Palestina, luglio 2011 giornata mondiale per la solidarietĂ con il popolo palestinese fotografie di giulio azzarello
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Appunti di viaggio in Palestina di Ilaria Papa Š riproduzione riservata
La terra e i territori palestinesi occupati. Eccoci. Arrivati. L’aereo atterra a Tel Aviv, capitale dello stato di Israele, città moderna di grattacieli e di mare. Accanto c’è Jaffa, porto arabo antichissimo, la patria mitica del profeta Jona, adesso cittadina turistica piena di piccoli negozi e di insegne in ebraico. Il sole del pomeriggio è forte, ci fa aprire e chiudere gli occhi davanti ai cartelli stradali scritti in una lingua che non conosciamo. Dov’è la Palestina? ci chiediamo guardandoli. Questa terra nascosta, rinchiusa da un’altra nazione, senza più un respiro sul mare, senza un pezzo di cielo per volare via e per tornare. Senza nemmeno un collegamento che la unisca all’altra parte di Palestina, la Striscia di Gaza… Dove sono i palestinesi? “Non c’è un popolo palestinese”, diceva Golda Meir, primo ministro di Israele nel 1969. “Non è come se noi fossimo venuti a metterli alla porta e a prendere il loro paese. Essi non esistono.” Il sole è forte. Ha lo stesso colore del deserto e dei campi, lo sappiamo, e nella mente annulla ogni distanza. Così non crediamo a quello che vediamo, né alle parole di Golda. La Palestina è. Qui ogni pietra lo dice. Qui, in Palestina, ovvero nella terra di Palestina rimasta, che adesso sentiamo chiamare Cisgiordania o West Bank oppure Territori occupati. Perché qui, dal 1948, non c’è pace. Da quando la nascita di uno stato, la messa in sicurezza di un popolo sopravvissuto a una tragedia, significò una tragedia per un altro. Nakba, la chiamano. Abbiamo una terra di parole, scrisse il poeta Mahmud Darwish in esilio. In quanti modi l’hanno chiamata i poeti? Forse per questo continuiamo a cercare e a sognare la Palestina? Certo, anche per questo, ma non solo. Perché qualcuno ne continua a scrivere e a parlare, certo. Perché qualcuno si ostina a credere che non sia tutto perduto. Questa terra delle arance tristi, questa terra di ulivi e girasoli…terra unica e pure indentica ad altre terre…potrebbe essere la nostra. E’ questo che pensiamo. Nostra la sua storia e la sua ingiustizia. L’autobus corre spedito, e ancora non abbiamo sentito quelle parole che, lentamente, durante il viaggio, diventeranno evidenti e ingombranti come i sassi chiari che vediamo tra i campi. Come gli ulivi tagliati. Come i resti degli incendi, delle demolizioni recenti delle case di chi ancora resiste e non lascia le case, le campagne ereditate dai padri, per far posto a coloni israeliani che arrivano qui magari dall’altra parte del mondo. Come i muri e il filo spinato, che separano la povertà e la solitudine di un popolo divenuto straniero nella propria terra, considerato invisibile o alla stregua di un problema,dall’agiatezza e dall’indifferenza che gli passa accanto, a pochi metri. Poi, eccoli. I palestinesi raccontano con nostalgia, ma sorridono, guardando gli italiani. In modi diversi, ci parlano. Dove siete stati per 63 anni?. Dal 1967, su questa terra divisa e contesa, ci dovrebbero essere due stati. Israele e Palestina. I palestinesi – qualunque cosa dicano i mass media - lo hanno accettato. Israele no. Perché non sono rispettati gli accordi, mentre vengono buttate ovunque parole di pace? Shalom. Salam…significano la stessa cosa. Non è così? Pace, per tutti e due i popoli. Perché il mondo se lo dimentica?
Dimentico qualche tempo dopo, quando i nostri occhi si incontrano, che una volta eravamo insieme, dietro il cancello. (M. Darwish)
La separazione. I vecchi palestinesi ricordano che una volta, prima del 1948, musulmani, ebrei e cristiani convivevano in pace su questa terra. Finché la storia ha cambiato le vite di tutti. Dal 2002 le autorità israeliane hanno iniziato a costruire una barriera di separazione,giustificandola come un mezzo per impedire attentati. La barriera separa fisicamente i Territori Palestinesi dallo stato di Israele. Una volta terminata dovrebbe superare i 750 km. E’ costituita da un muro di cemento alto 8 m, o da recinzioni di filo spinato, spesso elettrificate, con torri di controllo munite di telecamere e altri sistemi di rilevazione. Dei check point con soldati controllano (e regolano) il passaggio di persone e merci. Questa barriera di separazione, tre volte più lunga e tre volte più alta del muro di Berlino, rappresenta anche qualcos’altro. Noi che viaggiamo, ce ne accorgiamo ben presto. La separazione non è solo un elemento fisico che caratterizza il paesaggio urbano e rurale di Palestina/Israele, e che lo stravolge, dal punto di vista ambientale e storico. E’ anche, e in primo luogo, un concetto. Un’idea di vita. Che ha iniziato a cambiare la percezione stessa delle cose. Scrisse il premio Nobel per la Pace, Nelson Mandela; “Israele non pensava ad uno ‘stato’, ma alla ‘separazione’. Il valore della separazione e' misurato in termini di abilita', da parte di Israele, di mantenere ebreo lo stato ebreo, senza avere una minoranza palestinese che potrebbe divenire maggioranza nel futuro. Se questo avvenisse, Israele sarebbe costretto a diventare o una democrazia secolare o uno stato bi-nazionale, o a trasformarsi in uno stato di apartheid non solo de facto, ma anche de jure.” Il muro di separazione, non solo occupa circa il 15 % delle terre dei palestinesi, ma toglie loro e isola la maggior parte della terra stessa, Dopo la costruzione del muro, molti terreni e sorgenti d’acqua palestinesi si trovano nella parte israeliana. Pensiamo a cosa significhi per I villaggi che visitiamo, come Bil’in, dove la principale vocazione è l’agricoltura. I contadini ci raccontano di aver bisogno di un permesso da parte delle autorità israeliane per raggiungere e coltivare I propri campi. Permessi che vengono concessi con difficoltà e tardano spesso ad arrivare. Se l’acqua rimane dall’altra del muro, raccontano I contadini, occorre un permesso anche per trasportarla. Non sono rari, inoltre, i casi di contadini attaccati da coloni israeliani confinanti mentre vanno al lavoro… In città antichissime come Gerusalemme, la situazione non è migliore. Recinzioni di tutti i tipi, blocchi di cemento, check point interni, inferriate, grate, limitano la libertà dei palestinesi e stabiliscono confini, che sembrano prima di tutto mentali. Delle reti proteggono le teste dei palestinesi dal lancio di oggetti su alcune vie. A Hebron, città dei patriarchi delle tre religioni del Libro, ci sono cinque insediamenti israeliani che la dividono in due. Molte strade, qui, ma non solo qui, sono vietate ai palestinesi. Strade su cui non possono guidare. Ce ne sono anche su cui i palestinesi non possono camminare. La mancanza di libertà ha causato la perdita di migliaia di posti di lavoro ai palestinesi. Difficoltà nei commerci e nell’accesso a scuole e università, come è successo agli studenti di Jenin,Tulkarm e Qalqiliya. Non sono rari i casi in cui qualcuno muore senza riuscire a raggiungere l’ospedale, durante l’interminabile attesa ad un check point. In Palestina, si può morire ad un posto di blocco. Ilaria Papa.
Abbiamo un paese di parole, e tu parla, cosĂŹ da conoscere dove abbia termine un viaggio. (M. Darwish)
I luoghi. “I tuoi occhi disegnano la dimensione del luogo,” dice una canzone dei Radiodervish dedicata a Gerusalemme. Camminando sulla Spianata delle Moschee, di prima mattina, si prova lo stesso sentimento che si sente guardando una piccola scuola solitaria, fatta di mattoni di fango, in mezzo al deserto. O le tende dei beduini nel deserto del Negev. Ci si sente felici di essere al mondo, in una storia fatta di uomini. Qui, il luogo, è tanti luoghi, in realtà. E ha tanti occhi. Ayn, in arabo, vuol dire occhio, ma anche sorgente. Ci guardiamo negli occhi, noi compagni di viaggio. Ci guardiamo, italiani e palestinesi. Italiani e israeliani. Ma non solo. C’è tutto il pianeta qui. Si guardano, palestinesi e israeliani. Qui, in questa terra, sorgente luminosa come il cuore del mondo, nel bene e nel male, accade qualcosa. Nelle città, i giovani soldati israeliani, quando sono in servizio, fanno finta di non guardare le ragazze. Se gli dici Shalom, ti guardano stupiti, come se si svegliassero dal sonno all’improvviso. Salutiamo gli anziani palestinesi, seduti sulla porta di casa. Ci rispondono con un cenno del capo, e una voce piena di nostalgia. I bambini spuntano da tutte le parti. Nei villaggi si muovono liberi, costruiscono aquiloni. In città ti guardano da finestre circondate di grate, oppure scappano fuori dalla porta di casa insieme ai fratelli. Israele, che ha paura della bomba demografica, in realtà, ha paura di loro. Per questo, forse, li tiene rinchiusi? Per questo impedisce loro di avere un’istruzione adeguata? E impedisce loro di avere dei giochi come quelli dei i bambini israeliani, e una storia su cui costruire il loro futuro? Qui, i luoghi sono tutt’uno con l’attesa e la speranza della gente. Sulle strade, adolescenti palestinesi aspettano. I negozianti siedono per ore davanti ai loro negozi, sulle strade solitarie e impolverate, senza clienti. A Ramallah, la capitale politica, gli edifici e i palazzi si innalzano alti. Si lavora perché la Palestina sia uno stato riconosciuto e libero come gli altri… C’è un luogo, che è nessun luogo, più di tutti. Il campo profughi. Dove il tempo sembra fermo, e l’attesa interminabile. Ricorda Wasim Dahmash: “La Palestina ti scorre nel sangue, semplicemente. Della mia città so tutto. Conosco le strade, le piazze, le case, le chiese, le moschee, i pozzi, la ferrovia, l’aeroporto, gli abitanti, o quelli che erano stati gli abitanti. So come sono stati cacciati, conosco i loro nomi e posso immaginare le facce degli uccisi. Eppure non ero nato.” Nei campi profughi, la gente cerca di condurre una vita normale. Le case sono state allargate, come possibile. Ma, di fatto, si vive gomito a gomito, fianco a fianco, come prigionieri. A volte con insofferenza, con esasperazione. Eppure, qui, come in tutta la Palestina, si continua a sognare e a vivere. Qui vivere significa attendere. Ilaria Papa.
"Se voi però avete diritt in italiani e stranieri allora e reclamo il diritto di divid e oppressi da un lato, privile Gli uni sono la mia Patria
don Loren
to di dividere il mondo vi dirò che io non ho Patria dere il mondo in diseredati egiati e oppressori dall'altro. a, gli altri i miei stranieri".
nzo Milani
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