. Proprio sul treno dell’Unitalsi. «Alla fine il risultato è stato sorprendente, un grande regalo per tutti – racconta il medico –. Ma nessuno, tranne forse i parenti degli ammalati, credeva che quel viaggio potesse essere possibile». D’altronde affrontare un tragitto di oltre 1250 chilometri – tanto dista la stazione di Padova da quella della cittadina degli Alti Pirenei, teatro delle apparizioni mariane –, che dura quasi 24 ore, risul-
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ta già faticoso per una persona sana: figuriamoci per chi ha costantemente bisogno di cure e attenzioni. Eppure il dottore non si è mai lasciato condizionare. «Erano state le famiglie a chiedermi di portare i loro cari in pellegrinaggio – precisa Castegnaro –. E all’inizio, a dire il vero, la cosa aveva un po’ lasciato perplesso anche me. Tuttavia non sono stato là a pensarci troppo. Ho detto: anche queste persone hanno diritto di fare un’esperienza come quella del pellegrinaggio, sono come gli altri. E poi forse questo tipo di avventura potrebbe addirittura giovare loro». E così è stato. Il dottore ripete un sorriso e riavvolge il nastro della memoria. «Me lo ricordo bene quel giugno del 2006 – sospira –, faceva un caldo torrido: in città non si respirava e senza aria condizionata era difficile fare ogni cosa. Così quando incontrai le parenti di quei quattro ospiti dell’Oic, che mi domandavano di portare con me i loro cari, quasi non credevo alle mie orecchie. La prima paura che avevo era che quel caldo asfissiante potesse creare problemi seri ai pazienti». Quella, però, non era quella l’unica preoccupazione. «Al di là del caldo – prosegue infatti Castegnaro, che all’Oic dirige il “Centro stati vegetativi” – c’era un’altra questione che mi angustiava. I quattro non erano mai usciti prima di allora da casa: per la prima volta nella loro “nuova vita” avrebbero dovuto fare un tragitto di oltre mille chilometri, per giunta con tutti i disagi che può portare un viaggio in treno». Al primario di Lungodegenza, tuttavia, la pazienza e l’ostinazione non sono mai mancate. «È vero, togliere queste persone dal loro ambiente poteva essere un rischio – avevo riflettuto – altrettanto, però, farle vivere un’esperienza simile poteva dar loro una nuova forza. Ho puntato sulla seconda opzione». Castegnaro fa una pausa e ragiona. «C’è un pensiero che mi spinge sempre a fare questo tipo di considerazioni – precisa –, ovvero che noi ancora non sappiamo nulla del nostro cervello. Nonostante i sorprendenti progressi del-
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la scienza medica, abbiamo solo una minima percezione di come funzioni la testa. Per cui, in alcuni casi, è giusto scommettere». «Ho impiegato poco tempo ad organizzare il viaggio – continua il dottore –. Sapevo di poter contare su una carrozza attrezzata del treno che porta a Lourdes; ma per l’occorrenza mi ero procurato anche dell’ossigeno. Poteva servire». Il giorno della partenza c’era grande emozione. «Con noi venivano anche i parenti degli ammalati – rammenta Castegnaro – loro erano agitati, ma anche pieni di gioia per quell’avventura che stava iniziando. L’irrequietezza era dovuta al fatto che non potevano viaggiare al fianco dei loro cari: i quattro pazienti, infatti, dovevano stare da soli in un vagone riservato, dove sarebbero stati seguiti stabilmente dal personale medico». Pure gli stessi pazienti, però, sono sicuro che avvertissero una certa frenesia. «Temevo potessero sentirsi abbandonati – confessa il primario –, è un fenomeno normale quando si tratta di persone in stato vegetativo, che talvolta hanno un rapporto simbiotico con i familiari che li seguono». Ed è stato proprio prima che il treno si mettesse in marcia, lasciando la stazione di Padova, che un medico ha affiancato Castegnaro e gli ha detto. «Tu sei matto, ma come fai a portare questi qua?». Il dottore ancora a distanza di anni da quel giorno prova però un senso di sollievo e di felicità. «Ogni preoccupazione è svanita appena siamo partiti – confida il primario –. Il viaggio è stato bellissimo, sereno. I miei quattro pazienti sono stati tranquilli tutto il tempo e così i loro parenti. Non c’è stato bisogno di nulla. Erano proprio degli ammalati come gli altri, come quelli che per anni avevo accompagnato su quel convoglio». Castegnaro non si ricorda di avere ancora il cappotto infilato: ripercorrere le tappe di quell’avventura lo emoziona ancora. «A Lourdes i quattro pazienti con i loro familiari sono stati benissimo – afferma il dottore, veterano
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dei pellegrinaggi –. Hanno seguito tutte le celebrazioni, sono stati alla grotta, hanno pregato. Per loro è stato un bagno di spiritualità. Eravamo tutti entusiasti, così tanto che il viaggio di ritorno si è risolto quasi in una formalità. Tornando guardavo fuori dal finestrino e pensavo: la forza di questi miei pazienti speciali è stata uno stimolo per ognuno di noi». Il ritorno a casa ha portato nuove sorprese. «Tutti e quattro erano stati bene di salute – chiosa il dottore –, nessun malanno, neanche un raffreddore. Anzi, posso dire che stavano meglio. Al rientro sono stati visitati dal medico che li segue abitualmente e sono stati trovati tutti in buona forma. Quel viaggio, insomma, aveva dato loro grande forza». Il dottor Castegnaro sembra percepire ancora sulla sua pelle una scarica di energia. «Quell’esperienza è stata per me indimenticabile – dice ora –. La cosa più bella è stata quella di essere al servizio di queste persone, la cui condizione spesso non è ben accetta. E di sentire che loro stavano bene».
Qualche giorno dopo aver raccolto il racconto del dottor Eugenio Castegnaro incontriamo nell’atrio della residenza Oic alla Mandria Teresa e Luisa. Sono due delle quattro signore che nel 2006 hanno vissuto quel viaggio meraviglioso a Lourdes: Teresa accompagnando il marito Alfio; Luisa la mamma Antonietta. Le due signore si emozionano ancora a parlare di quell’esperienza. Luisa, che era stata colei che aveva lanciato per prima l’idea del viaggio, accenna un pensiero. «Pensavo di fare un regalo a mia mamma, portandola in pellegrinaggio – afferma – invece alla fine è stata lei a fare un regalo a me». Teresa la segue. «Eravamo partite depresse – dice –, siamo tornate con il sorriso». Teresa e Luisa sono come due angeli custodi per i loro cari. I loro occhi si illuminano quando la mente torna al 2006. «Ragionando a tavolino nessuno avrebbe fatto
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quel lungo viaggio – riprendono all’unisono –. Sembrava una follia. E di questo dobbiamo dire grazie anche al dottor Castegnaro. Invece è stato qualcosa di straordinario. L’esempio di come un’esperienza così intensa possa riaccendere la luce e donare la gioia di vivere».
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Il silenzio delle parole
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di Giovanni Cinefra*
Capita a volte, quando uno è messo in croce, che i chiodi vadano a ferire altri dietro di lui. Francis Jammes
IL DRAMMA DI UNA VITA
MARCO, il figlio: Una vita nel dramma ELISA: La mamma vicina
UNA STRUTTURA DI ACCOGLIENZA Un narrante: che cerca un incontro profondo con Marco L’UOMO DELLA BUONA NOTIZIA: “Dove abiti?”
* Associazione Agorà Laboratorio Terza Età Protagonista.
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TRAMA
a 16 anni MARCO è giovane e gioca
a 19 anni conosce SABRINA, l’unico, solo, tormentato amore della sua vita
a 24 anni si fa incontrare da FRANCESCA, ha un figlio e si sposa a 28 anni gli nasce una figlia
a 33 anni MARCO si separa. La casa e i figli restano alla moglie a 34 anni MARCO ha un grave incidente in moto
a 37 anni oggi MARCO sopravvive in uno stato vegetativo
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Vorrei che queste parole fossero un balbettio, un silenzio, per esprimere la mia incapacità a dire, povere, per la mia inadeguatezza ad avvicinarmi a questo dramma di vita, solenne, tragico, nella sua realtà. Ma partirò da lontano, affonderò le radici addirittura nel Mito, poiché nella sua velata trasparenza dice ciò che veramente siamo.
Nell’antico, quando gli uomini non riuscivano a darsi una spiegazione dei fatti, ricorrevano al mito, cioè alla trasposizione della realtà in una sfera fantastica, misterica. Dentro il mito: le ali di Icaro
Icaro, su ali di aquila che a primavera rinnova la sua forza, ali di giovinezza, vola verso cieli azzurri, incontaminati. Le penne ben intrecciate e incollate, sospinte dal suo vigore, gli danno la spinta necessaria per volare alto, quasi a simulare il volo degli Dei. Icaro sente il vento tra i lunghi capelli, un volo che inebria, finalmente libero; il lungo tempo della costrizione è finito. Il suo ritmo non è quello di suo padre, che continua a ripetergli: “vola basso”, ”stammi vicino”. Il suo battere di ali lo porta in un cielo tutto suo, in un orizzonte solare. Le sue piume, non più inumidite, non sono fatte per seguire ancora il vecchio padre. Solo dalla terra c’è apprezzamento per il suo volo: il sogno di ogni uomo. I pescatori alzano lo sguardo pieno di stupore e ammirano ciò che non avevano mai veduto. Icaro vede i contadini, i pastori dall’alto, piccoli punti nell’immensità della terra; ma la sua strada è nel cielo, e vuole offrire loro uno spettacolo sublime: prima un volo ascensionale, quasi verticale, e poi una lunga planata. In lui c’è ora il gusto della velocità, della trasgressione, incurante ormai di ogni prudenza. Lunghi anni di labirinto
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l’avevano fiaccato, depresso, con il pericolo di rimanere per sempre in una situazione di stallo, incatenato quasi a una vita col padre, che l’aveva condizionato con oscure paure, gettato in un’esistenza labirintica, senza vie d’uscita, alienante. Pur nella rabbia che gli cresceva dentro, quasi si era adattato passivamente a quella situazione. Ma ora quei colpi d’ala sono un incanto. Sentiva il suo corpo, nel cielo del vento, libero di andare in qualsiasi direzione. Icaro non scorgeva più il padre Dedalo, non vedeva più nessuno, era padrone ormai del proprio destino. “Voglio dare un nome a quell’isola, a quel mare; si chiameranno col mio nome”. Sogni di gloria, di una giovinezza onnipotente, ma cara agli Dei. Il destino di Icaro era segnato nel suo nome: “Sacro alla Dea lunare Car”, che gelosa del fatto che Icaro andasse verso il Sole, lo volle per sé, facendolo precipitare e schiantare. Questa figura del mito parla di una profonda mutilazione, parla anche di limiti che non conosciamo, così il mito fa parte del mistero dell’uomo, è l’ombra che ci accompagna nella vita.
La Dea della notte attendeva Marco, oscuro, oscuro destino, una macchia nera l’avrebbe assorbito, ingurgitando la sua coscienza, la sua esistenza di prima. Le sue ali erano una moto, per la quale nutriva passione, e gli dava quella spinta per uscire da certe situazioni che lo bloccavano. ma vediamo la cronaca di quei momenti:
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AUTOCARRO PIRATA GLI TAGLIA LA STRADA: Ė GRAVISSIMO
“Marco, trentaquattro anni, padre di in bambino e di una bambina, è ricoverato in gravissime condizioni in Rianimazione all’Ospedale di Padova. Nello stesso stato in cui un guidatore-pirata, al volante di un autocarro, lo ha lasciato, poco dopo la mezzanotte tra sabato e domenica. Il mezzo pesante è uscito all’improvviso da una strada laterale, per immettersi su quella che Marco stava percorrendo in moto, il conducente dell’autocarro, realizzando che a terra c’era una persona gravemente ferita, si dileguava.” Arida notizia di una vita spezzata
Marco passerà un mese in rianimazione “Gallucci”, poiché il trauma cranico conseguente alla caduta presentava ferite profonde, non operabili. I focolai cerebrali gli causavano febbri altissime con conseguenti crisi spastiche.
Passato a Vicenza in un centro di riabilitazione, per sei mesi i medici si sono prodigati cercando di recuperare frammenti di vita dalla sua corteccia cerebrale. All’angoscia profonda dei familiari i medici non davano mai una risposta di speranza, anzi innumerevoli volte avevano dato Marco per spacciato.
La sentenza finale non lasciava spazio ad alcuna consolazione: coma vigile, grave compromissione della funzionalità del cervello, nessuna possibilità di recupero. Stato vegetativo, insomma.
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Superate le crisi accese, grazie a cure appropriate e ad un fisico molto forte, Marco viene dimesso. Ma date le sue condizioni, non era possibile tenerlo a casa.
Dopo un tempo passato nella Struttura intermedia dell’Ulss presso l’OIC, viene accolto al Paolo VI, sezione Stati Vegetativi. Marco ha un dispositivo perché non si ritirino le gambe, e mangia attraverso la “PEG” inserita nell’inguine. DENTRO LE VISITAZIONI
Padova, Mandria, Opera Immacolata Concezione, Residenza Paolo VI, piano II, Stati Vegetativi. Sto per entrare nella stanza di Marco, sono passati tre anni dall’incidente. Come mi avvicinerò a Marco, a sua madre? Ecco, nell’entrare, sento emotivamente che c’è qualcosa di sacro in questa stanza, che questo letto è un altare, dove viene consumato un sacrificio. È come avvicinarsi al mistero. Marco, steso sul letto, in quel momento apre gli occhi e si torce le mani, al di là della mia percezione sembra dire: “eccomi, nel mio corpo, nel mio sangue”.
Oh, il peso di sapere, mi sto caricando di conoscenza, sono un tunnel di scorrimento, ogni cosa vissuta mi viene vicino. Per ogni uomo che vive fino al dolore, alla menomazione, per ogni uomo che muore dentro di sé, allargo le braccia in una croce di disperazione e mi carico di terra. Mamma Elisa, presente, sta curando il viso del figlio, le sue mani sentono ancora la freschezza di quel volto, con la schiuma gli rade la barba, qualche volta gli procura
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dei piccoli tagli. Marco ha un viso dolce, ed accenna impercettibilmente a un sorriso, vorrebbe, forse, esprimere qualcosa? Io sono a fianco del letto, in silenzio. La mia natura di uomo è limitata, c’è separatezza.
Io cerco nel tuo volto, nel tuo corpo, in questa tua immagine sconosciuta, nelle parole che non dici, in questo breve spazio di separati momenti, un qualcosa che mi faccia avvicinare a te. Oh, se potessi parlarti, se le mie parole ti somigliassero, se potessero entrare nelle tue ferite, nei tuoi frammenti di vita, se le mie parole, forse nel canto, o nella preghiera, o nell’abisso del cuore, portassero in dono l’incontro, la mia anima non sarebbe così nuda, così disgregata. Perché in fondo, vicino a te, sono io ad essere menomato. Elisa mi mostra una foto, gelosamente custodita, di un Marco completamente diverso, un altro se stesso. Quello che colpisce sono i lunghi capelli, fatti per la corsa nel vento, o sedurre, figura sospesa che prelude a una svolta del destino, a un evento drammatico. Marco è in procinto di penetrare in un mondo ignoto, in un tempo sospeso, al confine dei giorni, dove le albe e i tramonti sono sempre uguali.
Ora i capelli sono corti, ancora scuri, e scolpiscono il viso, dove non hai solchi di lacrime, né segni di sofferenza, di un passato che non c’è più, guardandoti ora, avverto che ti manca qualcosa, irrimediabilmente perduta. Qualcosa ormai di inesprimibile... Forse sei sopraffatto dal tuo corpo, chiuso, prigioniero, in un involucro, la tua ombra si deposita sulla mia anima, e così non c’è sorriso né gioia nel vederti. Ma niente ha importanza a fronte del fatto che vivi.
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La tua vita è un braciere di incenso. Vicino a te un profumo soave di preghiera sale al cielo, e noi siamo terra, humus, umani, troppo radicalmente umani, fino a non capire, e tu nel vento, colto nel vento, che soffia dove vuole, creatura ormai senza limiti. Ed ora sfuggi ad ogni definizione, non dirai mai dove sei, cosa è successo. Una grande forza ti ha colpito. Ecco, il silenzio è il tuo testimone, il martirio del silenzio, la santità del silenzio. Tu sei testimone e martire, perché in fondo dicono la stessa cosa. La scienza non ha coscienza di cielo, ma io so che la vita abita dentro il tuo corpo, passa dalla tua anima, che non ha lacrime né risentimento, tu sei uomo, non l’immagine di un uomo. Tu sorprendi con la tua stessa vita, e noi ne sentiamo la presenza, anche quando le tue palpebre sono chiuse. Sentiamo la vita oltre il silenzio, oltre la solitudine, perché non hai terra negli occhi, ma un cielo di pareti bianche, e sei amato nel profondo, così come sei, la tua vita è preziosa... DENTRO IL MITO: ADONE E IL REGNO DELLE OMBRE
Un giorno Afrodite, la più bella tra le Dee, gelosa della bellezza di Adone, lo chiuse in un forziere, e lo affidò a Persefone, che dopo la discesa agli Inferi, era divenuta regina dei Morti. Persefone tradì la fiducia poiché, vinta dalla curiosità, aprì il forziere e presa dalla bellezza del ragazzo decise di portarlo con sé nel suo palazzo per farne il suo amante. In seguito Afrodite e Persefone si contesero il bellissimo Adone, quasi un prodigioso duello tra la vita e la morte, ma né la giovinezza, né la bellezza preservarono Adone dal fluttuare in un mondo fatto di ombre. Le Dee però non permisero che scendesse definitivamente al nero Tartaro. Soprattutto Persefone, padrona dell’Oltretomba, lo risparmiò, perché ricordava ancora la sua esperienza, il
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tempo della sua giovinezza, quando intenta alla vita, cogliendo i bei fiori del prato, improvvisamente, venne rapita, lasciando i suoi sogni giovanili, i suoi affetti, la speranza di un mondo fatto di luce, di colori, di bellezza, Ade, amante spietato, la condusse con sé nell’oscuro regno delle ombre. E, inoltre, Persefone aveva ben presente l’angoscia, la disperazione, il dolore profondo di una madre, di sua madre, Demetra, quando instancabile percorreva ogni terra, ogni ospizio, alla disperata ricerca della figlia, chiamandola per nome. L’Olimpo non si muoveva a pietà, Demetra ormai l’aveva lasciato; solo la terra, che lei fecondava con le sue lacrime, ormai assorbiva la sua anima. “Figlia, adorata figlia, dove sei veramente? Il tuo sorriso non ha dato vita alle messi, al grano verde, non vedo il prato che un giorno percorrevi nella tua verginità; ho attraversato più volte i campi, ho camminato nei solchi dell’aratura e della semina, ma non ho incontrato il frutto della tua fertilità”. Così piange una madre, pensando sia possibile tornare alla vita di prima. Persefone ormai è altrove, negli Inferi oscuri, perciò è temuta dagli uomini, perché è colei che porta la distruzione: i suoi frutti si fendono a forma di ferita, i chicchi rossi all’interno simboleggiano la morte.
Marco è stato lasciato a sua madre, ai familiari, anche se a volte non c’è consolazione saperlo vivo in questo modo. “Non so che dolore mi avrebbe dato la sua morte – dice Elisa – perché non l’ho provato, ma non sono contenta averlo qua, vederlo così. A volte mi sento stanca, depressa, e devo ricorrere al medico perché mi tiri sù e mi faccia ripartire”. Le chiedo: “Come hai vissuto questa storia?” Mi risponde: “Io l’ho seguito sempre, anche nei momenti peggiori. Vivo per Marco e nessuno all’infuori di
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una mamma può capire questo. Ho sempre sperato che qualche tecnologia potesse salvarlo, farlo uscire dal coma. Ma ora non resta che accettare e andare avanti, anche se vivo con un’angoscia profonda, per qualche altro male che lo possa prendere. Vivo come in attesa di qualcosa.”
Sopravvivere al tempo disperante, al dolore, al prezzo troppo alto che paghiamo per questi giorni che bruciano. Oh, potesse, a volte, l’amore scivolare nell’indifferenza, nel distacco, non avvertirei dentro il grido assurdo che fa male. I miei occhi ormai sono pietre aride, non c’è acqua che mi disseti, né musica che mi faccia dimenticare la strada percorsa, questo presente che vivo, l’ansia per il futuro… se ci sarà un futuro. Qualche giorno dopo incontro Marco nella sua carrozzella, al pianoterra, con Elisa vicino, noto i suoi piedi, rivolti all’interno, con dei calzettini bianchi, per evitare forse uno sfregamento, o un fastidioso rinsecchimento. Quei piedi non lo portano, non sentono più la terra del mondo. Marco mi guarda per qualche istante con occhi profondi, e sembra chiedersi chi sono, forse qualcuno che tenta di disturbare il suo sonno, la sua simbiosi con mamma Elisa e manifesta il suo disappunto perché digrigna i denti e manda qualche suono disarticolato.
Sono qui cercando di addentrarmi nel tuo mistero di uomo, cercando di vincere la pietra dura del distacco, questo vuoto che fa male. Per questo ti guardo con assoluta chiarezza, e ti parlerò nel silenzio del cuore, nel sospiro senza parole, ti chiederò chi sei, se posso. Lasciami entrare nel tuo cerchio di ombra, fino a sentire la tua anima dimenticata.
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Lascia che io mi illuda di infrangere il silenzio dentro di te, le catene che ti tengono stretto, il segreto che ti avvince. Non fuggire laggiù, lontano dal pianto e dal sogno, dove la strada grigia ha fine. Vivi ancora del tuo sangue, non lasciar cadere a terra la speranza, tua e di chi ti sta attorno. Vedi, ora il cielo è calmo, il tempo scorrevole, nella sua nullità, senza battiti d’ora.
Godi di questo assoluto momento, in cui possiamo vincere la solitudine, il sogno distrutto, abbandonati alla dolcezza della sera, con la sua veste colorata, prima di consegnarti alla nudità della notte. Ecco il tempo delle tue mute parole, solo battiti di ciglia permettono che io acceda nella fenditura delle tue ferite, dove i pensieri scivolano via e poi ritornano ripetutamente senza meta, senza desiderio. Nel vuoto della mia anima, io mi affido al tuo sguardo, ed ora ti rivolgerò qualche domanda in modo che all’interno di questo percorso tortuoso, la conoscenza divenga solo amore, e non si nasconda. So che nell’amore, anche tu hai amato, e sofferto… Sorprendo Elisa in uno dei tanti momenti in cui c’è lei e Marco, e nessun altro, la sua mano è sul collo del figlio e molto vicina, gli sta sussurrando qualcosa, qualcosa che vince un’esistenza tradita, la proibizione di essere diversi, ormai.
Per altri, forse, tutto ciò non ha significato, non si può rimanere aggrappati a un nome, ad una immagine dai contenuti inutili, altri, pur nella buona volontà, si rifiutano a rivolgere richiami, rimangono freddi, delusi. Si dibat-
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tono nel colloquio silente, nell’assenza di una pur minima risposta.
Ma per una mamma c’è tutto un mondo che va oltre l’esperienza, per una mamma c’è sempre un colloquio intimo, una mamma sa che le sue parole non vanno perdute, sono a volte un’invocazione, una preghiera, una speranza, un affidamento. In questo, Elisa mi ha insegnato a entrare nella dimensione del silenzio, ad ascoltare ciò che è inespresso.
Chiedo: “com’era Marco prima dell’incidente?”. Elisa ha un po’ di ritrosìa a parlare del passato, forse perché la sua vita è ora, presa e chiusa nel presente, la realtà è adesso, e non muta, non muta… Nel frattempo io guardo Marco e gli tocco leggermente il braccio immobile, e penso che non è giusto isolarlo a quello che è adesso. Come potremmo capirlo? Marco sente la mia presenza, volge gli occhi a guardarmi, conosce il mio desiderio di entrare nei suoi immensi spazi vuoti, di attraversare i suoi tempi crudeli e senza speranza, ha sofferto l’indifferenza di molti che non amano guardare.
Forse intuisce la mia difficoltà, il mio sentirmi fuori luogo; ma sente nel profondo anche che lo sto cercando, perché parli e dica che la vita non finisce qui, in questa malattia, in questa morte.
Nel profondo dei suoi occhi leggo: “chi sei tu, che pretendi di volermi conoscere, al di là di quello che vedi, cosa cerchi nel mio spirito?”
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A questo punto Elisa vince il suo disagio, il distacco, e ora la sua attenzione si rivolge indietro, a una storia di vita con la sua bellezza e i suoi conflitti.
Marco è il mio primogenito, l’unico maschio. Adesso ha 37 anni, da piccolo è stato amato da tutti, era un bambino molto vivace, non stava mai fermo voleva attirare l’attenzione di tutti. Suo nonno, mio padre, l’amava; e poi una zia, mia sorella, stravedeva per lui. Mi soffermo su questi due parenti, perché per uno strano caso del destino, sono morti, sebbene in tempi diversi, il 15 maggio e Marco ha avuto l’incidente proprio la mezzanotte del 15 maggio di tre anni fa. C’è questa ricorrenza del 15 maggio, certamente casuale, ma che ti fa pensare. È come se le persone che ci hanno amato… volessero attirarci, non so… oppure farci presente, che c’è un’ora del destino che ci attende, ma che non è al di fuori della storia familiare…
Marco stava vivendo un particolare stato d’animo, non era sereno, tranquillo. Io penso che incidenti come questo succedono a persone quando non sono in pace con se stessi, però non si meritava questo, di continuare a vivere così…
Ma perché mi aspetto che sia qualcosa di diverso? Che senso ha ora la sua vita di prima? e che senso ha per lui che io continui a star qua, a lavarlo, a fargli la barba, a parlargli? Significa qualcosa per me, per lui, la sua giovinezza, la sua sconfitta, la sua morte nel corpo? a volte sono in pace, accetto tutto senza lagnarmi, con rassegnazione ma altre volte non smetto di pensare, di chiedermi.
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Prima dell’incidente, ricordo la sua voglia di fare, la sua disponibilità per la famiglia, la sua allegria a volte, amava e proteggeva le sorelle, lui dava un senso alla famiglia, insomma.
Un uomo, la sua famiglia. Un uomo vive della sua famiglia, è quella la sua origine, il padre, la madre, le sorelle, le sorelle di sua madre e di suo padre. Un uomo ha bisogno di casa, di affetti, di amore, di risentimenti a volte. Ha bisogno di crescere con loro, ha bisogno di rivederli, dopo una lunga giornata di lavoro, intento ad altre cose. Tornando a casa sente crescere dentro di sé questo bisogno, unitamente a una gioia che non sa descrivere. Un giorno, forse, smetterà di sentire questo bisogno; un giorno, forse vedrà morire qualcuno dei suoi, un giorno ci saranno dei vuoti incolmabili…. Ma, per il momento, è bello trovarsi in mezzo a loro, parlare, ridere con loro, giocare anche, tornando bambini, fare progetti, sentire il loro parere.. Così ama scorrere la vita, con un senso di leggerezza, di soddisfazione… Elisa parla non di ricordi vivi, ma con la sensazione di raccontare esperienze, storie, immagini perdute; come se tutto portasse ad un punto, ad un momento della notte, in cui il buio, il nulla si impadronì della vita di Marco, e tutto il resto svanisse…
“Pensalo giovane – le dico – pensalo forte e pieno di vita”. “Sì, è vero, aveva amici, era socievole, vivace…”
Nella pausa le chiedo: “E poi?”
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“Poi come tutti ha conosciuto una ragazza e in breve tempo si è sposato.”
Era felice? “Mah, forse doveva conoscerla meglio, è come tanti matrimoni di adesso, un uomo, una donna; insieme cercano anche la felicità, ma hanno dei grossi buchi dentro, vivono la loro incomunicabilità, la loro separatezza, hanno allo stesso tempo molte più esigenze di una volta, non cedono, mettono poco in comune… e poi improvvisamente si accorgono di essere molto diversi tra di loro. Allora vivono l’aggressione, il silenzio, comincia a mancar loro il respiro… arriva il momento che qualche porta comincia a sbattere, a chiudersi… Si è sposato all’età di 25 anni, forse troppo in fretta, d’altronde era uno che faceva le cose velocemente. Già, la velocità… e poi sono arrivati i figli… prima un bambino, poi una bambina… è un dramma quando ci sono i figli… non andavano proprio d’accordo, gettavano qualsiasi sentimento… e poi c’è stata la separazione…” Elisa si mette davanti alla carrozzella di Marco perché lui possa vederla e sentire le sue parole… nel frattempo lo accarezza… lo sta forse ripagando di qualcosa?… Anch’io mi metto davanti a Marco e cerco di penetrare nel suo sguardo perché forse la verità fino in fondo la conosce solo lui…
Che c’è ora tra me e te, ora che i tuoi pensieri possono passare nelle mie parole, forse, ecco, posso penetrare nella tua dimensione di silenzio, di sofferenza, di solitudine, fino a viverla insieme, fino a percepire una tenue onda di comunicazione… allora, Marco, esci dal macigno che ti
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serra, dal silenzio che ti attanaglia, vieni vicino e parla, parla, dai testimonianza di te, non si è mai del tutto soli...
Marco ha un sorriso che altri non vedono, e parole che altri non sentono, arrivano echi lontani, appena decifrabili… “Marco, se mi senti, se puoi dire, parla del tuo matrimonio fallito…”
Marco: “Non piangete per me, non rattristatevi quando non vedete una luce oltre questo buio, oltre questa croce che mi inchioda, certo, sono malato nel profondo, ho avuto danni strutturali e molte delle mie cellule cerebrali sono distrutte… i medici, le medicine non sono arrivati a svegliarmi; ma al vedermi, non voltate la faccia, non andatevene… non giudicatemi castigato… Ora non ho più la rabbia che uccide l’amore dentro di me, anche se per l’egoismo di altri ho vissuto anni tremendi… quando tutto mi stava travolgendo… e io gettavo la vita in una corsa senza fermarmi… perché la vita si stava prendendo gioco di me e io mi sentivo logorato, finito… avevo perduto ormai il sonno e la pace. Ho tentato da ogni parte di tenere in piedi un qualche rapporto con mia moglie, ma… eravamo diversi, parti separate fin dal principio. Pensavo che anche l’amore, la famiglia, si potessero costruire, pietra su pietra ma non c’era terreno, non c’erano basi, fondamenta, e nessun progetto; ho avvertito da subito un certo disorientamento. Venticinque anni bastano come esperienza di vita? …forse meno se due camminano insieme, se vanno d’accordo…
Lei stava nelle pantofole, ingrassata, dormiva tutto il tempo che poteva, aveva lasciato il lavoro, non faceva più niente… all’infuori di aggredirmi quando stanco, dopo una giornata di lavoro tornavo a casa a vedere i miei figli.
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Lei continuava istericamente a farmi domande… gridava… Riccardo e Sara erano di là, e ascoltavano… troppo piccoli per metterli in mezzo… troppo grandi perché sono già in mezzo. Ma io non li posso abbandonare… a volte nascondevo la disperazione, perché avrei dovuto parlare, rispondere? Volevo dire basta con questa finzione che tutto vada bene, non ne posso più. Anche Riccardo e Sara litigano fra loro, io me ne vado... partire o morire, perdere in ogni caso è la stessa cosa. La pazzia o si vive o è qualcosa di cui si ha bisogno, anch’io alla fine devo commettere qualcosa, devo sentirmi in colpa…
Ecco, penso ad un adulterio, a situazioni diverse, rifuggivo nel sogno… penso a un dolce viso di ragazza, a una donna non offesa dai giorni che passano, che mi porti lontano dai problemi, dalle crisi, da tutto quello che non vale più la pena di vedere, penso a una donna bella che mi parli di bellezza… con parole semplici, tranquille, e anch’io, dentro di me poter dire come nel fondo del cuore, io che ho avuto sempre parole inespresse… solo, solo con me stesso… quanto può bastare un uomo a se stesso? Ecco, ora i suoi occhi parlano e sono rivolti ai miei che schiariscono, le sue parole sono un terreno sul quale camminare, il respiro è leggero nella poesia di questo incontro.
Ma improvvisamente parlo di me, sono carico della mia vita, non so creare situazioni nuove. Sei solo una spettatrice del mio dramma, di questa dannazione che sto vivendo. No, non c’è un mondo a parte dove potermi rifugiare. Io ti ho cercata ragazza, nella illusione di poter mettere a
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nudo la mia anima. Ti ho cercata disperatamente, questione di vita o di morte, ho cercato qualcuno che raccogliesse le mie parole, ho cercato che la mia anima, le mie parole si aggrappassero a qualcuno, che fossero condivise, nel deserto silenzio, nella deserta solitudine della mia vita. La mia realtà è il ritorno a casa. Francesca, crea continuamente situazioni di disagio, io non mi difendo più, non la tranquilizzo più, perché rimescola le parole con violenza e pianto. Violenza e pianto non li sopporto insieme.
Non posso competere con lei in questa crisi, mi distrugge... stiamo schoccando i bambini. Spesso se la prende con Riccardo e mi dice davanti a lui cosa ha fatto, vuole che lo punisca, io voglio bene a Riccardo, è un ragazzino, quest’anno è in prima elementare, e non lo castigherò per niente. Comunque vada, non rimarrà illeso da ferite “Alt, Andrea, fermati un momento – gli dico – hai mai amato veramente nella tua vita? Voglio dire da giovane, prima del matrimonio?”
“Quel tipo di amori esistono nei libri. Ma per me un libro non lo posso mai lasciare aperto da qualche parte, sparisce il segno, sparisce il libro…
Non ho mai vissuto fino in fondo… Paura forse? Immaturità? O la donna giusta non esiste per me? Le situazioni sono sempre rimaste a metà, inespresse.
Non sono mai stato capito, io vedo la fine, vivo anzitempo la fine… anche con Sabrina è stato così… Sabrina l’unico solo amore della mia giovinezza… Ti racconterò dell’ultimo giorno che l’ho vista, quando nei suoi occhi c’era solo l’addio… ero in macchina, gui-
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davo per strade secondarie, ormai privo di concentrazione, cercando un posto dove fermarmi. La pioggia battente sul parabrezza e la rabbia dei sentimenti mi impedivano di capire dov’ero, ma questo non aveva molta importanza, periferia, periferia della vita.
Quando spensi il motore, il tergicristallo finì la sua corsa e l’acqua che scivolava creò subito una separazione tra l’interno dell’auto e la strada, la testa mi ricadde in avanti e chiusi gli occhi desiderando per qualche minuto il silenzio… ma subito avvertii pulsazioni e tremore… non resistevo a quella situazione… Nel sedile vicino, rigida nella sua posizione, Sabrina mi assecondava nel silenzio, la sentivo spettatrice assente della mia crisi. “Ma come, non ti senti coinvolta neanche un pò?” “Senti Marco, non dire così.” Diversamente da me, aveva la voce calma, come una cosciente infermiera al capezzale di un malato, ma non voleva entrare in alcun modo nella mia situazione, nella mia sofferenza non lasciava trapelare nessuna commozione.
D’altronde, in questo momento che era un addio, non pretendevo da lei carezze o coccole come c’erano state ad ogni incrinatura del nostro rapporto. Ora c’era qualcosa di diverso, di forte, di totale, e almeno da parte mia, c’era sofferenza vera, un mondo che crolla… un primo, grande amore che stava per finire, ed io con tutta la mia giovanile oppressione mi sentivo come sradicare dalle mie viscere, tutto mi stava scivolando via… ed ora non ero più capace di gestire la situazione. Potevo ancora dire qualcosa? avere ancora la forza di parlare? certo, se ricordavo ancora i suoi occhi sorridere
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nei momenti felici…, guardai Sabrina un momento. Volevo dire: “Dipende da noi”, volevo dire: “I tuoi e lo studio sono cazzate”, volevo dire: “Che mi frega la distanza?”
Un tempo giocavo a rugby, il mio corpo sentiva la durezza della terra, ma davanti all’ostacolo schizzava via, quasi volando. Perché adesso è così pesante e sento l’umidità delle cose? “Tu devi essere mia” – dissi. La voce di Sabrina divenne dura: “No – disse – non è possibile”. “Ma è terribile non vederci più” – dissi – cercando di toccarle un braccio, Sabrina si ritirava ancora di più alla sua destra. Solo poche settimane prima c’erano promesse, e le mie mani la stringevano e il suo corpo si abbandonava… adesso non diceva niente, non doveva giustificarsi di niente. “Ho detto basta, sono venuta un’ultima volta solo per farti un piacere…” “Stronza, sei venuta solo per vedermi star male, ecco perché sei venuta”. La sua insensibilità mi faceva star male, l’aver deciso da sola di lasciarci, senza tenermi in considerazione. Come cercavo di toccarla, anche solo per avere un contatto, se le mettevo una mano sulla spalla, lei prontamente la toglieva. “Non voglio più essere toccata”. La fine è la fine, io non mi rendevo conto di questo. Ero fermo con la mente all’estate, quando l’avevo conosciuta al mare, la prima vera estate, il sole finalmente, il mio corpo che induriva e il corpo di Sabrina vicino, nel sole e tanti amici e momenti nell’ombra, a conoscerci, quando i suoi le permettevano di uscire.
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Avevo visto sempre me stesso, e ora non vedevo che lei. “non è bella?” dicevo a tutti, e la tenevo vicina, ma ora mi sentivo impotente lei era venuta per dirmi basta, non è più possibile, e lo diceva senza lasciarsi andare più in niente. Ogni ricordo ormai era chiuso dentro di lei, forse dimenticato. Per me era diverso, era l’amore della vita e ora sentivo di dover fare qualcosa, con rabbia.
L’impulso era di saltarle addosso, di usarle violenza, una violenza che mi avrebbe fatto sentir meglio, forse… ma dissi: “un bacio, almeno un bacio…” “No” – disse Sabrina. Accesi con furia il motore, dove andare? Sabrina era arrivata da poco e quella maledetta domenica si stava già chiudendo, altre volte, le ore della giornata, dell’incontro, scorrevano lente, e alla fine ci lasciavamo con molto rimpianto. Lunghe telefonate, qualche biglietto, molta attesa precedevano il nostro incontro.
Per me c’era il lavoro, Sabrina e nient’altro, la domenica facevo le cose di fretta, e poi il treno per avvicinarmi a lei… sul treno c’erano molti ragazzi e ragazze, ma sentivo di aver poco in comune con loro. Ridevano in continuazione, sparando le più grosse cazzate, e non stavano mai fermi… eh no, ragazzi, non sono di voi. Io mi devo fare il culo al lavoro tutta la settimana, per vedere poche ore di domenica la mia ragazza… che diventava sempre più seria…
E poi la sera il ritorno, il treno, altri ragazzi che ridevano sempre, e io una certa stanchezza nel cuore… e poi a casa… i miei mi aspettavano pieno di fame, non toccavo quasi cibo, neanche un saluto vero, nella mia camera, la musica violenta di Vasco. Finalmente il respiro si calmava…
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“Ti accompagno alla stazione” – dissi. Fu allora che Sabrina sentì di voler prolungare quei momenti, li sentiva intensi, forse non li avrebbe vissuti più, o forse infinite altre volte… “Ci siamo visti da poco” disse, ma si accorse che non era esattamente quello che doveva dire. Un tentativo di ricucire? o una situazione da parlarne con le amiche? Sabrina era lucida, ed aveva deciso, non voleva nessun fastidio con suo padre. Si ripeteva che non era il momento di vivere il grande amore contro tutti, in fin dei conti Marco era un muratore e lei voleva laurearsi.
E poi Marco aveva delle esigenze, come tutti i maschi, e lei non era pronta a bruciare le tappe, a spendere il tempo così, anche se superati i 18 anni, si sentiva concretamente donna, concretamente se stessa. Aveva una visuale chiara della vita… un rapporto duraturo le avrebbe complicato tutto, la serenità con gli altri… non voleva programmare ora. Aveva più di qualche dubbio su Marco… Marco pensava a una famiglia, a dei figli, e lei invece agli studi, anche se li sentiva lontani dalla vita, avulsi, arretrati…
“Cosa è questa urgenza, che mi rende infelice? – si chiedeva – In fondo questo ragazzo non è il mio sogno. È stato un errore vederci. Così dice: “Hai ragione tu Marco, portami alla stazione”.
Ed ecco il silenzio col quale si pagano gli adii, l’ultima corsa insieme, con la fretta di andarsene, forse senza un vero saluto, nessuno dei due fermerà questa corsa, rimarrà qualche ricordo, qualche data nel diario… e poi più nulla…
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Il fluire dei tuoi pensieri, Marco, come un torrente scosceso… facevo fatica a seguirli. I tuoi pensieri hanno gocce di sangue, di pianto, sono invocazioni nella solitudine che ti avvolge… Io sono in ascolto, Marco, i tuoi pensieri sono ormai fibre del mio essere. Non ti fermerò, puoi dire perché tutto questo rischiara la tua vita…
MARCO: Dopo aver lasciato Sabrina provai l’inutilità delle cose, della vita, lo scorrere piatto delle ore, uscire, rientrare a casa, mangiare, dormire. Il muro, il seme sprecato, l’annientamento. La fatica di alzarmi, e dentro il giorno, niente aggiungeva qualcosa alla mia vita, era subito sera, notte, senza ragione… Mio padre e mia madre, in momenti diversi, mi guardavano, qualche parola qua e là, quasi con il timore di parlarmi, di scuotermi… rifuggivo gli amici, il telefono, di uscire… la barba e i capelli non curati mi abbruttivano abbastanza, anche se non era mia intenzione voler attirare l’attenzione degli altri…
Quanti giorni? …È questo il tempo senza futuro? Violenza dell’amore, crisi dell’amore, io ero dentro in quello che resta… abbandono, stracci della vita… e fuori, nelle strade, nella durezza della gente… dove scorre la disperazione… Io so quello che pensi Marco, quello che vivi non è la fine, ti prego, è solo un passaggio, un tunnel buio, prima della luce. Il tempo scorre dentro la vita delle persone, al di là di momenti ingrati, è un tempo per vivere… MARCO: Il mondo impazziva attorno a me, ragazzi che dicono basta con il tubo chiusi in qualche garage, altri
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che vogliono vivere momenti di esaltazione dentro la discoteca, la musica, le luci, la pastiglie, entrano nelle ossa, e ballano, si muovono da soli, e poi fuori una corsa onnipotente e lo schianto… e qualcuno nelle caserme, lontano da casa, arriva a una dose maggiore… Per amore, per odio, per solitudine, per la nullità della vita…
Mio padre sta cercando di aiutarmi, dice “devi uscire da tutto questo…” perché a 24 anni non ti servono le parole. Non ti basta niente, senti solo qualcosa che ti scoppia dentro, la disperazione non ha parole, bisogna viverla, vada come vada, non c’è domani… La vita è quella che crei e distruggi ogni giorno. Io non riuscivo a vivere l’oggi, la mia giovinezza era qualcosa che mi premeva nello stomaco, un buco dentro che mi faceva tossire, inseguendo qualcosa che mi sfuggiva… poi qualcosa cambia…
È arrivata Francesca a trascinarmi da qualche parte, ma il mio cuore aveva ormai le luci spente e nessuna immaginazione per l’amore. era una situazione senza via d’uscita. All’inizio ho ceduto all’amore di lei, perché mi pregava di poterla amare… i nostri incontri erano solo lunghi silenzi, quando non si vive l’amore al momento giusto, poi si rimane chiusi, bloccati.
Avevo passato anni e giorni nell’abbattimento, con un’amarezza senza fine dentro e non credevo più a niente, volevo finire quella storia. Un giorno Francesca mi disse: “Non so cosa pensi di me, vorrei dirti qualcosa, per chiarire… mi sento strana, ho avuto una brutta esperienza con un ragazzo, sai uno
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di quelli che non ti danno il tempo. Mi sento rivoltata, e nessuna voglia di ricominciare, provo anzi spesso la tentazione di andarmene… a te viene mai la tentazione di fare qualche pazzia?… non ho più alcuna voglia di vivere, solo di dormire”… Ho rivissuto in un momento me stesso, capivo che Francesca parlava seriamente…
Così, senza pensarci mi trovai a dire: “Francesca, noi due dobbiamo metterci insieme, non m’importa quanto sei sola, forse non ci sarà mai niente fra me e te, ma credimi posso aiutarti, sono passato attraverso tutto questo. Ora ti posso dire che ci sono altre occasioni per vivere, non lasciare la tua vita a metà…” Fu così, fu così, che in un momento di debolezza, mi unii alla debolezza di lei, e poiché entrambi sentivamo la vita sfuggire, che poteva esserci ancora e sempre separatezza, ecco, forse un figlio avrebbe riempito il nostro vuoto… Elisa aveva notato una strana luce negli occhi di Marco, gli si era avvicinata e con un asciugamanino, gli stava ripulendo il viso, quando si sedette nuovamente, le chiesi: “Che tu sappia, Francesca è scivolata un po’ alla volta nella sua situazione, o è precipitata di colpo?” “C’era qualcosa che non capivo. I figli non dicono molto sulle loro situazioni.
Sta di fatto che il matrimonio peggiorò in tutti i sensi… un esaurimento, una depressione, forse… aveva anche paura di perdere Marco. Ma tutto ormai era morbosamente compromesso… non c’era pace. Marco era sempre più stanco, sempre più teso, ma voleva salvare a tutti i costi il matrimonio… per i figli, per i figli, Dio santo… gli piangeva il cuore solo al pensiero di doverli lasciare. Ric-
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cardo faceva solo la prima elementare, e Sara era innamorata del suo papà… poi, dovette arrendersi.
Fu lui che chiese la separazione, lasciò tutto alla moglie purché lo facesse stare accanto ai figli… visse per qualche tempo separato in casa, aiutava di sera Riccardo nei compiti, ma non dormiva, non dormiva… sentiva l’ansia crescere… i litigi per i soldi continuavano…
Finché, con il consenso di tutti noi, decise di tornare nella sua famiglia di origine, pur continuando alla sera a vedere i figli…, poi la moto, per fare prima, per muoversi di più, per vivere freneticamente… per vincere in fondo la sua solitudine, perché ogni volta che lasciava i ragazzi, come la sera dell’incidente, dopo una pizza, si sentiva un pazzo solitario, in un mondo cattivo… poi il buio oscurò tutto”… Perché, perché una madre può presagire tutto questo? …avere il presentimento che qualcosa accada?… Marco, mi senti? Che cosa significa per te continuare a vivere?… Che senso ha, per te, continuare a vivere prigioniero nel tuo corpo? Dimmi della tua distanza, del tuo segreto, del tuo essere nel tempo. Quanto lontano sei? MARCO: Sono vicino a tutti, ora.
La sofferenza, come un fuoco, mi ha purificato… credetemi, la sofferenza non è un castigo, ma un mistero, una rivelazione… è una prova, molte volte è la via diritta per rinascere, per entrare in una dimensione nuova.
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Certo, sono passato per una grande tribolazione, ma vorrei dirvi che questa malattia non è per la morte, ma per la vita. Che questo letto è un letto d’amore, privilegiato, questo letto, questa carrozzella, è come un albero che espande intorno i suoi rami, ha braccia aperte, e porta frutti rigogliosi.
Chi si avvicina depone ogni asprezza… quel che posso dire, è che al di là del mio fallimento, c’è la vita, la vita come non l’avevo mai conosciuta… questa malattia non è tutto, dovessi morire ora so che c’è qualcosa che va oltre… Io sono nella pace, e posso guardare, ora, alla mia vita senza alcun risentimento, mi sono riconciliato con il mio passato, con tutti quei fatti che io non capivo, che rifiutavo, perché li giudicavo negativi…, perché proprio attraverso quei fatti quella storia, mi si stava aprendo, preparando una strada, perché adesso io potessi vedere una luce, essere nella luce… nelle mie tenebre, nel mio turbamento, mi è venuto incontro qualcuno, una luce, che vedendo lacrime e dolore, con profonda commozione, ha detto:
L’UOMO DELLA BUONA NOTIZIA: “IO, provo pietà vedendo gli uomini nella sofferenza, percossi e umiliati dalla vita. Io ho sperimentato questo. Sono l’uomo dei dolori, che ben conosce il patire… anzi, mi sono addossato ogni vostra sofferenza… e credetemi, c’è un mistero nel dolore, perché proprio attraverso quel dolore, troveremo salvezza…
Hanno detto di me: “Dopo il martirio, dopo la morte, dopo il suo intimo tormento, non sarà lasciato nel sepolcro, ma vedrà la luce e si sazierà di conoscenza…”
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Parole profonde, piene di speranza, che cosa c’è di più alto da dire al cuore dell’uomo?… Ma per chi le ha sperimentate divengono parole di certezza… E allora io vi dico, uscite dalle bende che vi coprono, dalla paura della morte che vi paralizza, c’è la possibilità di frangere ogni catena, ogni vincolo di morte… io sono morto, ma ho la Vita… c’è solo una cosa che mi trafigge, mi inchioda alla croce, e mi schiaccia nel sepolcro, ed è la vostra incredulità...”
MARCO: “Nella mia situazione, infinite volte mi sono chiesto dove sei? dov’eri quando tutti noi morivamo, in quel matrimonio fallito, dove tuo marito ti tratta con violenza, dove tua moglie ti rinfaccia ogni cosa, dove quel tuo figlio che hai tirato sù con amore, dandogli tutto, non sa più vivere, cerca adrenalina e paradisi artificiali… dovunque sei, fatti presente nei fine settimana, quando l’eccitazione sale, ma non in modo naturale… ci sono sostanze che ti assicurano un viaggio… senza fermata a volte, eppure tu conosci tutte le nostre situazioni disperanti, sei un figlio d’uomo, abiti o no tra noi?…”
L’UOMO DELLA BUONA NOTIZIA: “Marco, lo so che oggi hai un giorno peggiore dei soliti, ma io non giudico nessuno, tutti portano un seme di corruzione, un istinto verso la terra, verso il frutto proibito, hanno una visuale distorta, vedono un mondo cattivo, vedono uomini malvagi, e pensano che questa sia l’unica realtà… non vedono la vera vita.
Per questo uccidono e si uccidono… gli uomini stanno inseguendo foglie morte, e ciò porta alla distruzione… anche i loro figli sono malati, stanno morendo perché cercano morte… da chi andranno?
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Io sono l’unico che vi dice: venite senza denaro, siamo abituati che tutto si compra, il pane che vi offro non deperisce… per tutti voi che cercate di bere con avidità, ma senza dissetarvi, io offro gratuitamente un’acqua, che può veramente placare la sete… Credetemi, io vi amo così come siete, e vi dico che questo amore è qualcosa che può cambiare la vita, la tua vita…
Lo senti questo amore nel profondo? nessuno può darsi da solo questo amore, ma se uno ascolta, ascolta le mie parole, questo amore diviene per lui un fuoco divorante… Chi ha esperienza di questo amore, sente dentro di lui, nel profondo, che niente e nessuno può separarlo da esso, che va oltre la malattia, oltre la morte, oltre ogni tragico evento…
Io ho passione, compassione per tutti quelli che non conoscono questo amore, perché veramente è pienezza di vita. Questo amore può salvare il mondo…
Non restate nel vostro mare agitato, nel cielo oscurato della vostra esistenza, non sentite il mio bussare alle vostre porte blindate?… Marco ha avuto un incontro profondo, di carne e di sangue, col mio spirito, e adesso sa cosa vuol dire camminare sulle acque, vedere la luce, pur nell’ombra che lo avvolge, egli adesso ha la luce della Vita… sente l’amore di tutti quelli che si prodigano attorno a lui, e in questo letto, in questa struttura che lo accoglie, crede in qualcosa che dura. Marco può dare anche a noi il coraggio di sperare…
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Finito di stampare nel mese di novembre presso Via Malcanton, 2 - Trebaseleghe (PD) Printed in Italy