Terrasanta Magazine, maggio-giugno 2019

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magazine

Rivista fondata nel 1921

TERRA santa

5,00 euro

Nuova serie – Anno XIV

Maggio • Giugno 2019

#3

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Una voce per i cristiani d’Oriente

SIRIA L’EMERGENZA NON È FINITA

IN COPERTINA GLI «ALTRI» EBREI Laura Silvia Battaglia

p. 12

ATLANTE

p. 54

NAZARET CINQUANTʼANNI DOPO Giuseppe Caffulli



PRIMO PIANO

Allievi di una scuola rabbinica di Mea Shearim, il quartiere degli ebrei ortodossi di Gerusalemme, nel giorno di Shavuot

Yonatan Sindel/Flash90

Shavuot, festa della Torah e festa della Primavera

8 giugno, fino alla sera del 10, il popolo d’Israele celebra la festa di Shavuot. Dopo la schiavitù d’Egitto, finalmente liberi, gli ebrei trascorsero 40 anni nel deserto. Giunti ai piedi del Monte Sinai, Mosè salì sul monte dove ricevette in dono da Dio la Torah. Si tratta della dottrina religiosa che la Bibbia espone come impartita da Mosè al popolo d’Israele e che è raccolta nel Pentateuco (l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) chiamato appunto dagli ebrei Torah. Se Pesach, la Pasqua, rappresenta il raggiungimento della libertà del popolo dalla schiavitù, Shavuot rappresenta il raggiungimento della li-

bertà spirituale, il dono cioè della legge divina. Durante Shavuot il pio israelita doveva recarsi al tempio di Gerusalemme e portare un’offerta, secondo quanto prescritto in Esodo 23, 19. Dopo la distruzione del tempio e la diaspora del popolo ebraico, ci si reca in sinagoga, addobbata di piante e i fiori. Shavuòt (Festa delle Settimane) cade a cinquanta giorni da Pesach. È una delle tre «Feste di pellegrinaggio» (Pesach, Shavuot, Sukkot), ed è anche intimamente legata alla rinascita della natura, alla lode per il Creato, alla Primavera e alla mietitura. In occasione di questa festa, ogni ebreo, recandosi infatti al tempio, portava in dono le primizie (bichurìm) della Terra.

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TERRASANTA

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SGUARDI

M. A.B/CTS


Striscia di Gaza

Una fragile tregua?

Aharon Krohn/Flash90

I primi giorni di maggio sono stati segnati da una violenta escalation del conflitto tra Israele e Striscia di Gaza. Tra il 3 e il 6 maggio sono stati circa 700 i razzi lanciati verso le città israeliane. Almeno 35 sono caduti nelle aree urbane al confine con la Striscia. Un’azione che ha provocato la reazione dell’aviazione e dell’artiglieria israeliane, che hanno colpito oltre 350 obiettivi di Hamas. Nei pressi della Striscia, Israele ha posizionato carrarmati e sistemi di lancio, pronti a un intervento oltre le linee. Il bilancio delle vittime è pesante: quattro civili israeliani e 31 palestinesi. Si tratta della peggior recrudescenza dall’estate 2014. Tra il 5 e il 6 maggio si è pervenuti a un cessate-il-fuoco. La nuova escalation sarebbe stata causata dal protrarsi (senza soluzione) dei negoziati per una tregua di lunga durata fra Hamas e Israele, ma anche al blocco dei finanziamenti che il Qatar invia a Gaza. E che Israele ritiene possano alimentare gruppi armati.


Sotto l’abside della cappella armena di Sant’Elena, nella basilica del Santo Sepolcro, si apre la cosidetta cappella di San Vartan, poco nota perché accessibile solo su richiesta. Qui è stato rinvenuto quello che può essere definito come uno dei più antichi ex voto: il dipinto di una nave. Il ritrovamento è opera di un gruppo di archeologi che nel 1978 intrapresero lo scavo nell’area adiacente alla cappella dell’Invenzione della Croce. Il dipinto rappresenta una nave da carico romana del primo secolo. La scritta latina Domine ivimus (Signore, siamo giunti) è un’allusione al Salmo 122, la testimonianza dei pellegrini cristiani giunti incolumi al Santo Sepolcro dopo un viaggio periglioso.

Marie-Armelle Beaulieu/CTS

SGUARDI

Gerusalemme

Il più antico ex voto


Marie-Armelle Beaulieu/CTS

Marie-Armelle Beaulieu/CTS


SGUARDI

Betlemme

I mosaici costantiniani Durante alcuni scavi condotti nel 1934 dai britannici nella basilica della Natività, 75 centimetri sotto l’attuale pavimento furono scoperti alcuni mosaici dell’edificio costantiniano del IV secolo. Gli attuali lavori di restauro della basilica interessano le tracce bizantine lungo l’intera navata. La società Piacenti s.p.a., responsabile dei lavori, non ha ancora deciso se rendere visibili al pubblico interamente o solo in parte tali reperti, a causa di complessi limiti tecnici. Alla fine del 2018 sono state tolte le impalcature attorno al cantiere, ma i lavori di restauro continueranno nel corso di tutto il 2019.


Pierre Mortes


DOSSIER

SGUARDI

SOMMARIO

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PRIMO PIANO

Shavuot, festa della Torah e festa della Primavera

SGUARDI

ISRAELE – GERUSALEMME – BETLEMME

24 IN DIALOGO

25 DOSSIER

12 IN COPERTINA

Gli «altri» ebrei

Laura Silvia Battaglia

Dalle urne un Israele ripiegato su se stesso

David M. Jaeger

19 I GIORNI

Vincono le destre Netanyahu resta in sella?

Siria, lʼemergenza non è finita

Giuseppe Caffulli

45 TACCUINO EGIZIANO

18 ORIZZONTI

Condividere per costruire il dialogo

Alberto J. Pari

Al Sisi prenota la presidenza a vita?

Mamdouh Chéhab Bassilios

44 COORDINATE

Israeliani, ebrei e non ebrei

Francesco Pistocchini

49 VISTA GALATA

Lʼesodo biblico dei senza volto

Claudio Monge

Giampiero Sandionigi

23 IL GRAFFIO Angelo Fiombo In copertina Primo piano di una bimba rifugiata nel villaggio di Zeyarah, a nord della città di Aleppo (Ansa/Ufficio Stampa Unicef) TERRASANTA periodico della Custodia francescana di Terra Santa, via G. Gherardini 5, 20145 Milano – tel. 02.345.92.679 – fax 02.318.01.980 e-mail: terrasanta@terrasanta.net UNA COPIA 5,00 EURO, (arretrati 10,00 euro) Abbonamento 2019 ORDINARIO 28 EURO, SOSTENITORE 50 EURO AMICO 70 EURO, ESTERO VIA AEREA 45 EURO FORMATO PDF 20 EURO

50 INCONTRI

Cetoloni: Qui Dio mi ha preso per mano

Giuseppe Caffulli

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2019 ATLANTE

CULTURA

Maggio-Giugno

53 LA CASA DEL PANE

64 BLOCK NOTES

66 ARRIVEDERCI

Le parole di mamma che leniscono il dolore

Lucia Corradin

54 ATLANTE

Nazaret, cinquantʼanni dopo

Giuseppe Caffulli

la Fondazione Terra Santa ha come compito specifico quello di far conoscere e sostenere l’opera della Custodia di Terra Santa.

Paesaggi antichi e ambiente biblico

Un modo concreto per aiutare la Custodia, tramite la Fondazione,

Gianantonio Urbani

60 CULTURA Dragomanni, tra Oriente e Occidente

Paul Turban

63 VENTO DEL SUD

Una vita sospesa tra casa e cella

Paola Caridi

TERRA santa Direttore responsabile Giuseppe Caffulli direttore@terrasanta.net

In redazione Giampiero Sandionigi sandionigi@terrasanta.net Francesco Pistocchini pistocchini@terrasanta.net

Segreteria Teresa Preite segreteria@terrasanta.net Barbara Zonato zonato@terrasanta.net Progetto grafico Elisabetta Ostini ostini@terrasanta.net

Giuseppe Caffulli

Carissimi lettori

59 ARCHEOLOGIA

La croce di migranti e profughi della guerra

è quello di effettuare un lascito testamentario o una donazione. La Fondazione Terra Santa può essere nominata come esecutore testamentario e può ricevere donazioni da utilizzare, in osservanza allo statuto, per gli scopi che le sono stati affidati dalla Custodia di Terra Santa.

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Gli «altri» ebrei

Dentro l’Israele moderno resta aperta una questione non da poco: il razzismo latente e la discriminazione verso le componenti della popolazione di origine non europea: ebrei orientali e di origine africana. Storie dolorose di rifiuto, mancata integrazione, violenza e perfino di adozioni coatte

Un gruppo di Falasha Mura a Gondar, Etiopia. Nel corso degli anni decine di migliaia di questi ebrei hanno potuto entrare in Israele, ma l’integrazione resta difficile

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Michal Fattal/Flash90


STORIA DI COPERTINA

di Laura Silvia Battaglia

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uando entriamo a casa di Tadello Blilin, nel sobborgo mer idionale di Holon, a Tel Aviv, è evidente che Mosè si è fermato sul monte Sinai e da qui non è più passato. Perché le speranze di questa donna di 58 anni che nel 2006 ha coronato il sogno di fare aliyah, ossia di portare a termine il diritto di trasferirsi in terra di Israele per vivere e morire qui, insieme ai suoi familiari, si è infranto su difficoltà di cui Tadello non sospettava nemmeno l’esistenza, compresa questa povera casa al pianterreno, con poche cose e un piccolo giardino malandato e brullo. La lista degli ostacoli inaspettati tuttora da affrontare, per la famiglia Blilin, è lunga: a par14 TERRASANTA

tire dall’attesa di nove anni prima di potere ottenere un permesso e un visto di viaggio verso Israele. Poi, la separazione dalle figlie sposate a cui il governo israeliano comunicò che avrebbero dovuto prendere un volo separatamente dalla madre con i loro mariti, salvo poi non essere mai riuscite, in 13 anni, a partire dall’Etiopia per arrivare a Tel Aviv; infine, la mancata integrazione di Tadello (la donna parla amarico e per lei non sono stati stabiliti programmi di inclusione linguistica in ebraico o inglese) e la vita in un suburbio. Il tutto, mentre i suoi figli non sposati, tra cui la figlia Sefi di cui mostra le foto, servono nell’esercito israeliano. «La nostra famiglia sta servendo questo Paese – dice Tadello Blinin – ma questo Paese cosa ci dà in cambio?». La vicenda di Tadello è soltanto una fra le storie di circa 145 mila

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etiopi Beta Israel (ossia della casa di Israele) che il governo israeliano iniziò ad accogliere negli anni Ottanta e Novanta a causa di carestie e persecuzioni ma di cui, dopo quegli anni, non incoraggiò più la aliyah. Rimanevano in Etiopia, infatti, altri 8 mila ebrei locali che, pur avendo fatto richiesta, non si mossero mai, in attesa di ricongiungimento familiare, restando separati da coloro che erano partiti verso Israele per primi. Nel 2015, durante la precedente campagna elettorale di Benjamin Netanyahu, il premier israeliano promise di portarne in Israele 9 mila, indicando come tetto temporale per il completamento dell’operazione il 2020. Ma di questo tema elettorale non c’è stata traccia nell’ultima campagna, che Bibi ha comunque stravinto, probabilmente per non riaccendere un clima già caldo esploso appieno più un anno fa.


A sinistra, alcune immagini delle famiglie che aderiscono al progetto Amram per ricostruire traccia dei rapimenti di bambini, figli di ebrei orientali, avvenuti in Israele negli anni Cinquanta. Nella foto: Rina Sleiman e la sorella Malka, di origine yemenita, si sono ritrovate dopo cinquant’anni

Perché la miccia che ha infiammato l’opinione pubblica e a cui è poi stata messa una pezza con l’assegnazione di una onorificenza militare, è la storia del soldato israeliano Damas Pakada. Nato in Etiopia, nell’aprile del 2015, Pakada il giorno del suo compleanno, venne brutalmente picchiato da due poliziotti israeliani bianchi, mentre stava tornando a casa per festeggiare con il fratello, in licenza e vestito in borghese. La storia è ormai nota: un agente di polizia fermò Pakada sul marciapiede mentre stava isolando la zona perché aveva individuato un oggetto sospetto. L’ufficiale spinse Pakada per terra, gettò la sua bicicletta da parte e cominciò a calciare il soldato, calpestandolo mentre si sdraiava prostrato a terra, cercando di deviare i colpi del poliziotto. Pakada, arrestato, riuscì a difendersi perché un filmato registrato da

una telecamera urbana portò prove schiaccianti a suo favore: nel filmato si vedeva il poliziotto mimare l’immagine di una pistola e gridare: «Sto facendo il mio lavoro e se dovessi metterti un proiettile in testa, lo farei. Sono orgoglioso del mio lavoro». «Il fatto che tu sia un ebreo di origine araba o africana ti rende di serie B»

L’ufficiale Pakada è uscito dalla vicenda appena un anno fa, psicologicamente «spezzato», come ha riferito in un’intervista ad Hadashot Tv, nonostante abbia vinto il processo e il poliziotto sia stato rimosso dalle sue funzioni. Ma la sua storia ha scatenato ampie proteste da parte della sua comunità e migliaia di ebrei etiopi che vivono nei sobborghi di

Tel Aviv sono scesi in strada per denunciare il razzismo interno in Israele nei confronti degli ebrei orientali, i cosiddetti mizrahim, così simili fisicamente ai palestinesi (arabi o cristiani) da essere frequentemente ritenuti tali. «Al netto della problematica israelo-palestinese in questo Paese è stato finalmente sdoganato e con evidenze chiare un tabù vero e proprio: il razzismo c’è ed è un razzismo che non guarda in faccia a nessuno, dei bianchi contro gli orientali. Puoi essere anche ebreo ma il fatto che tu sia un ebreo di origine araba o africana fa di te un cittadino di serie B, con tutti i pericoli che ne conseguono». Lo dice senza mezze misure Shlomi Hatuka, presidente dell’associazione Amram, insegnante di matematica, poeta, musicista e attivista per i diritti dei cittadini ebrei mizrahim. Shlomi, che vive a Tel Aviv, in un

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STORIA DI COPERTINA Una foto di Shlomi Hatuka leader dell’associazione Amram

quartiere di case basse, popolato da giovani famiglie e artisti, ha fatto della sua personale battaglia, ormai, quella di centinaia di migliaia di cittadini israeliani. Figlio di una coppia di ebrei yemeniti, trasferitisi in Israele negli anni Cinquanta, ha deciso di dare corpo alle memorie della sua famiglia, per troppo tempo rimaste sopite e nebulose. «Qualche anno fa ho deciso di andare a fondo nelle memorie di mia nonna, che perse un bambino in circostanze poco chiare, scomparso all’interno di una clinica israeliana, che le comunicò il decesso nonostante lei non avesse mai rivisto il figlio morto. Questa storia, nella nostra famiglia, è rimasta una spina, un gigantesco tabù che non è mai stato elaborato semplicemente per un motivo: mia nonna aveva capito che c’era qualcosa di strano in questa storia ma, allo stesso tempo, non poteva credere che qualcuno, qualcuno che si dicesse ebreo, potesse farle questo». 16 TERRASANTA

Partendo da questa vicenda familiare Shlomi Hatuka ha creato una vera comunità, reale e virtuale, che si condensa nel progetto Amram, altrimenti noto come l’«Affaire dei bambini yemeniti, mizrahi e balcanici»: ossia l’investigazione nazionale, fortemente voluta da rav Uzi Meshulam, deceduto nel 2013, sulla scomparsa di migliaia di bambini yemeniti ed ebrei orientali dagli anni Cinquanta in poi, senza il consenso e la conoscenza delle famiglie coinvolte, tutte migranti nel Paese e ospitate in campi di raccolta e di accoglienza temporanea. Le sparizioni – di fatto veri e propri rapimenti – avvennero negli anni Cinquanta e interessarono i due terzi dei bambini da famiglie yemenite (un bambino ogni otto). Il restante numero è stato registrato tra altre famiglie di ebrei orientali (da Marocco, Tunisia, Libia e Iraq) e un più piccolo numero da famiglie immigrate dai Balcani. Centinaia di testimoni, raccontano la stessa

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storia che si ripete con poche varianti: ai genitori di questi bambini veniva richiesto di lasciare i figlioli in alcune infermerie od ospedali sotto il pretesto che «sarebbe stata data loro una più appropriata assistenza medica». Spesso, dai campi dove le famiglie erano accolte, i bambini venivano prelevati forzatamente da assistenti sociali o infermiere e trasferiti verso specifiche istituzioni. I genitori non erano ammessi all’interno e veniva detto loro di tornare ai campi e presentarsi solo per l’allattamento. Alcuni giorni dopo veniva loro riferito che il loro figliolo era morto che non avrebbero potuto vederlo né avrebbero potuto seppellirlo. Negli anni Cinquanta due terzi dei bambini yemeniti furono sottratti alle famiglie

«Come testimoniano tutte le storie che abbiamo messo insieme nella nostra banca di dati, non esisteva alcuna collocazione dei defunti e nessuna prova che fossero morti – riferisce Hatuka – e alcuni anni dopo un numero esiguo di famiglie trovarono i loro figli adottati da altri genitori. Quando le famiglie ricevettero negli anni Sessanta dall’esercito l’ordine di dichiarare questi figli ufficialmente morti, capirono che non dovevano rassegnarsi.


Michal Fattal/Flash90

Foto per i documenti dei Falasha Mura che hanno ricevuto il permesso d’immigrare in Israele. Le varie operazioni si sono di fatto concluse, anche se restano in Etiopia almeno 10 mila richiedenti

Ma la verità non è venuta fuori in tutta la sua interezza e gravità e ancora c’è parecchio da fare». L’affaire, infatti, è una lunga storia di cui si deve giocare l’ultima partita: vennero stabilite due commissioni d’inchiesta ministeriali sul caso, una nel 1967/1968, nota come Commissione BahlulMinkowski, la seconda nel 1984, nota come Commissione Shalgi, ma non ne vennero a capo. «Solo la terza, stabilita dopo le proteste di Rabbi Uzi Meshulam, nel 2001, è riuscita ad arrivare a qualche conclusione». Shlomi Hatuka rimarca questa affermazione con forza, mostrando un archivio, che tiene meticolosamente aggiornato, con tutti gli atti ufficiali e i ritagli di stampa da quell’epoca. «Lo scandalo è che ogni commissione precedente dichiarava che tutti questi bambini erano morti e non ce n’era alcuna traccia. Il doppio scandalo è l’inaccessibilità dichiarata fino al 2066 ai documenti che riguardano gli ospedali e le cliniche incriminati».

Ma l’associazione Amram inizia a farsi giustizia, per così dire, da sola. A poco a poco sono arrivate le confessioni di alcune infermiere che hanno ammesso di avere preso in custodia dei bambini, in quegli anni, e di averli «dati via». Nel 2016 la conferma indiretta dal governo venne da Tzachi Hanebi, membro del gabinetto Netanyahu, che dichiarò alla televisione israeliana, sulla base dei documenti secretati: «Siamo certi che presero i bambini e li portarono via. Ma non sappiamo dove». «La nostra convinzione – rimarca Shlomi Hatuka – è che esistesse un programma parallelo di adozioni per le famiglie askenazite senza figli, un programma probabilmente pianificato dal governo e che aveva stabilito che i figli dei mizrahi più poveri potessero essere “prelevati” senza problemi. Francamente, non ci spiegheremmo diversamente la decisione di secretare i documenti ufficiali fino al 2066, data

nella quale anche gli ultimi testimoni della vicenda sarebbero presumibilmente morti». Grazie all’insistenza delle famiglie e all’attivismo di Hatuka e degli altri soci, che sono anche riusciti a portare molte persone in piazza, a fine 2016 sono stati rilasciati 200 mila documenti classificati, compresi archivi di Stato, dati dei bambini scomparsi, registri ospedalieri e certificati di sepoltura. Si è arrivati al punto che, alla fine del 2018, il parlamento israeliano ha approvato una legge in base alla quale le famiglie interessate potranno accedere ai documenti delle adozioni. E molte storie che Amram ha diffuso sono state risolutive: come quella di Rina Sleiman, sottratta alla madre quindicenne Noemi quando, appena giunta in Israele dallo Yemen, venne obbligata a consegnare la bimba di 18 mesi all’ospedale Beilinson, a causa di uno stato di malnutrizione. «La mamma andava ogni giorno in ospedale per vederla finché mia sorella non stette meglio – racconta la sorella Malka –. Poi, un giorno l’infermiera si mise a gridare e le disse che mia sorella non c’era più, che era morta e l’avevano seppellita in una fossa comune. Mia madre non ha mai smesso di parlare di lei finché è vissuto mio padre». Oggi, Malka e Rina si sono ritrovate grazie al test del Dna e all’associazione Amram. Ma i casi insoluti sono ancora migliaia. ■

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ORIZZONTI

Dalle urne un Israele ripiegato su se stesso mons. David M. Jaeger*

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e recenti elezioni in Israele hanno confermato, rendendole ancor più acute e più palesi, le diversità tra i due grandi schieramenti, ottenendo ancora una volta la maggioranza quello formato dall’alleanza tra i partiti «nazionali» e quelli «religiosi». I primi insistono nel voler annettere a Israele almeno la maggior parte della Cisgiordania palestinese, nella quale sorgeva l’antico regno della Casa di Davide. Gli altri mirano a promuovere l’osservanza della religione ebraica ortodossa e, seppur in passato marcatamente moderati, ritengono ora più vantaggioso il sostegno ai partiti «nazionali», massimalisti. Dall’altra parte si trova «la sinistra». La parola «sinistra» oggi, in Israele, non significa affatto quello che una volta significava, ma si usa piuttosto per designare l’insieme variopinto degli israeliani – neoliberali e socialdemocratici, indistintamente – che non si identificano né nei movimenti «nazionali» né in quelli «religiosi», ma che vorrebbero uno Stato piuttosto laico di stampo occidentale, come previsto dai «padri fondatori» dello Stato ebraico, quelli (pochi) di destra non meno che quelli (molto più influenti) di sinistra. 18 TERRASANTA

Alla «sinistra» nel senso di oggi appartengono le «vecchie élite» culturali, politiche e militari, che presiedevano alle sorti dello Stato dalla sua creazione nel 1948 fino al 1977, quando la «destra» vinse le elezioni per la prima volta. Da allora la «sinistra» è ritornata al potere soltanto poche volte e per periodi assai brevi. Questa volta la massima parte degli elettori di «sinistra» hanno abbandonato i propri partiti di appartenenza e hanno preferito votare «strategicamente» per un nuovo maxi-partito decisamente centrista, guidato soprattutto da tre generali in pensione, tutti ex capi di stato maggiore, pensando di accreditarsi così presso una fetta sufficiente dell’elettorato «nazionale» per poter formare il nuovo governo. Non vi sono riusciti. Hanno prevalso invece i radicati risentimenti delle «classi popolari» nei confronti di quanti, con buona dose di auto-ironia, si definiscono talvolta la «tribù bianca», la quale non arriverà neppure alla metà del neo-eletto parlamento, la Knesset. Nel corso della campagna elettorale ha colpito la quasi assenza di proposte, anzi di qualsiasi serio dibattito, sulla sfida prioritaria per Israele, e cioè fare la pace con la

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vicina nazione palestinese. Piuttosto la lotta elettorale si è concentrata tutta intera sulle questioni interne, e specialmente sul destino del più volte primo ministro, Benjamin Netanyahu, il quale nega decisamente e respinge al mittente le accuse di corruzione ipotizzate nei suoi confronti dalla procura generale. Negli effetti, la maggioranza degli elettori gli ha confermato la fiducia per i prossimi quattro anni. Tale ripiegamento su se stessa della società ebraica israeliana non deve, però, scoraggiare chi con essa deve comunque dialogare. Sbaglia chi pensa di poter influire con boicottaggi vari, così come sbaglia chi semplicemente rinuncia al dialogo. Nel suo insieme, e in molti suoi ambienti e tantissimi suoi membri, la società israeliana è aperta, libera e dialogante; si deve solo individuare, pazientemente, il giusto registro per potersi confrontare con le diverse sue espressioni. Noi cristiani, di Israele e del mondo, non ce ne possiamo astenere. Spetterà poi alla comunità internazionale riattivare e animare l’irrinunciabile ricerca della pace, equa e duratura, tra le due nazioni che nella Terra Santa hanno la loro patria.

*Francescano di Terra Santa, Roma


I GIORNI

Vincono le destre Netanyahu resta in sella?

S

i avvia a formare il suo quinto governo (il quarto consecutivo) il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, dopo la conferma del consenso che la coalizione di centro-destra – e soprattutto il partito Likud – continua a riscuotere tra gli elettori. Il 9 aprile scorso, 6 milioni e 300 mila elettori erano attesi alle urne per eleggere i 120 deputati della 21.ma legislatura della Knesset, il parlamento unicamerale di Israele. Si è recato ai seggi il 67,8 per cento degli aventi diritto (furono il 71,8 per cento nel 2015). I due principali contendenti hanno tagliato il traguardo in parità: 35 seggi vanno al partito Likud di Netanyahu (che, col 26,27 per cento dei consensi, manderà in parlamento 5 deputati in più rispetto alla 20.ma legislatura) e altrettanti al Blu e Bianco dell’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e dell’ex mezzobusto televisivo Yair Lapid. Alcune sorprese riguardano i partiti minori: i laburisti non spariscono dalla scena, ma portano a casa solo 6 seggi (perdendone 12, il peggior risultato nei 71 anni di storia del partito); l’e-

strema sinistra di Meretz (4 seggi) deve rinunciare a un solo deputato; l’Yisrael Beitenu di Avigdor Liberman si tiene stretti i suoi cinque seggi. Non hanno superato lo sbarramento del 3,25 per cento dei voti necessari per entrare alla Knesset la Nuova Destra degli ex ministri Naftali Bennett e Ayelet Shaked e neppure lo Zehut di Moshe Feiglin che taluni analisti consideravano in rapida ascesa.

Ridotte le perdite per i gruppi che rappresentano l’elettorato arabo: Hadash-Ta’al e Balad-Ra’am hanno conquistato 10 seggi (erano 12 nella legislatura appena conclusa). La nuova legislatura della Knesset è stata ufficialmente inaugurata il 30 aprile. Poi, come previsto, il capo dello Stato, Reuven Rivlin, ha affidato l’incarico di formare il nuovo governo a Netanyahu, che, sulla carta, può

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I GIORNI

contare su una solida coalizione di almeno 65 seggi su 120. Sulla sua persona continuano però a pendere alcuni capi d’accusa per corruzione e frode. Gli inquirenti sono andati raccogliendoli con indagini durate molti mesi e che hanno coinvolto anche l’attuale moglie, Sara. Un eventuale rinvio a giudizio – annunciato come imminente dalla pubblica accusa a fine febbraio e poi congelato per via della campagna elettorale – metterebbe l’uomo

politico in una situazione insostenibile. Secondo i media israeliani, per togliere le castagne dal fuoco al premier, la nuova coalizione che si raccoglie attorno a Netanyahu potrebbe votare in Parlamento delle norme che assicurino una sorta di immunità penale retroattiva al primo ministro. La Corte suprema potrebbe però intervenire dichiarando illegittimi tali provvedimenti. Per scongiurare questa eventualità, sembra che il programma

ROSE NEL DESERTO Iraq, una legge per risarcire le donne vittime della violenza dello Stato islamico

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n Iraq è in discussione un progetto di legge per i risarcimenti alle donne yazide sopravvissute ai sequestri e alle violenze subite dai miliziani dello Stato islamico: la legge tutela il diritto all’assistenza delle sopravvissute. «Era evidente che fosse necessario una legge per far fronte alle sofferenze fisiche e psicologiche patite dalle donne yazide dalle bande dell’Isis», ha detto Sagyan Murad Jindy, rappresentante della comunità yazida presso l’ufficio del presidente iracheno. Il parlamento e l’ufficio presidenziale stanno lavorando per far approvare il disegno di legge il prima possibile, con diversi parlamentari che intendono includere nei risarcimenti delle violenze subite dallo Stato islamico anche altre minoranze etniche irachene oltre a quella yazida. La legge definisce i crimini dello Stato islamico un «genocidio» e chiede che i casi vengano sottoposti al giudizio degli organismi internazionali per

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del governo nascente possa contemplare anche l’idea di ridurre i poteri della suprema magistratura israeliana rispetto alle deliberazioni parlamentari o governative. Un passo che andrebbe ad alterare gli attuali equilibri istituzionali e che in uno Stato moderno e democratico nessuno può compiere a cuor leggero. Proprio per questo l’idea non piace a molti israeliani e infiamma gli animi. Giampiero Sandionigi

Manuela Borraccino avviare procedimenti penali come crimini contro l’umanità per quanto è stato perpetrato dai terroristi islamici. Oltre a istituire un ente nazionale per i sopravvissuti coordinato dal Consiglio dei ministri nel governatorato di Ninive, la legge garantisce un reddito mensile alle donne sopravvissute, un alloggio statale, diritto all’istruzione sottoposto a valutazioni anagrafiche e una corsia preferenziale per le yazide per impieghi statali. La legge viene tuttavia ritenuta da alcuni lacunosa per quanto riguarda i diritti dei minori e orfani. «Dovrebbe includere tutte le vittime e non solo le donne: ci sono decine di migliaia di minori rimasti orfani o costretti a diventare bambini soldato», affermano diversi osservatori. La controversia riguarda in particolare i bambini nati dagli stupri subiti dalle donne yazide: la legge irachena prevede che i bimbi nati senza padre vengano registrati come musulmani, non prevede che gli orfani di padre possano seguire la religione della madre.


LIBANO Lutto per la morte del cardinale Sfeir

libanese». «La Chiesa maronita e il Libano intero sono in lutto», ha aggiunto. Il mufti del Libano, Sheikh Abdul Latif Daryan ha salutato nel patriarca defunto «un esempio di giustizia, apertura, dialogo, carità e convivenza per musulmani e cristiani». Il governo ha decretato due giorni di lutto nazionale il 15 e 16 maggio. I funerali si sono svolti il 16 maggio a Bkerke, la sede del Patriarcato maronita situata 25 chilometri a nord di Beirut. Durante la guerra civile (1975-1990), il patriarca Sfeir

GIORDANIA Il presidente Mattarella al Monte Nebo

Giordania e al lavoro di archeologi, mosaicisti, maestranze, volontari e frati italiani. Un nome su tutti è quello del compianto fra Michele Piccirillo (1944-2008) archeologo francescano di fama mondiale che visse e lavorò in questo angolo di Terra Santa, ove oggi riposano le sue spoglie mortali. Fra Eugenio Alliata, dello Studium Biblicum Franciscanum, e il mosaicista Franco Sciorilli – che collaborò a lungo con Piccirillo – hanno illustrato a Mattarella l’interno della basilica con i magnifici mosaici.

Si è spento in Libano il 12 maggio scorso il cardinale Nasrallah Boutros Sfeir (che stava per compiere 99 anni). Da patriarca aveva guidato la Chiesa maronita per un quarto di secolo, dal 1986 al 2011. Un ministero che è stato tra i più lunghi nella plurisecolare storia dei cattolici maroniti. Il suo successore, il cardinale Bechara Boutros Rai, ha definito Sfeir un «pilastro della nazione

Durante una visita ufficiale in Giordania (dal 9 all’11 aprile) il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella si è recato, nel pomeriggio del 10, al Memoriale di Mosè, il santuario sul Monte Nebo in mano ai francescani della Custodia di Terra Santa, dove gli ha dato il benvenuto il padre Custode, fra Francesco Patton. Il luogo santo deve molto al sostegno dell’ambasciata d’Italia in

GERUSALEMME Fondi dal re di Giordania per il Santo Sepolcro

Il re di Giordania, Abdallah II, ha deciso di destinare una parte della somma ricevuta con il Premio Templeton 2018 (la cui dotazione supera 1 milione e 260 mila euro) ai lavori di restauro della basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. Il dono del sovrano hascemita è stato trasmesso al patriarca greco-ortodosso Teophilos III che ha ringraziato pubblicamente il monarca.

Come si ricorderà, importanti lavori di restauro dell’edicola che racchiude la tomba vuota del Signore Gesù furono realizzati tra il marzo 2016 e il marzo 2017. Un intervento reso possibile dall’intesa raggiunta tra le comunità religiose responsabili della basilica (greco-ortodossi, francescani della Custodia di Terra Santa, armeno-ortodossi). A conclusione dei lavori e sulla scorta delle indagini e dei rilevamenti svolti nell’edificio sacro, i tecnici responsabili del cantiere avverti-

riuscì a riunire i leader cristiani (ad eccezione del generale Michel Aoun, l’attuale presidente del Libano) intorno all’accordo di Taif (Arabia Saudita), firmato nel 1989 e che pose fine al conflitto l’anno seguente. Capofila del campo anti-siriano in Libano, Sfeir ha difeso tenacemente la sovranità e l’indipendenza del Libano fino al ritiro israeliano nel 2000 e alla fine della tutela siriana nel 2005 (Damasco manteneva diverse migliaia di soldati in Libano dal 1976).

Fra Patton (a sinistra) e fra Eugenio Alliata con il presidente Mattarella

Quirinale.it

rono che sarebbe stato necessario intervenire presto anche nel sottosuolo della basilica – in prossimità dell’edicola – per risolvere i problemi causati dall’umidità. Il terreno roccioso sul quale poggiano i pavimenti non agevola il deflusso delle acque, che ristagnando infiltrano le opere murarie sovrastanti. Spetta ancora una volta alle comunità religiose che hanno l’onore e l’onere di custodire il luogo santo trovare un accordo che consenta di aprire il nuovo cantiere.

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I GIORNI EGITTO Un trasloco rinviato

capitale, con 6 milioni di abitanti, fu lanciata nel 2015 dal presidente Abdel Fattah al-Sisi. Inizialmente, il nuovo insediamento urbano coprirà 168 chilometri quadrati, ma potrebbe poi estendersi fino a 700. In un ambiente semidesertico, uno dei problemi da risolvere è l’approvvigionamento idrico: la città avrà un fabbisogno di almeno 650 mila metri cubi d’acqua al giorno. Il 7 gennaio scorso sono state inaugurate nella nuova capitale la cattedrale copta e una grande moschea.

IRAN Niente più limiti sul nucleare

scritto dal predecessore Barack Obama e imposto nuove misure di embargo contro l’Iran e i Paesi che continuano a intrattenere con esso relazioni commerciali. Un anno più tardi anche il governo iraniano, che fin qui aveva chiesto a tutti di onorare l’accordo, notifica ai co-firmatari che non rispetterà più i limiti imposti alla produzione di uranio arricchito e di acqua pesante se gli altri Paesi, nel giro di 60 giorni, non concorreranno a salvaguardare l’economia iraniana dalle ricadu-

te dell’embargo statunitense, che inizia a mordere. La tensione si alza pure sul versante militare. Gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita nella prima metà di maggio hanno denunciato atti di sabotaggio lungo le loro coste e l’impiego di razzi lanciati dai droni contro gli impianti petroliferi. Azioni terroristiche che, alla fin fine, i due governi imputano all’Iran o a suoi gruppi satelliti, come gli Houthi dello Yemen. Un altro fronte di guerra sta per aprirsi in Medio Oriente?

TERRITORI PALESTINESI L’espansione degli insediamenti

ebrei. Il tasso di crescita nel 2018, ha superato del 9 per cento quello medio annuale registrato dal 2009 in poi. Il 10 per cento delle costruzioni (218 case) è stato edificato in avamposti considerati illegali anche d a l l e n o r m e i s r a e l ia n e. L e costruzioni non sono state semplicemente au tor iz z ate, ma anche in gran parte finanziate dal governo. Il quale negli ultimi dieci anni ha trasferito agli insediamenti l’equivalente di oltre 2 miliardi e mezzo di euro.

La nuova capitale amministrativa egiziana (che sta crescendo 40 chilometri a est del Cairo e ancora non ha un vero e proprio toponimo) probabilmente non sarà pronta ad accogliere ministeri ed uffici centrali della Repubblica d’Egitto entro il 2020. Il progetto complessivo costa intorno ai 58 miliardi di dollari e i fondi fin qui s t anziati sono insuf ficienti. L’impresa di realizzare una nuova

Anche Teheran non si considera ormai più vincolata dall’accordo internazionale per il contenimento della capacità nucleare iraniana firmato nel 2015 con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Stati Uniti) insieme a Germania e Unione Europea. L’8 maggio 2018 Donald Trump ha sfilato gli Usa dal patto sotto-

Lior Mizrahi/Flash90

Scorcio dell’insediamento di Ramot a nord-est di Gerusalemme

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L’ong israeliana Shalom Akhshav (Pace ora), in un rapporto diffuso il 14 maggio 2019, fa il punto sull’espandersi degli insediamenti israeliani nei Territori palestinesi di Cisgiordania (inclusi i sobborghi orientali di Gerusalemme). Nell’ultimo decennio, sot to i governi di centrodestra presieduti da Benjamin Netanyahu, sono s t ate cos tr uite 19.3 4 6 nuove unità abitative per i coloni

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Un plastico della nuova capitale egiziana


IL GRAFFIO di Angelo Fiombo

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IN DIALOGO

Condividere per costruire il dialogo fra Alberto J. Pari*

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lcuni mesi fa sono stato nominato membro della Commissione dell’Ordine dei Frati minori per il dialogo interreligioso ed ecumenico; così con mia grande sorpresa mi son trovato a far parte di un gruppo straordinario di persone. Ogni anno la Commissione si riunisce per aggiornarsi sulle tappe raggiunte, le esperienze vissute e per progettare il futuro. Questa volta l’incontro si è svolto a Istanbul, presso la fraternità dei frati Minori, un progetto dell’Ordine che prevede una presenza stabile di una comunità internazionale dedicata al dialogo e all’accoglienza. Sono stati giorni intensi e bellissimi, tantissime emozioni e scoperte, una settimana davvero particolare. Istanbul è una città misteriosa e complessa, a chi mi chiede se mi sia piaciuta non so bene cosa rispondere, non ho ancora capito la sua identità... e credo non ne abbia una sola. L’antica Costantinopoli mi ha affascinato e lasciato perplesso allo stesso tempo. La Commissione è formata per la maggioranza da frati minori provenienti da diversi Paesi (Singapore, India, Bosnia, Togo, Stati Uniti e Terra Santa); poi ci sono 24 TERRASANTA

alcuni membri di altre comunità: un frate del Terz’ordine regolare, un giornalista e una regista italiani. Ascoltare le loro testimonianze e scoprire le tante attività che gestiscono per promuovere il dialogo interreligioso nei loro Paesi mi ha emozionato. Anche per loro è stata una grande novità sentire dalle mie parole le varie occasioni che abbiamo di incontro in Terra Santa e in particolare a Gerusalemme con il mondo ebraico e con i tanti israeliani, che in numero sempre crescente, vogliono conoscere il cristianesimo e i cristiani. Le giornate sono state caratterizzate dallo scambio e presentazione delle varie attività che durante l’anno hanno avuto luogo nei diversi Paesi in cui operano i membri della Commissione e scandite da visite in città e incontri importanti. Abbiamo avuto modo di incontrare il patriarca Bartolomeo I che ci ha accolto nella sua dimora, addirittura nel suo studio privato, mostrandoci la sua quotidianità e rendendo l’incontro fraterno e familiare. Una serata è stata dedicata all’incontro e alla conoscenza della realtà della Chiesa cattolica locale presso la cattedrale e la visita al vescovo

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francescano, monsignor Ruben Tierrablanca Gonzales e un pomeriggio alla visita della moschea di Solimano, una delle più importanti della città, visita preceduta dalla testimonianza e incontro con un giovane universitario musulmano che ha presentato i fondamenti dell’islam e chi ha guidato alla scoperta del quartiere e della moschea. Per la prima volta ho potuto assistere alla preghiera in moschea; a Gerusalemme è praticamente impossibile che un non musulmano possa entrare nel luogo di culto durante una preghiera; è stata l’esperienza più forte e importante che abbia vissuto a Istanbul. Durante le riunioni è emerso un forte desiderio di allargare e rafforzare la diffusione delle esperienze di dialogo che avvengono in ogni angolo del pianeta e che spesso rimangono sconosciute, non per pubblicità e darne notizia, ma perché i tanti cristiani che sono legati al mondo francescano sappiano che è possibile dialogare, realizzare progetti insieme ad altri fedeli e che soprattutto è doveroso abbattere i troppi muri ancora esistenti di sospetto e pregiudizio nei confronti di chi è diverso da noi.

*Incaricato per il dialogo ecumenico e interreligioso, Custodia di Terra Santa, Gerusalemme


DOSSIER

SIRIA L’emergenza non è finita Testo e foto di Giuseppe Caffulli

Da diversi mesi, ormai, della Siria si parla poco. A fine marzo, qualche telegiornale e qualche quotidiano si sono occupati della riconquista di Baghouz, nella zona dell’Eufrate. Il mese precedente si era tornati a parlare di Isis e di conflitto siriano grazie ai rumors che indicavano come vivo il gesuita padre Paolo Dall’Oglio, rapito nel 2013, possibile pedina di scambio per la libertà dei capi jihadisti asserragliati a Idlib (dove, mentre andiamo in stampa, a inizio maggio, è riesplosa la battaglia). Nell’opinione pubblica occidentale è stata instillata l’idea che la «guerra contro l’Isis sia sostanzialmente vinta» (come ha detto Donald Trump nell’annunciare il ritiro delle truppe Usa), e che il Paese ormai non abbia più bisogno d’aiuto. La realtà è purtroppo molto diversa. Siamo stati a visitare le parrocchie francescane della Siria, per raccontare come vivono i cristiani rimasti nel Paese e di cosa hanno bisogno; per toccare con mano lo straordinario lavoro della Chiesa locale. Un viaggio a tratti straziante, che ci invita a non dimenticare.

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DOSSIER Visita alla parrocchia latina della città , con fra Ibrahim Alsabagh. L’impegno della Chiesa locale e della Custodia francescana di Terra Santa per offrire aiuti alimentari, assistenza medica, e soprattutto una speranza di futuro ai cristiani che hanno scelto di rimanere

Le ferite di Aleppo

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Ciò che resta degli edifici a ridosso della Cittadella di Aleppo, teatro di feroci combattimenti

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rrivo di notte. Aleppo, come una vecchia signora che vuole nascondere la sua gioventù sfiorita, si cela nel buio, mentre una nebbia lattiginosa avvolge ogni cosa. In un silenzio irreale, solo un latrato di cane in lontananza e gli occhi luminescenti di qualche gatto randagio, colpito dai fari delle rarissime automobili. Nessuno per le strade, come se i quartieri fossero completamente disabitati. L’indomani mattina, con la luce del giorno, la realtà appare in tutta la sua drammaticità: palazzi distrutti, tetti collassati, ponti squassati, monconi di case anneriti dal fuoco. La cittadella di Aleppo, patrimonio dell’umanità come la moschea omayyade, porta i segni di una pesantissima battaglia, combattuta palmo a palmo fin tra gli anfratti dell’antico suq, di cui non c’è più quasi traccia. Ma soprattutto le periferie orientali di quella che è stata la città più ricca della Siria sono ridotte ad un ammasso di macerie: Migdan, Hellok, Bustan al Pasha. Poi Salāḥ al-Dīn a sud-o-

vest e i quartieri di Haydariyya e Sakhur... Dove un tempo sorgevano parchi e aree verdi, oggi è più facile trovare le lapidi di un cimitero. La parrocchia di San Francesco d’Assisi, retta dai frati minori della Custodia di Terra Santa, sorge nel quartiere di Azizieh, a ridosso della parte più antica della città. In questo quartiere, in maggioranza abitato da cristiani, la vita – dopo la riconquista della città da parte dell’esercito governativo il 22 dicembre 2016 – sembra lentamente riprendere. Fin dalle prime ore della mattina, le auto ricominciano a muoversi per le strade, con il corollario incessante dei clacson, i negozi alzano le serrande, scuole e uffici riaprono... «Ma nulla è più come prima», dice fra Ibrahim Alsabagh, parroco della comunità latina. «I cristiani di Aleppo erano, prima della guerra, 150, forse 200 mila. Oggi siamo ridotti a 30 mila, considerando tutti i riti e le confessioni». Una visita alla parrocchia latina di Aleppo offre l’opportunità di conoscere meglio l’opera della Custodia di Terra Santa in questa terra, ma anche di veder rappresentati in maniera icastica i tanti MAGGIO-GIUGNO 2019

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DOSSIER

Per le strade di Aleppo. Si riciclano carta, cartoni e metallo per sopravvivere

problemi della città e dei suoi abitanti. «La guerra ad Aleppo continua. Anche se l’intensità è molto calata, i missili continuano a cadere su alcuni quartieri di Aleppo Ovest. Ma le conseguenze si

fanno sentire oggi in maniera pesante dal punto di vista economico. Non c’è lavoro, si vive una situazione di soffocamento. Resta irrisolta la questione di Idlib e guardando al futuro, non vediamo una prospettiva di pace»

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Smallcreative/Shutterstock.com

Un tratto del vecchio suq distrutto dai combattimenti

Della città un tempo culla della Chiesa, con la sua varietà di riti e di confessioni, resta ben poco. «I cristiani oggi sono decimati. Come molte migliaia di aleppini se ne sono andati. Ma adesso che gli altri cittadini cominciano a ritornare, i cristiani invece non tornano. Hanno più relazioni, più istruzione, più facilità d’inserirsi nelle società occidentali. Il risultato è che oggi siamo una minima percentuale». Se si chiede a fra Ibrahim di parlare degli anni della guerra (mirabilmente raccontati in due libri, editi dalle Edizioni Terra Santa: Un istante prima dell’alba e Viene il mattino, tradotti entrambi nelle principali lingue europee),


All’ingresso del suq coperto di Aleppo, oggi completamente distrutto, un tempo cuore commerciale della città. Sotto: il pacco alimentare distribuito mensilmente ai bisognosi

più che delle sofferenze ama parlare dei «miracoli», che vede come segno della bontà di Dio. «Quattro anni fa ci siamo trovati a dar da bere a mezza città. Gran parte dei quartieri qui attorno era rimasta senz’acqua e il pozzo del convento, giorno e notte, è stato in grado di dissetare migliaia di persone. Un vero miracolo. Poi ci siamo impegnati per offrire energia elettrica, con generatori e pannel-

li solari, ad una città piombata nel buio. Oggi l’acqua piano piano sta tornando e l’energia elettrica pure, anche se per poche ore al giorno. Ma restano gravi le carenze alimentari e nel campo sanitario. Ci siamo concentrati sulla distribuzione dei pacchi alimentari, che coprono il fabbisogno di circa 1.300 famiglie. Anche questo è un miracolo che continua, grazie alla bontà di tanti benefattori sparsi in tutto il mondo. Per non parlare dei progetti di ristrutturazione delle case lesionate dalla guerra... Ne abbiamo restaurate migliaia. Ridare una condizione di vita dignitosa e un tetto

confortevole è il primo passo per guardare con maggior fiducia al domani». Tra le emergenze che oggi toccano in maniera pesante la vita dei cristiani di Aleppo, c’è l’assistenza sanitaria. Sia attraverso la Caritas che grazie agli uffici parrocchiali, vengono assistite ogni giorno centinaia di persone. Oggi non cadono i missili, ma la guerra che si combatte è quella della sopravvivenza

«Ad Aleppo – riprende il francescano – non c’è la minima assistenza medica e qualsiasi medici-

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DOSSIER La facciata della parrocchia latina di Aleppo dedicata a san Francesco. Nel tondo, a pagina seguente, fra Bassam Zaza. In basso: fra Ibrahim Alsabagh

na o prestazione sanitaria va pagata. La gente soffre perché questi servizi non sono accessibili. Il nostro aiuto è fondamentale». Lo è ancora di più sul versante dell’assistenza alle gestanti e alle neo-mamme. «Le visite mediche durante la gravidanza, le analisi, le spese del parto. Poi l’assistenza pediatrica, l’alimentazione specifica per i bambini e le necessità igieniche, i pannolini e prodotti per l’infanzia. Cerchiamo di offrire un aiuto alle nostre giovani famiglie che non hanno risorse per far fronte a queste spese. In alcuni casi ci chiedono aiuto anche coppie che soffrono di sterilità, con le conseguenti cure. Forniamo aiuti a più di 1.200 neonati nella parrocchia» Per chi è in età scolare, è stata messa a punto un’altra forma di aiuto. «Molti frequentano il no30 TERRASANTA

stro doposcuola, che cerca di aiutare chi ha bisogno di un sostegno scolastico. Ma è anche un’occasione per verificare se ci sono altri bisogni o fragilità psicologiche, determinate dalla guerra o dalle situazioni familiari». La Pasqua 2016 per la comunità di El Ram è stata segnata da pesanti bombardamenti

«I disturbi psicologici – prosegue fra Ibrahim – sono davvero numerosi. E mancano specialisti capaci d’intervenire. Noi come Chiesa svolgiamo un lavoro di accoglienza e prevenzione, attraverso le attività ricreative. Cerchiamo di curare i cuori anche con il dono soprannaturale della grazia. Gesù è il me-

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dico che può entrare in una dinamica di guarigione». Accanto all’impegno per i più piccoli, l’attenzione agli studenti universitari rimasti in città, per i quali fra Ibrahim chiede una borsa di studio «in modo da aiutare le famiglie a sopportare il peso delle rette scolastiche e del materiale didattico. Per noi è fondamentale che i nostri giovani proseguano gli studi: servono medici, insegnanti, ingegneri, informatici, economisti per ricostruire una società distrutta dalla guerra». Nella segreteria della parrocchia di San Francesco, intanto, da diversi giorni è un via vai di «altri giovani», provati nel fisico e nel morale. Sono militari congedati, rientrati a casa dopo lunghi anni passati sotto le armi, in un contesto di violenza e di morte. «Solo nelle prime settimane di gennaio ne abbiamo incontrati oltre un centinaio – racconta il religioso –. Tornano in situazioni di estrema fragilità, spesso hanno dimenticato perfino il mestiere che facevano. Si ritrovano a 26-27 anni con un passato da dimenticare e senza un presente. Noi come Chiesa cerchiamo di accoglierli e di aiutarli a costruire un futuro. Da come riusciremo a dare loro una speranza, dipende anche il futuro di una nazione. Alcuni hanno bisogno di un aiuto psicologico e medico, altri semplicemente di


SCHEDA Damasco e Teheran, accordo in undici punti per la ricostruzione

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a notizia, secondo l’agenzia governativa Sana (Syrian Arab News Agency), è di primaria importanza. Il 28 gennaio Siria e Iran hanno siglato 11 fra accordi e memorandum d’intesa. Una «cooperazione strategica di lungo periodo» che mira a rafforzare la collaborazione fra Damasco e Teheran, alleato chiave, insieme a Mosca, nella guerra contro lo Stato islamico. Gli accordi riguardano economia, cultura, istruzione... Ma soprattutto infrastrutture. La firma, presente il premier siriano Imad Khamis, è giunta nel contesto della visita ufficiale a Damasco del vice-presidente iraniano Eshaq Jahangiri. La vera questione sul tappeto, posto che la guerra davvero finisca, è la ricostruzione. Nell’intesa

mo a Sant’Antonio da Padova, nel quartiere di El Ram, uno dei più provati durante gli anni della guerra. Ca- aza se rotte, sventrate dalle bombe, pericolanti... Le strade sbarrate da blocchi di cemento, per impedire l’accesso ad auto che potrebbero celare ordigni. Su un terrazzo che domina il quartiere, fra Bassam Zaza, che si occupa della comunità cristiana del quartiere, racconta della notte terribile, nell’imminenza della Pasqua 2016, quando piovvero missili a profusione. «In poche ore lasciarono le loro case settecento famiglie cristiane... Della maggior parte non sappiamo più nulla». Sul tetto della Chiesa di El Ram, accanto alla statua della Madonna, spicca illuminata dal generatore un’imponente croce a Bass

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un sostegno economico per avviare un lavoro». Tra i progetti che stanno più a cuore a fra Ibrahim, c’è appunto il microcredito in favore di questi giovani che desiderano inventarsi un domani. «Offriamo un aiuto a chi intende aprire qualche piccola attività commerciale. Un minimarket, una caffetteria, una pasticceria... La maggior parte di questi ex soldati è disperata. Il loro pensiero fisso è di emigrare, convinti che qui non ci sia più nulla da fare. Noi li incoraggiamo a restare, a sognare un futuro, a formare una famiglia, scommettere sulla possibilità che il nostro Paese rinasca». Prima che le tenebre tornino ad avvolgere la città, ci rec h ia-

sono previsti due progetti ferroviari, il ripristino dei porti di Tartus e Lattakia, la costruzione di una centrale elettrica da 540 megawatt di potenza. Infine, «decine di progetti nel comparto agricolo e nel settore petrolifero». Secondo stime Onu, i costi per la ricostruzione si aggirano attorno ai 400 miliardi di dollari. L’accordo certamente non ha incontrato il gradimento di Stati Uniti e Israele. Ma è indubbiamente un manifesto d’intenti chiaro: nessuno tra i Paesi che hanno partecipato a quella che Bashar al Assad reputa essere stata la «distruzione programmata» della Siria avrà una parte nel grande business della ricostruzione. Che sarà appannaggio di Iran e Russia. Anche la Cina sta muovendo le sue pedine diplomatiche, intenzionata com’è a non essere una semplice spettatrice sullo scacchiere siriano.

di Terra Santa. «Noi ci siamo, e lo vogliamo far sapere alla nostra gente. Siamo al loro fianco». «Restiamo qui e crediamo che il Signore non abbandona il suo popolo – interviene fra Ibrahim –. Oggi molti cristiani delle nostre terre vivono in Europa e sono stati accolti in quelle comunità cristiane. Può darsi che il Signore si serva di un male terribile come quello della guerra per un bene maggiore: un arricchimento della fede in quelle comunità attraverso la presenza di chi è stato provato come l’oro nel crogiolo». «Viceversa – riprende – chiedo a tutti i cristiani, che non ci si dimentichi di noi. Dei nostri anziani, dei nostri poveri, delle nostre famiglie e dei nostri bambini. Fino a prima della guerra non avevamo bisogno di nulla. Oggi abbiamo bisogno del sostegno di tutti». ■

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DOSSIER Famiglie arabe e turkmene arrivano in una zona di sicurezza a Yayladaği, al confine tra Siria e Turchia

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e non fosse per le fotoelettriche della contraerea della base russa che frugano costantemente il cielo, e l’andirivieni dei convogli militari, a Lattakia sembrerebbe che la guerra non sia mai iniziata. Locali pieni, negozi ben forniti, gente per strada... Una vita apparentemente normale. «Ma anche qui il peso della guerra si è avvertito, eccome. Impossibile sapere quante decine di migliaia di profughi vivono oggi in città. Si tratta di famiglie sfollate dalle località dell’interno, scappate dalle bombe e dall’Isis. Alle porte della parrocchia, ogni 32 TERRASANTA

giorno, bussano centinaia di persone. Aiutiamo oltre 600 famiglie, quasi tutte cristiane, con i pacchi alimentari, con sussidi per le cure mediche... Il tutto grazie ai fondi che arrivano dai benefattori tramite Ats Pro Terra Sancta». Fra Atef al Falah racconta la sua giornata davanti a un tè bollente, mentre dalle finestre del convento che si affaccia sul porto, s’intravedono navi portacontainer e qualche incrociatore militare. «La città è sottoposta ad una forte pressione – spiega Eva Makoyan, che gestisce insieme alla collega Henriette l’ufficio di Ats –. Il nostro lavoro è soprattutto

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Fatih Aktas/Anadolu Agency

Le retrovie della guerra quello di ascoltare la gente, per cercare di offrire un aiuto. I prezzi salgono ogni giorno e, specie per i profughi, diventa impossibile arrivare alla fine del mese». I locali della parrocchia di Sant’Antonio sono una vera e propria oasi per molti ragazzi, che qui trascorrono interi pomeriggi. «Con tanta semplicità – dice ancora fra Atef – cerchiamo di andare incontro ai più deboli e bisognosi, per testimoniare la misericordia di Dio». Negli stessi giorni in cui siamo a Lattakia, verso le aree ancora controllate dalle forze anti-Assad ammassate nel distretto di Idlib, si stanno dirigen-


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Eva Makoyan

do colonne di pick-up armati e mezzi blindati. Si dice che la resa dei conti sia vicina e che – questione di settimane – l’esercito governativo, i russi, gli iraniani (forse anche i cinesi), sferreranno l’attacco finale. «Se così fosse – spiega fra Atef – saremo di fronte a una nuova

Atef al Fala

La città portuale di Lattakia è stata solo sfiorata dalla guerra, ma subisce una fortissima pressione da parte dei profughi e degli sfollati interni che provengono da varie parti del Paese. Incontro con il parroco francescano fra Atef

ondata di profughi. Con un aggravarsi improvviso dell’emergenza umanitaria. Chi ci potrà aiutare?». La Siria, ancora oggi, conta milioni tra profughi e sfollati interni. Le stime parlano di almeno mezzo milione di morti e 6 milioni e mezzo di rifugiati, sparsi tra Libano, Turchia. Giordania, su una popolazione (prima della guerra) ■ di 20 milioni di abitanti.

LA STORIA

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etti una sera a cena, nel convento di Sant’Antonio a Lattakia. Fra Hanna Jallouf si trova qui di passaggio. Ha lasciato la valle dell’Oronte, nel governatorato di Idlib, approfittando di una temporanea apertura della strada, per incontrare alcuni familiari. Fra Hanna vive in una zona controllata dagli islamisti del gruppo Jahbat Al-Nusra e ogni giorno rischia la vita, insieme al confratello fra Luai Bsharat. «Quando questa situazione sarà finita, scriverò un libro», dice sorridendo. Per ora meglio non parlare, non scrivere nulla... «Viviamo in una situazione davvero difficile, sempre sul filo del rasoio». La valle dell’Oronte, al confine con la Turchia, fin dall’inizio è stata attaccata dalle varie fazioni jihadiste e dai gruppi islamici di mercenari provenienti da varie parti del mondo. Tra i momenti più tragici, va ricordata l’uccisione di fra François Murad a Ghassaniye il 23 giugno 2013. Lo stesso fra Hanna, che risiede da quasi vent'anni nella valle dell'Oronte, ha subito varie detenzioni e soprusi nel corso della guerra.

Nel governatorato di Idlib dominano le Bandiere nere del Califfato e sono asserragliati 30 mila ribelli (ma qualche fonte parla del doppio), in f attesa della battaglia finale. Nei conventi francescani, oggi abitati da famiglie di profughi, per la gran parte musulmani, fra Hanna accoglie tutti quelli che hanno bisogno, distribuendo pacchi alimentari e beni di prima necessità. La situazione nell’area potrebbe presto peggiorare, perché sembra iniziata l’offensiva finale, dopo che l’accordo russo-turco firmato da Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdoğan durante il vertice sulla Siria (Sochi, 17 settembre 2018), sembra ormai tramontato. Si parlava di zone smilitarizzate, di disarmo dei jihadisti, di riapertura delle autostrade, di una più stretta collaborazione iraniano-russo-turca per il cessate-il-fuoco. «Ma – fa notare fra Hanna – non ci sono stati grandi passi avanti». All’inizio di maggio sono ripresi i bombardamenti russi e siriani contro la roccaforte jihadista. Una recrudescenza del conflitto che come al solito pagheranno i più deboli.

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Fra Hanna tra le Bandiere nere

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DOSSIER

Damasco Fermare l’esodo

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Bahjat Kara ka ch

Nella città antica, un tempo gremita di turisti, si tocca con mano la crisi economica del Paese. La parrocchia latina offre vari aiuti alla popolazione, cristiana e musulmana. Ma nell’incertezza molti giovani e famiglie scelgono di emigrare

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no, due tre, quattro, cinque. Pace e bene». Poi la stessa frase ripetuta in inglese e in arabo... Siamo nel cortile interno della parrocchia di San Paolo, a Damasco, in un pomeriggio qualunque. Al termine della scuola, gli spazi ricreativi e le aule per il catechismo si riempiono di ragazzi vocianti. Un universo colorato fatto di felpe, zainetti, merendine, come in qualsiasi oratorio. Fra Bahjat Karakach, parroco della popolosa comunità latina della città vecchia di Damasco, insieme agli animatori, li accoglie e li invita a formare un «cerchio di gioia». Poi, nel salone parrocchiale, si proietta la versione in lingua araba del film d’animazione Oceania. Insieme al confratello fra Antonio Louxa (che si occupa in maniera particolare del vicino santuario di Sant’Anania) fra Bahjat, ha la cura pastorale di un’importante fetta dei cristiani damasceni. «In città – spiega – abbiamo due parrocchie e due santuari.

San Paolo, detto il convento grande, e Sant’Antonio, nella parte moderna della città, nei pressi delle ambasciate. Poi il santuario di Sant’Anania e il Memoriale di San Paolo, legati alla conversione dell’apostolo delle genti. Siamo in una realtà molto vivace, con molte attività pastorali: il catechismo, gli scout, la Gioventù francescana, gruppi di famiglie, gruppi di spiritualità. Prima della guerra contavamo 400 famiglie di rito latino: oggi non abbiamo statistiche, ma molti se ne sono andati... Sono rimasti tanti anziani, spesso soli». Eppure, vedendo il via vai di ragazzi e giovani che entra ed esce dalla parrocchia, la realtà sembra diversa... «La nostra parrocchia – riprende fra Bahjiat – proprio per la quantità di attività offerte, è frequentata anche da cristiani delle altre Chiese. Sono attratti dal nostro stile francescano. Ci sono molti giovani, molti bambini che frequentano i nostri spazi. Cerchiamo di puntare sulla formazione spirituale, perché per i

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DOSSIER Negozi chiusi nella città vecchia di Damasco, prima della guerra gramita di turisti. Sotto: un forno, recentemente riaperto

ha reso drammatico il problema degli alloggi. Una piccola stanza, a patto di trovarla, costa quasi il doppio di uno stipendio medio: 120 dollari al mese». A poche centinaia di metri dalla città vecchia, nei quartieri periferici, distruzione e povertà

cristiani di Damasco la fede è a volte un fatto semplicemente sociologico». All’esterno della parrocchia, non lontano da una delle porte principali della città vecchia, Bab Touma, qualche negozio ha riaperto. Di gente per strada ce n’è ancora poca, nessun turista, ma iniziano ad alzare le serrande anche bar e ristoranti. All’apparenza oggi Damasco è una città tranquilla. «Ma a 300 metri da qui ci sono interi quartieri distrutti. Per noi 36 TERRASANTA

che viviamo in questa zona meno danneggiata della città, il pericolo è di dimenticarci di chi soffre ancora in maniera drammatica per la guerra e le sue conseguenze. Abbiamo numeri spaventosi di gente che ha perso la casa e tutti i propri averi. Molti damasceni se ne sono andati, ma sono arrivate centinaia di migliaia di sfollati da altre parti del Paese. Qui hanno trovato accoglienza e maggior sicurezza rispetto ai sobborghi delle città e i villaggi. Questo esodo interno

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Da quando è stata riconquistata, a suon di bombe, la zona periferica di al Ghutah ha visto un grande esodo della popolazione. «I cristiani, in particolare, sono usciti da quei quartieri: migliaia di persone si sono spostate, avendo perso ogni sicurezza economica». Anche a Damasco, l’emergenza umanitaria è ancora una realtà. «Il nostro centro parrocchiale offre sostegno alimentare a circa 500 famiglie ogni mese; aiutiamo le famiglie con neonati fino a 2 anni e mezzo ad acquistare il latte e i pannolini. Offriamo un supporto economico ai malati cronici per i farmaci; c’è un sussidio per il gasolio da riscaldamento e borse di studio per studenti universitari. Insomma, oltre le apparenze, in città ci sono molti poveri e bisognosi». I destinatari degli aiuti sono principalmente cristiani, spiega fra Bahjat, ma il religioso tiene a sottolineare che questa attività caritativa non esclude nessuno.


OSPEDALI APERTI Ma

Z

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n Siria la guerra ha provocato oltre un milione di feriti e mutilati e il loro numero cresce ogni giorno. In tanti muoiono perché non hanno soldi per potersi curare. Come risposta concreta alla domanda di aiuto del popolo siriano, grazie all’iniziativa del cardinal Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, e all’appoggio del dicastero vaticano per il servizio dello sviluppo umano integrale, è stato ideato nel 2016 ed è divenuto operativo nel 2017 il progetto «Ospedali aperti». L’obiettivo? Assicurare l’accesso gratuito alle cure mediche ai siriani poveri, attraverso il potenziamento di tre ospedali non profit: l’Ospedale italiano e l’Ospedale francese a Damasco, e l’Ospedale St. Louis ad Aleppo. Questo progetto, che conta anche sull’appoggio del Policlinico Gemelli e dell’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù di Roma, ha già assicurato più di 15 mila cure gratuite a siriani poveri (dato al 15 gennaio 2019) e punta ad arrivare a 50 mila interventi entro i prossimi due anni. Serviranno 18 milioni di euro all’anno per garantire l’assistenza sanitaria, inviare attrezzature mediche e

«Noi aiutiamo tutti – spiega – anche i musulmani. Specie nel campo degli interventi chirurgici. Non chiediamo se uno è cristiano o musulmano. Sono spesso gli stessi ospedali a segnalarci queste necessità e noi copriamo le spese, quando possibile, anche senza che il paziente lo sappia». Di fronte alle mille necessità del Paese, sarebbe facile lasciarsi andare allo sconforto, fra Bahjat ne è consapevole: «Quello che facciamo è solo una goccia nel mare. Più che una soluzione, è un gesto di vicinanza, affinché la nostra gente non perda la speranza. La Chiesa non può certo risolvere il problema economico e sociale del Paese».

medicine in un Paese che ne e è privo a causa dei combatti- na ri menti e dell’embargo internazionale, e formare una nuova classe medica e infermieristica. Il progetto è però già operativo, grazie a un milione di euro versato dalla Conferenza episcopale italiana, i primi endoscopi, doppler ad ultrasuoni, respiratori artificiali sono già arrivati e alcune migliaia di persone hanno ricevuto le prime cure. Certo la situazione in Siria non induce all’ottimismo. «Da un conflitto regionale siamo passati a un conflitto internazionale e cinque dei più agguerriti eserciti del mondo si fronteggiano a pochi metri uno dall’altro», ha spiegato il nunzio Zenari, senza però voler fare i nomi. «La Siria – osserva ancora il porporato, richiamandosi alla parabola del Buon Samaritano – è incappata nei ladroni, è stata aggredita, massacrata di botte e lasciata sul ciglio della strada. Ma, a differenza del racconto evangelico, stavolta anche i buoni samaritani rischiano di fare una brutta fine». Oggi il 70 per cento della popolazione vive in estrema miseria, la metà degli ospedali è stata distrutta e quelli ancora in piedi lavorano al 30-40 per cento; due terzi dei medici e degli infermieri sono emigrati. (e.p.)

rio

La Chiesa scende in campo per chi è bisognoso di cure

I giovani siriani continuano a fuggire dalla guerra e dall’instabilità economica

A proposito di speranza e di futuro, uno dei crucci principali del religioso francescano riguarda la situazione dei giovani. Anche a Damasco, da qualche mese, sono stati congedati molti giovani, ma sono state pubblicate liste di riservisti (anche padri di famiglia quarantenni) che dovranno presentarsi nei distretti militari. Una situazione che ha creato panico. E induce molti a fuggire, per scampare le armi. «È vero. I ragazzi scappano dalla guerra, scappano dal ser-

vizio militare. Molti vivono nascosti per paura che vengano presi per strada e spediti a combattere. Solo i figli unici sono esentati da questo rischio. Ma la situazione paradossale è che anche chi non ha problemi pensa solo ad andarsene. C’è l’illusione che altrove sia meglio. In molti c’è anche l’idea che in Europa, andasse male, si possa vivere con un aiuto sociale. Dico questo perché oggi è davvero difficile convincere un ragazzo o una ragazza a rimanere». Quale azione va messa in campo per cercare di contenere questa diaspora che non ha mai fine? Fra Bahjat allarga le braccia, ma contemporaneamente si la-

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DOSSIER PER DONAZIONI

Il quartiere damasceno di al-Goutha, durante i bombardamenti. In basso: l’altare nella chiesa di San Paolo che ricorda i martiri francescani del 1860

Ammar al Bushy/Anadolu Agency

IBAN:

scia andare ad un sorriso. «Io sono ottimista, nonostante tutto. Sono convinto che il nostro compito sia quello di investire nella formazione dei piccoli e dei giovani, per farli sentire protagonisti e responsabili della rinascita della nazione. Serve cultura, serve far crescere un vero umanesimo cristiano». Senza i cristiani, il rischio concreto è che la società siriana diventi fondamentalista

I cristiani, obietto, sembrano però essere ormai marginali... «Dobbiamo ripartire dalla missione dei cristiani in questa terra... Pochi hanno questa visione. La 38 TERRASANTA

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BIC CODE: CAUSALE:

fede è vista come una componente familiare e sociale. Serve invece riallacciare la nostra fede alle radici. La Siria è terra paolina, terra di grandi santi, grandi papi e padri della Chiesa... Aiutare i cristiani di Siria significa aiutare tutto il Paese, perché i cristiani sono sempre stati un elemento di equilibrio all’interno della nostra società». Fra Bahjat prende una pausa e sembra pesare le parole: «Il vero pericolo è che, senza i cristiani, la società siriana diventi fondamentalista. Vorrei che non fosse sottovalutato questo aspetto: salvaguardare la presenza cristiana in queste terre significa anche contribuire a scongiurare guerre future, che potranno toccare anche l’Occidente e il ■ Mediterraneo».


L A STORIA

Saulo che cercava un Dio d’amore

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l blackout arriva all’improvviso, appena dopo il qualcuno mi potesse aiutare a conoscere meglio tramonto. Siamo in un locale attiguo al santuario il Dio cristiano e la figura di Gesù Cristo». di Sant’Anania a Damasco, il luogo dove Paolo Siccome la Provvidenza guida i passi degli uomini, di Tarso divenne cristiano. Nella penombra appe- Saulo un giorno – apparentemente per caso – enna rischiarata da piccole lampadine a led, si fa a- tra in una chiesa, una delle tante, della città vecchia vanti un giovane smildi Damasco. Trova fra zo, i capelli di un nero Bahjat, il parroco di corvino, poco più che Bab Touma, e gli ractrentenne. conta la sua storia. Lo chiameremo Sau«Grazie a lui ho iniziato lo, in onore del luoil cammino del catecugo, ma è ovviamente menato e sto cercando un nome di fantasia. di comprendere anche La ragione è semplil’esperienza che ho visce: Saulo è un catesuto. Io la reputo una cumeno convertito sorta di chiamata». dall’islam al cristianeMa cosa ha trovato Damasco, la parrocchia di San simo. «Secondo l’iSaulo nel cristianesiPaolo. A ridosso, una moschea slam sono un apostamo che non fosse già ta. Quindi dovrei espresente nella sua fesere ucciso», spiega senza troppi giri di parole. de d’origine? «Nell’islam manca lo Spirito. È una La storia di Saulo è di quelle che lo Spirito scrive religione piena di precetti da seguire, ma manca il nelle vite degli uomini. «Durante gli anni dell’uni- soffio dello Spirito. Il cristianesimo non è una reliversità – racconta – ho perso la fede e sono diven- gione, piuttosto lo chiamerei “vita“. C’è una legge tato ateo. Ho vissuto per anni con un grande morale, certo... ma soprattutto c’è Gesù che vive vuoto e ho capito che l’ateismo mi stava schiac- con te. Il rapporto con Dio è un rapporto d’amore ciando. Avvertivo il desiderio fortissimo di capire che ti libera, non il rapporto di un padrone con il il senso di ciò che stavo vivendo. Avvertivo con suo schiavo». nitidezza una Presenza nella mia vita...». Nei prossimi mesi Saulo riceverà il battesimo. In«Questo desiderio di conoscere Dio – prosegue tanto partecipa tutti i giorni alla messa, senza dare – mi ha spinto a cercare una risposta attraverso troppo nell’occhio. «La mia famiglia? A malincuore Internet... Sono capitato su alcune pagine che ha accettato la mia scelta, ma resto un traditore. raccontavano di Gesù. Leggevo voracemente Oggi, almeno a Damasco, la gente è un poco più tutto quello che trovavo a proposito della fede tollerante. La tragedia della guerra ha forse aiutacristiana. Ma poi ho sentito il bisogno d’incontrare to a vedere le cose in maniera più aperta».

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DOSSIER In collaborazione con le autorità musulmane di Aleppo, monsignor Abou Khazen, vicario apostolico dei cattolici latini di Siria, ha avviato un progetto in favore dei «bambini senza nome». Oltre al sostegno alla popolazione, la riconciliazione come stella polare dell’impegno pastorale

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e giornate di un vescovo, specie nella Siria d’oggi, sono sempre strapiene. Monsignor Georges Abou Khazen, vicario apostolico della Chiesa latina in Siria, è appena rientrato dal Libano ed è reduce da una lunga celebrazione presso la cattedrale grecocattolica di Damasco. L’indomani, all’alba, lo aspetta il lungo viaggio verso Aleppo, dove ha sede il suo vicariato. Ci incontriamo presso il Memoriale di San Paolo, a Damasco, il santuario voluto da Paolo VI sul luogo che ricorda la conversione dell’apostolo. Abuna Georges, frate minore, è stato per lunghi anni parroco ad Aleppo, prima di succedere a mons. Giuseppe Nazzaro, il confratello che fu anche Custode di Terra Santa. È sera. Nonostante la stanchezza, il vescovo accetta volen40 TERRASANTA

Il dialogo della carità tieri di rispondere alle nostre domande.

Monsignor Abou Khazen, qual è oggi la situazione della Chiesa cattolica latina in Siria? La Chiesa ha sofferto, come del resto ha sofferto tutta la popolazione, per la guerra, le bombe e le

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sopraffazioni. Ci siamo però impegnati da subito nel sostegno ai bisognosi, un impegno aperto a tutti, cristiani e non. Tutti i siriani si sono trovati nel bisogno. Noi come Chiesa abbiamo il dovere di aiutare tutti. Cosa che abbiamo fatto, grazie ai benefattori, alle Chiese d’Occidente, alla Custodia di Terra Santa e alle organizzazioni umanitarie ecclesiali.


Mons. Georges Abou Khazen, in primo piano

La diaspora cristiana è però stata imponente... Purtroppo sì. Credo però di poter dire che come Chiesa abbiamo contribuito molto a frenare l’esodo della popolazione, specialmente cristiana. Già questo è un grande risultato. È vero che siamo rimasti un piccolo resto, ma credo che questo picco-

lo resto, per la sua fede e la sua vocazione profonda, sarà utilizzato dal Signore per salvare la sua Chiesa e la patria siriana.

Lei parla spesso della missione affidata ai cristiani nel Medio Oriente di oggi. La nostra missione oggi è la testimonianza della carità. Siamo

aperti a tutti, anche ai non cristiani. Non vogliamo fare proselitismo, ma dare testimonianza dell’amore di Dio. Vogliamo che questa pasta venga fermentata da un’altra mentalità, che è il messaggio dell’amore cristiano. Questo sta funzionando... Gli altri vedono qualcosa che non hanno visto mai: l’amore gratuito... Molti ci chiedono: perché vi mettete

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DOSSIER Alcuni «bambini di strada» ad Aleppo. In migliaia vivono in situazioni precarie, senza famiglia e senza alcun aiuto

ad aiutare? Magari inizialmente nutrono sospetto. Poi vedono che non siamo spinti da altro scopo, se non dall’amore di Cristo. Questo genera apertura... Sento spesso dai fratelli musulmani questa frase: «Stiamo imparando la carità da voi». Una bellissima cosa.

Il Paese è però piegato e diviso della violenza...

Un dialogo pratico, concreto. Certo. Un dialogo che aiuta anche noi ad aprirci, a non avere paura. Essendo noi cristiani una minoranza, siamo tentati di chiuderci in noi stessi. Agli altri offre, viceversa, l’occasione di conoscerci da vicino, per costruire una convivenza nel futuro. La Siria è composta da 23 gruppi etnici e religiosi diversi. Prima vivevamo come un bel mosaico. Poi c’è chi ha voluto ridurlo ad un colore nero. Noi oggi cerchiamo di riparare questo mosaico, questa è la nostra missione come cristiani: essere un ponte tra i vari gruppi. 42 TERRASANTA

Quali sono oggi le aree del Paese più sofferenti? La regione che ha sofferto di più è quella di Idlib, dove i cristiani sono rimasti nella valle dell’Oronte, in tre villaggi, e dove ci sono due frati francescani, fra Hanna Jallouf e fra Luai Bsharat, che servono, oltre ai cattolici latini, anche le comunità ortodosse. Un dialogo ecumenico pratico. Poi la Mesopotamia, la zona di Raqqa, dove c’erano anche cristiani di antica tradizione, caldei, assiri, armeni... Hanno lasciato la loro terra, le loro tradizioni, le loro lingue. Era la zona

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più florida della Siria, con tanto petrolio e una ricca agricoltura. I cristiani hanno perso tutto. Non dobbiamo dimenticare Aleppo, che ha sofferto moltissimo. Negli ultimi due anni anche Damasco. L’unica zona dove le sofferenze sono state minori è quella del litorale, anche se alcuni villaggi sono stati toccati dalla violenza jihadista e i cristiani hanno dovuto lasciare le loro case.

Recentemente lei ha lanciato un appello per i «bambini senza nome», gli orfani della guerra. Un’immagine di ciò che resta di Homs, Siria centrale

Smallcreative/Shutterstock.com

La carità porta con sé un’altra cosa importante: il perdono, la riconciliazione. Questo aiuta la gente a riconoscere l’altro, il diverso, come un fratello che vive nella stessa casa. L’aiuto che sta dando la Chiesa è un «dialogo della vita» che porta più frutti di tanti incontri teologici e dogmatici.


Raim

LA STORIA

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I

Quel tempo appare oggi preistoria. o G irgi s Accanto al Memoriale, sorge una Casa Nova, una casa di accoglienza per pellegrini, come in altre realtà della Custodia in Terra Santa in Israele e Palestina. «Ma qui oggi – spiega fra Raimondo – è diventato il santuario della carità. Accogliamo ammalati, soprattutto oncologici, provenienti da varie parti della Siria». La guerra in molte parti del Paese ha distrutto ospedali e ogni possibilità di cura. Ma sono cresciute anche alcune patologie, come i tumori. Nei mesi scorsi ha fatto notizia la malattia di Asma al-Assad, moglie del presidente, affetta da un tumore maligno al seno. Come lei moltissimi siriani combattono oggi malattie terribili, senza però le stesse possibilità di cura.

d

Il santuario dell’accoglienza l frastuono dei tamburi della banda degli scout, che si ritrova per provare sul sagrato del Memoriale di San Paolo, si mischia ai clacson delle auto che intasano le viuzze attorno a Tabbaleh, uno dei quartieri popolari di Damasco. Fra Raimondo Girgis, studi in diritto canonico, autore di vari trattati sull’argomento, è il rettore di quello che, prima della guerra, era uno dei luoghi più visitati della Siria, meta di pellegrinaggio da parte dei cristiani di tutto il mondo. In occasione dell’anno paolino del 2008, la Custodia di Terra Santa ha interamente rinnovato la cappella ricavata nei pressi dalle memorie archeologiche legate alla conversione di San Paolo.

città. Stiamo lavorando per un terzo centro. C’è una équipe che sta lavorando presso il Collegio di Terra Santa, dove ha sede il Franciscan Care Center, coordinata con grande dedizione e competenza da fra Firas Lufti e da una dottoressa musulmana molto aperta e intelligente. Oltre alla parte psicologica, cerchiamo d’intervenire con attività ricreative.

Fra Firas Lufti (a destra) presso il Franciscan Care Center insieme al vescovo mons. Abou Khazen

Finita la guerra, ad Aleppo, abbiamo scoperto migliaia di bambini senza genitori, orfani oppure abbandonati. Alcune fonti parlano di 6 mila bambini che vivono per strada o in case semidistrutte. Questi bambini e bambine sono per la maggior parte ignoti all’anagrafe, sono di genitori sconosciuti. Il parlamento siriano sta studiando una legge in proposito, ma l’iter è lungo. Secondo fonti interne, sarebbero 30 mila in tutto il Paese. Come Chiesa abbiamo deciso di fare qualcosa, spinti dal no-

stro spirito francescano. Questi bambini, tutti nati da unioni tra musulmani, se lasciati al loro destino, potrebbero diventare i terroristi di domani, perché cresciuti nell’odio e nell’abbandono.

Cosa state facendo? Ad Aleppo, in collaborazione con le autorità musulmane, abbiamo avviato il progetto Un nome e un futuro, aprendo due centri di sostegno psicologico nella parte occidentale della

Crede che la guerra sia finita? Certamente è finita una fase della guerra, durata otto anni. Ma ne inizia un’altra, ugualmente delicata. Non dimentichiamo quali forze straniere sono all’opera nel Paese. Quali sono gli accordi che stringeranno? Quale esito avranno sulla situazione della Siria. Intanto la gente soffre e oggi più che mai serve un sostegno. Forse la guerra è finita, ma l’emergenza ■ continua.

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DOSSIER

SCHEDA

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oco lontano da piazza Umayyn, nei quartieri residenziali di Damasco dominati dalla sagoma grigia del palazzo presidenziale (una vera e propria fortezza in cemento armato che si affaccia sul profondo wadi scavato dal fiume Barada), una lunga fila si accalca all’esterno di un edificio pubblico. All’ingresso, la bandiera siriana e una gigantografia del presidente Bashar al Assad in mimetica militare e occhiali da sole. Tra i 300 mila riservisti chiamati alle armi, c’è chi ha deciso di presentarsi spontaneamente. Per chi non ha la possibilità di uscire dal Paese o nascondersi, l’alternativa alla naja è la galera. Allora, dicono in molti, tanto vale... La guerra cerca oggi di risucchiare anche chi pensava di averla scampata. Ci sono ingegneri, medici, tecnici informatici, impiegati... La loro partenza indebolirà ulteriormente il tessuto sociale. Se poi si contano quelli che puntano a emigrare, è chiaro che la Siria non è un Paese per giovani. Solo in pochi continuano a credere nel futuro. Uno è Joseph, 27 anni, giovane laureato cristiano, tra gli animatori della parrocchia di San Paolo a Damasco. «Oggi in Siria il 90 per cento dei giovani cristiani è laureato. Questo dà una responsabilità anche nei confronti della componente musulmana, che ha un livello d’istruzione più basso. Dobbiamo impegnarci sul versante della cultura, per aiutare il Paese a rinascere. Io ho scelto di restare in Siria perché sono convinto che la cultura e la 44 TERRASANTA

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Fadi A zar

La Siria? Non è un Paese per giovani

storia del mio Paese siano un patrimonio di tutta l’umanità. E che questo patrimonio vada difeso». Iham, 31 anni, incaricato dell’ufficio Ats Pro Terra Sancta di Damasco, è laureato in economia e ha lavorato fino a tre anni fa in una banca. Il suo impegno in favore dei più poveri e bisognosi della città, gli fa percepire ogni giorno l’importanza della presenza cristiana nella Siria di oggi. «Cerco di comunicare speranza e fiducia. Senza speranza oggi non si può vivere in Siria. Questo è il nostro Paese e dobbiamo costruire insieme il nostro futuro, sia dal punto di vista economico che sociale. Abbiamo bisogno dell’aiuto e della solidarietà dell’Occidente, ma dobbiamo impegnarci per tornate ad essere autosufficienti». Sulla situazione dei giovani nel Paese, fra Fadi Azar ha una visione ben precisa. Giovane parroco di Sant’Antonio, la parrocchia degli internazionali e degli addetti alle ambasciate, è membro della Caritas di Damasco e impegnato anche nel progetto Ospedali aperti (cfr p. 37). Giordano di Amman, studi negli Stati Uniti, fra Fadi legge la realtà dei giovani oggi in maniera molto disincantata: «Forse ci vorranno ancora due o tre anni perché si veda la fine di questa situazione. Nel frattempo, la maggior parte pensa di andare via. La guerra è purtroppo una costante nei Paesi del Medio Oriente. Tutto questo crea un clima generale di sfiducia che è difficile scalfire. Tanti cristiani se ne stanno andando... Scappano in Iraq, a Erbil, dove si è aperto un canale di emigrazione verso l’Australia. Un altro Paese dove è massiccia l’immigrazione dalla Siria è il Canada. Famiglie intere che lasciano questa terra. In una situazione di gravissima crisi economica, senza lavoro e senza prospettive. Come possiamo biasimarle?».


TACCUINO EGIZIANO

Al Sisi prenota la presidenza a vita? fra Mamdouh Chéhab Bassilios*

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l 16 aprile 2019, il Parlamento egiziano ha annunciato l’approvazione di nove modifiche alla Costituzione del 2014 sulla cui base è stato eletto il presidente attuale Abdel Fattah alSisi. Dopo questo passo parlamentare, è stato necessario un referendum da tenersi entro trenta giorni. Il referendum su questi emendamenti costituzionali si è svolto in effetti dal 20 al 22 aprile scorso. Le modifiche proposte permetterebbero al presidente al-Sisi di rimanere al potere fino al 2030. Oltre a questa modifica, un altro emendamento fa del presidente il vertice del sistema giudiziario, con la facoltà di nominare il presidente del Consiglio supremo della magistratura, il procuratore e la sua équipe giudiziaria, oltre a concedere al capo dello Stato l’autorità di nominare direttamente il presidente della Corte costituzionale. Il 23 aprile la Commissione elettorale nazionale ha annunciato l’approvazione delle modifiche con quasi l’88,8 per cento dei voti; i votanti sono stati 27 milioni. Come in ogni elezione in Egitto, le strade erano piene di grandi

striscioni, sia al Cairo sia nelle altre città egiziane. Alcuni di questi striscioni sostenevano gli emendamenti costituzionali in modo chiaro, mentre gli altri stimolavano il popolo a partecipare a questo referendum. Si è saputo pure che alcune delle sedi elettorali, per ringraziare gli elettori, hanno distribuito dei pacchi contenenti alimenti come olio, zucchero, riso ecc. Finiti i pacchi, veniva distribuita una somma piccola di denaro equivalente al valore del dono alimentare. Nella famosa piazza Tahrir, alla fine della votazione, si è diffusa un’aria di allegria da parte di giovani che appartenevano al partito ‘mustaqbal watan’ (Avvenire di una nazione), che hanno cantato e ballato per manifestare il loro appoggio verso l’attuale presidente. Come in ogni referendum, c’erano sostenitori ed oppositori. Coloro che hanno appoggiato al-Sisi hanno fiducia nella sua capacità di realizzare progetti sparsi in tutto il Paese, nonostante il caro vita per il semplice cittadino. Non pochi di questi sostenitori appoggiano la presenza nel governo dei «figli

*Centro francescano per gli studi cristiani, Il Cairo

dell’Armata», perché ritenuti capaci di guidare il Paese con mano di ferro, di fronte al fenomeno terroristico locale e internazionale. L’altra parte, quella degli oppositori, la cui voce si sente unicamente nei social media, vedono che le modifiche non sono altro che un mezzo per conquistare una forma di potere assoluto. Così si è espresso Khaled Dawoud, capo del partito alDustûr’ (La Costituzione). Hasan Nafiaa, noto intellettuale, ritiene che le attuali modifiche altro non sono che il passo preliminare verso il potere ad vitam. Da parte dell’autorità ecclesiastica locale, silenzio! Social media e giornali mostrano però le foto dei vescovi (anche cattolici) che si recano ai seggi. È stata data molto importanza a una foto di papa Tawadros che non ha goduto di una buona accoglienza da parte di una signora «velata» incaricata di accogliere gli elettori. Non c'è dubbio che l’Egitto stia molto soffrendo dal punto di vista economico. Ma le promesse di al-Sisi sembrano bastare al popolo per sperare in un futuro migliore.

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COORDINATE

Israeliani, ebrei e non ebrei Popolazione ebraica nel territorio di Israele 1882-2019 8 milioni 7 milioni

C

6 milioni

ome ogni anno, in maggio, nell’anniver sario dell’Indipendenza, l’Ufficio centrale di statistica israeliano fornisce i dati sulla popolazione del Paese – entità e composizione – relativi all’anno precedente. Dopo la promulgazione nel 2018 della controversa norma che afferma che «l’esercizio del diritto all'autodeterminazione nazionale nello Stato di Israele è unicamente per il popolo ebraico», i dati sugli ebrei e le minoranze sono ancora più significativi. Per numero di abitanti, superficie territoriale (22 mila kmq) e densità, Israele può essere paragonato alla Lombardia. Oggi il Paese ha 9 milioni e 21 mila abitanti, di cui quasi 7 milioni (6.697.000, cioè il 74,2 per cento) sono ebrei. Il quarto rimanente è costituito soprattutto da cittadini arabi (1,89 milioni, corrispondenti al 20,9 per cento), sia musulmani sia cristiani. Altri 434 mila abitanti (4,8 per cento) costituiscono i gruppi etnici e religiosi minori, tra cui i cristiani non arabi, e coloro che sono registrati come non appartenenti a nessuna religione. Alla fondazione nel 1948, il Paese aveva solo 806 mila abitanti. L’anno dopo raggiunse il milione e nel 1958 i due milioni, per il mas-

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6.697.000 5.802.900 4.955.400

5 milioni

Ebrei

3.946.700

4 milioni 3 milioni

2.299.100 2 milioni 1 milione 0

24.000 60.000 174.610

543.000

716.700

1882 1918 1931 1946 1948 1965 1990 2000 2010 2019

siccio arrivo di ebrei scampati alla Shoah o provenienti dai Paesi arabi. L’ultima grande ondata di immigrazione ebraica (aliyah) è seguita alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, dal 1990. Oggi

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vive in Israele il 45 per cento della popolazione ebraica mondiale, ma la percentuale di residenti ebrei nel complesso di Israele e Territori palestinesi è scesa sotto il 50 per cento.

Ebrei e non ebrei in Israele e Palestina 8 milioni 48%

7 milioni 51%

6 milioni 52%

5 milioni 4 milioni

59%

3 milioni 2 milioni 1 milione 0 1990 2000 2010 2109 Ebrei in Israele

Non ebrei in Israele

Palestinesi nei Territori


AREE DI LINGUA ARABA IN ISRAELE zone arabofone zone miste arabofone ed ebreofone territori palestinesi

Gruppi etno-religiosi in Israele Ebrei Musulmani sunniti Beduini Cristiani Drusi

Haifa Shefaram Nazaret

1,6%

1,9%

2,8%

19,6%

74,1%

Tel Aviv

Gerusalemme

Ebrei, crescita demografica (2018) Ultraortodossi

Altri ebrei

Tasso di crescita naturale

4,2%

1,4%

Età 0-19

58%

30%

Tasso di fertilità

7,1

3,1

In 70 anni, comunque, la popolazione israeliana è più che decuplicata e, nell’ultimo anno, è cresciuta del 2 per cento (uno dei tassi più alti tra i Paesi occidentali), perlopiù grazie ai nuovi nati e, solo in parte, per i flussi migratori: i residenti immigrati sono stimati in 166 mila. La crescita interessa in modo diverso le varie comunità. Se negli anni Dieci gli ebrei sono aumentati in media dell’1,8 per cento, la componente araba è cresciuta del 2,4 (era il 3,4 negli anni Novanta), i cristiani dell’1,3 per cento, i drusi dell’1,7 per cento. All’interno della componente ebraica stanno mutando gli equilibri demografici. Con le provenienze più diverse (ashkenaziti, sefarditi, mizrahì, Beta Israel), gli ebrei si possono suddividere anche tra religiosi, tradizionali e laici. Tra i religiosi sono in aumento soprattutto gli haredim (ultraortodossi), come mostra la tabella a sinistra. Superata da poco la soglia del milione, gli ultraortodossi hanno mantenuto nell’ultimo decennio una crescita costante. Il tasso di fertilità delle donne della comunità è più del doppio di quello generale. Secondo una stima dell’Ufficio centrale di statistica, in 40 anni gli

haredim saranno metà di tutti gli ebrei del Paese. Gli arabi musulmani costituiscono la principale minoranza (circa 1,2 milioni). Sono perlopiù sunniti, residenti soprattutto in piccole città e villaggi del Nord (vedi mappa). I beduini, circa 250 mila, anch’essi musulmani, appartengono a una trentina di tribù, sparsi in ampie aree del Sud. Vivono una transizione da una condizione di pastori nomadi a una vita stanziale. Gli arabi cristiani (in maggior numero melchiti e greco-ortodossi) sono circa 123 mila e vivono soprattutto nelle città di Nazaret, Haifa e Shefaram. I drusi sono circa 122 mila e parlano arabo. Disseminati in una ventina di villaggi nel Nord costituiscono una comunità religiosa e culturale ben distinta, particolarmente integrata nello Stato e fortemente delusa dalla legge sullo Stato nazione. Nelle statistiche sui cittadini di Israele rientrano infine i circassi, musulmani sunniti (circa 4 mila), di lontana origine caucasica; gli aramei, una minoranza di sole 200 famiglie di cristiani israeliani che dal 2014 non sono più identificati con gli arabi; poche centinaia di samaritani e bahai. Francesco Pistocchini

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Pellegrinaggi Custodia Terra Santa

Terra santa

Pellegrinaggi Custodia Terra Santa via Francesco Berni, 6 00185 Roma tel: 06 77206308 fax: 06 77254142

Chi sceglie un pellegrinaggio promosso dalla Custodia di Terra Santa viene ospitato presso le Case Nove, strutture di accoglienza francescana situate nei pressi dei principali santuari. Partecipare ad un pellegrinaggio promosso dai francescani di Terra Santa significa contribuire alla missione della Custodia dei Luoghi Santi. Per maggiori informazioni e per conoscere le proposte e i programmi della Custodia di Terra Santa visita il sito:

www.pellegrinaggicustodia.it o contattaci all’indirizzo email:

info@pellegrinaggicustodia.it


VISTA GALATA

L’esodo biblico dei senza volto padre Claudio Monge*

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na moltitudine in esodo. Secondo un dato governativo (11 aprile) sono 3 milioni e 621 mila gli individui accolti dalla Turchia dall’inizio della crisi siriana, che non è affatto terminata. Una marea di gente che rimane in gran parte entro i confini turchi, affollando, talvolta, i marciapiedi di megalopoli come Istanbul dove, in teoria, non avrebbe mai dovuto arrivare, per non aggravare ulteriormente un saldo demografico già poco sostenibile. È emergenza permanente, dunque, ma, a distanza di tanti anni, non si può parlare di questo dramma in termini solo emergenziali. Dal 2012 nella regione di Hatay, che ha per capoluogo l’Antiochia di biblica memoria, si trovano oltre 25 strutture di accoglienza di profughi siriani. Ma da questa terra, che è stata il corridoio attraverso cui i ribelli da tutto il mondo entravano in Siria per combattere Assad, circa un anno fa è partito l’attacco dell’esercito turco per cacciare le milizie curde dal nord della Siria. Ottenuta la vittoria, gran parte del territorio conquistato è stato ceduto all’Esercito Libero Siriano (Els), la milizia anti-Assad che Ankara considera il proprio braccio armato in terra siriana.

Il famoso accordo firmato nel 2016 tra Ankara e l’Unione europea, per fermare i flussi migratori lungo la rotta balcanica, ha totalmente appaltato al governo turco l’amministrazione delle strutture di accoglienza sul proprio territorio. E i turchi non hanno perso tempo, creando prima di tutto dei campi di addestramento dei combattenti dell’Els e, in secondo luogo, un progetto educativo fondato su una sintesi tra nazionalismo turco e islam sunnita. Tutti i professori e tutti gli imam attivi nei campi profughi sono scelti dal governo di Ankara. Le guide religiose appartengono al Diyanet, il ministero per gli Affari religiosi, dipendente direttamente dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e l’insegnamento, quasi esclusivo, di una «corretta interpretazione dell’islam e del Corano» è considerato come l’antidoto migliore al fanatismo religioso. E i profughi non sunniti, per non parlare dei non mussulmani? Fuori dei campi profughi, inaccessibili all’Acnur, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, e alle ong occidentali, se ne vedono apparentemente molto pochi. Fino agli anni Sessanta i cristiani rappresentavamo il 50 per cento

*Centro domenicano per il dialogo interreligioso, Istanbul

degli abitanti di questa regione, oggi sono rimaste una cinquantina di famiglie divise tra armeni, cattolici e protestanti. Benché anche coloro che vivono fuori dai campi ricevano un’assistenza da parte dello Stato, attraverso il lavoro di una serie di associazioni, nel quadro di rapporti assai positivi con le autorità civili, i giovani continuano a lasciare queste terre dove sono convinti di non avere futuro. Come vivere in luoghi dove si è, da troppi anni, di passaggio? Quali radici mettere, in bilico tra tradizioni familiari che non sono state mai veramente assimilate (quando non sono, talvolta, decisamente contestate) e un nuovo ambito culturale rispetto al quale ci si sente ai margini? Gli anziani, cresciuti nella strenua difesa della storia del loro popolo, spesso muoiono in questo «limbo», dove accettano di essere seppelliti a patto che sul loro cadavere venga gettato almeno un pugno della terra delle origini. Se non esiste trasmissione possibile di un’identità fossilizzata, incurante del tempo che scorre, è tuttavia difficile immaginare un’evoluzione identitaria senza entrare in dialogo critico con altri modelli di società e con altre culture.

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INCONTRI Celebrazione eucaristica nel Wadi Kelt, verso il Mar Morto

Vescovo di Grosseto dal 2013, mons. Cetoloni ha da sempre un rapporto speciale con la Terra Santa. Gli studi, l’ordinazione sacerdotale e l’incessante l’impegno in favore delle comunità cristiane locali

di Giuseppe Caffulli

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iornate intense, tre momenti di celebrazioni particolarmente partecipati. La grande libertà dei cristiani e dei frati minori locali nel proporre ancora una volta un incontro con il mondo islamico, nel segno di Francesco d’Assisi». Incontro monsignor Rodolfo Cetoloni, vescovo di Grosseto, in occasione di una sua visita a Firenze, dove partecipa ai lavori del Consiglio della Fondazione Giovanni Paolo II, organismo nato per offrire aiuto soprattutto alle Chiese del Medio Oriente. Mons. Cetoloni, frate minore, già vescovo di Montepulciano-ChiusiPienza, ha ancora negli occhi le giornate di Damietta (dal 1° al 3 marzo scorso, cfr Terrasanta febbraio-marzo 2019, p. 3), quando, con il Custode di Terra Santa fra Francesco Patton e il ministro generale dei Frati minori fra Michael A. Perry, ha partecipato alla rievocazione dell’incontro tra san Francesco e il sultano nel 1219. 50 TERRASANTA

Qui Dio mi ha preso per mano «Oggi come allora, da francescani, la nostra proposta di dialogo è stata fatta a partire da parole umane, come fraternità e accoglienza. Come francescano è stato un momento di grande gioia, perché ho visto come l’intercedere, lo stare in mezzo, sia ancora oggi attuale. Ho visto docenti musulmane di al-Azhar, dichiarare con orgoglio di essere state allieve delle scuole cattoliche. A pochi giorni dalla visita del Papa ad Abu Dhabi, le rievocazioni di Damietta sono state un importante momento di condivisione tra islam e cristianesimo». «Dobbiamo imparare ad andare oltre gli stereotipi – spiega ancora il vescovo di Grosseto –

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alla ricerca della ricchezza che ci unisce». Il tema dell’incontro con l’altro, il lontano, è il filo rosso, spesso, dell’azione pastorale di mons. Cetoloni. Un atteggiamento che gli deriva anche dal suo grande amore per l’Oriente cristiano, «nato quando ancora ero ragazzino, dall’incontro di un santo frate di Badia a Ruoti, Arezzo, la mia città, che si trovava missionario in Egitto. Si chiamava padre Giuseppe Giustelli. Viaggiava sempre a piedi o con i mezzi pubblici; viveva tra la gente come uno del popolo. Mi ispirò fiducia e chiesi di entrare nel seminario dei frati». La Terra Santa, per padre Rodolfo, come ama ancora farsi


o tol Rodolfo Ce

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i

chiamare, è venuta qualche decennio dopo. «Avevo conosciuto il grande archeologo fra Bellarmino Bagatti e mons. Alberto Gori, il patriarca di Gerusalemme. Erano tutti e due frati minori toscani e quando venivano in Italia passavano sempre a farci visita nelle case di formazione. Erano persone che incuriosivano e comunicavano tanto. Così, quando la Custodia di Terra Santa nel 1970 aprì anche a studenti di altre Province lo Studio teologico, chiesi di andare a Gerusalemme a terminare la teologia». Il disegno che conduce il destino degli uomini è spesso imperscrutabile, mons. Cetoloni ne è certo: «A Firenze erano gli anni

caldi del Sessantotto. C’era un po’ di confusione, ma anche grande entusiasmo e grande fermento di novità a livello ecclesiale. A Gerusalemme ho trovato una situazione completamente diversa, quasi come se l’aggiornamento conciliare non fosse mai arrivato. Rimasi sulle prime spaesato, ma fu in realtà il momento determinante della mia vita». Il vescovo di Grosseto prende una pausa, cerca quasi le parole. «La spiego così. Venivo da un mondo in fermento, sono arrivato in un ambiente che, a confronto, mi pareva arretratissimo. Ma laggiù, a Gerusalemme, mi sono come fermato e ho iniziato a entrare in una dimensione diversa,

più interiore. Ho imparato la cosa fondamentale della mia vita: ascoltare e guardare alla storia dell’uomo, così come Dio vi si è inserito. Dio ci ama come siamo, non come vorrebbe che fossimo. Se ha fatto sempre così, e la storia della Salvezza rivissuta in quei luoghi lo testimonia – mi sono detto – c’è posto anche per me». Tornato in Italia dopo l’ordinazione sacerdotale, fra Rodolfo s’impegna nell’attività pastorale con i giovani: campeggi, marcia francescana, incontri, giornate di spiritualità insieme a loro. La Terra Santa per un po’ di tempo resta sullo sfondo, «anche se padre Bagatti mi aveva ventilato più volte l’idea di tornare, una volta terminati gli studi biblici». A richiamarlo a Gerusalemme ci pensa fra Michele Piccirillo, al quale mons. Cetoloni era legato da fraterna amicizia. «Un giorno mi telefona fra Michele e mi chiede di guidare un gruppo di Milano. Aveva preso senza accorgersi un doppio impegno... Quel pellegrinaggio, capitato tra capo e collo e che guidai per dare una mano a un amico, iniziò a farmi accorgere di ciò che era stata quella terra per me. Guidarvi qualcuno mi aiutava a far emergere la mia relazione profonda con quei luoghi. Da allora, un po’ alla volta, ho capito come la Terra Santa mi era entrata nell’anima, dentro la pelle».

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INCONTRI CHI È Da Montepulciano alla Maremma

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odolfo Cetoloni, frate minore francescano, è nato a Badia a Ruoti (comune di Bucine, Arezzo) il 3 gennaio 1946. Nel settembre 1962 inizia a La Verna il cammino del noviziato nell’Ordine dei Frati minori. Nel 1971 emette la professione solenne e parte per Gerusalemme dove termina gli studi in Teologia conseguendo la licenza. Ordinato sacerdote a Gerusalemme il 26 giugno 1973, frequenta a Roma il Pontificio Istituto Biblico, dove ottiene la licenza in Sacra Scrittura. Nel 1985, a soli 39 anni, è eletto ministro provinciale dei Frati minori della Toscana, servizio che svolge fino al 1991. Il 25 marzo 2000, viene nominato vescovo di Montepulciano-Chiusi-Pienza. Il 28 maggio 2013 papa Francesco lo elegge vescovo di Grosseto. Nella Conferenza episcopale italiana è membro della commissione per l’ecumenismo e il dialogo. È componente del consiglio di amministrazione della Fondazione Giovanni Paolo II, che si occupa di progetti e impegni di dialogo, cooperazione e sviluppo soprattutto in Medio Oriente.

Con alcuni pellegrini a Nablus, presso il pozzo di Giacobbe. Sotto: a Gerusalemme con fra Alessandro Coniglio

L’impegno di mons. Cetoloni per la Chiesa di Terra Santa e la Custodia ha conosciuto varie fasi, tutte significative. «Nel 1997 mons. Luciano Giovannetti, allora vescovo di Fiesole, mi chiese di aiutarlo a lanciare un grande un pellegrinaggio in Terra Santa. Eravamo più di seicento. Fu l’inizio dell’esperienza che dopo dieci anni avrebbe portato alla nascita della Fondazione Giovanni Paolo II. Con il settembre del 2000 cominciarono gli anni duri della seconda intifada. Ero divenuto vescovo e chiesi due volte la parola in Assemblea della Conferenza episcopale italiana. Mi tremava la voce, ma parlai dei bisogni dei nostri fratelli di Terra Santa. Era un dovere farsene carico! Ci fu un applauso, ma sembrava che non

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si potesse far nulla. Però dopo alcuni mesi il segretario della Cei, mons. Giuseppe Betori, organizzò una visita in Terra Santa per un gruppo di vescovi e volle che fossi con loro. Da lì nacque il progetto Tutti là siamo nati: gemellaggi con diocesi e parrocchie italiane, per sostenere le comunità locali e rilanciare i pellegrinaggi. Fu affidato a mons. Giovannetti e a me, con alcuni sacerdoti e laici toscani. Fu un passaggio fondamentale e una grande crescita di interesse e di contatti effettivi. Orami sono passati vent’anni e ora l’attenzione dei vescovi verso la Terra Santa è molto cresciuta, anche perché molti hanno potuto visitarla quando erano seminaristi e giovani preti o vengono dagli studi biblici».

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L’opportunità pastorale che la Terra Santa offre è uno degli aspetti che stanno più a cuore a padre Rodolfo: «È un’esperienza preziosa, è vitale, funziona. C’è una grazia del luogo, che lascia un segno. Lo dico perché l’ho sperimentato in prima persona sulla mia vita: prima di andare in Terra Santa avevo studiato, conoscevo quello che era scritto sui libri. Poi ho imparato le distanze, i passi che separano un luogo dall’altro. Ho messo i miei piedi sulle stesse strade percorse da Gesù. Ho toccato con mano la terra che ha conosciuto l’Incarnazione e la Redenzione. Visitarla, abitarci almeno per un po’ è capace di trasformare la nostra esperienza cristiana, di renderla “vissuta”».


LA CASA DEL PANE

Le parole di mamma che leniscono il dolore suor Lucia Corradin*

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ecentemente un evento straordinario è avvenuto al Caritas Baby Hospital: la donazione gratuita del sistema Mami Voice, in grado di riprodurre nelle incubatrici la voce registrata della mamma senza produrre campi elettromagnetici. Uno strumento che ha consentito di evidenziare come la voce della mamma abbia davvero un potere antidolorifico sui propri figli, soprattutto sui neonati e in particolare sui prematuri. Realizzato dall’architetto Alfredo Bigogno e donatoci da due realtà imprenditoriali bresciane, il sistema è stato installato da un’équipe di esperti, che ha anche formato lo staff del nostro ospedale al suo utilizzo. Dopo essere stato per nove mesi in vera simbiosi con la propria madre, il bambino subisce un distacco netto, radicale e drammatico; ancora più drammatico è il distacco per i bambini prematuri i quali, prima degli altri, si vedono privati dell’ambiente e della situazione accogliente e confortevole cui erano abituati. La voce della mamma, o meglio, i suoni della mamma sono non solo familiari per il figlio, ma anche confortanti al punto da poter essere terapeutici.

*Caritas Baby Hospital, Betlemme

Ma come può la voce di una madre seguire il figlio per tutta la vita? Nel 2005 l’architetto Alfredo e altri amici professionisti si sono chiesti come poter dare conforto ai bambini nati prematuri durante la loro permanenza nell’incubatrice (la parola evoca l’incubo, quindi da qui in avanti preferisco chiamarla «termoculla») nei reparti di terapia intensiva neonatale, e come permettere loro di ricevere il conforto della voce materna all’interno di quel microclima saturo di rumori e suoni tutt’altro che naturali. Dopo ricerche e tentativi si è giunti alla realizzazione di un sistema che permette di far giungere al neonato il suono e soprattutto le vibrazioni della voce della propria madre all’interno della termoculla senza la necessità di introdurvi apparecchiature, senza andare a intralciare il fondamentale lavoro del personale medico e senza che vi siano ulteriori campi elettromagnetici a disturbare il bambino. La vera scoperta è quanto questo aiuto e conforto vengano amplificati, quando la voce giunge non solo come vibrazione sonora attraverso l’apparato uditivo, ma quando viene percepita come vibrazione attraverso tutto il corpo.

Commovente l’impatto con la prima mamma cui abbiamo spiegato il senso di questo apparecchio e chiesto la disponibilità di registrare la sua voce. Questa mamma ha voluto cantare una canzone molto bella e rilassante e quando lei stessa ha potuto percepire la sua voce e vedere l’effetto benefico sul suo figlio prematuro è rimasta stupefatta e ha pianto. Tale commozione ha contagiato tutti noi operatori e questa stessa mamma ci ha sollecitato a usarlo più spesso. Da metà febbraio questo strumento è in uso nel reparto di Neonatologia e terapia intensiva sotto la supervisione della caposala e della responsabile della residenza delle mamme. Incontro dopo incontro, stiamo creando il nostro album sonoro e registrando gli effetti benefici di questo apparecchio sui nostri bambini per poter condividere con altri la nostra arricchente esperienza usufruendo di questo regalo tutto speciale della Provvidenza divina che come sempre si serve di noi uomini per spingerci a uscire da noi stessi e essere solidali verso i più deboli e più poveri.

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Nazaret Cinquantʼanni dopo La chiesa dell’Annunciazione nel 1945

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Il 23 marzo 1969 veniva consacrata la nuova basilica dell’Annunciazione a Nazaret, dopo otto anni di lavori. Progettata da Giovanni Muzio, sorge in uno dei luoghi più santi e custodisce duemila anni di storia e fede

La basilica dell’Annunciazione con la MAGGIO-GIUGNO sua imponente cupola 2019 TERRASANTA 55


ATLANTE

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La basilica superiore, con il grande mosaico absidiale di Salvatore Fiume. A destra: la cupola dall’interno. Richiama la corolla di un fiore

di Giuseppe Caffulli

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on la solenne consacrazione della nuova basilica, una preziosa corona viene posta sul capo della Madre di Dio e della Chiesa, frutto della fede, della devozione, del coraggio e dei sacrifici di tante persone di ogni nazione del mondo che questo giorno hanno desiderato e voluto». Con queste parole inizia la lettera circolare inviata da fra Erminio Roncari, presidente della Custodia, ai religiosi di Terra Santa. Pubblicata sul numero di aprilemaggio 1969 della rivista La Terra Santa, annuncia la consacrazione della nuova basilica di Nazaret, progettata e realizzata dall’architetto Giovanni Muzio. Il numero di luglio-agosto della 56 TERRASANTA

rivista è interamente dedicato alla solenne consacrazione. L’allora direttore di La Terra Santa, fra Claudio Baratto, spiega nell’editoriale di apertura l’importanza dell’impresa: «Il 1969 per Nazaret rimarrà indelebile nei suoi annali perché apre un’era nuova che non nasce da eventi dolorosi, come spesso avviene nella vicenda umana, ma dal confluire, in un unico intento, della fede, degli universali contributi, del lavoro d’umile gente, dell’ingegno e dell’arte». Il numero è quanto mai ricco di informazioni e di approfondimenti. C’è un articolo sul «Messaggio di Nazaret» di fra Ignazio Mancini, una ricognizione sugli scavi archeologici connessi al Luogo Santo (il pezzo è siglato T.C.); un articolo sulle relazioni tra Santa Sede e nuova basilica a cura di fra Metodio Brlek e un lungo

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saggio di fra Gino Concetti sulla presenza dei francescani a Nazaret. Tra i contributi più interessanti e originali del numero in questione, l’elenco degli artisti, dei decoratori e delle maestranze (non solo italiane) impegnate nella realizzazione dell’opera, coordinata dall’architetto Giovanni Muzio «autore anche di diversi altri particolari funzionali e decorativi del tempio, come altari, amboni, iscrizioni, pavimenti, lampadari...» (p. 197). Il programma della consacrazione ci permette di cogliere la solennità dell’evento, che si dipanò su più giorni, da domenica 23 marzo a mercoledì 26 marzo, alla presenza del cardinale Gabriele Garrone, allora prefetto del Pontificio consiglio per l’educazione cattolica e del ministro generale dei Frati minori, fra Costantino Koser. Culmine delle


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La grotta dell’Annunciazione, nella parte inferiore della basilica

A Milano, il 30 marzo 1967, il Cardinale Colombo consacra le sette campane destinate alla basilica di Nazaret

celebrazioni, il 25 marzo, con il solenne pontificale presieduto dal patriarca latino di Gerusalemme, mons. Alberto Gori, già Custode di Terra Santa.

Ecco la cronaca di quell’evento: «Il giorno 23 marzo, dopo otto anni di intensissimi e continui lavori, siamo giunti al momento tanto atteso della solenne

consacrazione della nuova basilica di Nazaret. Il monumentale edificio e i dintorni sono ornati a festa, gli accessi e le vicinanze animati di numeroso pubblico composto dei fedeli delle molte parrocchie di Terra Santa, gran numero di pellegrini, in maggior parte italiani, giornalisti e fotografi intraprendenti, la radio e la televisione d’Israele e di altri Paesi». Alla consacrazione della nuova basilica dell’Annunciazione (visitata ancora in costruzione nel 1964 anche da san Paolo VI, durante il suo viaggio in Terra Santa) era assente per motivi di salute l’allora Custode di Terra Santa, fra Alfonso Calabrese. A distanza di 50 anni vale la pena ricordare l’evento della costruzione e della dedicazione della basilica che sorge su uno dei Luoghi Santi più importanti

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ATLANTE SCHEDA Dove l’Angelo visitò Maria avanti alla grotta dell’Annunciazione, nella chiesa inferiore, si riconosce ancora chiaramente la struttura di una chiesetta bizantina con l’abside rivolta a est. Al di sotto, come dimostrano vari reperti, doveva trovarsi un tempio cristiano più antico. Alcuni studiosi parlano di una «chiesa-sinagoga», visto il forte influsso culturale del giudeo-cristianesimo a Nazaret; ma siamo lontani dall’avere certezze in merito. È infatti probabile che tale edificio precedente risalisse anch’esso all’epoca bizantina. (...) Quindi la prima chiesa della grotta sarebbe stata realizzata poco dopo l’anno 350. Era probabilmente abbellita da mosaici della prima età bizantina. Tali mosaici erano tutti adorni di croci, e risalgono a prima del 427, anno in cui l’imperatore Teodosio II decretò che la venerazione della croce non implicava di dover coprire i pavimenti con la sua immagine. Un ritrovamento particolarmente prezioso relativo a questo antico tempio è la scritta incisa in greco alla base di una colonna: XE MAPIA, abbreviazione di Chaire Maria, l’incipit del saluto dell’angelo alla Madonna (Lc 1,28: «Rallègrati»), reso con Ave Maria in latino. Attualmente il reperto è custodito nell’adiacente museo. Accanto alla chiesa bizantina vi erano altri locali, e presumibilmente un fonte battesimale. I crociati costruirono qui la loro chiesa in asse con quella bizantina ma con tutt’altre proporzioni: 70 metri di lunghezza e 30 di larghezza. Sul lato sinistro (nord) della chiesa inferiore si vede una parete di epoca crociata che è stata integrata nell’edificio attuale. (...) I francescani (dopo la sconfitta crociata – ndr) tentarono più volte di rimettere piede in città, ma restò loro a lunga interdetta qualunque permanenza duratura. Intorno al 1547 erano a Nazaret, ma furono costretti a fuggire a causa di una sommossa; lasciarono le chiavi della chiesa a un cristiano del luogo. Solo nel 1620 riuscirono a riacquistarne le rovine e a ristabilirsi definitivamente in città. (...) Nel 1730 ottennero il permesso di costruire una nuova, piccola chiesa. Tale edificio era rivolto verso la grotta dell’Annunciazione, quindi era disposto di traverso rispetto a quello precedente. La chiesetta barocca avrebbe dovuto essere sostituita nel 1954 da una più grande, commisurata all’importanza del luogo, ma la data di inizio dei lavori continuava a slittare. La nuova basilica, che sorge sulle fondamenta della chiesa crociata, è stata costruita tra il 1960 e il 1969 su progetto dell’architetto milanese Giovanni Muzio. (Tratto da H. Fürst – G. Geiger, Guida di Terra Santa, Milano 2017, pp. 106-107). Il monogramma di Cristo nel mosaico della navata centrale della chiesa bizantina

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La statua di Maria posta all’esterno della basilica

e visitati della Terra Santa. «La sua architettura in cemento a vista – spiega la Guida di Terra Santa di Heinrich Fürst e Gregor Geiger (Edizioni Terra Santa, Milano 2017, p. 106), a un primo sguardo forse non rivela al pellegrino tutta la sua bellezza; riesce però, in maniera unica, a mettere in collegamento passato e presente, Chiesa locale e Chiesa universale». Come sottolineato da fra Ignazio Mancini nel suo articolo sul «Messaggio di Nazaret», il mistero avvenuto tra le povere mura della Santa Grotta indica «che la vita di famiglia è comunione d’amore» e che a Nazaret «s’impara una dimensione nuova, quella dell’Incarnazione di Dio» nella Storia. Un evento che ci rende corresponsabili nel progetto di Salvezza e impegnati a realizzare il Regno di Dio sulla terra. ■

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ARCHEOLOGIA

Paesaggi antichi e ambiente biblico don Gianantonio Urbani*

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na persona che ha la possibilità di visitare le terre bibliche ha l’occasione d’incontrare in modo nuovo l’ambiente in cui le Scritture hanno preso vita e sono divenute esperienza concreta in un tempo storico preciso. Si può leggere la Bibbia sul terreno in cui è avvenuta la rivelazione di Dio per gli uomini. In questa direzione ha lavorato, studiato e offerto le sue meditazioni padre Jacques Fontaine, recentemente scomparso, dopo una lunga esistenza vissuta a Gerusalemme, percorrendo la Terra Santa. Padre Jacques era un religioso domenicano che ha intuito in profondità l’essenza delle Scritture e la connessione di queste con l’ambiente, il paesaggio, il «luogo!» ove queste possono essere sperimentate e ritrovate. Non era un archeologo, né un topografo o un geografo, ma ha saputo mettere a disposizione della Bibbia, come Parola di Dio, queste importanti discipline ausiliarie. Sosteneva chiaramente e in modo deciso che, se non si fa esperienza del «luogo» difficilmente si riuscirà a carpire il senso e la direzione della rivelazione e manifestazione di Dio con il suo popolo. Questo non signifi-

ca però che chi non può visitare la Terra Santa si trovi in una posizione di svantaggio. Questa azione pedagogica di accostare la Terra alla Bibbia per esplorarla in profondità, genera un beneficio enorme anche per chi non può fisicamente percorrerla. Padre Jacques ci ha offerto la concreta possibilità di entrare nello studio del paesaggio antico biblico-evangelico. Con le sue meditazioni-studio ci ha messo in grado di percepire la potenza della Parola nel contesto in cui fu ispirata. In questo ambito vi sono dei principi importanti per codificare e leggere le pagine della Bibbia e collocarle nel loro contesto di riferimento come possono essere il paesaggio, la città, le strade, i torrenti, le piante e la natura... potremo proseguire con esempi unici e straordinari. Richiamo alcuni aspetti che l’archeologia dei paesaggi antichi ci offre. Primo: in generale possiamo leggere il paesaggio attraverso la prospettiva dell’aquila o quella della rana, dall’alto o rasoterra. I due approcci hanno esiti diversi. Secondo: nel terreno in generale troviamo le tracce di un passaggio, un ambiente di vita

*archeologo, Studium Biblicum Franciscanum, Gerusalemme

spesso domestico dove uomini e donne hanno dimorato. Terzo: le relazioni di costoro furono sia serene che turbolente, quindi troviamo spesso le tracce di conflitti, ripari e battaglie. Quarto punto: l’ambiente urbano ci indica strutture adibite al comando, all’amministrazione, al commercio-scambio e alla vita religiosa. Quinto: l’ambiente agricolo ci mostra una continuità straordinaria con ciò che un tempo fu coltivato e sul terreno possiamo trovare le tracce importanti di un paleo-suolo. Sesto: spesso l’ambiente costruito porta i segni di trasformazioni repentine a causa di terremoti, alluvioni e distruzioni volontarie. Settimo: anche l’ambiente o il paesaggio distrutto e ridotto a macerie, è un importante indizio di vita. Sono solo appunti, ma ci possono aiutare per facilitare la lettura di molte pagine di vita del Primo e del Nuovo Testamento. Concludo con una definizione di questa disciplina archeologicostorica: «Il paesaggio è un prodotto sociale e culturale, un modo di vedere proiettato sulla terra, con le sue tecniche e forme compositive» (Cosgrove, 1984, 1, 269).

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CULTURA Un dragomanno in abiti tradizionali in una foto d’epoca

di Paul Turban Traduzione di Roberto Orlandi

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bbiamo lasciato Ramla il 4 ottobre a mezzanotte. (...) Il nostro drappello era composto dal capo arabo, dal dragomanno di Gerusalemme, dai miei due domestici e dal beduino di Giaffa, che conduceva l’asino carico di bagagli» (F. R. de Chateaubriand, Viaggio a Gerusalemme, Edizioni Terra Santa, 2018, p. 19). Pellegrino in Terra Santa a inizio dell’Ottocento, Chateaubriand non poté fare a meno dei servigi di un dragomanno. Derivato dall’arabo tarǧumān (interprete), divenuto in italiano turcimanno, il dragomanno era un autoctono poliglotta che accompagnava i visitatori in Medio Oriente fin dal loro sbarco a San Giovanni d’Acri, Giaffa o Gaza. Fra Liévin de Hamme, nella sua Guida indicatrice dei santuari e luoghi storici di Terra Santa (1870), dà questo consiglio: «Il miglior modo di viaggiare in Oriente è di assumere un solo uomo che faccia contemporaneamente da guida e interprete e si incarichi di procurare tutto il necessario». Quest’uomo è il dragomanno. Tale figura fece la sua comparsa con la prima Crociata. All’inizio dell’XI secolo, solo una ristretta élite in Europa 60 TERRASANTA

Dragomanni, tra Oriente e Occidente poteva esprimersi in arabo (i domenicani saranno tra questi; impararono la lingua predicando nella penisola iberica, all’epoca sotto la dominazione dei sara-

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ceni). Ma la stragrande maggioranza dei crociati non conosceva l’arabo quando sbarcò, conquistò e poi governò la Terra Santa. Nel 1309 Jean de Joinville nella sua


Felix Bonfils

Diplomatico o guida per i pellegrini? La figura del dragomanno compare nei resoconti di viaggio a partire dalle Crociate. Siamo andati alla scoperta di questa professione sconosciuta e quasi scomparsa

Vita di san Luigi menzionava quelle «persone che conoscono il saraceno e il francese, che chiamano dragomanni». Funsero da intermediari, ad esempio, nella

trattativa per il rilascio di Pietro di Bretagna, prigioniero dei musulmani. Era il 1250. Lo stesso anno, un trattato di pace (e commerciale) tra la Repubblica di Genova e il re di Tunisi citava dei torcimania, che potremmo tradurre proprio con «dragomanni». La comparsa di questi interpreti è legata anche a necessità diplomatiche. La conquista di San Giovanni d’Acri da parte dei Mamelucchi nel 1291 segna il crollo definitivo del dominio crociato (e delle sue istituzioni) in Palestina. Per quasi due secoli, i rapporti tra Occidente cristiano e Oriente islamico sono quasi inesistenti e i pellegrinaggi oltremodo rari. Venezia introduce una novità con l’invio di un bailo, ambasciatore permanente presso l’Impero ottomano. I diplomatici occidentali, così come i mercanti, assumono dei dragomanni per superare la barriera linguistica. Nel 1516 quattro maroniti entrano al servizio dei francescani con questo ruolo. Delle linee di discendenza dei dragomanni che lavorarono presso i frati minori fino al XVIII secolo si conserva ancora traccia. Per primi vennero reclutati i levantini cattolici, discendenti dei mercanti genovesi, veneziani o ciprioti stabilitisi da diverse generazioni in Palestina ma considerati ancora cittadini europei dagli ottomani. Anche gli ebrei

sefarditi, espulsi dalla Spagna dopo la presa di Granada nel 1496, furono «arruolati» presso le ambasciate occidentali. Autoctoni, generalmente cristiani, potevano ugualmente assolvere alla funzione in caso di necessità, ma la scarsa lealtà nei confronti degli occidentali e la conoscenza spesso approssimativa delle lingue europee ne facevano dei partner poco affidabili.

Il mestiere si specializza Per colmare questa lacuna, Venezia assunse fin dal 1551 dei «giovani di lingua», giovani veneziani inviati a Costantinopoli per essere introdotti ai diversi idiomi parlati nell’impero. Nel 1669 Colbert, allora Controllore generale delle Finanze del regno di Francia, ricevette due memorandum dal console di Aleppo e dall’ambasciatore di Costantinopoli che stilavano un cupo ritratto della situazione commerciale francese in Medio Oriente. Il declino veniva attribuito alla pessima qualità e agli abusi dei dragomanni locali. Il grande ministro di Luigi XIV, perciò, il 18 novembre 1669 decise l’istituzione della scuola dei Jeunes de langue. In un secolo e mezzo, circa 70 giovani francesi impararono dai cappuccini di Costantinopoli il turco, l’arabo e il persiano. Come esercizio, gli studenti traducevano opere o-

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CULTURA LA STORIA Lʼultimo dragomanno

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eries Majlaton è il dragomanno dei francescani del Santo Sepolcro. Un ingranaggio essenziale al buon funzionamento dello Status quo. «Ho cominciato a lavorare qui nel 2001 – spiega – aiutando i preti in sacrestia. Quando il precedente dragomanno se n’è andato, ho preso il suo posto». E così oggi lavora a tempo pieno nella basilica. Come i dragomanni di un tempo, Jeries è un negoziatore. «Il mio compito principale in quanto dragomanno – spiega – è di vegliare sul rispetto dello Status quo». Sorveglia i tempi e gli spazi in virtù dei diritti statutari e tra i suoi compiti vi è il controllo del loro rispetto da parte dei religiosi che si avvicendano nel luogo più sacro del cristianesimo. Dirige la

squadra di addetti alla basilica, aiuta nella preparazione della Settimana Santa e presenzia alle celebrazioni più importanti. Parte del suo tempo, inoltre, lo dedica a incontrare i religiosi che si spartiscono la custodia della Tomba vuota, siano frati francescani o esponenti delle altre confessioni. Per poter svolgere il proprio incarico, Jeries è poliglotta. «La mia lingua madre è l’arabo. Parlo molto bene l’inglese. Ho imparato l’italiano lavorando con i francescani, e conosco un po’ di francese e di ebraico. «Bisogna essere pazienti ed essere cauti, soprattutto nei confronti delle altre comunità», confessa. Il rispetto degli altri è indispensabile: requisito essenziale per mantenere buoni rapporti con tutte le confessioni presenti al Santo Sepolcro.

rientali, che andavano poi ad arricchire la biblioteca reale. Successivamente erano inviati presso le ambasciate d’Oriente ad affiancare i diplomatici. Impiegati come traduttori e rappresentanti, rivestivano anche una funzione diplomatica vera e propria, dato che dovevano commentare i messaggi dei funzionari francesi e convincere i loro interlocutori ottomani.

Al servizio dei pellegrini Nell’Ottocento il pellegrinaggio in Terra Santa torna ad affascinare. Dopo le meraviglie dell’Egitto faraonico, gli europei ritrovano interesse per i luoghi santi di Palestina. Sulle orme dei romantici pellegrini solitari di inizio secolo, cominciano ad arrivare gruppi di pellegrini europei (e anche canadesi). Gli accenni ai dragomanni, pertanto, si moltiplicano nei racconti di pellegrinaggio così come nelle guide. Nelle lettere scritte alla fine del XIX secolo in occasione di un 62 TERRASANTA

Jeries Majlaton, al centro, con i kawas, i mazzieri del picchetto d’onore

viaggio, il sacerdote canadese (del Québec) Henry Raymond Casgrain, riferendosi al suo dragomanno, afferma che ha qualcosa «di Sancio e allo stesso tempo di Gil Blas», due servitori fedeli, ma birboni e volgari, della letteratura picaresca del Settecento. Dal contratto stipulato al porto di sbarco con il dragomanno, poteva dipendere tutta l’organizzazione del viaggio. Poteva

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addirittura svolgere funzioni di guardia del corpo se il pellegrino finiva per essere importunato da ladri o banditi. Il ritorno dei dragomanni fu breve. Con la dissoluzione dell’Impero ottomano nel 1918, questa figura scompare, rimanendo circoscritta a un solo luogo: il Santo Sepolcro che, in virtù dello Status quo, vive ancora secondo i ritmi del XIX secolo. ■


VENTO DEL SUD

Una vita sospesa tra casa e cella Paola Caridi*

U

scire dal commissariato di polizia alle sei della mattina, arrivare a casa, cercare di organizzare una giornata e una vita lavorativa. E poi, dodici ore dopo, rientrare nella piccola cella della stazione di polizia di Dokki, lo stesso quartiere del Cairo dove, tre anni e mezzo fa, è stato rapito Giulio Regeni. La vita quotidiana di Alaa Abdel Fattah è scandita dal numero sei e dai suoi multipli. Libero alle 6 di mattina, per 12 ore, fino alle 6 del pomeriggio. E così sarà per cinque anni. Colui che da tutti è ritenuto l’esponente più noto, per alcuni versi carismatico, della rivoluzione del 2011 a piazza Tahrir, Alaa Abdel Fattah, è uscito dal carcere alla fine di marzo dopo aver scontato una pena di cinque anni. Una pena incredibilmente dura, per aver preso parte a una manifestazione non autorizzata nel 2013, cui si aggiungono i cinque anni di libertà part-time. I legali di Alaa Abdel Fattah, come quelli di altri detenuti di coscienza in Egitto, contestano il fondamento stesso della misura restrittiva. Una misura che costringe il più noto dissidente d’Egitto a congelare ancora,

*Giornalista e scrittrice

almeno in parte, la sua esistenza. Difficile, insomma, ricostruirsi una vita in queste condizioni, curare suo figlio, trovarsi un lavoro. Ancora una volta, comunque, Alaa Abdel Fattah è riuscito in queste prime settimane di semilibertà, con la stessa descrizione pubblica della sua vita quotidiana su social come Facebook e Twitter, a focalizzare l’attenzione sulla libertà. Non solo sulla sua, di libertà, ma sullo stato dei diritti in Egitto. Lo ha fatto, come sempre, a suo modo. Ha fatto comprendere quanto il suo Paese fosse cambiato, nei cinque anni in cui l’aveva potuto solo intuire attraverso le visite dei familiari più stretti, e i pochi giornali e libri che le autorità carcerarie permettevano di far entrare in cella. Una delle sue prime domande, da buon ingegnere informatico di livello internazionale, è stata un colpo allo stomaco. Si chiedeva, più o meno, perché gli umani non riuscissero quasi più a scrivere e si esprimessero per emoticon. Con le faccine, insomma, e con poche parole. Lungi dall’essere una battuta, la constatazione di Alaa Abdel Fattah va dritta anche al

cuore dei modi di comunicare, di parlare, di esprimere sentimenti e politica. Un dettaglio sulle nuove consuetudini della comunicazione interpersonale, certo, e allo stesso tempo un piccolo segno della crisi profonda in cui versa non solo l’Egitto, ma il mondo. In un altro dei suoi primi commenti, stavolta dati a Mada Masr, l’unico giornale di ferma opposizione al regime del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, il dissidente parla proprio dello stato in cui versa il mondo, quello che lui ha visto di lontano, dal carcere. «La mia sensazione è che il mondo versi in uno stato di crisi così profondo da renderci incapaci non di azione, bensì di immaginazione», scrive Alaa Abdel Fattah. La situazione si sta inasprendo, secondo lui, per una sorta di cortocircuito. «C’è una profonda crisi di immaginazione e, allo stesso tempo, la gente non vede l’ora di fare qualcosa». Tutto è veloce e preconfezionato, verrebbe da pensare a leggere le prime considerazioni di un giovane uomo di 37 anni ritornato alla libertà, seppure part-time. Le faccine ci stanno rubando anche i sogni. Dunque, l’agire.

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BLOCK NOTES  Francescani e maroniti. Volume II. Dall’anno 1516 alla fine del diciannovesimo secolo di Halīm Noujaim, Bartolomeo Pirone – Edizioni Terra Santa, Milano 2019 – pp. 472 – 47,00 euro

Questo volume riprende il filo della narrazione iniziata da fra Noujaim con il precedente, pubblicato nel 2012. Viene qui ripercorsa una fase di più intense e complicate relazioni, principalmente a causa di un più eterogeneo orizzonte storico, sociale e nazionalista che andava prendendo piede nella coscienza della comunità maronita sempre più gelosa della sua identità cattolica e di una fiera determinazione nel conservare le proprie tradizioni e i propri riti. L’impostazione metodologica è severa e convincente, perché lascia spesso la parola alle testimonianze scritte.  Liber Annuus LXVIII di AA.VV. – Edizioni Terra Santa, Milano 2019 – pp. 464 – libro illustrato – 100,00 euro La rivista annuale Liber Annuus pubblica studi nelle discipline bibliche, linguistiche e archeologiche. Comprende anche relazioni preliminari sulle campagne di scavo condotte dai professori dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme e dai loro collaboratori in Israele e in altre istituzioni di ricerca. Oltre a contributi di carattere esegetico, linguistico e letterario sull’Antico e il Nuovo Testamento, il Liber Annuus pubblica studi sulla storia e l’archeologia del mondo biblico in generale, e del giudaismo e della prima età cristiana in particolare. La rivista contiene contributi in più lingue ed è distribuita da Brepols International.  Simboli cristiani nell’antica Siria di Romualdo Fernández Ferreira – Edizioni Terra Santa, Milano 2019 – pp. 336 – libro illustrato – 48,00 euro

Sono qui raccolti circa duemila simboli, per la maggior parte sotto forma di croci antiche del mondo bizantino siriano, che provengono soprattutto dalla vastissima area conosciuta come regione delle «Città morte», o «Città abbandonate», nel nord della Siria. In questa zona sono stati identificati circa 850 siti con vestigia cristiane, per lo più databili dal IV all’VIII secolo. Il libro non è scritto per specialisti, ma per un pubblico ampio interessato agli albori della cristianità. Il volume, postumo, testimonia l’appassionata dedizione dell’Autore al patrimonio storico e artistico siriano.

 Ebrei e cristiani. Benedetto XVI in dialogo con il rabbino Arie Folger Elio Guerriero (a cura di) – Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2019 – pp. 146 – 15,00 euro Nel suo numero di luglio-agosto 2018, la rivista Communio pubblicò un saggio, scritto nel 2 017 dal pa pa emerito Benedetto XVI e intitolato Grazia e chiamata senza pentimento. Nella sua veste di teologo, Joseph Ratzinger vi proponeva alcune riflessioni, inizialmente destinate agli organismi della Santa Sede impegnati sul versante ecumenico e interreligioso. Il focus del contributo teologico è il numero 4 della 64 TERRASANTA

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dichiarazione conciliare Nostra aetate dedicato al rapporto tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. Il saggio tocca vari aspetti e ha generato dibattito e critiche da parte di teologi cattolici tedeschi e di rabbini. A dar voce alle obiezioni da parte ebraica fu soprattutto il rabbino capo di Vienna, Arie Folger, che scrisse a sua volta un articolo ed avviò un breve carteggio con il papa emerito. I loro testi vengono ora raccolti in questo volume curato da Elio Guerrero. Attribuisce maggior valore al libro la presenza di una sezione di documenti ecclesiali e rabbinici elaborati nell’ultimo mezzo secolo, dopo la svolta nei rapporti ebraico cattolici.


 Francesco ieri e oggi. Vita e attualità del Santo di Assisi di Felice Accrocca – Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019 – pp. 208 – 10,00 euro Da prete del clero diocesano di Latina-Terracina-SezzePriverno, l’autore di questo libro è stato docente di Storia medievale alla Pontificia Università Gregoriana prima di diventare arcivescovo di Benevento nel 2016. Profondo conoscitore delle origini del francescanesimo, ha dedicato molti saggi e volumi a san Francesco e a santa Chiara d’Assisi. Gesù ci precede, titolava un libretto di spiritualità di

molti anni orsono. Proprio perché Francesco scelse di seguirlo da vicino e di aderire il più possibile alla vita e agli insegnamenti del Maestro – osserva mons. Accrocca – anche lui attrae e affascina, indicando una via che illumina ancora molti nostri contemporanei. Da oltre trent’anni l’autore studia la personalità storica e spirituale dell’Assisiate, cercando «l’uomo dietro il santo, al di là dell’aneddotico e devozionale». Il libro raccoglie in modo organico una serie di articoli pubblicati negli anni su L’Osservatore Romano con l’intento di divulgare, senza banalizzare, la conoscenza di questo santo tra un pubblico ampio.

 Le tre lettere di Giovanni di Giorgio Zevini – Queriniana, Brescia 2019 – pp. 272 – 20,00 euro L’autore di questo commentario biblico alle tre lettere neotestamentarie attribuite all’apostolo san Giovanni è don Giorgio Zevini, sacerdote salesiano e docente emerito di Nuovo Testamento presso l’Università Pontificia Salesiana. Spiega lui stesso: «Questo commento teologico-spirituale alle tre lettere dell’apostolo Giovanni, arricchito da lettura patristiche, ha semplicemente lo scopo di far conoscere sempre più

alcuni dei testi biblici tra i più penetranti e ricchi di spiritualità del Nuovo Testamento con una lettura teologico-spirituale». In epoca moderna, osserva don Zevini, l’esegesi critica si è sviluppata come scienza autonoma, svincolandosi dalla teologia, dalla pastorale e dalla spiritualità. Per il popolo di Dio questo fatto rappresenta un impoverimento, che è tempo di superare, anche attingendo ai tesori racchiusi negli scritti dei Padri della Chiesa (i teologi e pastori più illustri dei primi secoli cristiani) e traendo ispirazione dal loro metodo, che è l’intelligenza spirituale del testo sacro, cibo dell’anima e punto di riferimento costante.

 Francesco da Assisi. Storia, arte, mito Marina Benedetti e Tomaso Subini (a cura di) – Carocci editore, Roma 2019 pp. 376 – 31,00 euro

Torna sulla figura di san Francesco questo volume curato da Marina Benedetti e Tomaso Subini, rispettivamente docenti di Storia del cristianesimo e di Storia del cinema all’Università degli Studi di Milano. È proprio l’approccio laico e multidisciplinare al tema la sua peculiarità. I 22 capitoli del libro sono firmati da 23 studiosi. L’opera è così sintetizzata dai curatori: «è un viaggio dal medio-

evo alla contemporaneità, anzi un ponte tra le fonti del XIII e XIV secolo e le rappresentazioni di san Francesco nel XX e XXI secolo che su quelle fonti variamente si basano. Questo volume intende indagare le modalità con cui si è sviluppata la fascinazione che la letteratura francescana e il mito di san Francesco hanno esercitato su alcuni ambiti della cultura italiana, e non solo, prendendo in esame diverse discipline e temi». I contributi sono organizzati in cinque sezioni: Alle fonti di un’immagine; Filosofia, psichiatria e politica; Musica e letteratura; Teatro e cinema; Devozione e propaganda.

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ARRIVEDERCI

La croce di migranti e profughi della guerra Giuseppe Caffulli

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al 5 al 7 maggio scorso Papa Francesco ha compiuto un viaggio apostolico in Bulgaria. Una visita dal grande sapore ecumenico, ancora una volta nel segno di san Francesco «grande innamorato di Dio Creatore e Padre di tutti. Amore che egli ha testimoniato con la stessa passione e sincero rispetto verso il creato ed ogni persona che incontrava sul suo cammino. (...) Amore che lo portò ad essere un autentico costruttore di pace». Pace, spiega il Papa, per la quale dobbiamo lavorare, «dono e compito, regalo e sforzo costante e quotidiano». Pace che esige che il dialogo diventi vita, come richiamato dal Documento della fratellanza umana, firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019. Il viaggio in Bulgaria, tra i tanti appuntamenti, ne ha riservato uno particolarmente significativo: la visita, il 6 maggio, al Centro di accoglienza profughi di Vrazhdebna, gestito da Caritas Bulgaria. Nel refettorio del Centro il Santo Padre ha incontrato una cinquantina di persone, tra genitori e bambini, provenienti in prevalenza da Siria e Iraq. «Oggi il mondo dei migranti e dei rifugiati è un po’ una croce dell’umanità, è una croce che tanta gente soffre», ha affermato Bergoglio. Aperto nel 2013, in un vecchio edificio scolastico della periferia di Sofia, il Centro è uno dei tre siti per i rifugiati della capitale bulgara, insieme ai campi di Ovcha Kupel e di Voenna Rampa. Più volte sulla nostra rivista ci siamo occupati dei migranti e dei profughi che hanno percorso, a partire dal 2012, la cosiddetta «rotta balcanica», alimentata dalle guerre che devastano il Medio Oriente. La visita del Papa ha avuto il merito, tra le altre cose, di richiamare l’attenzione su una realtà di cui 66 TERRASANTA

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oggi si parla meno, ma che non si può cancellare. Nel numero che avete tra le mani, la rubrica di padre Claudio Monge (a p. 49) fotografa in maniera drammatica la situazione degli oltre 3 milioni e mezzo di profughi «intrappolati» in Turchia, da dove partono e sono partiti, per anni, i migranti alla volta di Grecia, Macedonia, Bulgaria, Serbia e Croazia. Giovani uomini e donne, intere famiglie, in fuga dalla guerra e dalla povertà. Nel servizio centrale, dedicato alla Siria, vi abbiamo raccontato l’emergenza tuttora in atto nel Paese. Una situazione che sta di ora in ora diventando sempre più incandescente. Nel governatorato di Idlib, mentre andiamo in stampa, sono ripresi i combattimenti e si parla di una nuova ondata di rifugiati: 150 mila almeno, in fuga da raid aerei e rappresaglie jihadiste. «Mentre la crisi si avvia ormai al suo nono anno – scrive l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, in un rapporto del marzo scorso – le esigenze umanitarie all’interno della Siria continuano a toccare livelli record, con 11,7 milioni di persone che necessitano di una qualche forma di assistenza umanitaria e di protezione. Gli sfollati interni sono circa 6,2 milioni e oltre 2 milioni di ragazzi e ragazze non possono ricevere un’istruzione in Siria. Si stima che l’83 per cento dei siriani viva sotto la soglia di povertà e che le persone siano sempre più vulnerabili a causa della perdita o dell’assenza di mezzi di sostentamento duraturi». In Siria la Chiesa cattolica, con la Custodia di Terra Santa, è fortemente impegnata ad affrontare un’emergenza che non è finita, per la quale chiediamo un aiuto concreto, capace di arrivare (come raccontiamo nel dossier) direttamente alle persone.


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