Dell'Infingimento

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Dell’infingimento quello che noi crediamo di sapere della fotografia



Dell’infingimento quello che noi crediamo di sapere della fotografia



DELL’INFINGIMENTO a cura di Elio Grazioli e Alberto Zanchetta Museo d’Arte Contemporanea di Lissone 14 maggio – 20 luglio 2016

In collaborazione con

Sindaco Concettina Monguzzi Vicesindaco e Assessore alla Cultura Elio Talarico Dirigente Settore Servizi Culturali Mariagrazia Ronzoni

Direttore artistico Alberto Zanchetta Funzionario Settore Servizi Culturali Massimo Pirola Segreteria organizzativa Susanna Milioto Staff Maurizia Colnago Giulia Marcolli Servizio di custodia Cooperativa Sociale EOS



Sono inusuali e preziose le mostre di fotografie al MAC. La selezione di opere della Collezione Malerba è una di quelle perle preziose che sicuramente resterà impressa, come un’immagine fotografica, nella memoria dei visitatori per la singolarità e qualità delle stesse opere.

Elio Talarico

Vicesindaco e Assessore alla Cultura

Concettina Monguzzi Sindaco di Lissone

Ringraziamo, pertanto, i curatori Elio Grazioli e Alberto Zanchetta oltre, naturalmente, il Fondo Malerba per la Fotografia per averci dato l’opportunità di riflettere al di là di “quello che noi crediamo di sapere della fotografia”, in un percorso tra realtà e finzione, a dimostrazione di come il mezzo espressivo della fotografia riesca a dare credibilità agli infingimenti. Un percorso curioso e inaspettato, soprattutto perché si svolge all’interno del Museo d’Arte di Contemporanea di Lissone, sede della collezione storica del Premio Lissone e testimonianza di un periodo artistico, quello informale, in cui ci si allontana volutamente dalla realtà. Le fotografie in mostra, costituiscono esperienze visive che, ne siamo certi, riveleranno al pubblico sorprendenti emozioni.

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Alessandro Malerba

Presidente Fondo Malerba per la Fotografia


Il continuo rapporto tra realtà e finzione che viviamo nel quotidiano, legato al contesto sociale in cui sempre più è la realtà ad alimentarsi della finzione, si rispecchia ovviamente anche nell’espressione artistica contemporanea e trova uno dei suoi principali mezzi nella fotografia d’autore ed è proprio il mezzo fotografico, nato inizialmente come reportage e documentazione, che dà credibilità alla finzione. Questo è il filo conduttore delle opere selezionate dalla Collezione Malerba, in cui artisti noti ai più mostrano come l’inganno dell’immagine porti alla percezione di una situazione reale, suggellata dallo scatto dell’artista, ma che per contro è finzione, talvolta costruita ad arte, in altri casi reale e non manipolata. Ciò a cui tengo dare evidenza nel contesto delle opere esposte a Lissone è l’assoluta realtà delle immagini in mostra, non manipolate digitalmente, ma frutto, quasi mai semplice o scontato, della capacità dell’artista di cogliere l’attimo

e l’espressione in cui il vero può essere oggetto di interpretazione e, quindi, anche diventare finto. Potremmo intendere la realtà come manipolata dalla fotografia, pur consci che è la fotografia ad essere dipendente dalla realtà, che viene filtrata in prima istanza dall’artista e poi da chi guarda l’opera, proprio per questo non si capisce bene che mondo ci presenta e come ci collochiamo rispetto ad esso. La fedeltà alla fotografia intesa nel senso “puro” del termine, cioè quello di fissare un’immagine ad un supporto, è una delle caratteristiche che prediligo nelle opere da me collezionate, esprimendo una preferenza per l’era dello scatto analogico rispetto a quella del digitale, lasciando, quindi, all’occhio ed al gusto di chi fruisce l’opera la valutazione dell’immagine, della storia che racconta, vera o falsa che sia. Con l’auspicio che questa piccola estrapolazione di opere e di artisti possa far nascere in Voi tutti curiosità e passione verso l’arte della fotografia d’autore.

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La finzione al limite Elio Grazioli


Quello che mi ha sempre affascinato della fotografia è che mentre sembra la cosa più scontata come riproduzione della realtà, porta invece al limite ogni carattere dell’immagine. Credo anche che sia proprio per questo che è tornata di grande attualità sia nel gusto che nella teoria, per cui non a caso quando oggi si parla di “immagine” si pensa perlopiù alla fotografia. È inoltre questo che complica in essa la questione dell’“artificio”: non essendo la finzione in essa sempre evidente, quando l’autore la mette al centro in realtà non ce la svela ma invece la interroga, e soprattutto la moltiplica, interrogando in questo modo noi su quello che crediamo che essa sia. È che la fotografia è impronta diretta della realtà, a tal punto che siamo normalmente portati a prenderla per la realtà stessa invece che come una sua rappresentazione, cioè a rimuovere il fatto che è un linguaggio, che nasce dalla decisione di qualcuno, che può esserci manipolazione, e pensare dunque che, se c’è finzione, la realtà potrebbe non essere quella. Ciò che vedo in una fotografia sono portato a credere che “sia stato”, come ci ha insegnato Roland Barthes, e che per ciò stesso che è veritiero e oggettivo, ma da un altro punto di vista, come invece ha suggerito Susan Sontag, essa ci mostra che non siamo per così dire mai usciti dall’originaria “caverna di Platone”, quella in cui i primi uomini scambiavano le ombre per realtà.

Proprio per questo suo carattere ambivalente – la fotografia è sia l’una che l’altra cosa – essa agisce su due fronti e mettendoli in gioco ne intreccia i bordi. Prendiamo Luigi Ghirri. Ghirri cerca e trova nella realtà di fronte a sé i caratteri stessi della fotografia, per esempio il riquadro del taglio o una o più fotografie già presenti, e scatta, cioè moltiplica: taglio nel taglio, fotografia nella fotografia. Così mi rivela ciò che forse tendevo a dimenticare nell’automatismo della visione, ma non solo: dove finisce infatti ora l’una, la fotografia, e dove l’altra, la realtà? La realtà è già strutturata in sé come una fotografia? O lo è la mia visione? Ma al tempo stesso ecco che questo rispecchiamento è anche una restituzione: ora anche la realtà, come si suol dire, mi ri-guarda. È il raddoppiamento trovato che rende possibile la restituzione. Al lato opposto, ma come due lati di una stessa medaglia, potremmo considerare la strategia di Joan Fontcuberta, che è da sempre strategia del dubbio. Troppo presto noi crediamo alla fotografia – si ricordino gli animali e le piante impossibili dei suoi progetti più famosi, alla cui realtà siamo portati a credere perché sono fotografati – mentre essa è un “bacio di Giuda”, come l’ha chiamata. Ancora di più questi Arcimboldi fotografati e fotografici: sotto c’è l’immagine di un dipinto di Arcimboldo, cioè, come si ricorderà, di volti formati da frutti, verdure o

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altro; sopra sono sovrimpressi frutti, verdure o altro, che vengono così, non formando più volti, restituiti a se stessi. Ma anche qui, i due sono diventati inscindibili. Solo la fotografia può fare questo, ma vorremmo quasi chiedere, in entrambi i casi: è fotografia? Lo è, portata al limite: fotografia “trovata” nel reale, in Ghirri; fotografia “persa” dentro se stessa, in Fontcuberta. Potremmo dire, stavolta con JeanChristophe Bailly, che la fotografia coglie questa oscillazione, questa vibrazione luminosa, tra realtà e finzione, il diventare finzione della realtà e, d’altro canto, il diventare altro della finzione. Talvolta basta allora una particolare luce o un’inquadratura singolare, l’assenza di presenza umana o l’assenza stessa di un evento qualsiasi – come in Mino Di Vita o Lukas Einsele –, perché si crei quell’atmosfera enigmatica, “metafisica”, sospesa, indecidibile tra realtà e finzione, che ci sorprende e ci fa chiedere non solo che scena è quella, ma anche che scena è questa, la nostra in cui siamo. Lo stesso, sull’altro lato di quest’altra medaglia, una restituzione “troppo” dettagliata di ciò che sarebbe “normale”, come un volto in formato tessera in Thomas Ruff, ci insospettisce che dietro ci sia qualcosa d’altro, qualcosa di iperreale o di concettuale. È l’elevazione a potenza, a un altro livello: metarealtà e/o metalinguaggio. Ovvero: tutta la realtà appare in posa, quando è restituita in

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immagine, non solo quando volutamente si ferma, si atteggia volontariamente; d’altro canto tutta la fotografia parla di fotografia, dice del proprio statuto, del proprio essere. Iperrealtà e sospetto di finzione sono in gioco anche in altri modi, come nel far sembrare vero ciò che è finto da parte di Alessandra Spranzi, che lo fa peraltro attraverso un artificio specifico della fotografia, quella sfocatura che di solito invece si usa per rendere irreale, onirico, soggettivo. E quando l’immagine è nettamente fantastica, irreale, inventata, come quelle di Olivier Richon? Una scimmia, su un pavimento a scacchiera, guarda un paesaggio palesemente riprodotto dietro una tenda rossa: è un’allegoria (noi siamo come scimmie), sicuramente una citazione, un rimando a un’altra o ad altre immagini, invece che al reale. Ma è una fotografia, dunque la scena è reale, anche se costruita, “finta”. Allora anche il fantastico e l’allegoria si radicano nel reale. E se tutto è finto, evidentemente manipolato, esplicitamente citazione, come in Yasumasa Morimura? Iperfinzione, potremmo chiamarla, finzione di finzione. Ma allora perché realizzarla in fotografia se non per portarla a collidere con il reale? Ogni volta è sempre Morimura a impersonare tutti i personaggi, questo non lo mettiamo più in dubbio. È questo il reale. Ma chi è Morimura? Con la fotografia occorre rivedere tutti i


caratteri dell’immagine. Di essa si è parlato come di un “inconscio ottico”, non solo essa, hanno detto László Moholy-Nagy e Walter Benjamin da due punti di vista diversi, ci mostra altri modi, fino ad allora inconsapevoli o impossibili della visione (come il taglio, il sottinsù, il dettaglio ingrandito, la posizione che sfugge all’occhio umano), ma essa è anche il livello inconscio, o il rivelatore del livello inconscio del nostro rapporto con l’immagine. Per chiarire questo aspetto si è soliti rimandare alla nozione di “perturbante” elaborata da Sigmund Freud. Perturbante è appunto l’oscillazione sul limite: è un essere vivente o un automa, reale o finto, concreto o simulacro? Ma non solo, in fotografia: perché finge in fotografia? Chiudiamo allora con altre due facce di un’altra medaglia. La maschera naturalmente è l’artificio per antonomasia, e in certo senso il più antico: indossare un altro volto, recitare una parte, fingere un comportamento, ma anche, come si ricorderà dalle bellissime pagine sull’argomento di Barthes, la maschera che è già il nostro stesso volto, nella misura in cui ci rappresenta, porta i segni disegnati di ciò che siamo, l’“aria” che abbiamo senza saperlo, senza volerlo. Dunque perché Nobuyoshi Araki indossa qui una maschera con il volto di un gatto? Perché una maschera non serve solo a “mascherarsi”, a

nascondersi, ad assumere un altro aspetto e celare il proprio, ma anche a svelarlo in altro modo, a suggerire anzi quello vero. Intanto anche la macchina fotografica è una “maschera”, metaforicamente ma anche letteralmente, quando è posta davanti al viso per scattare. Ma c’è di più: com’è noto, Araki è soprattutto famoso per le sue immagini di nudi e di scene erotiche spesso piuttosto spinte, e dunque cosa c’entra il gatto? È una dichiarazione di poetica: io sono come un gatto – quello della tradizione giapponese, una sorta di folletto dotato di poteri particolari, che si insinua ovunque, spesso impertinente – e propongo la mia fotografia come un’opera “gattesca”, tutt’altro che provocazione erotica, invece come sfacciataggine della ricerca di verità. L’altra “maschera” è quella di John Hilliard: un riquadro centrale bianco al centro dell’immagine, che nasconde ciò che stanno guardando le persone che vediamo intorno. Nasconde, dunque, e in un altro senso rivela, perché è nella fotografia. Dice che ciò che importa non è la scena, né ciò che guardano gli astanti, ma la ripetizione nell’immagine della scena che si svolge nel reale: anche noi stiamo guardando, da questa parte del riquadro bianco; allora possiamo pensare che anche loro stanno guardando un riquadro bianco, dall’altra parte; infine, al limite, l’immagine è questo, e lo sguardo è questo.

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QUELLO CHE NOI CREDIAMO DI SAPERE DELLA FOTOGRAFIA Alberto Zanchetta


Uno scatto fotografico non pretende di essere un succedaneo della realtà ma una realtà essa stessa. Per quanto legittime, e nonostante l’implicito verismo del mezzo fotomeccanico, le immagini possono “negare mentre affermano”, artificiosità che rende sempre più difficile discernere ciò che l’opera contiene di falso e/o autentico. Sempre più spesso gli artisti rinunciano infatti a documentare il reale, sforzandosi semmai di interpretarlo per mostrarci un mondo passibile di inganni, equivoci e trucchi ottici. Come detto in precedenza, la fotografia è qualcosa di più del semplice “riprodurre”, vuole dare forma a uno sguardo – sempre nuovo, sempre diverso – che rivendica un ruolo attivo e creativo nella genesi dell’immagine. Da questo presupposto nasce la selezione di opere della Collezione Malerba, mostra che presenta opere in cui la finzione tende al reale mentre il reale ci appare artificato. Sedici autori, tra grandi maestri e giovani artisti del panorama internazionale, sono stati selezionati per mettere alla prova lo spettatore, perché, come affermava Luigi Ghirri, «la fotografia mostra sempre quello che noi crediamo già di sapere». Tuttavia, siamo propensi a crederci oppure ne siamo pienamente convinti? L’aristotelico “sapere di non sapere” insinua in noi il dubbio cartesiano, tant’è vero che queste fotografie rischiano

di farci dimenticare ciò che esiste per davvero e ciò che ci appare come tale. Scatto dopo scatto, l’idea della [mise en] pose collima con il concetto della mise en œuvre. L’ambivalenza di tale “mise” – che corrisponde al “vestito” ma anche all’azione di “collocare” e “sistemare” – ci induce a riflettere su effetti retinici che tendono a estraniarci dal reale. Come nel teatro greco, Nobuyoshi Araki ricorre alla maschera per dissimulare il proprio aspetto e per offrirci l’allegoria dell’operatore davanti, e non più dietro, il proprio obiettivo. Non dissimile è il ludico e ironico Centipede di Hyun-Min Ryu, mentre il camouflage di Yasumasa Morimura si spinge ancora oltre, confondendo masculin e féminin. Immedesimandosi nelle dive del cinema (Marlene Dietrich, Sophia Loren, Marilyn Monroe) oppure nelle icone dell’arte (Frida Kahlo), Morimura ci introduce nel genere del tableau vivant, di cui Olivier Richon è uno straordinario interprete. E se di tableaux vogliamo parlare, in “stricto sensu” si noti qui l’analogia tra l’Oyster di Richon e la Tavola di Lukas Einsele: entrambi ci mostrano una tovaglia imbandita, ove l’idea della tradizionale natura morta sfida gli equilibri della composizione pittorica, oltre che della forza di gravità. Alla storia dell’arte attinge anche la serie di Joan Fontcuberta che, attraverso sovrimpressioni e

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suggestioni, restituisce alle figure fitomorfe dell’Arcimboldo la loro quidditas ed haecceitas. Esiste però un’ulteriore mise, questa volta en abyme. Quantunque gli autori siano inclini a una rappresentazione oggettiva, finiscono inevitabilmente per interrogarsi sulle specificità del proprio apparato tecno-poetico. Finiscono cioè per investigare la natura stessa del mezzo artistico, dichiarando apertamente l’intento di documentare non più il soggetto ma la relazione tra l’artista e la sua macchina fotografica (atteggiamento di fredda intenzionalità, a fondamento della strumentazione, per il riconoscimento della metodologia). Ne deriva una logica interna, analitica a autoriflessiva, espressa senza enfasi ma in modo evidente, come nel caso dell’Off screen di John Hilliard e della Parigi di Luigi Ghirri. Dello stesso avviso è anche Thomas Ruff, il quale ripercorre i generi artistici offrendocene una rilettura concettuale; si vedano in questo senso i suoi celebri Porträts degli anni Ottanta, ritratti individuali, talvolta impietosi, nei cui volti risaltano le imperfezioni del derma e una certa ottusità dello sguardo. Rifacendosi alla scialba estetica delle fototessere, Ruff ha deciso di sostituire il fondo bianco/impersonale con un colore pastello, una piccola diversione che diventa però sostanziale nel modo

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in cui noi la percepiamo. Per Renato Leotta l’immagine è invece il risultato di un recupero da materiale pre-esistente. Più precisamente egli riproduce i volti delle figurine dei mondiali di calcio del 1978, ottenendo una fotografia “alla seconda”, o per dirla diversamente, una “fotografia di fotografie”. Diverso è il caso di Tracey Moffatt e Annabel Elgar, le quali appartengono alla casistica degli storytellers. Il carattere spiccatamente reportagistico delle loro immagini, che toccano argomenti socio-politici o pubblico-privati, tradisce l’autenticità delle situazioni narrate (sempre per frammenti), dove luoghi e persone inscenano storie fittizie, connesse all’identità razziale o a scenari a dir poco grotteschi. Eppure: in ambo i casi le immagini ci risultano assolutamente plausibili, arrivano addirittura a persuaderci della propria autenticità. Ovviamente non mancano all’appello i temi del paesaggio e dell’architettura che, grazie a un’estetica spiccatamente rarefatta, riescono a collocarsi al di là del proprio contesto geografico. La fugacità dello sguardo di Thomas Struth passa da momenti di quotidiano anonimato a scorci di vita rurale, immortalando l’aspetto meticcio delle città moderne che sembrano aver perso ogni peculiarità. Viceversa, la Serenissima di cui si appropria Mino Di Vita è immobile,


cullata dal sonno, sfollata dai turisti che di giorno assediano calli, salizade, fondamenta, campi e campielli. È una Venezia “frontale”, come fosse una quinta scenografica, del tutto effimera, finanche surreale. Nelle foto di Struth e Di Vita eccelle la drammatica bellezza della luce, che per una volta tanto non si conforma allo stereotipato romanticismo dei panorami urbani. Ancor più efficace è il luminismo che si effonde dalle immagini in grisaglia di Alessandra Spranzi e Kazuko Wakayama. I loro soggetti ci sembrano calcificati, quasi a volerne portare in evidenza il valore scultoreo. In queste soavi composizioni si nasconde però una nota dissonante: la nostra percezione della natura viene alterata cominus et eminus. La frenesia della fauna (più viva del vero) corrisponde infatti all’atarassia dei diorami che Spranzi immortala nei musei di storia naturale, mentre i grandi alberi secolari di Wakayama non sono altro che dei comuni bonsai. Per mezzo dell’obiettivo fotografico il nostro sguardo non può che ammettere il fascino degli infingimenti e della loro “clandestinità”. Benché queste opere fotografiche rivelino e rivendichino una inadeguatezza rispetto al reale, lo spettatore desidera trattenere nella retina ciò che è stato fissato/falsato sulla pellicola. Attraverso sguardi mutevoli, spesso ambigui, persino assurdi,

l’immagine sovverte la sua natura, diventando rappresentazione anziché banale riproduzione. Nell’ormai lontano 1884, Henry Peach Robinson (l’inventore del pittoricismo fotografico) si auspicava che «la fotografia potesse essere non solo una registrazione prosaica di fatti comuni, ma soprattutto lo strumento ideale attraverso cui potessero venire legittimamente incarnati fatti appartenenti alla immaginazione e alla fantasia». Profezia che si è avverata a distanza di un secolo, innescando finalmente quel meccanismo di verosimiglianza che soppianta la realtà per ostentare un “vero più vero del vero”.

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NOBUYOSHI ARAKI Araki in Venice 2002 stampa sali d’argento cm 61x51

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NOBUYOSHI ARAKI Araki in Venice 2002 stampa sali d’argento cm 61x51

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MINO DI VITA Spirit of a place #00469 2012 stampa lambda su dibond cm 150x100

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LUKAS EINSELE Tavola 1996 stampa sali d’argento cm 24x30

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ANNABEL ELGAR Torch 2006 c-print cm 125x103

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JOAN FONTCUBERTA La alquimia de Arcimboldo 1991 c-print cm 31x43

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JOAN FONTCUBERTA La alquimia de Arcimboldo 1991 c-print cm 31x43

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JOAN FONTCUBERTA La alquimia de Arcimboldo 1991 c-print cm 31x43

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LUIGI GHIRRI Modena 1977 c-print cm 50x35

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LUIGI GHIRRI Parigi 1979 c-print cm 40x28

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JOHN HILLIARD Off screen 1999 cibachrome cm 42x34

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RENATO LEOTTA Mundial 1978-2006, Iordanescu 2005 stampa sali d’argento cm 42x52

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RENATO LEOTTA Mundial 1978-2006, Tresor 2005 stampa sali d’argento cm 42x52

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RENATO LEOTTA Mundial 1978-2006, Blochin 2005 stampa sali d’argento cm 42x52

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TRACEY MOFFATT Up in the sky 1997 stampa ai sali d’argento cm 107x88

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YASUMASA MORIMURA M’s self-portraits, Sophia Loren 1995 gelatin silver print cm 10x13

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YASUMASA MORIMURA M’s self-portraits, Frida 1995 gelatin silver print cm 10x13

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YASUMASA MORIMURA M’s self-portraits, Marlene 1995 gelatin silver print cm 10x13

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YASUMASA MORIMURA M’s self-portraits, Marlene 1995 gelatin silver print cm 10x13

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YASUMASA MORIMURA M’s self-portraits, Marilyn 1995 gelatin silver print cm 10x13

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OLIVIER RICHON Oysters 1989 c-print cm 87x60

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OLIVIER RICHON After Joseph Wright 1990 c-print cm 137x103

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THOMAS RUFF Portrait 1984-85 c-print cm 30x38

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THOMAS RUFF Portrait 1984-85 c-print cm 30x38

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THOMAS RUFF Portrait 1984-85 c-print cm 30x38

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HYUN-MIN RYU Centipede 2010 stampa lambda su dibond cm 120x150

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ALESSANDRA SPRANZI Sesto Continente 1995 c-print cm 43x30

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ALESSANDRA SPRANZI Sesto Continente 1995 c-print cm 43x30

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ALESSANDRA SPRANZI Sesto Continente 1995 c-print cm 43x30

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THOMAS STRUTH Dianchi Lu, Shangai 1995 c-print cm 60x48

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KAZUKO WAKAYAMa Bonsai #8 1998 c-print cm 40x50

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NOBUYOSHI ARAKI nato a Tokyo, Giappone, 1940 lavora e vive a Tokyo. MINO DI VITA nato a Trapani, Italia, 1963 lavora e vive a Milano. LUKAS EINSELE nato a Essen, Germania, 1963 lavora e vive a Darmstadt e Mannheim. ANNABEL ELGAR nata a Aldershot, Regno Unito, 1971 lavora e vive a Londra. JOAN FONTCUBERTA nato a Barcellona, Spagna, 1955 lavora e vive a Barcellona. LUIGI GHIRRI nato a nato a Scandiano, Italia, 1943 (Roncocesi, Italia, 1992). JOHN HILLIARD nato a Lancaster, Regno Unito, 1945 lavora e vive a Londra. RENATO LEOTTA nato a Torino, Italia, 1982 lavora e vive a Torino.

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TRACEY MOFFATT nata a Brisbane, Australia, 1960 lavora e vive a New York e Sydney. YASUMASA MORIMURA nato a Osaka, Giappone, 1951 lavora e vive a Osaka. OLIVIER RICHON nato a Lousanne, Svizzera 1956 lavora e vive a Londra. THOMAS RUFF nato a Zell am Harmersbach, Germania, 1958 lavora e vive a Dusseldorf. HYUN-MIN RYU nato a Daegu, Repubblica di Corea,1979 lavora e vive a Daegu. ALESSANDRA SPRANZI nata a Milano, Italia, 1962 lavora e vive a Milano. THOMAS STRUTH nato a Geldern, Germania, 1954 lavora e vive a Berlino e New York. KAZUKO WAKAYAMa nata a Kamasaki, Giappone, 1968 lavora e vive a Parigi.

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© 2016 Fondo Malerba per la Fotografia - Tutti i diritti riservati Per i testi © gli autori. Per le fotografie © gli autori: gli autori sono proprietari dei relativi diritti. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza il previo consenso scritto di Fondo Malerba per la Fotografia. Finito di stampare Aprile 2016.




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