Burri plastiche ita

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Bruno CorĂ

BURRI Plastiche



Bruno CorĂ

BURRI Plastiche


Immagine di copertina: Rosso Plastica, 1962 plastica, combustione su tela, 83,5 × 102 cm

Progetto editoriale Forma Edizioni srl Firenze, Italia redazione@formaedizioni.it www.formaedizioni.it

Crediti fotografici

Direzione editoriale Laura Andreini

David Heald©SRGF, NY – pp. 86-87, 100-101, 122-123

Consulenza editoriale Riccardo Bruscagli Redazione Maria Giulia Caliri Livia D’Aliasi Progetto grafico e impaginazione Archea Associati, Firenze Elisa Balducci Augustina Cocco Canuda Isabella Peruzzi Mauro Sampaolesi Alessandra Smiderle

Progetto di Michele Casamonti

© Aurelio Amendola – pp. 5, 36, 38, 39, 41, 44, 45, 64-65, 85, 89, 124 Collezione Prada, Milano – pp. 63, 80

© Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello – pp. 2, 6-7, 8, 21, 22, 24, 25, 26, 27, 28, 31, 32, 33, 34-35, 42, 46-47, 49, 50, 52, 56, 59, 68, 71, 72, 75, 76, 82-83, 90, 93, 97, 98, 99, 103, 104, 105, 107, 108, 110, 112, 115, 116, 119, 121

Testo e curatela di Bruno Corà Coordinamento editoriale Tornabuoni Art Elizabeth de Bertier Ermanno Rivetti Organizzazione Tornabuoni Art Paris

© Mulas Heirs – pp. 10-11, 14-15, 16-17, 18-19 © Heidi Horten Collection – p. 23 Philadelphia Museum of Art, Bequest of Katherine S. Dreier, 1952-98-1 © 2012 Artists Rights Society (ARS), New York / ADAGP, Paris / Succession Marcel Duchamp – p. 48 Collezioni private – pp. 60, 94, 111

Si ringrazia Paola Sapone Roberto Casamonti e a tutti coloro che pur avendo fornito immagini e materiali hanno preferito rimanere anonimi Un ringraziamento speciale la Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri per aver messo a disposizione materiali d’archivio e immagini fotografiche indispensabili per una ottimale realizzazione del volume

Tornabuoni Art – p. 79

Traduzioni VerbiVis Elisabetta Zoni

Si ringraziano tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo catalogo lo staff di Tornabuoni Arte Parigi, Londra e Firenze, in particolare, Francesca Piccolboni, Lucile Bacon, Marta Colombo, Tiffany Nortier, Salomé Parineau e Jenna Romagnolo

Fotolitografia LAB di Gallotti Giuseppe Fulvio Firenze, Italia

© Association Marcel Duchamp by SIAE 2018 © Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, Città di Castello – by SIAE 2018 Testi © gli autori

© 2018 Forma Edizioni srl, Firenze, Italia L’editore è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche non individuate. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti e dell’editore, fatti salvi gli obblighi di legge previsti dall’art.68, commi 3, 4, 5 e 6 della legge 22 aprile 1941 n. 633. Prima edizione: giugno 2018

Pagine precedenti: Ritratto di Alberto Burri, 1964 ca. p. 5: Alberto Burri al lavoro sulla Grande Plastica nello studio di Case Nove di Morra, Città di Castello, 1976. Foto Aurelio Amendola

pp. 6-8: Ritratti di Alberto Burri nello studio di Grottarossa, Roma, 1962. Foto Ugo Mulas pp. 10-17: Alberto Burri, Grande Plastica, Grottarossa, 1962. Foto Ugo Mulas






SOMMARIO

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BURRI: LE PLASTICHE Bruno Corà

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ANTOLOGIA CRITICA selezione a cura di Bruno Corà

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Cesare Brandi, 1962 Marisa Volpi, 1962 Giulio Carlo Argan, 1962 James Johnson Sweeney, 1963 Marcello Venturoli, 1965 Gian Luigi Verzellesi, 1966 Franco Passoni, 1968 Franco Simongini, 1971 Giulio Carlo Argan, 1975 Cesare Brandi, 1976 Gerald Nordland, 1977 Erasmo Valente, 1981 Emily Braun e Carol Stringari, 2015

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APPARATI Nota biografica Bibliografia di riferimento


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Burri: le Plastiche

Combustione Plastica, [1958] plastica, acrilico, combustione su tela, 9,5 Ă— 15 cm

Combustione Plastica, [1958] plastica, combustione, vinavil su cellotex, 9,6 Ă— 15,2 cm


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quasi infernali in quanto a pronunciamento poetico. Le Plastiche rosse e le Plastiche nere suscitano nell’immaginario individuale una “discesa agli Inferi”, come raramente si è manifestata nel firmamento della pittura di tutti i tempi, dopo Bosch. Ma la trasparenza delle Plastiche di Burri non è della stessa qualità compatta, limpida e uniforme del vetro, e ancor meno di quello attraversato dalle fratture, come nell’opera di Duchamp, bensì complicata e parzialmente attraversabile dallo sguardo a causa degli strati di cellophane depositati uno sull’altro definendosi “non più rispetto a un fondo, ma come struttura a sé” (Brandi). Mentre l’articolazione di ciascuna immagine delle Plastiche trasparenti esposte alla Marlborough è il risultato di una combustione che, mediante il vuoto delle lacerazioni e dei crateri, il nero della materia combusta e dei suoi cascami, le ombre lievi e sfumate prodotte dalla fiamma e dal fumo e i molteplici aghi di luce sprigionati sulle superfici, giunge a una complessità che equivale a struttura, le Plastiche rosse e nere si distinguono per altre diverse proprietà. Con le Plastiche rosse Burri rinuncia alla trasparenza in favore di una frontalità escludente ogni attraversamento dello sguardo che semmai cerca di orientarsi nell’ineluttabile presenza della materia lacerata, ora velata come una bava lucida, ora di colore rosso e attraversata dalle ombre sfumate della fiamma e ora di colore nero abissale e cieco dell’acrilico sul fondo della tela nelle zone definite dai crateri; nelle Plastiche nere la dinamica dell’immagine è giocata e ottenuta dal contrasto tra la combustione del cellophane di superficie, lacerato anch’esso e costellato di raggrinzimenti, pieghe e ispessimenti – tutte sollecitazioni e sensibilizzazioni della materia ottenute con la fiamma – e il fondo nero opaco dell’acrilico muto e spalancato oltre gli orli dei crateri orbitali. Ma assai spesso Burri ha esercitato la combustione su grandi fogli di plastica rossa o nera montata su telai di legno, come, ad esempio, rispettivamente nel Rosso Nero Plastica, 1964 (n. 990, bifacciale) (pp. 59 e 97) o nel Nero Plastica, 1964 (p. 90) in Collezione Marzotto e nel Grande Nero Plastica, 1964 (n. 982) (p. 99) in Collezione Burri a Palazzo Albizzini. La convulsiva trasformazione delle superfici di plastica rosse e nere realizzate fino al 1964 attraverso la combustione effettuata da Burri ha raggiunto gradi di turbamento fisico delle forniture standard che non è improprio definire drammatici e talvolta infernali per il furor elaborativo con cui l’artista ha investito la materia plastica. Affiorano dai raffreddamenti successivi alle combustioni, negli ispessiti trascinamenti di materia, innumerevoli pieghe e gravide cadute di materia ripiegata su se stessa, istintivamente ottenute da Burri guidato da un’innata sensibilità, a suscitare un’eco nella memoria capace di risvegliare in ciascuno non solo le dolenze di centinaia di sacre “deposizioni” della pittura europea dal Duecento al Cinquecento, ma anche le più recenti riflessioni estetiche deleuziane sulla piega nel Barocco o quelle di Didi-Huberman sul “panneggio caduto” 3 . A partire da quegli stessi anni, Burri lavora a un esteso nuovo concepimento di combustioni plastiche che necessitano di un’ulteriore e diversa osservazione. Tra di esse infatti si distingue il novero di combustioni plastiche di piccole dimensioni, strutturate da sottili fogli di cellophane trasparenti e incolori su supporti di masonite, di cellotex o di faesite, l’assai più solenne e potente gruppo dei Bianco Plastica, la cui produzione si estende dal 1965 al 1968, fornendo autentici capolavori, una selezione dei quali viene esposta da Burri nella sala personale allestita alla XXXIII Biennale

Bruno Corà

3 Cfr: G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Milano 1990; Georges Didi-Hubeman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Il Saggiatore, Milano 2004.


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4 L. Lorenzoni, Burri e la Biennale di Venezia 1952-1988, in Alberto Burri. Opera al Nero, catalogo della mostra “Alberto Burri. Opera al Nero. Cellotex 1972-1992”, a cura di Bruno Corà, (Verona, Galleria dello Scudo, 15 dicembre 201231 marzo 2013), Skira, Milano 2012, p. 227. I numeri delle opere fanno riferimento al catalogo pubblicato nel 1990. 5 V. Rubiu, Alberto Burri, in XXXIII Biennale Internazionale d’Arte, catalogo della mostra (Venezia, Giardini di Castello, 1966, p. 32).

Burri: le Plastiche

Internazionale d’Arte di Venezia del 1966; e, infine, una ripresa di combustioni Nero Plastica, Rosso Plastica, e altre diversamente denominate e disseminate liberamente tra il 1964 e il 1967, tra cui numerose di medie dimensioni. Del rilevante nucleo di opere di questi anni, è necessario soffermarsi su quei Bianco Plastica costituenti la scelta esposta alla Biennale veneziana del 1966. In quella manifestazione “gli viene riservata la Sala XXII nel Padiglione Italia, con uno sviluppo complessivo di 28 metri […]. La selezione ricade su un nucleo di undici opere, di cui una non esposta, tra le combustioni plastiche […] tutte realizzate, come si indica in catalogo, ‘con una pittura acrilica, vinilica e tecnica mista’. Sono datati 1965 i cinque lavori Bianco B1 (Bianco B, c.s. 779) (p. 107), Bianco B3 (Bianco Plastica B3, c.s. 798) (p. 103), Bianco B4 (databile 1965, c.s. 777) (p. 110), Bianco B5 (databile 1965, c.s.889) (p. 116), Grande Bianco B1 (Grande Bianco Plastica, c.s. 854) (p. 105). Del 1966 figurano Bianco B6 (Bianco Plastica, databile 1966, c.s. 793) (p. 112), Grande Bianco B2 (Grande Bianco B2, c.s. 853) (p. 104), Grande Bianco B3 (Grande Bianco Plastica, c.s. 944) (p. 119), Bianco B7 (Bianco Plastica B5, 1965, c.s. 780) (p. 108), Bianco B8 (Bianco Plastica B7, c.s. 849) (p. 115) la cui presenza in mostra è confermata dai filmati dell’epoca, sebbene non sia chiaramente riconducibile ad alcun numero indicato nella Scheda di notifica delle opere”4 . Pur tra alcuni disguidi distintivi e polemiche di rito, e perfino la preventiva rinuncia di Burri all’eventualità dell’assegnazione del Premio della Biennale mettendosi fuori gara con esplicita menzione scritta, l’evento registra “riscontri positivi”. Vittorio Rubiu, nella presentazione in catalogo, scrive: “Oggi per certi tratti esteriori, Burri fa dei quadri diversi, ma il risultato terminale è rimasto lo stesso. Sono dei grandi quadri, dove sul lento accumulo di un bianco che ingrossa e dilata la vista, si depositano (oppure esplodono) dei neri tellurici […]. Il nero è il risultato, la traccia di un’azione, una combustione, crea lo spazio perché lo distrugge: ma il bianco lo ricompone, lo assimila alla propria qualità che è quella di essere soprattutto neutro, ostinatamente e quasi involontariamente espressivo”5 . Nei Bianco Plastica Burri adotta supporti che sono tra quelli di maggiori dimensioni dell’intera temporalità che si estende dal 1964 al 1970; inoltre, sui fondi in cellotex, dipinti in acrilico bianco o nero opaco, si riscontra metodicamente l’allineamento su un orizzonte alto del foglio di cellophane investito dalla fiamma guidata fermamente da Burri. Nei vuoti prodotti dalla combustione, l’artista campisce la superficie di nero. I titoli delle opere, per lo più denominate come di consueto con il nome del materiale e del colore. Bianco Plastica sono seguiti da sigle numeriche o da lettere alfabetiche o da numeri e lettere distintive che scandiscono il triennio ’65-’68 durante il quale Burri realizza anche altre combustioni plastiche, con differenti soluzioni formali e spaziali. Come in altre circostanze e in altri cicli d’opera, pur nelle dominanti valenze di impianto severo e intrise degli effetti drammatici della combustione, alcune opere recano latenti morfologie di un eros dissimulato al limite della riconoscibilità. È noto che Burri non ha fatto mai ammissioni della presenza di tali aspetti nella sua opera anche quando in alcuni casi, appare difficile dimostrarne l’assenza. Qui preme molto più rilevare come, in una radicale antitesi tra il bianco degli acrilici e il nero delle combustioni, egli raggiunga, pur in presenza di zone accarezzate dallo sfumato o brunito ottenuto dalla fiamma, una qualità di immagine oltre che inedita, di ineguagliata ineffabilità.

Combustione Plastica, 1958 plastica, stoffa, acrilico, vinavil, combustione su tela, 98 × 84 cm




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Bruno Corà

dall’artista intende raggiungere una valenza geometrica apollinea, decisamente emblematica. La circonferenza ottenuta da Burri sembra compendiare il viaggio della vita e della sua stessa precisa avventura artistica, essendo concepita tra altre opere di quel ciclo del 1979. Di tali episodi, significativi per la propria esperienza di fotografo, Amendola ricorda ancora quello iniziale con grande emozione: “Si rimase io e lui, da soli, sembrava di essere in una chiesa, solo il silenzio interrotto dalla combustione e dagli scatti della mia Hasselblad… Una serie di fotografie, tutta la sequenza di come nascevano le combustioni […] erano tra le ultime, poi non ne fece più”8 . Indubbiamente quelle foto possiedono un’epos ingeneratosi da una felice condizione di consapevole testimonianza nel cogliere un processo identificativo tra l’artista e il medium da lui usato, la fiamma, che sembra svilupparsi quasi dall’interno della sua stessa persona, conferendo all’immagine un’intensità cruciale equivalente alle proprie tensioni. La cenere, l’aria, il soffio

Alberto Burri al lavoro sulla Grande Plastica nello studio di Case Nove di Morra, Città di Castello, 1976. Foto Aurelio Amendola

Da quanto sino ad ora osservato in riferimento al fuoco e al processo della combustione nell’elaborazione delle Plastiche (in parte diversamente dalle altre combustioni dei Legni o delle Carte), si devono aggiungere ancora alcune considerazioni relative sia alla materia cinerea derivata dalla fiamma sulla plastica, sia all’intervento dei “soffi” emessi dalla bocca di Burri verso la fiamma, non meno importanti dell’intervento manuale plasmatore sulla liquefazione della plastica. Si sarà osservato che gli orli della plastica lacerata dalla fiamma presentano una qualità di nero “spento” che solo la calcografia più esperta è riuscita a eguagliare 9. La cenere è anch’essa una materia considerata da Burri per la valenza cromatica e per il portato ancor più sintomatico della trasformazione e sparizione fisica della materia plastica. Non sarà qui possibile cercare di equivalere, né di riferire quanto magistralmente su “ciò che resta del fuoco” ha scritto Jacques Derrida in alcune pagine inimitabili, tuttavia, a puro titolo di suggerimento utile a cogliere la pregnanza e la vastità di richiami che in quei testi sul Feu la cendre del filosofo francese si agita, basteranno poche righe: “Il fuoco: ciò che non si può spegnere in quella traccia fra tante che è una cenere. Memoria, oppure oblio […] ma comunque del fuoco, indizio che riconduce ancora a una bruciatura. Il fuoco si è certo ritirato, l’incendio è stato domato, ma se vi è la cenere, questo vuol dire che – sotto sotto – un po’ di fuoco resta. Ed è ancora tramite questa sua dissimulazione che finge di aver abbandonato il campo. Continua a simulare, continua a mascherarsi sotto la molteplicità, la polvere, le ciprie, il pharmakon inconsistente d’un corpo plurale che non gli appartiene più. Non restar più in contatto con sé, non appartenere più a sé: sta in questo l’essenza della cenere, la sua stessa cenere”10 . Derrida fa leva sull’evocazione della “sparizione” come peraltro il testo di Nietzsche che egli cita nel suo scritto fa riferimento all’insolubile binomio morte-vita: “Il nostro mondo, nella sua totalità, è la cenere di innumerevoli esseri viventi; e per quanto il vivente sia poca cosa rispetto alla totalità, resta comunque il fatto che, già una volta, tutto è stato convertito in vita e continuerà perciò ad esserlo”.

8 A. Amendola, La lettura, a cura di G. Colin, in “Corriere della Sera”, 22 gennaio 2012, p. 27. 9 Le combustioni su carta realizzate da Burri con l’aiuto prima delle Edizioni Castelli (1959) e poi della Stamperia 2RC, diretta da Valter Rossi (1964-1965), hanno dato prova esemplare con tecniche diverse della simulazione che si è potuta raggiungere nell’imitazione del “bruciato” e della cenere. 10 “– Le feu: ce qu’on ne peut pas éteindre dans cette trace parmi d’autres qu’est une cendre. Mémoire ou l’oubli, comme tu voudras, mais du feu, trait qui rapporte encore à de la brûlure. Sans doute le feu s’est-il retiré, l’incendie maîtrisé, mais s’il y a là cendre, c’est que du feu reste en retrait. Par sa retraite encore il feint d’avoir abandonné le terrain. Il camoufle encore, il se déguise, sous la multiplicité, la poussière, la poudre de maquillage, le pharmakon inconsistant d’un corps pluriel qui ne tient plus à luimême – ne pas rester auprès de soi, ne pas être à soi, voilà l’essence de la cendre, sa cendre même.” J. Derrida, Ciò che resta del fuoco, versione di S. Agosti, Sansoni Editore, Firenze 1984, pp. 33-41.


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Cesare Brandi Burri, testo per il catalogo della mostra omonima presso la Marlborough Galleria d’Arte di Roma, 1962

Antologia critica

L’ultima serie di opere di Burri erano stati i Ferri. A codeste opere grandiose e tenebrose, seguì un’interruzione: le Plastiche, che qui si espongono, rappresentano la ripresa, una ripresa sfolgorante. Sono state eseguite fra il 1961 e i primi mesi del 1962, e, in un certo senso, costituiscono la sublimazione di tutte le precedenti esperienze di Burri. Ma nella continuità che testimoniano dai lontani quadri “gobbi”, attraverso le Combustioni e i Ferri, è sorprendente la novità che presentano, né solo per la materia inedita, la plastica trasparente, con cui sono state elaborate. Veramente se c’era una materia che sembrava potersi prestare meno a materiare un’immagine, era la plastica di questo tipo, quasi uguale alla “cellophane”; né solo per la difficoltà di riuscire a “intenzionarla” in modo diverso da quello che, sia plastica o cellophane, ne fa la materia di ogni giorno, l’involucro lucido e sgradevole che veste il libro come i fiori o la verdura del Supermarket. Lucida e sgradevole, per la sua pretesa asettica, per quel “vedere e non toccare” che è quasi una provocazione e che chiede, invoca la lacerazione: e sgradevole anche per lo splendore fittizio, per quel tanto che aggiunge di brillantezza nella messa in evidenza pubblicitaria, e che si dissolverà, quando l’oggetto o la merce è ricondotta, nella spoliazione, ad una specie di stato laicale: e dunque sembrerà più povera, la merce o l’oggetto, menomata proprio per il fatto che viene al nostro contatto, entra nell’uso a cui è destinata, mentre è proprio quello il momento in cui l’oggetto, la merce, si realizza, e non già quando, involtata di cellophane, occhieggia civettuolmente verso la nostra riva. Oltrepassare questo stadio di una quotidianità quasi irremovibile, è stato per Burri l’accensione fantastica, e, per la plastica trasparente, una specie di redenzione. L’immagine si è prima investita alla plastica come trapassando dai Ferri

e dalle Combustioni: il gioco dei neri e dei rossi, dei bianchi come deflorati dalle fumate della fiamma, veniva però a complicarsi straordinariamente nei diversi strati, che, ognuno come uno strato di luce, si trovano a depositarsi l’uno sull’altro. Questa stratigrafia è struttura dell’immagine, rappresenta la dimensione nuova, in profondità, dell’immagine di Burri. E via via è venuta sempre maggiormente a chiarirsi a se stessa, assumendo la trasparenza, non più rispetto ad un fondo, ma come struttura a sé, rinnovando, su basi totalmente diverse, la sottigliezza delle antiche vetrate in grisaille, che erano un modo di condensare il grigiore del cielo nordico in pittura. La ricchezza di partiti figurativi a cui hanno luogo queste Plastiche, appare allora sorprendente: nella materia vile sono suscitate delle preziosità degne delle materie più preziose, dall’onice alla madreperla; e sono commiste in modo indissolubile sollecitazioni verso le morbide quasi lussoriose pelli delle fiere, e verso le pustole, le piaghe, le ferite. Ma come questo tuttavia è contenuto, acceso e spento al tempo stesso, dall’impalpabile trascolorare, dal guizzo repentino delle luci, sicché, come avviene in un tramonto, sembra che ad ogni istante e i colori e le luci debbano svanire. Ma la contemplazione a cui si prestano le Plastiche non le esaurisce: non si creda che le attuali opere di Burri si depositino in se stesse, e non tentino, non chiedano l’integrazione dello spettatore. Solo che si creano a difesa un involucro di luci, tessuto di lampi e di fitte luminose, con quest’ultimo strato di plastica che le ricopre e le toglie materialmente dal contatto. Appena ha sollecitato l’integrazione, l’opera si è come richiusa, splende nel suo gioco mutevole di guizzi e di bagliori, alla distanza alla quale non c’è più l’oggetto materiale nell’involucro di cellophane, ma una quasi eterea opera d’arte.


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Cesare Brandi


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Antologia critica

Grande Plastica, [1963] plastica, combustione su telaio d’alluminio, 199 × 249 cm


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Gian Luigi Verzellesi Burri tra Plausi e Botti, in “L’Arena”, 29 giugno 1966

Qui si racconta in breve l’avventura di un visitatore normale che incautamente ha chiesto lumi ai critici in assoluto disaccordo. Il visitatore che si appresta a varcare i cancelli di questa XXX Biennale con la ingenua illusione di poter godere da sé, con i propri occhi, come da un comodo davanzale, il panorama dell’arte ultima, forse non sa che s’avventura in un viaggio assai difficoltoso e complicato. Il rapporto diretto con le opere esposte nei vari padiglioni e padiglionicini è generalmente destinato a risolversi in perplessità, che generano sempre nuove perplessità, e finiscono col distruggere l’illusione iniziale di poter intendere il significato di tante pitture e sculture d’oggi come si intendono (o si fraintendono) quelle del passato. Rivolgersi alla critica Allora, per chi non perda la pazienza o non voglia rinunciare a capire, per chi non preferisca un bagno al Lido alla faticaccia alla Biennale, non resta che una via: rivolgersi alla critica, ricorrere agli addetti ai lavori di chiarimento o di severa iniziazione. Ed ecco, la trappola è scattata: al grido d’aiuto sono sbucati da ogni parte innumerevoli zelantissimi soccorritori. E al povero visitatore, dolente di non aver capito, si propinano in ressa le spiegazioni più variopinte: formulette magiche o quasi e ricette filosofiche, discorsetti in libertà e paludate dimostrazioni accademiche. Tutti i rappresentanti della cosiddetta critica sono impegnatissimi a dar acqua ai loro mulini dialettici. E il nostro timido visitatore sta lì a guardare lo spettacolo di tanto zelo, con l’espressione di chi si vede correre intorno molta gente, che inspiegabilmente si contende il compito cristiano di fornire aiuti intellettuali. Alla meraviglia subentra ben presto la curiosità di ascoltare i pareri generosamente offerti: di ascoltarli non più alla rinfusa ma uno alla volta, in buon ordine. E così assiso su una panchina dei Giardini come sul soglio dell’ignoranza intorno alla quale pullulano i

Gian Luigi Verzellesi

rappresentanti della cultura qualificata, il visitatore avanza la prima incauta domanda sul valore della strana pittura di Burri, fatta di stracci, sforacchiati e bruciacchiati, d’indumenti fuori uso e di pezzi di lamiera bollati dalla fiamma ossidrica, non si sa se d’entusiasmo prometeico o d’ignominia. A Burri, una giuria formata di sette membri (cinque stranieri e due italiani) ha assegnato il premio (un milioncino) dell’Associazione Internazionale dei Critici d’Arte, che è evidentemente una consacrazione, una specie di cerimonia nobilitante. Negatori e paladini Ma se senti invece con che tono aggressivo, con quale disprezzo petulante ne disserta quel certo critico sulla cinquantina, cui nessuno ha fatto in tempo a togliere la parola: “È un’indecenza! Tutto si poteva prevedere (la gente della Biennale ci ha ormai abituati alle cibarie più scipite) ma non che codesti logori cenci di Burri meritassero l’ambitissimo riconoscimento del foro più autorevole dei critici! Questo non è un lauro, è una coroncina di sterpi, depositata su un’opera che denota uno spaventoso annullamento spirituale, rivelatosi in balordi accozzi di materie brute, su cui si è sfogato uno speciale sadismo da studiarsi con i metodi degli psicanalisti… Che in sacchi rattoppati si sia voluto riconoscere l’apice dell’arte del nostro tempo, è sintomatico!” Queste le prorompenti raffiche su Burri. E il visitatore sta per battere le mani quando dal folto dei critici comincia a levarsi un bel diverso discorsetto. “Mi meraviglio – dice il nuovo interlocutore – che si sia potuto dare ascolto ad una divagazione polemica così grossolana e così irrispettosa del sofferto travaglio da cui ha preso vita la virile arte di Burri. Le materie che egli presceglie sono residui di cose abbandonate dall’uomo dopo l’uso. La caritatevole spiritualità burriana redime gli innocenti manufatti inabili al lavoro. Li sottrae al loro triste destino di morte componendoli in rattoppi inusitati e meravigliosi, li salva nei quadri


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Franco Simongini Il suo mondo bruciato, in “Il Messaggero”, 11 settembre 1971

Antologia critica

Raggiungere Burri non è un impresa facile: bisogna prendere la Flaminia, seguirla fino al bivio di Grottarossa, imboccare una strada a serpentina e, nelle vicinanze della famosa Saxa Rubra dove si vuole che Costantino, prima della celebre battaglia, inalberasse il vessillo vittorioso, andar su per un’altra strada, che dopo un centinaio di metri si inoltra diritta in un altopiano sgombro di case e di costruzioni. Pochi chilometri, agevoli in fondo, quanto basta, però, per avere la sensazione di essere molto lontani dal rumore della città. Qua e là qualche casolare, cascinale di campagna, cavalli al pascolo tra le stoppie giallastre, allo stato brado, e qualche cacciatore con il fucile a tracolla che cammina ai bordi della strada. In uno di questi casolari abita Alberto Burri, e la prima accoglienza che si riceve suonando al cancelletto di legno, è quella di un cane apparentemente furioso, abbaiante, che si precipita verso il visitatore inopportuno o l’ospite fiducioso. Accoglienza non proprio simpatica. Confesso d’aver avuto anche io una gran paura la prima volta, perché, allo scatto dell’apertura automatica, mentre tentavo di aprire il cancelletto mi sono visto il nero del cane slanciarsi contro e, con il coraggio della paura, d’un balzo sono ritornato nella macchina, che prudentemente avevo lasciato aperta. Al richiamo del padrone il cane, che si fa piccolo e mansueto, viene a strofinarsi alle mie gambe, mentre Burri rassicura, scattante nei suoi calzoni di velluto e nel giaccotto da cacciatore, che è un “cane bono. non farebbe male a una formica” con un accento umbro, schietto, di Città di Castello. Burri vive in una casetta tutta bianca di calce fuori, una meravigliosa terrazza sul davanti, da cui si ammira in lontananza la cupola di San Pietro. Lo studio è un altro cascinale, un capannone enorme dove Burri lavora e fotografa le sue opere (perché Burri è un fotografo di eccezione, è un suo hobby, ma egli, schivo come sempre, si schermisce e non vuole lo si dica). Quello a cui tiene, invece, è la sua collezione di fucili da caccia, una ventina, splendidi di tutti i tipi, e per un cacciatore come lui è un vanto bello e buono. L’interno della casa è

di una semplicità francescana, un po’ come le sue opere che numerose s’affollano alle pareti: sacchi, ferri, legni e plastiche bruciate. L’arredamento è sobrio; un lungo tavolo, rustico, di legno, una poltrona ultramoderna, e un caminetto. Sopra il caminetto la rastrelliera con i fucili e una serie di macchine fotografiche, gettate alla rinfusa. “Allora!” dice Burri invitandomi a sedere e strofinandosi le mani, mettendomi a mio agio con una bottiglia di whisky, il suo sorriso dice che si risolve in una risata aperta cordiale se si accenna alla sua fama di gran cacciatore. E subito, allora, parte a ricordarti la sua casa di montagna, sopra Città di Castello, sopra Trestina, Morra, Volterrano, al confine tra l’Umbria e la Toscana. Per arrivarci bisogna telefonargli, lui allora scende con la sua jeep, ti fa lasciare la macchina al sicuro nei piazzale della Chiesa di Volterrano, e ti porta su tra pozzanghere, con quella favolosa jeep americana che s’arrampica come un gatto, su alla sua casa di pietra grigia, al suo “buon rifugio” lontano dal mondo, all’aria libera, dove alterna la pittura alla caccia. Se non è facile raggiungere Burri, difficile è farlo parlare. È uno dei pochi artisti italiani che non si sia mai riusciti ad intervistare, a intrattenere sulla sua vita e sulla sua opera. Nato a Città di Castello nel 1916 (sic) è certo uno degli artisti contemporanei italiani più noti del mondo, insieme a pochissimi altri. Uno dei maestri dell’arte dei nostri giorni. La sua è un’arte inquieta, informale, di completa rottura. Chi non ricorda lo scandalo che suscitarono al loro apparire, intorno al ’50, i famosi sacchi di Burri? Era un’espressione troppo nuova, troppo diversa da quella cui i nostri occhi erano abituati e, anche se il recupero di materiali diversi dalla pittura tradizionale era già stato accettato, per la prima volta una materia umile, vile, modesta come il sacco, entrava di diritto in un quadro, e perciò nell’arte moderna. “A Roma vivo poco – mi dice Burri – mi sento un estraneo, lavoro chiuso qui a Grottarossa, e vedo pochissima gente, quasi nessuno, gran parte dell’anno me ne sto a Città di Castello con i vecchi amici di sempre…”.





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