FOTOgraphia 237 dicembre 2017

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ANNO XXIV - NUMERO 237 - DICEMBRE 2017

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Nikon 100 anni NEL CUORE

Abbecedario GRANDE FORMATO

Danilo Pedruzzi CLICHÉ-VERRE

SIMONE NERVI ETÀ DI UN FUTURO PASSATO


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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

prima di cominciare SIA LODE. Salpiamo dal nostro territorio fotografico, per quanto lo intendiamo s-punto privilegiato di partenza (per l’osservazione della Vita, magari anche solo nel proprio svolgersi). A volte, il titolo originario del saggio di James Agee, accompagnato da un sostanziale apparato fotografico di Walker Evans, Let Us Now Praise Famous Men, è stato mal tradotto verso una ipotesi di “Uomini Famosi”. No, non ci siamo proprio, e non si risponde all’etica e morale originarie: Sia lode ora a uomini di fama è la dizione più corretta e legittima [nel febbraio 2003, abbiamo presentato una recente edizione italiana, pubblicata da Il Saggiatore]. Sulla stessa lunghezza d’onda, osservando la Vita nel proprio svolgersi, magari a partire da nostre maturazioni in fotografia e con la Fotografia, rileviamo come, lo scorso sabato diciotto novembre, il quotidiano Giornale di Sicilia ha dato notizia della morte di Salvatore (Totò) Riina, considerato a capo della Mafia, in carcere con una condanna a ventinove ergastoli (!). Per quanto, all’interno, siano ricordate le sue famigerate gesta, la prima pagina ha celebrato, ricordandole, alcune delle sue vittime: Pace all’anima loro.

Ognuno di noi percorre la propria Vita. Nella stessa propria Vita, ciascuno di noi è sorretto e aiutato da conforti e sostegni grazie ai quali ha edificato proprie maturazioni. Non ci sono percorsi migliori di altri; soltanto... ci sono percorsi. Maurizio Rebuzzini; su questo numero, a pagina 28 In direzione efficace. Angelo Galantini; su questo numero, a pagina 48 La nobilitazione fonetica appartiene al nostro tempo, nel quale, invece di risolvere questioni sociali pressanti, ci si limita a ridefinirle con garbo... mFranti; su questo numero, a pagina 10 La fotografia personale è un elevato gesto d’amore, che risponde a canoni propri e inderogabili. Antonio Bordoni; su questo numero, a pagina 50

Copertina Dalla consistente e convincente serie fotografica Traditional Utopian Portraits, del bravo Simone Nervi, che compone l’appassionato progetto-contenitore Età di un futuro passato, allestito in mostra e accompagnato da un racconto (su questo stesso numero, da pagina otto). Ne riferiamo, da pagina 34

3 Fotografia nei francobolli Dalla compendiosa analisi Fotografia nei francobolli, di Maurizio Rebuzzini, in corso d’opera e prossima pubblicazione, dettaglio da una emissione filatelica dell’Isola di Man, del 12 aprile 2009, in occasione (anticipata nelle date) del quarantesimo anniversario dell’allunaggio di Apollo 11 (20 luglio 1969). Con accompagnamento Hasselblad... e, poi, la vicenda spaziale della cagnetta Laika (omofonia), da pagina 20

7 Editoriale Merito e onore da riconoscere e sottolineare. Nel farlo, a differenza di tanto/troppo giornalismo spettacolare ormai endemico nel nostro paese, il Giornale di Sicilia non si è limitato agli uomini “famosi”, ma si è ricordato di tutti gli uomini “di fama” caduti nel compimento del proprio dovere: agenti di scorta, cittadini comuni, danni collaterali. In chiusura, torniamo alla fotografia, che rimane il territorio al quale dobbiamo rispondere. La prima pagina del Giornale di Sicilia, dello scorso diciotto novembre, è luminoso esempio di utilizzo giornalistico del ritratto più comune, quasi della fototessera. A differenza di altri abusi che il fotogiornalismo sta facendo del ritratto... quando non sa raccontare altrimenti. Franti

Quel territorio grigio, almeno grigio, entro il quale si manifestano e presentano questioni esistenziali dei nostri giorni. Non tutto è come appare che sia. Forse

8 Differenza nulla Racconto di Simone Nervi, in accompagnamento ideale alla sua visione fotografica espressa in termini di Età di un futuro passato (da pagina trentaquattro)

10 HCB... Germania 1945 Un fumetto, in proposizione graphic novel, racconta la fotografia di Henri Cartier-Bresson all’indomani della Liberazione, facendo soprattutto efficace perno su una immagine-iconica, a tutti conosciuta e da tutti riconosciuta. Efficace cadenza narrativa


DICEMBRE 2017

RIFLESSIONI, OSSERVAZIONI E COMMENTI SULLA FOTOGRAFIA

16 È Gerda Taro Titolo più che conveniente, La ragazza con la Leica è una biografia intenzionale in forma romanzata di una forte personalità della fotografia: Gerda Taro. Testo non convincente... in opinione soltanto nostra

Anno XXIV - numero 237 - 6,50 euro DIRETTORE

RESPONSABILE

Maurizio Rebuzzini

IMPAGINAZIONE

Maria Marasciuolo

REDAZIONE

20 Laika (non Leica) In omofonia, e nel sessantesimo anniversario (dal 1957), rievocazione della vicenda spaziale della cagnetta Laika, al culmine di tre interventi... sostanziosamente Leica

24 Georgia O’Keeffe Film televisivo in biografia di una personalità eccellente del Novecento: la pittrice statunitense, moglie del fotografo Alfred Stieglitz. Se vogliamo, in reciproca comunione Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

26 Per quanto... Nikon F Volente o nolente, una certa storia Nikon dipende dalla fantastica reflex Nikon F. Memorie, ricordi e riflessioni a conclusione di un cammino: 1917-2107 di Maurizio Rebuzzini

34 L’alba dentro l’imbrunire Traditional Utopian Portraits: sette azioni interpretative della luce attraverso le quali Simone Nervi scandisce uno dei suoi due passi di Età di un futuro passato. Per la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. Eccoci

43 Cliché-verre

Filippo Rebuzzini

FOTOGRAFIE Rouge

SEGRETERIA

Maddalena Fasoli

HANNO

COLLABORATO

Beppe Bolchi Antonio Bordoni mFranti Angelo Galantini Altin Manaf Simone Nervi Danilo Pedruzzi Ilario Piatti Lello Piazza William H. Price Franco Sergio Rebosio Redazione, Amministrazione, Abbonamenti: Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano; 02-66713604 www.FOTOgraphiaONLINE.com; graphia@tin.it. ● FOTOgraphia è venduta in abbonamento. ● FOTOgraphia è una pubblicazione mensile di Graphia srl, via Zuretti 2a, 20125 Milano. Registrazione del Tribunale di Milano numero 174 del Primo aprile 1994. Poste Italiane SpA - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge il 27-02-2004, numero 46), articolo 1, comma 1 - DCB Milano. ● A garanzia degli abbonati, nel caso la pubblicazione sia pervenuta in spedizione gratuita o a pagamento, l’Editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e in suo possesso, fatto diritto, in ogni caso, per l’interessato di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione ai sensi della legge 675/96.

Antica tecnica declinata in arbitrarietà interpretativa individuale e attuale. Danilo Pedruzzi compie un balzo indietro nel tempo e avanti nel contenuto espressivo di Angelo Galantini

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50 Abbecedario

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Nella concreta ipotesi di Ritorno al grande formato, riassunto delle condizioni operative di certa fotografia di Antonio Bordoni

58 Alle origini di tanto

Rivista associata a TIPA

Riproposizione di considerazioni ottiche senza tempo, da Le Scienze, del dicembre 1976. Voce autorevole (di William H. Price) Nella stesura della rivista, a volte, utilizziamo testi e immagini che non sono di nostra proprietà [e per le nostre proprietà valga sempre la precisazione certificata nel colophon burocratico, qui accanto: «È consentita la riproduzione di testi e fotografie, magari citando la fonte (ma non è indispensabile, né obbligatorio farlo)»]. In assoluto, non usiamo mai propietà altrui per altre finalità che la critica e discussione di argomenti e considerazioni. Quindi, nel rispetto del diritto d'autore, testi e immagini altrui vengono riprodotti e presentati ai sensi degli articoli 65 / comma 2, 70 / comma 1bis e 101 / comma 1, della Legge 633/1941 / Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio.

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di Alessandro Mariconti

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editoriale G

iusto lo scorso mese, in questo stesso ambito redazionale, abbiamo sottolineato la nostra frequentazione convinta del pensiero situazionista di Guy Debord. Nell’occasione, che qui riprendiamo, lo spessore culturale e politico del fantastico saggio La società dello spettacolo è stato in qualche misura circoscritto alla profondità del suo titolo. Poi, nel testo originario, le duecentoventuno tesi enumerate originarie, suddivise in nove capitoli, approdano a ben altre considerazioni a ben altre valutazioni della società nel proprio insieme e complesso (con relativa loro influenza sul pensiero trasversale di quel Sessantotto del quale stiamo per ricordare il cinquantesimo anniversario: 1968-2018). Rimaniamo in e con questa semplificazione applicata -che oggi e qui ribadiamo-, visto e considerato che non è lontana dal giusto, quantomeno dal legittimo, soprattutto in questi nostri giorni di spettacolarizzazione televisiva di amare note di cronaca, derivate da quella che possiamo tranquillamente definire “sessualizzazione dei rapporti professionali nel mondo dello spettacolo”: senza soluzione di continuità, dal cinema alla televisione. In assoluto, una premessa è d’obbligo: le violenze, le sopraffazioni, le prevaricazioni e le ingiustizie vanno perseguite a norma di legge e nei luoghi a questa preposti (magari, non in televisione). Un’altra premessa è richiesta: condanna assoluta e inderogabile dei prepotenti e difesa incondizionata delle vittime. Però! Però si impongono considerazioni declinate al fine di chiarire come e quanto esista un territorio grigio di comportamenti reciproci: equidistante tra il nero dei colpevoli e il bianco dei perseguitati. Giusto questo: siccome si fa esibizione di tirannie a sfondo sessuale nel mondo dello spettacolo, dobbiamo anche riconoscere che in questo stesso ambiente non vige necessariamente una graduatoria meritoria, ma, (purtroppo) frequentemente, si dà valore a tratti fisici accattivanti, semplifichiamola così. In effetti, dubitiamo che, in televisione, alcune presenze femminili, spesso esibite in quanto tali, siano state scelte per la profondità del proprio pensiero e capacità interpretativa di un qualsivoglia ruolo. In definitiva, quest’area grigia è talmente frequentata da essere ormai endemica di quelle luci della ribalta a cui molti/molte aspirano (e lo stesso vale per il dietro-le-quinte infrastrutturale, animato a amici/amiche ingaggiati/ingaggiate su basi frequentative private). Se dobbiamo scandalizzarci, non rivolgiamoci soltanto a questo territorio grigio, ma occupiamoci soprattutto delle angherie che quotidianamente attraversano la società, in tutti i posti di lavoro nei quali a qualcuno sono stati concessi poteri decisionali anche sul destino dei singoli collaboratori. Ovviamente, questo riguarda perfino la Fotografia, ce ne rendiamo conto. Così che, lo scorso settembre abbiamo presentato e commentato un episodio della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, la cui chiave fotografica di riferimento sottolinea appunto molestie sessuali perpetuate da parte di un fotografo ai danni di modelle. Con richiamo esplicito e dichiarato a una cronaca reale, con coinvolgimento in Nome/Cognome. Maurizio Rebuzzini

L’episodio Fashionable Crimes (tradotto in Crimini alla moda), della serie televisiva Law & Order: Special Victims Unit, ventesimo della diciassettesima stagione, racconta di molestie sessuali perpetuate dal fotografo Alvin Gilbert (l’attore Fisher Stevens) ai danni delle proprie modelle. Come rilevato lo scorso settembre, per quanto la sceneggiatura sottolinei la casualità di eventuali richiami al reale, non siamo lontani dal vero quando osserviamo quanto la vicenda abbia legami di parentela con il fotografo Terry Richardson e i suoi riconosciuti e condannati abusi sessuali.

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Racconto di Simone Nervi

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DIFFERENZA NULLA

I miei occhi si sono abituati alla forte luce mattutina e un elefante ha appena defecato per strada. Il posto dovrebbe essere corretto. Guardo attraverso il vetro, il riflesso del sole cela l’interno del locale. Ombre in movimento mi fanno capire che non è giorno di chiusura. L’aria condizionata è al massimo, lo sgabello al bancone è fissato a terra e il barman non mi degna di uno sguardo. Alzo gli occhi al di sopra delle bottiglie alcoliche che decorano la parete, sull’orologio i numeri in ordine crescente sono neri su sfondo circolare bianco. Una mosca porta la mia attenzione su una presa della corrente, poco distante. Nessun oggetto elettrico trae beneficio da essa, ma un filo bianco fuoriesce dal muro alla sua destra e prosegue in linea retta sino al pavimento, scomparendo dietro il battiscopa. – Un whisky, con ghiaccio a parte –. Il cervello analizza l’impulso elettrico trasmesso da entrambi i canali uditivi e posiziona il suono pervenuto alle mie spalle. Non mi giro, lo zoccolo grigio cenere mi ha fatto incontrare una chiazza di muffa nell’angolo delle due pareti di sud-ovest. Verde con venature bluastre, sinteticamente interessante. Uno stiletto nero e una suola rosso fuoco si insinuano in questo subbuglio visivo. Una caviglia nuda e sottile, una gamba slanciata speculare ad un’altra di identica fattura, una gonna a tubino e una camicetta leggera che fa percepire la presenza di un seno ben proporzionato, un collo lungo e affusolato, un viso. Un viso perfetto. E dietro, sul soffitto, una lunga fila di led che mi guida verso il centro del locale. Ho ventisette anni e oggi è il mio primo giorno di vita. Due ore fa mi sono svegliato, o per meglio dire, mi sono reso conto di appartenere a un mondo di fatto imperniato su organismi biologi-

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«Una goccia di sudore solca la fronte pronta a spiccare il volo. Senza alcun aiuto per sopravvivere. Senza un paracadute, un recipiente dove essere conservata. Consapevole di evaporare una volta toccato il cemento rovente del marciapiede. Un gesto cosi audace e nessuno ad assistere, nemmeno il suo creatore, intento in altri affari»

camente viventi basati sul carbonio. E sull’acqua. Una piccola finestra era l’unica fonte luminosa di quella che poteva essere una stanza dal soffitto molto alto. Un viso illuminato dalla debole luce presente è la prima cosa di cui ho ricordo. Uno specchio rifletteva un ragazzo di bell’aspetto seduto su una sedia nera e morbida. – Cosa posso portarle? – chiede il barman notandomi. Il suo volto entra nel mio campo visivo, prendo, dalla tasca della giacca scura, il foglio digitale e glielo mostro. – Vuole anche un bicchiere? –. Con un movimento involontario dall’alto verso il basso della testa do il mio assenso e lui si gira per preparare l’ordinazione. La porta del locale si chiude con un movimento lento e uniforme. Il sole ora è più intenso. Sono in perfetto orario e la Stazione Centrale è la mia meta. Non devo prendere un treno, ma ritirare alcuni documenti da una cassetta di sicurezza, la 19D28. La linea creata dal dislivello tra la strada e il marciapiede rende i passi regolari e rettilinei. Il mio sguardo segue la direttrice, mi accorgo di sapere cos’è un treno e, soprattutto, dove si trova la stazione. Non so come mi chiamo, non so perché esisto, ma so allacciarmi le scarpe e conosco

alla perfezione il piano regolatore di Ipertonia, la città in cui mi trovo. Sul foglio digitale trovato al risveglio, ho letto una serie di istruzioni ed è nata in me un’illogica determinazione nel seguire tali direttive. Giro a sinistra, in una strada più grande e affollata, la linea scompare tagliata dalle gambe in movimento di indifferenti passanti frenetici. Mi fermo. Socchiudo gli occhi per un attimo. Alzo la testa. I tetti dei palazzi a lato del marciapiede e il cielo azzurro senza nuvole. Ritrovo la traccia. Riprendo il cammino. La piazza antistante la stazione è formalmente squadrata e il piede sinistro sente attraverso la suola della scarpa qualcosa di morbido. L’orologio sulla facciata batte l’una. Un uomo grasso e affannato mi guarda negli occhi. – Fermati –. Appoggia la sua mano destra sulla mia spalla sinistra avvicinando leggermente la testa e abbassando di due ottave il tono della voce. – Devo fare presto, l’uomo dei passaporti è sulle mie tracce. Stammi a sentire, ora tu non sai chi sono, quasi certamente non sai chi sei e di sicuro non conosci il motivo del tuo risveglio involontario di questa mattina in una stanza buia e sconosciuta –. Non batto ciglio. Non cerco di controbattere. Non sono stato

istruito sul comportamento da tenere in questi casi e nulla che già non conosca mi è stato rivelato. Dopo una breve pausa e molte gocce di sudore scese dalla fronte, riprende. – Non è di fondamentale importanza rivelarti il mio nome. Come te, anch’io mi sono svegliato in quella stanza, non ho parlato con il barista e sono arrivato sin qui guardando in cielo. Ho aperto quella cassetta di sicurezza, mi sono ribellato e ho deciso di combattere il loro sistema. Sai, non è facile vivere così, ma ho fatto una scelta, la mia scelta, come tu ora devi fare la tua. Ascoltami con attenzione, diffida da quello che leggerai, loro vogliono farti credere di non esistere, di essere solo una formalità di controllo. Loro vogliono comandarti e faranno di tutto per confonderti. Ora devo andare e non credo ci rincontreremo, ma ricorda bene quello che ti sto dicendo. Inizia a pensare con la tua testa, tu non sei una macchina –. Immediatamente il ricordo dell’elefante visto in mattinata si fa strada nella mente e l’uomo sudaticcio scompare guardingo nel nulla. Ho ventisette anni e oggi è il mio ultimo giorno di vita. Sono una macchina, un androide, uno dei primi modelli a “differenza nulla”, un cyborg naturale. Tutte le parti meccaniche che mi compongono sono artificiali ma biologiche, non producono ruggine sotto l’effetto di agenti atmosferici, ma possono subire infezioni virali. Sono seduto su una panchina traslucida nell’ampio e degradante ingresso della stazione. Ho appena finito di scaricare i dati trovati nella cassetta 19D28 sul foglio digitale e non dovrei provare emozioni. La lacrima che scende dall’occhio destro, come descritto nelle istruzioni, è un test fisico di controllo, ma il senso di impotenza che sale dalla bocca


Racconto dello stomaco e mi stringe il costato non trova nessun riscontro nelle nere lettere sfuocate del foglio che ho in mano. Sono il corpo di un essere umano, il termine tecnico è avatar. L’aria profuma di vita e decomposizione. Il tram a sospensione magnetica che mi ha condotto fin qui è ora solo un silenzioso serpente in lontananza. I gabbiani planano leggeri nel vento e il rumore delle onde si infrange sulle pietre verdastre del porto. L’oceano, visto dalla terra ferma, sembra infinito. Alla stazione ho visto un cartellone pubblicitario di un ristorante, l’indirizzo mi ha incuriosito e la mia memoria cartografica ha fatto il resto. Sento l’aria umida penetrare la pelle, insinuarsi tra i capelli e innescare emozioni mai provate. Porto lo sguardo dall’immensa distesa d’acqua, dal cielo azzurro tratteggiato da multiformi nuvole

bianche, dal sole in continuo, impercettibile, impetuoso movimento, verso la mano destra. Aperta, con il palmo rivolto verso l’alto. Con tutte quelle linee che le appartengono, necessarie al giusto funzionamento strutturale della stessa e alla sopravvivenza della specie umana. E trovo tutto ciò strano. Entrambi i paesaggi presenti nei miei occhi e, di conseguenza, nella mia memoria, iniziano ad avere un significato diverso da quello prettamente descrittivo. Il viso di quella ragazza era davvero meraviglioso e me ne rendo conto solo ora. L’orizzonte si fa meno luminoso, i lampioni iniziano a disegnare il lungomare con un riverbero artificiale e da tre ore sto analizzando la mia breve esistenza in ogni suo insignificante aspetto. Non mi serve guardare l’orologio che non ho per sapere l’ora. Ho tutto nella testa. Come l’esatta posi-

zione geografica in cui mi trovo o la consapevolezza della perfezione dei rigorosi battiti del mio cuore. Dalla stazione non sto più seguendo le direttive scritte nel foglio digitale e in tutto questo tempo ho cercato di mettere in dubbio la mia essenza di prova tecnica di funzionamento corporeo. È logico avere tali perplessità quando si acquisisce la coscienza di esistere. Mi sono fatto molte domande e a tutte ho dato una risposta. Tranne per una: “Chi è l’uomo dei passaporti?”. Ma ho ritenuto non essenziale dare una soluzione a tale quesito. Ho deciso come deve essere il proseguimento di questa avventura e il tram a sospensione magnetica delle diciannove e trentasette per tornare in città mi sta aspettando. Lo spiazzo del capolinea è deserto. Dai palazzi circostanti un mosaico di finestre scomposto il-

lumina con una calda luce rilassante la via. I miei occhi non vanno più alla ricerca di un punto di riferimento. Conosco il percorso da fare e questo mi basta per andare con passo deciso nella giusta direzione. Ho voglia di fumare, la mente ha iniziato a funzionare correttamente e ora il cervello ha avuto la sua naturale prova tecnica, come volevasi dimostrare. Giungo dove tutto è iniziato e l’elefante ormai non c’è più. Un uomo è appoggiato al muro, vicino alla porta, la stessa di questa mattina, della stanza dal soffitto molto alto. Mi vede, inizia a camminare nella mia direzione, prosegue oltre passandomi accanto. Conosco quell’uomo, parecchie ore fa mi servì acqua blu in un bicchiere. Dice qualcosa. Non si volta nel farlo. E percepisco solo queste tre parole: – Io sono te –. ❖


Fumetto... graphic novel di Angelo Galantini (Franti)

HCB... GERMANIA 1945

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Prologo lungo e allungato, ma necessario... forse. Oggi si dice soprattutto graphic novel, che potrebbe avere una brutta traduzione (letterale) in “romanzo grafico”, per offrire una sorta di valore e rilievo culturale, di quota ritenuta superiore a ciò che meglio e più direttamente definirebbe la materia: fumetto! Del resto, e a conti fatti, è peccato veniale, ammesso e non concesso che di “peccato” si tratti effettivamente. Infatti, la nobilitazione fonetica appartiene al nostro tempo, nel quale, invece di risolvere questioni sociali pressanti, ci si limita a ridefinirle con garbo... politicamente corretto (forse). Infatti (ancora), e in continuazione di pensiero e riflessione, la stessa nobilitazione fonetica appartiene ancora al nostro tempo, in altra propria forma, che risponde a una gerarchia di ruoli e valori presunti: dunque, graphic novel è meglio di fumetto, perché sposta l’asse della questione da una presunta Serie B (almeno; il fumetto) alla Serie A del romanzo, per quanto grafico. Così che, a difesa del fumetto, proprio tale, per quanto scomponibile in ulteriori categorie (dalle strisce al racconto seriale e/o autoconclusivo), richiamiamo alla mente una folgorante lettura di tanti e tanti anni fa... qualcosa di più di cinquanta. Arretriamo fino al numero Uno di Linus, mensile voluto da una identificata schiera di precursori e anticipatori (di molto), riuniti per l’occasione da Giovanni Gandini (19292006) attorno la sua libreria Milano Libri, di via Verdi, a Milano, accanto il Teatro alla Scala, condotta assieme alla moglie Anna Maria Gregorietti. Su quel numero Uno, dell’aprile 1965, Umberto Eco (pre Il nome della rosa; 1932-2016) intervistò Elio Vittorini (post Conversazione in Sicilia e Uomini e no; 1908-1966) e Oreste Del Buono (che, nel 1971, sarebbe succeduto alla direzione dello stesso Linus; 19232003) sul senso e valore dei fumetti. In riproposizione.

DA LINUS (APRILE 1965) Umberto Eco: Oggi, stiamo discutendo di una cosa che riteniamo molto importante e seria, anche se ap-

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(pagina accanto) Formalmente, il racconto della graphic novel (del fumetto) Cartier-Bresson, Germania 1945 si esprime e manifesta in profilo di fashback, a partire dalla mostra al MoMA (Museum of Modern Art), di New York, dell’inizio del 1947. Nei fatti, la vicenda comincia dai giorni immediatamente precedenti la cattura del celebre fotografo, quando seppellì precauzionalmente la sua Leica.

Cartier-Bresson, Germania 1945; sceneggiatura di Jean-David Morvan e Séverine Tréfouël; illustrazioni di Sylvain Savoia; con portfolio finale di fotografie di Henri Cartier-Bresson e un dossier di Thomas Tode, regista di documentari e ricercatore; il libro è realizzato in collaborazione con la Henri CartierBresson Foundation e l’agenzia Magnum Photos; Contrasto, 2017; 144 pagine 19x25cm, cartonato; 24,00 euro.

parentemente frivola: i fumetti di Charlie Brown. Vittorini, com’è che hai conosciuto Charlie Brown? Elio Vittorini: Io mi sono sempre interessato di fumetti, da tempi lontanissimi, da quando ero ragazzo. Me ne occupavo anche ai tempi di Politecnico, e ricordo che una volta ho pregato il nostro amico [Oreste] Del Buono di intervenire su certi fumetti americani, parlandone non soltanto sotto il profilo sociologico -come succede di solito-, ma anche sotto il profilo storico. [Il Politecnico è stato un attento e consistente periodico di politica e cultura fondato da Elio Vittorini, pubblicato a Milano dal 29 settembre 1945 al dicembre 1947 (numero 39); nacque settimanale (con sottotitolo “settimanale di cultura contemporanea”), ma dal Primo maggio 1946, con il numero 29,

divenne irregolare, nominalmente mensile (con sottotitolo “rivista di cultura contemporanea”); fu chiuso per intervento del Partito Comunista Italiano, per voce del suo segretario Palmiro Togliatti. Nel 1989, Einaudi ne ha ristampata un’edizione anastatica completa. Nota aggiuntiva: sull’ultimo numero del Politecnico, il trentanove, del dicembre 1947, è stata pubblicata una sequenza fotografica di Weegee, in autorevole anticipo sulla celebrazione italiana pubblica e ufficiale dell’acclamato fotocronista: Si vive insieme, in solitudine (New York City, 1940). Abbiamo testimoniato, in FOTOgraphia, del marzo 2011]. Umberto Eco: Di che cosa avete parlato a quell’epoca? Oreste Del Buono: Un po’ di tutto, facemmo persino dei fumetti dai Promessi Sposi.


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© 2017 DUPUIS / MAGNUM PHOTOS

BY

SAVOIA MORVAN (3)


Fumetto... graphic novel

Quando e per quanto assegniamo valori e meriti al racconto a fumetti, riconoscendone potenzialità in diffusione di idee e doti per studio e approfondimento individuale, pensiamo anche al catalogo dell’editore italiano BeccoGiallo e ai suoi fumetti d’impegno civile (www.beccogiallo.org; main.beccogiallo.net). Ne abbiamo già riferito, nell’aprile 2012, in occasione della presentazione del titolo Que viva el Che Guevara, affrontato anche per la propria nota e celebrata trasversalità fotografica (icona del Novecento), volente o nolente nostra materia istituzionale e statutaria. Da tempo, BeccoGiallo pubblica spinose storie contemporanee (o quasi), a fumetti. I titoli spaziano dalla politica italiana (per esempio, Carlo Giuliani, il ribelle di Genova, Ilaria Alpi, il prezzo della verità, Peppino Impastato, un giullare

Elio Vittorini: Sì, avevamo anche cercato di servirci dei fumetti come mezzo di divulgazione letteraria, ma si trattava -più che altro- di un divertimento per noi stessi. Del resto, uno “spirito di fumetto” c’era anche nel tipo di impaginazione che usavo per il Politecnico, dove poi c’era una appendice interamente dedicata ai fumetti: [Giuseppe] Trevisani vi curò la pubblicazione di Li’l Abner e di Barnaby, il ragazzo afflitto dalla psicanalisi. Le storie di Barnaby erano uscite durante la guerra e noi, su Politecnico, ne riportammo due o tre. [...] Umberto Eco: Tu che ti sei occupato, tra i primi in Italia, della tradizione narrativa americana, come collochi Charlie Brown nella letteratura americana? Elio Vittorini: Bisognerebbe prima stabilire a che tipo di letteratura appartiene Schulz [Charles M., il suo disegnatore e sceneggiatore], ma comunque, senza andare nel difficile, io lo avvicinerei a Salinger [Jerome David; noto e riconosciuto per Il giovane Holden], però con un interesse molto più ampio e -secondo me- molto più profondo. Umberto Eco: Allora, secondo te, è più artista Schulz? Elio Vittorini: Certamente. Salinger resta, se vogliamo, poeta: però non

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contro la mafia e Il sequestro Moro, storie dagli anni di piombo) a quella internazionale (per esempio, Abc Africa, guida pratica per un genocidio con la gentile complicità della comunità internazionale e Fermate l’America! 99 buoni motivi per diffidare dell’America di Bush), dalla cronaca nera (per esempio, Il massacro del Circeo, Rina Fort e Unabomber) a biografie (per esempio, Ballata per Fabrizio De André, Luigi Tenco, una voce fuori campo, Giovanni Falcone e Philip K. Dick ). Da cui e per cui, la nostra convinzione verso i fumetti da studio, non semplificazione, con il relativo proprio carico di diffusione potenzialmente superiore a quella del libro tradizionale. Non in contrapposizione, sia chiaro, ma integrazione, complemento e rinforzo. Forse. Certamente!

riesce a essere il poeta di una società, rimane un prodotto in fondo molto letterario (da questo punto di vista Ring Lardner, l’effettivo creatore del racconto “hot “, o meglio “hard-boiled”, soddisfa meglio certe esigenze di impegno). Salinger è un “patetico” che evade nel mondo dell’infanzia la quale non è, per lui, rappresentativa del mondo degli adulti, della maturità -come lo è per Schulz- dove l’infanzia è il “signifiant”, il veicolo di questo mondo completo che è l’uomo maturo, un po’ come Johnny Hart (quello di B.C.), che rappresenta il mondo moderno attraverso l’età della pietra. Umberto Eco: E tu, Del Buono, come vedi Charlie Brown? Oreste Del Buono: Io sono un convertito a Charlie Brown, All’inizio, non mi piaceva affatto, Intanto, il mio interesse per i fumetti era diretto al genere avventuroso, e Charlie Brown non mi divertiva. Trovavo persone che ridevano, leggendo Charlie Brown, e cercavo questa parte di comico, senza trovarla. Però, a un certo punto, è avvenuta proprio una specie di rivelazione: ho scoperto che i fumetti di Charlie Brown sono assolutamente realistici. È avvenuta addirittura un’identificazione: Charlie Brown sono io. Da questo punto, ho cominciato a capirlo. Altro che comico, era tragico, una tragedia

continua, Ed ecco finalmente ne ho cominciato a ridere. Un fumetto come diagnosi, prognosi ed esorcismo.

FINALMENTE, HCB Edizione italiana dell’originario CartierBresson, Allemagne 1945 (dell’editore parigino Dupuis, nella propria serie Magnum Photos, che propone anche una Édition Spéciale in tiratura limitata di settecentosettantasette / 777 copie), l’ottimo Cartier-Bresson, Germania 1945 -subito certificato come tale... ottimo- è un racconto a fumetti romanzato, ovverosia una graphic novel, come è ormai più legittimo qualificare, che incontra un capitolo di Storia... quantomeno della Fotografia. Arricchita da un consistente apparato fotografico a epilogo (di narrazione), la sceneggiatura di Jean-David Morvan e Séverine Tréfouël è scandita dal disegno di Sylvain Savoia, in conformità a una radicata e nobile tradizione francese del fumetto, che affonda indietro e indietro nei decenni. Subito dalla copertina, sotto una illustrazione di un giovane Henri Cartier-Bresson, nato nel 1908 (e vissuto fino alla soglia dei novantasei anni; 22 agosto 1908 - 3 agosto 2004 [anno terribilis: in FOTOgraphia, del febbraio 2005]), che all’epoca dei fatti narrati aveva qualcosa di più di trent’anni (e,


© HENRI CARTIER-BRESSON (MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO) SAVOIA MORVAN BY

© 2017 DUPUIS / MAGNUM PHOTOS

Per certi versi, commentati nel testo, il momento culminante del fumetto Cartier-Bresson, Germania 1945 è l’interrogatorio della collaborazionista della famigerata Gestapo, fotografato a Dessau, in Germania, nella primavera 1945, nei primi giorni di Liberazione. È un’immagine realizzata/conseguita in modo rapido, mai riquadrata nelle sue continue e ripetute proposizioni e riproposizioni, nella quale, però!, tutto sembra studiato, ponderato, calcolato al millimetro. Un’icona visiva che invita a riflettere sulle capacità della fotografia, quindi sull’arte e, anche, sulla Libertà (da e con Pino Bertelli: «Solo i poeti sanno veramente parlare della Libertà, dolcissima e inebriante»).

subito dopo, sarebbe stato testimone oculare del passaggio dalla Cina millenaria alla Repubblica Popolare), il tema/argomento narrante è stabilito da una celeberrima fotografia dell’interrogatorio pubblico a una collaborazionista della famigerata Gestapo, scattata a Dessau -per l’appunto, in Germania-, nel maggio-giugno 1945, nei primi giorni di Liberazione (autentico leitmotiv del racconto). [Questo episodio compare anche nel docu-film -altra identificazione attuale- Le Retour, sul ritorno in patria dei prigionieri di guerra e dei deportati; a propria volta, questa regia è un ulteriore ritorno: quello dello stesso Henri Cartier-Bresson al cinema, nel quale, nel 1931, operò come assistente del regista francese Jean Renoir (assieme con Luchino Visconti), e con il quale, nel 1937, firmò il film Return to life, altra coincidenza... forse. Comunque, su YouTube, sono rintracciabili i suoi filmati, tra i quali, per l’appunto, quello dell’interrogatorio pubblico, all’aperto, della collaborazionista, dal quale abbiamo preso per la tangente]. Il racconto di Cartier-Bresson, Germania 1945 è ben sceneggiato, ed è ottimale per un avvicinamento coerente al personaggio: proprio con la forza esplicita e implicita della cadenza a fumetto (alla quale crediamo molto, sia

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In prologo lungo e allungato, ma necessario... forse, abbiamo richiamato e ricordato una intervista di Umberto Eco (pre Il nome della rosa) a Elio Vittorini (post Conversazione in Sicilia e Uomini e no) e Oreste Del Buono (che, nel 1971, avrebbe assunto la direzione di Linus). L’incontro sul senso e valore dei fumetti è stato ripreso, in forma ridotta rispetto l’originale, dal numero Uno di Linus, dell’aprile 1965: oltre cinquant’anni fa. Con l’occasione, è doveroso ricordare e richiamare quel fantastico clima milanese che accompagnò, fino a sollecitarla, la nascita del celebrato periodico a fumetti, che tanto ha influito sulla cultura italiana. Non dimentichiamo, quindi, l’impegno e la lungimiranza del suo ideatore e creatore Giovanni Gandini (1929-2006), già librario in centro città: Milano Libri, in via Verdi.

in fantasia di intenti, sia in concretezza di esposizione storica: strumento di studio e approfondimento, non semplificazione, a diffusione potenzialmente ampia, probabilmente più del libro tradizionale). In comunione di intenti, gli autori rievocano fatti e situazioni, con la forza della visualizzazione dichiarata e non sottintesa: attraverso l’illustrazione, danno vita e corpo al giovane Henri Cartier-Bresson durante la sua prigionia nello Stalag V-A, situato nella periferia meridionale di Ludwigsburg, nel sud della Germania, appena oltre il confine francese, nel 1940. Da qui, HCB fuggirà nel 1943, al suo terzo tentativo, per poi fare ritorno in Germania da testimone oculare, all’indomani della Liberazione. Cartier-Bresson, Germania 1945 comincia proprio da questo: dai giorni immediatamente precedenti la sua cattura insieme con i compagni della sezione “Film e fotografia” dell’esercito francese, quando e dove seppellì precauzionalmente la sua Leica, dissep-

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pellita all’indomani della sua nuova indipendenza. A fine della guerra, la Seconda mondiale, Henri Cartier-Bresson torna in Germania, per seguire la Liberazione dei prigionieri e aiutarli a ritrovare il proprio posto nella società del dopoguerra. Oltre che con la fotografia, lo fa anche con il film Le Retour, al quale ci siamo appena riferiti: appunto, di quei momenti, la fotografia più conosciuta è quella, già ricordata, scattata nel campo di Dessau.

DAVANTI ALL’IMMAGINE Riflessione d’obbligo, riflessione dovuta, riflessione necessaria: nel corso della Storia, si sono presentate fotografie emblematiche, come questa, nella cui inquadratura una donna ne accusa con violenza un’altra, in mezzo alla folla. È accertato, è un’ex prigioniera che riconosce, e accusa, colei che l’ha denunciata alla Gestapo. Al pari di altri momenti topici e risolutivi, che la Fotografia -autorevole linguaggio (non soltanto visivo) del Novecento- ha con-

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Fumetto... graphic novel segnato alla Storia, potrebbe essere considerata simbolica della fine della Seconda guerra mondiale, ma anche dell’inizio di una nuova Vita. Allo stesso momento, per quanto riguarda il nostro sguardo indirizzato, e senza cinismo, ma in clima clinico, è altresì uno degli esempi più eloquenti dello stile fotografico del suo autore, Henri Cartier-Bresson. È un’immagine realizzata/conseguita in modo rapido, mai riquadrata nelle sue continue e ripetute proposizioni e riproposizioni, nella quale, però!, tutto sembra studiato, ponderato, calcolato al millimetro. Un’icona visiva che invita a riflettere sulle proprietà e capacità della fotografia, quindi sull’arte e, anche, sulla Libertà (da e con Pino Bertelli: «Solo i poeti sanno veramente parlare della Libertà, dolcissima e inebriante»). Ancora: chi sono i protagonisti di questa fotografia? (domanda che ci si pone spesso, in presenza di icone della Storia... in tentativo/desiderio di riconduzione alla Realtà). Perché Henri Cartier-Bresson è presente proprio in quel campo? Qual è stato il suo scopo nel riprendere questo istante, per consegnarlo in avanti? Tra tanti altri propri meriti e valori, la sceneggiatura di Jean-David Morvan e Séverine Tréfouël e l’illustrazione di Sylvain Savoia indirizzano il racconto del potente Cartier-Bresson, Germania 1945 verso risposte a domande di questo tipo. Formalmente, il racconto si esprime e manifesta in profilo di flashback: la storia si apre nel 1946, con il fotografo in procinto di imbarcarsi per gli Stati Uniti, dove il MoMA (Museum of Modern Art), di New York, ha organizzato una retrospettiva sul suo lavoro, credendolo morto [The Photographs of Henri Cartier-Bresson, dal 4 febbraio al 6 aprile 1947 / ancora, nella caffetteria del museo, piuttosto che nel suo ristorante, le opinioni al proposito sono discordi, nel maggio dello stesso anno furono discussi i termini della fondazione di un’agenzia fotografica in forma cooperativistica: Magnum Photos, fondata da Robert Capa, Henri CartierBresson, David Seymour, George Rodger, William Vandivert, (Rita Vandivert e Maria Eisner)]. Quindi, il racconto procede indietro nel tempo, allo lo scopo di spiegare perché Henri Cartier-Bresson scattò questa fotografia. Forza e vigore del fumetto. ❖



Vita romanzata di Maurizio Rebuzzini (Franti)

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È GERDA TARO

Prologo lungo e allungato, ma necessario... forse (addirittura: considerazioni a volo alto, ma non altro, in motivazione della conclusione, in poche righe riferite a quello che è l’autentico soggetto di questo intervento redazionale). In Università, raccontando di Storia della Fotografia a studenti (principalmente studentesse) incamminati (incamminate) lungo un percorso di Lettere e Filosofia soprattutto indirizzato verso Scienze e tecnologie delle arti e dello spettacolo (STArS), più che altrove (Filologia moderna e Lettere, in senso proprio e formale), sono solito introdurre istruzioni a monte. Anzitutto, preciso che non si tratterà la Storia della Fotografia in misura autoreferenziale, perché i presupposti del loro cammino accademico sono altro e altrove: dunque, nello specifico, come e quanto la Fotografia influisca, abbia influito, sulla Vita (la dico anche così). Quindi, a immediata conseguenza, si impone un’altra avvertenza: per quanto la Storia della Fotografia si sia manifestata, ogni suo racconto è manchevole e imperfetto, perché sempre carente di visioni e considerazioni ulteriori a quelle dominanti, per lo più di matrice americanocentrica. Per quanto altre esperienze, geograficamente diverse (oriente, est europeo, Sudamerica), non abbiano influito sul passo evolutivo del linguaggio fotografico (forse!), ci sono state e hanno avuto valore e senso per molti, per quanto non per chi racconta (certamente!). In metafora, magari per dirla meglio, è lo stesso per la Storia nel proprio insieme e complesso, che in ogni paese è raccontata circoscrivendola agli accadimenti nazionali: per cui, da italiani, sappiamo poco o nulla della storia americana (oltre quanto raccontato dal cinema), di quelle orientali e, perfino, di quelle dei paesi a noi vicini, se non già confinanti. Con onestà, rilevo poi che anche il mio racconto è parziale e limitato, quantomeno in relazione al tempo a nostra disposizione. E, poi, è obbligatorio sottolineare che la Storia, comunque la si racconti, è sempre e comunque storia dell’uomo, non dell’Uomo,

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Bourke-White [tante e ripetute le nostre evocazioni, in FOTOgraphia], non si può non far riflettere sulla particolarità della società statunitense della prima metà del Novecento... magari anche solo in riferimento a quella italiana.

AL FEMMINILE

La ragazza con la Leica, di Helena Janeczek; Guanda, 2017; 320 pagine 14x22cm; 18,00 euro.

e delle sue gesta, con partecipazioni femminili marginali, anche quando e per quanto ci sono state figure (femminili) capaci di infrangere il maschilismo endemico nel nostro mondo, del passato, come anche del presente. Così, in riparazione parziale, che neppure sfiora il risarcimento che sarebbe dovuto, cerco di non ignorare, non sottovalutare, non dimenticare quelle personalità al femminile che hanno dato preziosi e sostanziosi contributi alla Storia della Fotografia, riuscendo ad emergere da una sottomissione caratteristica, specifica, radicata e persistente. Ovviamente, per e nel fare questo, sono sempre necessarie contestualizzazioni sociali doverose, indispensabili e imprescindibili. Per esempio, quando si sottolinea che il settimanale Life -volente o nolente, fondamentale nella storia del fotogiornalismo- prende avvio, nel novembre 1936, con una prima copertina firmata al femminile, di Margaret

A proposito di contraddizioni relative alla fotografia al femminile, abbiamo ampiamente dibattuto lo scorso maggio (2017), con lancio dalla copertina, dove e quando abbiamo altresì precisato di applicare uno sguardo lieve. Comunque, per quanto l’indirizzo dichiarato fosse allora partito e si fosse ricondotto all’illustrazione promozionale della fotografia al femminile -con relativa registrazione di sostanziose eleganze di forme che hanno presupposto e immaginato una comunicazione delicata, raffinata e signorile della stessa fotografia, a partire dai propri utensili-, lo svolgimento ha espresso anche/soprattutto altre considerazioni specifiche. Ripetiamone una almeno. «Per quanto, al proprio interno, la Storia della Fotografia registri personalità femminili di spessore e rilievo e valore, non possiamo ignorare che l’immagine più diffusa della fotografia sia maschile. Ottimi sono stati alcuni esami al femminile, così come modesti e stopposi ne sono stati altri. Tra gli eccellenti, ne ricordiamo due: L’altra metà dello sguardo. Il contributo delle donne alla storia della fotografia, a cura di Nicoletta Leonardi, pubblicato da Agorà Editrice, nel 2001 (Atti del convegno omonimo, a cura di Nicoletta Leonardi e Rosalba Spitaleri, svoltosi a Torino, il precedente 4 dicembre 1998), e il recente La fotografia ribelle (Storie, passioni e conflitti che hanno rivoluzionato la fotografia), di Pino Bertelli, in edizione NdA Press del corrente 2017, presentato sullo scorso numero di aprile di FOTOgraphia». Da qui, in avvicinamento al romanzo La ragazza con la Leica, di Helena Janeczek (tedesca naturalizzata italiana, che da tempo vive e opera nel nostro paese, tanto per non lasciarsi confondere dalla sua sola anagrafe), in edizione Guanda, che ha ispirato queste


Vita romanzata nostre attuali (altre) considerazioni, la forma romanzata di racconto esistenziale declinato sulla trasversalità fotografia-donna, ha almeno due nobili precedenti, entrambi temporalmente vicini ai giorni attuali: richiamiamo il romanzo Luce proibita, di David Rocklin (Neri Pozza Editore, 2011 [presentato e commentato in FOTOgraphia, del maggio 2012]), e il racconto Camera oscura, di Simonetta Agnello Hornby (Skira, 2010 [a propria volta, presentato e commentato in FOTOgraphia, del marzo 2013]). Subito sintetizzato e subito chiarita l’accettazione incondizionata dell’aspetto fantastico e fantasioso delle rispettive trame e dei relativi intrecci fotografici (condizione da tenere presente, in relazione alla nostra attuale conclusione). Riassumiamo.

DUE PASSI INDIETRO La vicenda di Luce proibita, di David Rocklin, ruota attorno gli esperimenti primitivi della fotografia. Non è un saggio, né uno studio approfondito sulla materia, ma soltanto una narrazione di pura fantasia, estranea a qualsivoglia obbligo storico e/o temporale. A conti fatti, la fotografia nascente non è soltanto il collante di una vicenda di altro profilo (nella quale sovrasta l’idea di impero britannico alla conquista di Ceylon, alla vigilia della metà dell’Ottocento), ma è proprio il motivo conduttore, al quale tutto il resto fa soprattutto riferimento. Con fantasia, l’autore retrodata di qualche decennio la personalità fotografica di Julia Margaret Cameron (1815-1879), che vi si dedicò dal 1863, riferendola alla protagonista Catherine Colebrook e al 1836 e poco oltre, assegnandole altresì un ruolo sperimentale e pionieristico di pura fantasia. Subito rilevato che le affinità tra Julia Margaret Cameron e la protagonista del romanzo Catherine Colebrook non si esauriscono nella sola visione fotografica, seppure reinventata, ma si estendono su tutto il racconto: anche Catherine Colebrook è moglie di un funzionario britannico, agisce a Ceylon (dove Julia Margaret Cameron è mancata, il 26 gennaio 1879) e si trasferisce all’Isola di Wight (dove la famiglia Cameron visse dal 1860). Anche Dimbola, la residenza di Ceylon di Catherine Colebrook, è derivata/ispirata a Dimbola Lodge, la residenza dei Cameron sull’Isola di Wight, che oggi ospita un

museo ed esposizioni permanenti di Julia Margaret Cameron. A differenza della realtà, Luce proibita racconta degli esperimenti primigeni di Catherine Colebrook, considerata e riferita come uno dei pionieri alla ricerca della natura che di fa di sé medesima pittrice, che già lei intende come “fotografia”. Ma non sono questi salti temporali e alterazioni/modifiche che ci lasciano perplessi: infatti, non si tratta di un resoconto storico, ma di una narrazione di pura fantasia. Probabilmente, di straordinaria fantasia. Come rivela il titolo, adeguata interpretazione dell’originario The Luminist, la visione trasversale del racconto riguarda soprattutto la capacità del giovane tamil Eligius -servo/aiutante di Catherine- di dominare e guidare la luce, sapientemente finalizzata alle esigenze della fotografia. A seguire, si rincorrono osservazioni e valutazioni sulla nuova arte, che qui viene dibattuta decenni prima della sua effettiva disputa, in ovvia contrapposizione all’arte pittorica. A questo proposito, tante e (anche) sostanziose le rilevazioni che si potrebbero estrarre. Una, sopra tutte; una, per tutte: «Credo che non sia facile capire in che modo vogliamo mostrarci», osserva Julia, figlia di Catherine, divisa tra le tele del promesso sposo George Wynfield, altezzoso figlio del governatore di Ceylon, e gli esperimenti della madre. Catherine Colebrook è determinata e risoluta. È interamente presa dalla propria opera e convinta del suo agire; sottolinea il proprio punto di vista, in risposta a obiezioni, che non disconosce: «Non intendo denigrare gli apprezzati talenti [dei pittori]. Tuttavia, ogni istante contiene qualcosa in grado di sorprendere l’occhio e il cuore. Non può essere altrimenti. Un dipinto cerca di creare una sintesi di diversi momenti. Io, invece, mi sforzo di cogliere l’istante. Punto la fotocamera [sic] e aspetto, fiduciosa di riuscire a vedere. Cercherò di migliorare il processo. Quando riuscirò a perfezionarlo, posso farvi un ritratto?». Già... magia della fotografia. Luce, e poco d’altro. Camera oscura, della intraprendente Simonetta Agnello Hornby, è proprio un buon racconto (per quanto breve, ma concentrato): si tratta di una evocazione esplicita della figura di Lewis Carroll fotografo, oltre la sua ce-

leberrima notorietà come autore di Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, spesso contratto in Alice nel paese delle meraviglie, e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, altrettanto frequentemente contratto nel solo Attraverso lo specchio. Al secolo Charles Lutwidge Dodgson (1832-1898), Lewis Carroll è un personaggio quantomeno controverso della storia della fotografia, con valide e motivate imputazioni di pedofilia, trasversali anche alla straordinaria nota critica di Brassaï, inclusa nelle apprezzate edizioni di Lewis Carroll. Fotografo e Lewis Carroll. Sulla fotografia, comprensive di suoi racconti e pamphlet sulla fotografia, rispettivamente pubblicate da Abscondita nel 2009 e 2007. Nell’avvincente e convincente Camera oscura, che si basa soprattutto su lettere inviate dallo scrittore-fotografo (a margine della sua ufficialità di diacono, matematico e docente) ai signori Mayhew, genitori della piccola Ruth, Simonetta Agnello Hornby compie ampi giri concentrici su questa interpretazione della personalità di Lewis Carroll, osservato dagli occhi e dal cuore di una delle sue bambine (Ruth Matthews / Mayhew), anni dopo il suo incontro originario. Dunque, dagli anni delle fotografie, 1879, comunque venti anni dopo quelle di Alice Liddell (1858), i due giorni della vicenda di Camera oscura si svolgono nel 1896, quando Lewis Carroll era già sessantaquattrenne. Ovviamente, non riveliamo nulla del racconto; soltanto, riferiamo che Lewis Carroll non ne esce proprio bene, quantomeno alla luce delle opportunità sociali dei nostri giorni: altero, supponente, arrogante, presuntuoso... è esattamente tutto quello che cercheremmo di evitare nelle nostre frequentazioni amicali. Però, l’autrice Simonetta Agnello Hornby è cortese sia con lui, sia con noi lettori. In postfazione è esplicita. Annota: «Spero che questo racconto dai personaggi immaginari, ma basato su fatti storici documentati e sulle lettere scritte da Dodgson, possa permettere al lettore di approfondire la conoscenza dell’uomo che ci ha dato Alice nel paese delle meraviglie - indiscusso capolavoro della letteratura mondiale e del tutto privo di morale, come d’altronde fu il suo autore» (dice la Duchessa, nel capitolo IX, Storia della finta tartaruga: «C’è sempre una morale, basta trovarla»; oppure, «Ogni cosa ha la sua mo-

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Vita romanzata rale, se sai trovarla», in altre traduzioni). Però, in immediata precedenza, valutando il morboso rapporto con le bambine -dopo aver rilevato che Lewis Carroll «si trovava a proprio agio soltanto in compagnia delle bambine che fotografava e con cui giocava» (e nel racconto esige anche un pedaggio dalle sue bambine, «una cosa da nulla [...], un bacio»)-, l’autrice osserva con trepidazione: «Che effetto fa a una bambina essere baciata da un adulto estremamente tattile, che poi la fotografa nuda? E se un’adolescente si fosse innamorata di lui? O viceversa?». Insomma, c’è proprio di che riflettere, magari cercando di comprendere lo spirito e il clima dell’Inghilterra vittoriana, di un mondo nel quale l’universo femminile era considerato in maniera diversa da come lo intendiamo oggi (e senza altri riferimenti in cronaca dei nostri giorni).

GERDA TARO Su questa linea romanzata, il recente La ragazza con la Leica, di Helena Janeczek -che dal titolo strizza l’occhio a una certa benevolenza diffusa (verso la Leica, ovviamente)-, rievoca e racconta la vita di Gerda Taro, facendolo a proprio modo. In ripetizione d’obbligo da quanto abbiamo appena considerato: «subito chiarita l’accettazione incondizionata dell’aspetto fantastico e fantasioso delle rispettive trame e dei relativi intrecci fotografici [dei racconti romanzati]». Se non che, questa Ragazza con la Leica non ci ha affatto convinto, né coinvolto. A questo proposito, e in onesta difesa dell’autrice, rileviamo una nostra prevenzione, nata ai tempi della lettura del suo precedente Le rondini di Montecassino, ambientato durante i terribili mesi del 1944 durante i quali gli Alleati cercarono di sfondare la resistenza delle linee tedesche, con quanto coinvolse i territori ciociari circostanti. Mal-educati dalla consistenza narrativa del film La ciociara, di Vittorio De Sica, del 1960, con protagonista Sophia Loren, nel romanzo non trovammo nulla di condivisibile: nello spirito (per la ricostruzione storica, lasciamo la parola ad altri). Sì, in forma avvertita (lo ammettiamo, riconoscendolo), siamo rimasti estranei alla narrazione. Comunque, non è giudizio definitivo, né lapidario: soltanto, è il nostro. Da cui, e in cammino individuale, ognuno affronti per e con se stesso.

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Gerda Taro Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, di Irme Schaber, traduzione di Elena Doria; DeriveApprodi, 2007; 264 pagine: 18,00 euro.

L’ombra di una fotografa Gerda Taro e la sua guerra di Spagna, di François Maspero, traduzione di Stefania Santalucia; Rosellina Archinto Editore, 2007; 136 pagine; 17,00 euro.

Quindi, per la personalità di Gerda Taro (convincente autorità fotografica, compagna di vita di Robert Capa; 1910-1937), osservata con altro punto di vista specifico (non in contrapposizione a questo narrativo, sia chiaro), rimandiamo ad altre letture. In particolare, rileviamo che, ignorata per decenni, la personalità di Gerda Taro è stata al centro di iniziative fotografiche e di contorno, concentratesi una decina di anni fa. Tutto potrebbe essere partito a cavallo del 2008 (dal 27 settembre 2007 al sei gennaio), con la consistente retrospettiva Gerda Taro, allestita all’International Center of Photography, di New York (alla cui esposizione temporale sopravvive l’ottimo catalogo omonimo; edizione europea a cura di Steidl: novantotto illustrazioni; 176 pagine 21,5x38cm, cartonato; 31,30 euro). In allineamento, ricordiamo le edizioni italiane di due saggi (biografie), pubblicati alla fine dello stesso 2007: L’ombra di una fotografa - Gerda Taro e la sua guerra di Spagna, di François Maspero, traduzione di Stefania Santalucia; Rosellina Archinto Editore, 2007 (136 pagine; 17,00 euro); e Gerda Taro Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola, di Irme Schaber, traduzione di Elena Doria; DeriveApprodi, 2007 (264 pagine: 18,00 euro). Ancora, e poi basta, rimandiamo anche e soprattutto allo Sguardo su,

di Pino Bertelli, in FOTOgraphia, del luglio 2008. Da cui: «La fotografia in azione di Gerda Taro è anche e soprattutto una fotografia di resistenza. A differenza di Robert Capa, che ha un rapporto empatico, coinvolgente o più semplicemente diretto con ciò che fotografa, la piccola ragazza ebrea, educata nei buoni collegi, aperta a tutte le esperienze in amore, elabora una visione fotografica discreta, mai invadente, sempre un po’ defilata o leggera su quanto accade davanti alla sua macchina fotografica (alternativamente Rolleiflex e Leica). I suoi ritratti sono sorretti da una certa serenità descrittiva, e specie nei bambini si nota molto la tenerezza e la dolcezza che coglie sui loro volti, i loro corpi, i sorrisi felici di una rivoluzione sociale destinata ad essere sconfitta». In una chiave interpretativa per la quale «La filosofia della fotografia di resistenza è necessaria per portare alla coscienza (individuale e collettiva) la radicalità della pratica fotografica e resta una forma di liberazione non solo del linguaggio fotografico, ma anche della possibilità di disvelare e riorientare il disagio della civiltà dello spettacolo in amore tra gli Uomini e Donne che non chiedono solo il pane, ma anche le rose e la costruzione di una società tra liberi e uguali». Romanzo o non romanzo! ❖



Sessant’anni fa di Antonio Bordoni (Franti)

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L AIKA (NON LEICA)

Prologo lungo e allungato, ma necessario... forse. Rievocazione d’obbligo, volontariamente scartata a lato e altrettanto consapevolmente compilata, ma -comunque- estranea a molto, ma non a tutto, declinata sull’omofonia tra l’identificazione Leica (apparecchio fotografico e marchio di fabbrica) e la cagnetta Laika: la cui vicenda emozionò e commosse il mondo, quando, il 3 novembre 1957, sessant’anni fa (in tempi e modi di nostro inizio di cammino scolastico... prima elementare), venne lanciata nello Spazio all’interno di una minuscola capsula spaziale sovietica, lo Sputnik 2 (oppure Sputnik II). Nell’autunno 1957, si era agli albori delle missioni spaziali; ma -soprattutto- ciascuno di noi era allora capace di intenerirsi e appassionarsi con naturalezza e spontaneità, senza bisogno di essere indotto e pilotato a farlo da una stampa o una politica appositamente studiata e calcolata a tavolino: come avviene oggi, con turbamenti, apprensioni e tenerezze precotti, spesso artificiosamente speziati, abilmente confezionati dai persuasori di turno (sempre meno occulti). Indipendentemente dai fatti sovrastanti, che pure stiamo per ricordare, la storia della cagnetta Laika prese il cuore senza che qualcuno avesse deciso, né previsto, che così avrebbe dovuto o potuto essere. Sessant’anni dopo il proprio svolgimento, da tempo, la vicenda di Laika è stata definitivamente e ufficialmente chiarita da recenti rivelazioni autorevoli e accreditate, che smentiscono le versioni artefatte dei tempi. Allora, addirittura sorpreso dal successo del primo Sputnik, il cui lancio sbalordì il mondo, il premier Nikita Sergeevič Krusciov (Chruščëv), primo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (Pcus) dopo Stalin, intuì presto il potere propagandistico del programma spaziale, per certi versi apparentemente più avanzato di quello statunitense. Lanciato il 4 ottobre 1957, il primo dei satelliti artificiali sovietici fu immesso in un’orbita ellittica compresa tra 940 e 227km (rispettivamente

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (6)

Sessant’anni fa

apogeo e perigeo), nella quale rimase fino al successivo 4 gennaio 1958. Diversamente da oggi (?), allora la Guerra Fredda si combatteva con ogni mezzo, e dunque il direttore del programma, l’ingegner Sergej Pavlovic Korolëv, a capo della ricerca missilistica sovietica dal 1932, venne “sollecitato” ad affrettare tempi e modi. Soprattutto una data incombeva sul calendario: quella fatidica del 7 novembre 1957, quarantesimo solenne anniversario della rivoluzione bolscevica dell’autunno 1917 [FOTOgraphia, ottobre 2017]. Con poco tempo per studiare e testare i dettagli operativi, gli scienziati sovietici dovettero costruire in tutta fretta un satellite capace di portare a bordo anche un animale, un essere vivente. Si optò per un cane, e tre dei randagi precedentemente catturati per la strada (proprio per questo scopo), vennero addestrati per il volo: si supponeva che un randagio avesse più risorse proprie di sopravvivenza,

Fotografia ufficiale della cagnetta Laika all’interno dello Sputnik 2 (pagina accanto). Quindi, emissioni filateliche celebrative. Foglio Souvenir di Gibuti, del 2013, in una serie relativa alla conquista dello Spazio (qui sopra). Emissione romena del 10 dicembre 1957 (a destra, in alto; con replica romena, del 15 dicembre 1963, e ungherese, del 9 maggio 1963). Guinea-Bissau, nel cinquantenario, 26 novembre 2007 (qui, a destra) e cartolina sovraffrancata dalla Bulgaria, del 28 ottobre 2011 (pagina accanto).

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ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Sputnik: apparecchio fotografico stereo sovietico, del 1954 (circa), la cui definizione richiama il programma spaziale, appena avviato nel paese. Per riprese stereo 6x13cm (56x55mm per due), su pellicola a rullo 120. Commercializzata assieme a un visore stereo in metallo e a un torchietto per la stampa a contatto dei fotogrammi, venne prodotta a Leningrado, nella prima fabbrica sovietica dedicata alla fotografia: Gomz... oggi (ieri) Lomo (ecco qui, Lomo!). Quindi, doppia pagina di apertura da FOTOgraphia, maggio 1999.

ANTONIO BORDONI

Sessant’anni fa

rispetto animali coccolati e viziati in ambito familiare. Alla fine, si scelse la randagia Laika (che in russo vuol dire “che abbaia”), le cui attitudini e risposte furono considerate migliori di quelle delle riserve Albina e Musha. La piccola Laika venne sigillata nella microscopica capsula, cronologicamente Sputnik 2 (oppure Sputnik II). Era legata, per non muoversi, e collegata a una serie di elettrodi, che avrebbero misurato le reazioni dell’organismo. Per mille motivi, molti dei quali effettivi, altri contingenti, la dotazione tecnica fu ridotta al minimo indispensabile. In tutti i casi, non era previsto il ritorno a Terra, e Laika sarebbe stata sacrificata al bene della scienza: primo essere vivente inviato nello Spazio, sulle cui reazioni il programma spaziale avrebbe potuto compiere giganteschi balzi in avanti, nell’ipotesi del lancio in orbita di un essere umano (che sarebbe poi stato il cosmonauta Jurij Alekseevič Gagarin: il primo uomo lanciato nello Spa-

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zio, con la Vostok 1, il 12 aprile 1961). Comunque sia, allora fu precisato che -nonostante tutto- il sacrificio non sarebbe stato inumano. Tanto che la cagnetta Laika disponeva di una autonomia alimentare sufficiente per completare la propria missione. Le batterie dello Sputnik 2 avrebbero potuto funzionare almeno una settimana, e Laika era in condizioni di vivere altrettanto. Così venne affermato allora: la pietà per il suo sacrificio si compensava con l’orgoglio scientifico collettivo, che lasciava intravedere all’Uomo traguardi fino allora impensati. Come già accennato, recenti rivelazioni di testimoni oculari del tempo, non più vincolati dai rigori e ritorsioni del Socialismo sovietico, hanno invece raccontato un’altra verità. Forse, questa volta, la Verità. La cagnetta Laika non morì sette giorni dopo il lancio del 3 novembre 1957 per una -tutto sommato- dolce eutanasia (peraltro prevista), ma morì subito, poche ore dopo aver lasciato la rampa di lancio. Con lei, ano-

Curiosa presenza di Laika e Sputnik 2 (perché, poi?) in un foglio Souvenir di São Tomé e Príncipe, emesso il 4 aprile 2006 a ricordo dei Ventesimi giochi olimpici invernali, di Torino 2006, dal dieci al ventisei febbraio precedenti.

nima randagia entrata nella Storia per la porta principale, la Natura fu più benigna di quanto non lo siano stati gli Uomini: Laika morì di paura. Il precario sistema di condizionamento si guastò subito, e nella capsula la temperatura salì ben presto a livelli insopportabili. Il cuore di Laika, del quale gli strumenti avevano già registrato un previsto ritmo anomalo al momento del lancio, tornò a battere violentemente, sino a che il panico non la stroncò presto. Fu comunque un bene, per lei. La paura le risparmiò un dramma ben peggiore, quello di bruciare viva in un involucro trasformatosi in autentico forno. A completamento, un’ultima annotazione finale, ulteriore la vicenda di Laika. Nel 1961, lo scimpanzé Enos (o Ham) fu la risposta statunitense alla sovietica Laika; con la prima navicella Mercury raggiunse i duecentocinquanta chilometri di quota e rientrò a Terra: copertina e ampio servizio in Life, del dieci febbraio. ❖ Sessant’anni sono passati.



Cinema

di Maurizio Rebuzzini - Ricerca iconografica di Filippo Rebuzzini

GEORGIA O’KEEFFE

A

Abituati come siamo (disabituati come siamo!) all’attualità spettacolare dei nostri tristi giorni italiani, nei quali troppo “giornalismo”, in forma di pettegolezzo, altrettante complicità e relativi favoreggiamenti di comodo considerano sostanziali e fondamentali le vite private di personaggi del palinsesto televisivo di basso profilo (quello che consente e alimenta anche quel territorio grigio, almeno grigio, entro il quale possono nascere e proliferare deviazioni delle quali stiamo dibattendo oggi; leggi: corruzioni a sfondo sessuale, per le quali siamo anche noi vittime, oltre i protagonisti [in Editoriale, a pagina sette, su questo stesso numero]), potremmo avere difficoltà nel comprendere quella comunione di spirito e intenti che -spessounisce/ha unito due personalità e autorità d’arte: in un tragitto paritetico e proficuo in andata-e-ritorno. Se vogliamo vederla e intenderla anche così -e lo vogliamo fare... proprio-, questo è il motivo conduttore e ispiratore di un eccellente film televisivo statunitense del 2009, prodotto da City Entertainment in associazione con Sony Television: Georgia O’Keeffe, diretto da Bob Balaban, su sceneggiatura di Michael Cristofer. La sua presentazione ufficiale, a decodifica del titolo (che per gli americani già da solo basta, data la statura della pittrice evocata), afferma che «Her Life Was a Work of Art», ovvero La sua vita è stata un’opera d’arte. L’avvicinamento al film non è facile, e neppure popolare. Saremo anche inadatti a una approfondita ricerca in Rete, ma abbiamo rintracciato soltanto un’edizione Dvd originaria, in lingua inglese, con sottotitoli in cantonese, francese, giapponese, coreano, portoghese e spagnolo. Dunque... Comunque, e a riprova di una cinematografia di spessore e valore, peraltro certificata anche -e se servissedalla statura interpretativa dei due attori protagonisti (Joan Allen e Jeremy Irons), assicuriamo che si tratta di un bel film, che scorre via senza inciampi, che fa passare bene un’ora abbondante (ottantanove minuti di montaggio) e che, volendo, offre ed elargisce

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avvincenti e convincenti spunti individuali di pensiero e riflessione. A questo punto, e ancora in anticipo su considerazioni specifiche sul film, che saremo obbligati a redigere, è opportuno riflettere sul senso di pensiero, appena evocato (e sono queste deviazioni che definiscono, magari qualificandola, la personalità di questa rivista... forse). Allora, sia chiaro, pensare non è soltanto un esame sistematico di dati immagazzinati nella mente. Meglio, e più nel profondo, pensare è un processo di collegamento costruttivo tra una informazione e le altre. Infatti, la mente può essere intesa come un enorme deposito che contiene ogni fatto a noi noto dentro un insieme di scatolette della memoria, diciamola così. Ogni scatoletta, ogni cartella di file (diciamola ancora così), può venire aperta per consentire l’esame del contenuto: ma, se ci limitiamo a questo, il procedimento finisce per essere sterile. Invece e però, se conserviamo la disciplina mentale per esaminare il significato e il senso dei fatti, se possiamo porli a confronto con altri fatti correlativi, saremo allora in grado di raggiungere una conclusione mediante l’esercizio della forza costruttiva del pensiero. In deviazione -volontaria, consapevole, convinta e ricercata-, questa è la

Film televisivo statunitense, del 2009, prodotto da City Entertainment in associazione con Sony Television, e diretto da Bob Balaban, su sceneggiatura di Michael Cristofer, Georgia O’Keeffe si svolge in forma biografica. È l’incontro di due esistenze prestigiose, di due alte personalità d’arte: la pittrice Georgia O’Keeffe e il fotografo Alfred Stieglitz, rispettivamente interpretati da Joan Allen e Jeremy Irons.

Georgia O’Keeffe e Alfred Stieglitz in ritratti posati di Arnold Newman e Cecil Beaton, del 1944 e 1945 circa.


Cinema filosofia e trasversalità di questa stessa rivista, FOTOgraphia, della quale, per la prima volta nei nostri ventitré anni edizione, riferiamo. Ora, è stato inevitabile farlo: nella consapevolezza di una strada assurda, verso la quale ci siamo incamminati. A dispetto della propria testata, che comunque stabilisce un sostanziale indirizzo obbligato, siamo più una rivista di parole che di altro. Siamo una rivista che va letta... ahinoi! Comunque, e rientrando in tema, dal quale siamo partiti per deviare altrove e altrimenti (sempre in rispetto al pensiero), il film televisivo Georgia O’Keeffe riguarda anche il mondo della fotografia, al quale -in tanta misura- dobbiamo rispondere (dovremmo rispondere), in merito e dipendenza dal fatto che la straordinaria e talentuosa pittrice statunitense (Georgia O’Keeffe, per l’appunto; 1887-1986, una di coloro i quali hanno sfiorato il secolo di vita, illuminando il mondo nel proprio cammino) è stata moglie del fotografo Alfred Stieglitz (1864-1946), al quale dobbiamo tanta e tanta riflessione visiva, per quanto non sempre condivisa. In questo senso, è esemplare lo Sguardo su, di Pino Bertelli, pubblicato in FOTOgraphia, del novembre 2015. Mentre troppa critica fotografica si limita alla superficie, a tutti apparente, e alla riproposizione di opinioni altrui, e precedenti, il caustico Pino Bertelli è andato a fondo, lungo un percorso ideologico che gli appartiene, come appartiene a quell’onestà individuale entro la quale molti amano riconoscersi (noi, tra questi). In ogni caso, personalmente orientati altrimenti (a ciascuno, la propria esistenza), non ci interessa soffermarci sul concetto borghese e asettico di Alfred Stieglitz, ebreo benestante di inizio Novecento (sulle cui consecuzioni di pensiero si accanisce Pino Bertelli, rafforzate dalla trasversalità culturale e sociale della sua acclamata fotografia The Steerage, del 1907), né, tantomeno, sul presunto valore di certa sua fotografia amata dalla critica senza tempo (sopra tutto, gli Equivalent, degli anni Venti del Novecento), né, ancora e poi basta, sulle trasversalità dell’edizione del leggendario periodico Camera Work (cinquanta numeri in quarto -21x29cm-, ognuno stampato in mille copie, dal 1905 al 1917), della creazione della antesignana 291 Gallery (con Edward Steichen, in Fifth Avenue, a New York

Comunione di spirito e intenti che ha unito due personalità e autorità d’arte, in un tragitto paritetico e proficuo in andata-e-ritorno. In combinazione nostra, e tante altre se ne potrebbero visualizzare: Alfred Stieglitz ( From the BackWindow 291; 1915) e Georgia O’Keeffe ( Radiator Building Night, New York; 1927); e Georgia O’Keeffe ( Blue and Green Music; 1919) e Alfred Stieglitz ( Equivalent; 1925).

City, nel 1903) e della teorizzazione di una Photo-Secession (nel 1902, con Gertrude Käsebier, Edward Steichen, Clarence White, Alvin Langdon Coburn, Frank Eugene, Annie Brigman, Alice Boughton e Joseph T. Keiley: «Dare un nuovo spunto al pittorialismo verso nuovi confini ed esporre immagini non solo del gruppo e non necessariamente americane»). No! Non ci interessa farlo... perché siamo buonisti. Detta meglio: perché a una sola bandiera rispondiamo. Quella della comprensione delle diversità, qualsiasi cosa questo significhi, in qualsiasi modo queste si manifestino. Fatta salva una onestà civica di fondo, sono proprio le diversità che accrescono e alimentano il nostro pensiero (qualche riga fa!). Dunque, e a concludere, due doveri/diritti ancora. Anzitutto, qualche dettaglio sul film Georgia O’Keeffe, che agli Emmy Awards 2010 (riservati a produzioni televisive) ha ricevuto nove nomination, tra le quali Outstanding Made for Television Movie, Outstanding Lead Actress (Joan Allen, nei pan-

ni della protagonista assoluta Georgia O’Keeffe) e Outstanding Lead Actor (Jeremy Irons, nel panni di Alfred Stieglitz, suo marito: detta meglio, suo compagno di esistenza). Il film è stato anche nominato per tre Golden Globe 2009 e altri tanti riconoscimenti, fino al punto di aver guadagnato più nomination totali in tutta la storia della potente trasversalità Lifetime Television; ovvero, è il film televisivo più acclamato dalla critica nella storia di Lifetime. Ma a noi, ma a noi che anteponiamo la frequentazione della Fotografia a tanto altro (seppure, speriamo, non a tutto), cosa ci interessa di tutto questo? Nulla, se non che, meglio e più cortesemente di tanto altro, il film Georgia O’Keeffe racconta del connubio esistenziale di due anime artistiche, una delle quali dichiaratamente fotografica. Oppure, e fa lo stesso, limitiamoci a seguire le vicende di veline, calciatori, conduttori televisivi e presenzialisti tv, ciascuno con propri relativi intrecci amorosi. Basta chiarirsi. ❖

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PER QUANTO...


DETTAGLIO

DAL DÉPLIANT DELLA

NIKON F

NIKON F

DELLA METÀ DEGLI ANNI

SESSANTA / ARCHIVIO FOTOGRAPHIA


di Maurizio Rebuzzini

O

gnuno di noi percorre la propria Vita. Ci mancherebbe altro! Nella stessa propria Vita, ciascuno di noi è sorretto e aiutato da conforti e sostegni grazie ai quali e con i quali ha edificato proprie convinzioni e maturazioni. Non ci sono percorsi migliori di altri; soltanto... ci sono percorsi. Tanto basta, tanto serve. Per quanto le singole esistenze possano anche essere complesse e complicate, magari anche soltanto articolate, ognuno può sempre contare su piazzole di conforto, di protezione, di intimità entro le quali e sulle quali fondare propri sollievi, magari effimeri, magari artificiosi, ma sempre consolanti, incoraggianti, rassicuranti, rasserenanti. In una parola... rinfrancanti rispetto le insidie del vivere quotidiano, spesso compromesso da influenze esterne, non sempre controllabili. Tralasciando tanto altro, che ognuno di noi conserva nel proprio Cuore e che alcuni di noi (io, tra questi) cerca di non lasciare mai trasparire, per quel dovere di vivere comune e insieme che impone confini, che richiede dogane invalicabili, anche e soprattutto da queste pagine e su queste pagine, il territorio comune richiede la condivisione di termini che siano sostanzialmente fotografici. Da cui... Strana, la memoria. Strano, il ricordo. Per quanto mi sforzi di pensarci, non riesco proprio a ricordare la prima volta che ho sentito nominare “Nikon”, marchio fotografico e produzione di straordinarie reflex (lascio perdere il resto) che -data la mia professione in fotografia- ha accompagnato la mia vita adulta. Potrei richiamare i mesi passati al banco di un celebre e celebrato indirizzo commerciale di Milano, alla fine degli anni Sessanta, quando la Nikon F era al vertice del mercato: per prezzo di vendita, lo ricordo bene centottantamila lire (io ne guadagnavo trentacinquemila al mese), e per caratteristiche. Ma non penso di aver incontrato allora Nikon per la prima volta, perché sono certo di averne avuta già coscienza e conoscenza. Però, allo stesso momento, ricordo molti aneddoti e altrettante storie che riguardano Nikon, e su queste mi soffermerò più avanti; non prima, sia inteso, di una riflessione e considerazione a monte, che inserisce l’epopea Nikon in un contenitore più generale, e per questo vasto. Da una parte, c’è la storia Nikon, segnata e tratteggiata da una identificata serie di consecuzioni ufficiali, stabilite da date certe (abbiamo riassunto lo scorso settembre). Dall’altra, il concreto e fattivo contributo che Nikon ha dato alla storia espressiva della fotografia, che assegna propri capitoli fondamentali e discriminanti al fotogiornalismo che si è distribuito sui decenni, a partire dai Sessanta (almeno), e che ha vissuto un proprio momento epocale con la guerra del Vietnam: tra l’altro efficacemente rievocata in una identificata serie di film, tra le cui sceneggiature e scenografie fa appunto capolino sempre l’im-

mancabile Nikon F, nella propria versione semplice, come anche nella configurazione dotata di pentaprisma esposimetrico Photomic (ne abbiamo scritto lo scorso novembre).

RICORDI (NON MEMORIA) Però, anche se non rammento il quando, così come ho esordito (e poi concluderò cambiando ritmo e rivelando altro), sono perfettamente consapevole del come e perché. Tanto consapevole, che i ricordi personali della mia vita con Nikon salgono in superficie presto e facilmente. La mia vita con Nikon... ovvero la vita di una generazione (sono nato nel 1951) che si è avvicinata alla fotografia con entusiasmo e l’ha frequentata con concentrata convinzione. Ricordi personali... che -senza soluzione di continuità- passano dalla più concreta realtà all’eterea materia della quale sono fatti i sogni e le speranze. In momenti relativamente vicini, nella primavera 2001, con l’occasione della riedizione in chiave moderna dell’antica Nikon S3, in versione celebrativa del Millennio, sono tornati d’attualità i fasti delle Nikon a telemetro, precedenti la reflex Nikon F originaria. Si tratta di una epopea di eccezionale valore tecnico e tecnologico, che ha segnato gli anni che dalla seconda metà dei Quaranta si sono estesi a tutti i Cinquanta. Però, per quanto siamo oggi consapevoli di quell’antica grandezza fotografica, bisogna riconoscere che l’autentico mito Nikon nasce e si consolida appunto dalla reflex Nikon F, la prima a sistema: oltre gli obiettivi, intercambiabili anche i mirini (compreso il pentaprisma esposimetrico Photomic), i vetrini di messa a fuoco e il dorso, con combinazione tra la capacità di cinque metri di pellicola per duecentocinquanta pose e l’efficacia del motore di avanzamento automatico dopo lo scatto [tutti valori tecnici risibili, se confrontati con l’esuberante attualità tecnologica su base digitale]. Proprio la definizione e quantificazione di “sistema” sollecitò, ai tempi, la ricerca di informazioni dettagliate. È difficile dirlo a coloro i quali, oggi, navigano in Rete, ma allora ci si doveva affidare al passaparola e a poche documentazioni cartacee. Ricordo perfettamente la copertina del dépliant della Nikon F, ancora gelosamente conservato in libreria, con l’inconfondibile e agognata sagoma del pentaprisma (a punta) che sormonta un cielo al tramonto [a pagina 30; in dettaglio, a pagina 26]. Ma, soprattutto, ricordo un volume-culto: Il libro Nikon, pubblicato nel 1970 da ComproCasa Editrice, affiliazione dell’allora distributore Cofas, di Roma, identificato per la sua copertina rossa [FOTOgraphia, settembre 2017]. La redazione è attribuita a Giorgio Bianchi, ma oggi so chi stava dietro le quinte, garantendo dei contenuti. Tra i tanti riconoscimenti che merita, Giulio Forti, creatore del mensile Fotografia Reflex (che, purtroppo, ha cessato le pubblicazioni nell’autunno 2016), può vantare di essere stato l’autentico artefice di questa straordinaria opera di consultazione, sulla quale in molti abbiamo passato le ore e i giorni, spiando tra le pieghe del sistema e sognando l’irraggiungibile (per me, almeno). Tra l’altro,

Volente o nolente, cronologia a parte (che, per certi versi, abbiamo cadenzata lo scorso settembre), una certa storia Nikon, quella che cementa l’attuale centenario 1917-2017, si deve alla Nikon F: non soprattutto, addirittura soltanto... forse... certamente. Memorie, ricordi e riflessioni che si allungano sui decenni, durante i quali si sono affermati i connotati del Mito Nikon, produzione fotografica con l’impronta della Leggenda. Quarto e ultimo capitolo di un rievocazione declinata in consapevole equilibrio: dal cuore alla mente. E viceversa 28


QUEGLI ANNI SETTANTA

Al bar Casablanca / con una gauloise / la nikon gli occhiali E sopra una sedia / i titoli rossi / dei nostri giornali Blue jeans scoloriti / la barba sporcata / da un po’ di gelato Parliamo parliamo / di rivoluzione / di proletariato

Questo indimenticabile refrain di una canzone di Giorgio Gaber (Al bar Casablanca, appunto, del 1972, dal Teatro Canzone Dialogo tra un impegnato e un non so), la dice lunga su cosa ha rappresentato Nikon per la fotografia negli anni Sessanta e Settanta. È il mito, l’archetipo junghiano della macchina fotografica. Leica, che fino a un certo punto della Storia è sinonimo del trentacinque millimetri, cede lo scettro a Nikon. Non ci sono ragioni di marketing o comunicazione, più massiccia o più efficace. Per fortuna, la situazione non è ancora come ai giorni nostri, nei quali può capitare che un prodotto si affermi più per propaganda che per qualità proprie. Ci sono ragioni pratiche, che provocano il passaggio di questo prestigioso scettro, c’è un passaparola. Nonostante la Leica a telemetro sia ancora usata da molti prestigiosi autori [allora, come ancora oggi, in sua attualità digitale], finisce per autoconfinarsi in uno splendido isolamento. Non ero digiuno di fotografia, allora. Dall’età di dieci anni, avevo cominciato a prendere in mano una macchina fotografica, una di quelle di mio padre, una Rolleiflex 6x6cm e una Leica IIIg (forse IIIg), poi una Contaflex (ovviamente, subito dopo la Guerra, per chi poteva permetterselo, il riferimento era tedesco). Diventando più grande, caddi innamorato di Nikon. Avevo visto Blow-Up e la Nikon F, agile e maneggevole, nelle mani del fotografo di moda (David Hemmings). Avevo visto Z - L’orgia del potere, dove un giovane giornalista (Jacques Perrin) scatta con una Nikon F motorizzata le fotografie fondamentali di un’inchiesta politica. Rimasi stregato. Certo, le vecchie macchine erano ancora lì, in casa. Ma mi ero sentimentalmente nikonizzato. Non solo platonicamente. Consumavo il fidanzamento con due F motorizzate, un 28mm f/2, l’85mm f/1,8 e il 180mm f/2,8. A un certo punto, feci una scappatella: comperai una Leica M2 con un Elmarit 90mm f/2, per il ritratto, a proposito del quale avevo letto meraviglie. In camera oscura, cercavo le differenze tra i ritratti fatti con il Nikkor 85mm e l’Elmarit. Erano tempi delle linee per millimetro, del cerchio di confusione, del microcontrasto. Erano tempi nei quali, nei circoli fotografici, imperversava l’esasperazione della tecnica, così ben sintetizzata dal personaggio Ventundin, di Bruno Bozzetto [Le avventure di Ventun Din, fotoamatore, pubblicato nel 1972, da Il Castello]. Memorabile la scena che si svolge in un circolo fotografico, dove un nuovo adepto presenta per la prima volta proprie stampe: uno dei membri anziani fa notare la presenza di un pelino non spuntinato. Subito, il coro dei soci alza l’anatema: PELISTA! Un altro socio individua addirittura la presenza di un fascio di peli. E, immediatamente, scatta il nuovo anatema: FASCISTA! Quelli furono gli anni d’oro della fotografia. Life vendeva ancora otto milioni e mezzo di copie, e coraggiosi fotogiornalisti rischiavano (e a volte perdevano) la vita per raccontare il Vietnam. A proposito di Vietnam, nel suo ultimo libro La fine è il mio inizio, pubblicato postumo, nel 2006, a cura del figlio Fosco, Tiziano Terzani, mancato nel luglio 2004, scrive: «Poi, quando andai in Vietnam, mi attrezzai con le macchine [fotografiche] che a quel tempo erano di moda, una Nikon e una Nikkormat con lo zoom. Pesanti erano, ma io avevo una borsa e me le portavo sempre dietro». Quelli furono gli anni nei quali molti giovani sognavano di diventare fotogiornalista. Gli anni nei quali questi giovani investivano ciò che per loro era una fortuna per comperare una Nikon. E il sogno poteva diventare realtà. Ne ho parlato con Mauro Vallinotto, uno dei grandi fotogiornalisti italiani, da tempo apprezzato photo editor. Riporto quello che mi ha riferito, perché rappresenta un paradigma dei sentimenti

fotografici di allora. Mi ha raccontato che, da ragazzo, ha abbandonato gli studi di ingegneria per la fotografia; ricorda la sua prima Nikon: «Era il sei giugno del Sessantasette. A Torino, faceva un caldo bestia. In Egitto, all’alba di quel giorno, i carri israeliani erano entrati nel Sinai, dando inizio alla Guerra dei sei giorni. Ero sceso dal tram numero tredici, alla stazione di Porta Nuova, con molta circospezione. In tasca, avevo centoquarantacinquemila lire, frutto di fatiche e risparmi di mesi. La mia meta era Foto Ganio, nel vicino corso Stati Uniti, dove mi aspettava una Nikkormat FTN con il classico Nikkor 50mm f/2. La sua pelle sapeva di buono, non come le orribili Zorki sovietiche, ingrassate con olio di balena. I suoi documenti erano in regola, garantiva la Cofas, di via Sistina 48, a Roma. La coccolavo e strapazzavo, era lei sola al centro del mio interesse. Avrei atteso mesi, per poterle dare dei figli, come il 28mm f/3,5 e il 105mm f/2,5. Eravamo felici insieme. Poi, un giorno, sfogliando un numero di Popular Photography, vidi altre Nikkormat, simili a lei, ma che si chiamavano “Nikomat”. Mi sentii tradito. Gli americani, pensai, hanno sempre ragione, quindi la mia amata era, come minimo, frutto di una relazione equivoca. Passai settimane d’inferno. Poi, un sant’uomo che si chiama Jacopo Ferri [uno dei giganti del commercio fotografico in Italia, da tempo in pensione: ahinoi, altri momenti, altre persone], mi chiarì l’arcano, frutto delle politiche distributive di Nikon nel mondo. Mi sentii in colpa per i miei sospetti, e quello fu l’unico (supposto) tradimento della mia Nikkormat. Che non fece altro che rinsaldare il nostro legame». Proprio così: anche Mauro pensa che le macchine fotografiche siano delle specie di fidanzate con le quali intrattenere un rapporto amoroso. Poi, vengono gli anni Ottanta, un po’ di crisi negli ideali. C’è la speculazione sull’argento, che porta alle stelle i prezzi delle pellicole e delle pilettine degli esposimetri a base di ossido d’argento. Nikon esce con la F3 (disegnata da Giorgetto Giugiaro), che permette di risparmiare energia. Grazie Nikon! Gli anni Ottanta, si sa, rappresentano un po’ la crisi di tutto. Il digitale è alle porte. È un macello, non solo per l’attrezzatura, ma anche per i modi di lavorare. Ancora Tiziano Terzani: «In Vietnam, avevo anche una ragione per invidiare i fotografi. Tu immagina come coprivamo questa guerra strana. Si partiva alla mattina col taxi, si andava al fronte, si stava via sei, sette, otto ore: poi, verso il tramonto, si tornava in albergo. Quei puzzoni andavano in camera, facevano la doccia e poi... via! Al bar a bere e chiacchierare. Il loro lavoro era finito. Il mio invece cominciava. Avevo ancora da scrivere il pezzo. Tutto quello che avevo visto e sentito, se non lo scrivevo, era come se non lo avessi vissuto. Invece, i fotografi avevano già finito. Prendevano il rotolino, lo mandavano con un “piccione” all’aeroporto, lo facevano partire per Singapore o Hong Kong. E ti saluto. / Folco: Non lo sviluppavano nemmeno? / Tiziano: No, non lo sviluppavano». In compenso, oggi, c’è Internet, dove ciò che ti interessa è più facile da trovare di un ago in un pagliaio, ma la vita non è comunque altrettanto semplice. Siamo nel campo dell’incertezza. I formati dei sensori creano confusione nel pubblico: a proposito di lunghezza focale degli obiettivi, il 28mm cosa è? il profilo colore serve, oppure no? meglio scattare in Raw o Jpeg? Comunque, il digitale ha portato anche nuova linfa. Tra gli appassionati, scoppiano nuovamente timide -ma ostinatediscussioni sui Megapixel, che ricordano quelle di Ventundin. Speriamo che l’onda sia lunga e duri per tanto tempo. Nikon è sempre lì, una sicurezza per gli appassionati. Se devi acquistare una macchina fotografica, il mercato è diventato un ginepraio; ma se comperi Nikon non sbagli mai. Sai qual è la sensazione, anche se hai al collo una compatta? Che Nikon non faccia niente di amatoriale, anche il modello più amatoriale che c’è ha una fortissima personalità professionale. Lello Piazza

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in pertinente combinazione con i testi, le illustrazioni sono ancora oggi avvincenti: lo abbiamo saputo, tutti scatti in negativo bianconero 4x5 pollici con Sinar Norma (altra leggenda della storia tecnica della fotografia [FOTOgraphia, settembre 2014]). In quegli anni, immediatamente seguenti le origini del Mito, la Nikon F era tanto e talmente un Sogno, che il mensile Photo 13 identificò come Vorrei avere una Nikon (circa) una rubrica di considerazioni, osservazioni e analisi redatte dalla parte di un ipotetico appassionato (medio). E nelle compagnie di amici, chi aveva la Nikon F era guardato e considerato con profonda ammirazione, soprattutto dalle ragazze, che davano valore a questo (altri tempi! altra vita! altro clima!).

A CONTORNO DELLA NIKON F Nikon F, diciamo sempre, ma non tutti potevano permettersela; così, per rimanere accanto al Mito, molti comperavano e usavano la Nikkormat: io tra i tanti. Non era a sistema, non vantava le intercambiabilità della reflex di vertice, ma era una trentacinque millimetri di invidiabile efficacia. Solo che... non era la Nikon F: e, dunque, spesso, la si viveva come ripiego, privandola così di una propria dignità e personalità. Giustizia le sarebbe stata fatta decenni dopo. In Ospite d’inverno (The Winter Guest ), film inglese del 1997, diretto da Alan Rickman, la protagonista Frances (Emma Thompson) usa proprio una Nikkormat, riflettendo sulla quale sottolinea che «Vede quello che dico io. Di volta in volta, scopre l’animo delle persone, vede quello che hanno dentro, se si lasciano andare. [...] Se sono fortunata, mi mostrerà anche i loro segreti, li porterà allo scoperto, uno ad uno» [più recente evocazione, in FOTOgraphia, dello scorso novembre]. Certo, non solo la Nikkormat è tale, ma la citazione si riconduce a una Nikkormat, e così la registriamo. Quindi, Nikon F (che poi sarebbe diventata F2, F3... fino alla F6, con la quale si è conclusa la genìa della pellicola fotosensibile [FOTOgraphia, novembre 2004]) e Nikkormat. Questa scala gerarchica deve aver messo a disagio anche i piani commerciali del produttore, che dalla fine dei Settanta, a partire dalle FM e EL2, entrambe del 1977, ha smesso le distinzioni, identificando come “Nikon” tutte le sue reflex e le compatte a seguire. Così che, il richiamo e riferimento è presto emigrato dal solo ambito specialistico, per abbracciare tutto il pubblico della fotografia. La storia privata Nikon, soprattutto tecnica, è tanto endemica nel mondo fotografico, che ancora oggi capita di ri-vedere un gesto datato, che data anche chi lo compie. Una volta innestato l’obiettivo alla baionetta Nikon di una reflex dei nostri giorni, sicuramente autofocus, inderogabilmente ad acquisizione digitale di immagini, c’è ancora chi ruota fulmineamente la scala dei diaframmi (quando c’è ancora) verso le due estremità: dai valori chiusi all’apertura relativa e viceversa. Oggi, questa azione serve a nulla. Invece, era necessaria con la Nikon F, non più con la F2 e successive, e le Nikkormat coeve. Nella montatura degli obiettivi di quel tempo (remoto), serviva per assicurare che la forcella di trasmissione del diaframma comunicasse l’apertura relativa dello stesso obiettivo al sistema esposimetrico, che -appuntodipendeva da una simulazione di ordine meccanico. Chi oggi continua a compiere quel gesto rivela la propria anagrafe, oltre i propri trascorsi tecnici. Ha più di tot anni, non importa quanti (a ciascuno, i propri), perché fotografa dai tempi delle Nikon F e Nikkormat. Lo stesso dicasi, in altro ambito, per chi fa la “doppietta” quando cambia marcia in automobile, rievocando il cambio non sincronizzato del passato remoto. Però, tra fotografia e guida dell’automobile le differenze sono sostanziali. A parità di condizionamento involontario dei gesti,

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il discorso sulla fotografia stabilisce i connotati e la solidità di una storia, quella Nikon nello specifico, che vanta profonda influenza sulla Storia della stessa Fotografia, molti capitoli della quale sono stati appunto raccontati con la Nikon all’occhio.

IN EFFETTI... NIKON F Tanto che, nel proprio percorso, il Museo Nazionale Alinari della Fotografia (MNAF), inaugurato a Firenze alla fine dell’ottobre 2006 [FOTOgraphia, dicembre 2006], ha riservato a Nikon, visualizzando nello specifico una Nikon F, una delle otto tematiche con le quali ha sottolineato i cardini dell’evoluzione tecnologica della fotografia (più nove categorie in miscellanea). Leggiamo dal catalogo che commenta l’esposizione permanente del Museo [che, nel frattempo, ha subìto le ingiurie della vita politica italiana, perdendo la propria sede e dovendo soccombere ad altri equilibri cittadini]. «In tempi tecnici e sociali di altra cadenza, soprattutto rispetto i frenetici ritmi evolutivi dei nostri giorni, la successione delle Nikon a sistema, indirizzate soprattutto all’impiego professionale, ha stabilito una sequenza di decadi. Successiva la genìa delle Nikon a telemetro degli anni Quaranta e Cinquanta, la Nikon F originaria, prima reflex a sistema, nasce nel 1959. Alcune storiografie accreditate si sbilanciano addirittura sulla data di inizio produzione: venti marzo. Quindi, la Nikon F è strettamente vincolata agli anni Sessanta, durante i quali ha contribuito a scrivere importanti capitoli della vicenda fotografica, dal reportage alla moda [...]. «A seguire, le evoluzioni successive si alternano al ritmo di dieci anni, una dall’altra: la Nikon F2 arriva nel 1971, e dà forma agli anni Settanta; la Nikon F3 è del 1980, e caratterizza gli anni Ottanta; dal 1988, la Nikon F4 approda agli anni Novanta; la Nikon F5 esordisce nel 1996 (la cadenza si sta già stringendo); e la definitiva Nikon F6 è presentata alla Photokina di Colonia del 2004. Proprio questa Nikon F6, appunto definitiva, è l’ultima delle grandi reflex della storia della fotografia. Non pensiamo che, nell’attualità presente-futuribile dell’acquisizione digitale di immagini, potrà esserci ancora tempo e spazio per una reflex a pellicola di nuova concezione. (A proposito, dalla fine degli anni Settanta, Nikon affida al designer italiano Giorgetto Giugiaro l’abito dei propri apparecchi fotografici, sia di punta sia di fascia media).


«In tempi nei quali l’attribuzione “Nikon” era limitata alla reflex di vertice, affiancata dalle Nikkormat (reflex non a sistema), la Nikon F introdusse un concetto innovativo, che ne determinò affermazione e successo. È definita “a sistema” per la possibilità di cambiare una serie di elementi tecnici qualificanti e sostanzialmente discriminanti [...]».

A questo punto, design e sigle originarie degli obiettivi Nikkor. Design: dal punto di vista della forma, la Nikon F appartiene al ristretto novero delle quattro o cinque macchine fotografiche più belle della storia evolutiva della tecnica e tecnologia fotografica. Per questi quattro o cinque apparecchi, o pochi di più, distribuiti sui diversi formati di ripresa, fino al grande formato, è assolutamente il caso di esprimersi con l’estetica della funzionalità. Non scomodiamo studi e riflessioni di profilo alto, presi a prestito dall’eugenetica dei tratti somatici caratteristici e indicativi, ma affermiamo che la Nikon F è bella nella forma, in ordine con la sostanza dei propri contenuti tecnici. Nikkor: dopo aver rivelato che i numeri di matricola del passato remoto contenevano l’indicazione dell’anno di produzione, sveliamo anche un’altra vicenda delle origini. Gli alfabetici che seguono la dicitura Nikkor, alla quale sono collegati con un trattino, indicano il numero delle lenti incluse nel gruppo ottico dell’obiettivo. In relazione alle iniziali di nomi latini o greci, si ha: T/tre, Q/quattro, P/cinque, H/sei, S/sette, O/otto, N/nove, UD/undici. Il citato Nikkor-O 21mm f/4 è composto da otto lenti (sei ne ha il Nikkor-H 85mm f/1,8 e sette lo standard Nikkor-S 50mm f/1,4). A proposito del pentaprisma della Nikon F, ricordiamo un passaggio dal romanzo Il dettaglio, di William Bayer, nel quale il protagonista Geoffrey Barnett, ex fotogiornalista dai fronti di guerra, sceglie proprio una Nikon F quando deve andare a minacciare un presunto assassino. Un lungo teleobiettivo come impugnatura... e il pentaprisma spigoloso per vibrare efficaci colpi. Per quanto riguarda la presenza Nikon al cinema, oltre tanti e tanti richiami distribuiti nel tempo, valga soprattutto il casellario riassunto lo scorso novembre. E non torniamo sull’argomento.

NEL MIO CUORE Quante, le Nikon della propria vita? Personalmente, rivelo che dopo le Nikkormat attive negli anni Sessanta e Settanta, a seguire sono arrivati anche corpi macchina Nikon F e F2. In particolare, sono legato a una Nikon F del 1965, con logotipo originario inciso sulla calotta superiore. È bello da guardarsi e dà una certa sicurezza. Come ho individuato l’anno di produzione? Dal numero di matricola, che per decenni ha utilizzato un codice estremamente semplice: per l’appunto, le prime due cifre indicano l’anno di produzione. In genere, per problemi di vista, occhiali e antichità concettuale, amo fotografare con apparecchi a telemetro, ma quando ho bisogno della visione reflex, (insieme a un altro marchio giapponese... Pentax) ancora oggi preferisco la Nikon F a tutte (in riferimento alla pellicola). Tanto più che, dopo una revisione di qualche anno fa, la mia favorita vanta una caratteristica unica: consente il sollevamento preventivo dello specchio reflex anche dopo l’avanzamento della pellicola (come hanno sempre fatto le Nikkormat di allora). Così inquadro, se serve sollevo lo specchio, e scatto. Come inquadro? Su tutte le Nikon F e F2 è fisso lo schermo quadrettato (tipo E per la Nikon F), quello che -nel Libro Nikon- Giorgio Bianchi (ma in realtà Giulio Forti) ha definito «particolarmente indicato per la composizione di fotografie in cui siano richiesti allineamenti e messe a punto accurate». E poi, per snobismo e antichità di pensiero, non rinuncio al fantastico Nikkor-O 21mm f/4, non retrofocus, ereditato dal sistema ottico delle Nikon a telemetro, che nella combinazione reflex impone il sollevamento preventivo dello specchio e l’inquadratura con mirino esterno, da collocare sulle apposite guide coassiali alla leva di riavvolgimento: infatti, la Nikon F è priva di slitta porta accessori, che altererebbe la linearità del suo design, essenziale quanto unico.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

ALLA RESA DEI CONTI Alla fine di tanto, speriamo non di tutto, a conclusione della nostra cadenza celebrativa dei cento anni Nikon (1917-2017), scandita in quattro passi, avviati lo scorso settembre (questo è il finale), si impone una notazione: non posso immaginare la fotografia senza Nikon. Quindi, a diretta consecuzione, non riesco a ipotizzare la mia stessa vita senza Nikon. In apertura, ho mentito. Ricordo bene la prima Nikon F, che mi ha folgorato nel 1965, quando non potevo neppure supporre che la mia vita sarebbe stata definita e disegnata da un sostanzioso impegno fotografico (e ignoravo anche tanto altro). È per questo che sono legato a una Nikon F di quell’anno, che ho già menzionato. Niente di specifico o altisonante, nessuna colonna sonora ha sottolineato quel momento; ma nel quartiere dove sono nato, ho incrociato per strada un fotografo (chissà chi era) con Nikon F al collo: bella nella sua livrea cromata, che non avevo modo di identificare come tale (Nikon F), e avrei riconosciuta e decodificata tempo dopo [si riconosce ciò che si conosce, sia chiaro]. Nel mio ricordo, è stato un attimo straordinario, e sicuramente tutto durò davvero solo un attimo, come appare accada in quei sogni che ci sembrano invece lunghissimi. A distanza di decenni, posso ancora indicare il luogo preciso in cui è successo, il punto del marciapiedi dove stavano i miei piedi, la porzione di asfalto sulla quale si profilava la mia ombra: angolo tra via Bordoni e via Viviani, a Milano [in un’area allora modesta e reietta, oggi nobilitata da avveniristiche architetture del primo Duemila]. Non solo posso ricostruire la scena in ogni minimo dettaglio, ma persino ritrovare l’odore diffuso, le vibrazioni di quell’aria che ha il profumo dei ricordi dell’infanzia. Ora, rifletto sul centenario Nikon. Io la conosco da cinquantadue dei miei sessantasei anni. Tanti auguri. Fine: 1917-2017! ❖

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IL

MEDICI (DETTO LORENZO DE’

LORENZO DI

ARIANNA, E

BACCO DI

DA TRIONFO

QUANT’È BELLA GIOVINEZZA, CHE SI FUGGE TUTTAVIA! CHI VUOL ESSER LIETO, SIA: DI DOMAN NON C'È CERTEZZA.

MAGNIFICO )

La fotografia come nessun altro l’ha mai raccontata.


Dovremmo parlare sempre e soltanto di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che l’anima e l’emozione possono spesso trasformare in realtà antichi sogni. La fonte dell’arte è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’esistenza. Così facendo, alimenta anche la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. Ed è ciò che accade nella consecuzione delle serie di The Sons of the Earth e Traditional Utopian Portraits, attraverso le quali Simone Nervi invita alla riflessione individuale, oltre che concentrata. E qui e ora... soltanto le sette azioni immaginative della luce del secondo dei due progetti fotografici consequenziali


L’ALBA DENTRO L’IMBRUNIRE



di Maurizio Rebuzzini

B

ravo fotografo giovane, il bresciano Simone Nervi, basato a Milano, è già stato presentato su queste pagine: circa due anni fa, nel febbraio 2016, con richiamo a una identificazione di Incanto visuale, entro la quale furono collocati campioni (è il caso, in entrambi i significati!) da suoi progetti individuali e tracce di mestiere. Rimandiamo a quelle immagini -tra loro separate nel tempo, nello spazio e nelle intenzioni-, per confermare, sottolineandola di nuovo, la sua magistrale azione fotografica, svolta con connotati di stretta attualità espressiva, tanto da confortarci in una delle trasversalità che perseguiamo, in tragitto ideologico personale/pubblico: in ripetizione da altri richiami, altrettanto declinati... meno male che esistono i giovani! In tempi recenti, Simone Nervi ha allestito una propria mostra, a cura di Filippo Rebuzzini (per conto dell’Associazione Obiettivo Camera), presentata in due momenti successivi e consequenziali: in primavera, alla Galleria Biffi Arte, di Piacenza; a metà dello scorso novembre, allo Spazio Kryptos, di Milano. In occasione di questa seconda data, ha aggiunto un proprio racconto, che il pubblico ha potuto scaricare mediante l’applicazione QR Code; lo riportiamo, su questo stesso numero, da pagina otto: Differenza nulla. In allineamento e apprezzamento, è doveroso evidenziare -dandone risalto- la combinazione di immagini con parole, che l’autore

Simone Nervi considera sostanziale dell’attualità dell’espressione fotografica -non soltanto, non necessariamente, la sua-: soprattutto oggi, in tempi nei quali la parola è sempre più effimera, non fosse altro che nella propria instabilità e precarietà social. Da cui, dalla narrativa (addirittura in forma di letteratura), ricaviamo un pensiero che calza a pennello all’azione di Simone Nervi e che ne descrive l’intenzione e personalità più e meglio (forse) di quelle altre parole con le quali si è soliti accompagnare la fotografia, sia in forma di introduzione, sia in intenzione di spiegazione (ammesso, e non concesso, che questa sia effettivamente necessaria; comunque, qui lo è meno che in altre occasioni). Dunque, non a carico delle immagini, ma in chiave interpretativa di esistenza d’autore, di sua personalità, sua intenzione, suoi valori vitali, prima/durante/dopo lo scatto, convochiamo un passaggio sostanziale dall’intrigante romanzo Nell’intimità, del pakistano Hanif Kureishi, basato a Londra. Leggiamo: «Se vivere è un’arte, è un’arte strana, che dovrebbe comprendere tutto, e in particolare un forte piacere. La sua forma evoluta dovrebbe comprendere un numero di qualità fuse insieme: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, nonché saggezza, gusto, conoscenza, comprensione, oltre all’accettazione del fatto che l’angoscia e il suo conflitto fanno parte della vita. Il benessere economico non sarebbe da considerarsi essenziale: dovrebbe esserlo invece l’intelligenza per raggiungerlo, se necessario. Le persone

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di cui penso che vivano con talento sono quelle che hanno vite libere, che formulano grandi schemi e li vedono realizzati. E loro sono anche la migliore compagnia». Confermiamo: intelligenza, fascino, fortuna, virtù, saggezza, gusto, conoscenza, comprensione (oltre all’accettazione del fatto che l’angoscia e il suo conflitto fanno parte della vita). Ancora: intelligenza per raggiunge il benessere economico, se necessario; grandi schemi e li vedono realizzati. In ogni caso: loro sono anche la migliore compagnia. Nel contenitore identificativo Età di un futuro passato, il magistrale Simone Nervi ha contemplato due progetti fotografici distinti (forse): The Sons of the Earth (sei visioni fantastiche), confezionato qualche stagione fa (e già presentato nel febbraio 2016, evocato in apertura di considerazioni), e il più attuale Traditional Utopian Portraits (sette azioni immaginative della luce), scandito in queste pagine. Come appena annotato, e qui ribadiamo, confermando, tra le due serie è trascorso tempo; e confermiamo che non importa quanto. Soltanto, incide come e quanto il tempo (trascorso) abbia influito, oppure non influito, sulla sua creatività. In questo senso, e per questo pensiero, non ci limitiamo all’apparenza dei soggetti, a tutti evidente, quanto alla sostanza/qualità del percorso. Così che, neanche troppo paradossalmente, le differenze palesi rivelano una continuità progettuale, che stabilisce la cifra stilistica di Simone Nervi. Tanto che, in acconto su altre con-

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siderazioni, verso le quali ci stiamo avvicinando, possiamo benissimo anticipare (non soltanto intuire) che nel proseguo della sua espressività fotografica applicata lui stesso continuerà a ribadire e sottolineare la stessa concentrazione e, perché no?, analisi. Ciò che definisce il mondo fotografico di Simone Nervi è un paese delle meraviglie, entro il quale ciascuno di noi ha piacere di camminare, sognare, evocare proprie emozioni, per l’appunto sollecitate da tanta e tale immagine. Si è soliti affermare che quando si ha un minimo dubbio, non ci sarebbero dubbi. Nel senso che il dubbio può essere sia una delle più evidenti manifestazioni di intelligenza, sia una condizione esistenziale con la quale convivere, magari in maniera dolorosa. Di fronte ai progetti consecutivi e consequenziali di The Sons of the Earth e Traditional Utopian Portraits (traducibili in I figli della Terra e Ritratti utopici tradizionali, se solo fosse il caso di decifrare, ma non lo è), non soltanto abbiamo un minimo dubbio: siamo addirittura sepolti dai dubbi. Uno, articolato, sopra tutti! Basta/basterà la sua statura di autore per far compiere alla Fotografia (italiana) quel balzo in avanti che da tempo ci si auspica? Quel balzo in avanti grazie al quale la forma dell’immagine abbia senso per se stessa, e basta, e non alteri i discorsi, le riflessioni, le osservazioni e quanto d’altro sui contenuti? L’operazione con la quale Simone Nervi elimina -in un sol colpo- le parole inutili sulla fotografia a lungo pensata e magnificamente costruita è/sarà anche operazione




capace di convincere la più approfondita e qualificata discussione sulla Fotografia? Sulle sue emozioni, sulle sue fantastiche visioni, sulla sua coinvolgente e appassionante mediazione? In effetti, in un’epoca -quale è la nostra odierna- nella quale produrre “belle” fotografie inutili è più che facile, scontato addirittura, la Parola dovrebbe poter andare oltre, fino a occuparsi della sostanza dell’Immagine: il suo Tempo, Spazio, Anima e ancora altro. Continuiamo a considerare ogni percorso fotografico individuale anche per quanto può e riesce a dare a quel complesso collettivo e globale di nozioni al quale ciascuno di noi può attingere, in un viaggio di continua andata-e-ritorno. Diciamola meglio, forse. Viviamo e pensiamo per quanto le esperienze nostre si integrano a quelle altrui, per quanto le esperienze altrui arricchiscono le nostre. Del resto, come siamo soliti pensare, nello svolgimento quotidiano delle singole esistenze, qualsiasi viaggio nella vita, se non fosse intrapreso per ragioni umane e con comprensione e amore, sarebbe un viaggio assolutamente inutile. Dovremmo parlare sempre e soltanto di qualcosa che vale la pena ricordare, dal momento che l’Anima e l’Emozione possono spesso trasformare in realtà antichi sogni. La fonte dell’arte è quella stessa fonte che alimenta la Vita e l’evoluzione dell’Esistenza. Così facendo, alimenta anche la nostra immaginazione e i sogni di tutti noi. Ed è ciò che accade nella consecuzione delle serie di The Sons of the Earth e Traditional

Utopian Portraits, attraverso le quali Simone Nervi invita alla riflessione individuale, oltre che concentrata. Nello specifico, già dalle certificazioni, fin dalle certificazioni, Simone Nervi svela e rivela i propri intendimenti, dichiaratamente ed esplicitamente ricondotti a una Età di un futuro passato con la quale ognuno faccia i propri conti. Non ci sono/siano dubbi! L’operazione è condotta a partire e per approdare -allo stesso tempo- alla autentica celebrazione di quella fantastica intenzione d’autore che applica una fotografia dell’anima, che rivela ciò che dovrebbe esserci, ciò che la fotografia ha missione di svelare: oltre la forma, i contenuti di pensiero e immaginazione attraverso i quali la Vita rivela la propria personalità: fatti non siam! Ma per seguir virtude e conoscenza. Delle due, entrambe. Il progetto visivo di Simone Nervi risponde appieno alla semplificazione (non banalizzazione) con la quale l’eccezionale designer Bruno Munari ha sintetizzato il processo della creazione artistica: «Fantasia: tutto ciò che prima non c’era, anche se irrealizzabile. Invenzione: tutto ciò che prima non c’era, ma esclusivamente pratico e senza problemi estetici. Creatività: tutto ciò che prima non c’era, ma realizzabile in modo essenziale e globale. Immaginazione: la fantasia, l’invenzione e la creatività pensano, l’immaginazione vede». E lascia libero quello spazio individuale nel quale ciascuno trova proprie strade e verifiche. Con Franco Battiato: «E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». ❖

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un negozio di terroni* per terroni** In un paese ed epoca in cui la forma apparente ha sostituito il contenuto, perché non agire per sovvertire questa tragica condizione, per tornare alla parola che sia se stessa, e sia densa di significati propri? Perché non considerare che il rispetto è valore concreto, da frequentare e perseguire? Perché non agire nella convinzione che etica e morale siano ancora qualità e doti, insieme con garbo, eleganza e grazia? Una volta ancora, una volta di più, non certo per l’ultima volta: vogliamo parlarne?

* Terróne (sostantivo maschile / terróna, al femminile). Derivazione da “terra”; probabilmente, tratto da denominazioni di zone meridionali, quali “Terra di Lavoro” (in Campania), “Terra di Bari” e “Terra d’Otranto” (in Puglia). Appellativo dato, con intonazione spregiativa (talvolta anche scherzosa), dagli abitanti dell’Italia settentrionale a quelli dell’Italia meridionale [Enciclopedia Treccani ]. Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato in tono dispregiativo (talvolta in tono scherzoso, a seconda del contesto) per designare un abitante dell'Italia meridionale. Ha diverse varianti piuttosto diffuse e riconoscibili nelle lingue locali: terún, terù, teron, tarùn, tarù (lombardo); terún (ligure); terù, terún, tarún (piemontese); tarùn, taroch, terón (veneto, friulano); teròch, tarón (emiliano-romagnolo); terón, terró (marchigiano); teróne, taròne in altri idiomi dell'Italia settentrionale, mentre rimane terrone in toscano e romanesco [Wikipedia ].

** L'espressione politicamente corretto (traduzione letterale dell'inglese politically correct) designa una linea di opinione e un atteggiamento sociale di attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l'offesa verso determinate categorie di persone. Qualsiasi idea o condotta in deroga più o meno aperta a tale indirizzo appare, quindi, per contro, politicamente scorretta (politically incorrect ). L'opinione, comunque espressa, che voglia aspirare alla correttezza politica dovrà perciò apparire chiaramente libera, nella forma e nella sostanza, da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di genere, di età, di orientamento sessuale, o relativo a disabilità fisiche o psichiche della persona [Wikipedia ].


Con volontario presupposto di creare un mondo vegetativo inventato, o quasi, il bravo Danilo Pedruzzi ha applicato la tecnica del cliché-verre secondo intenzioni convinte e consapevoli. Balzo indietro nel tempo e avanti nell’arbitrarietà creativa, con utilizzo e finalizzazione espressiva di una procedura che -al tempo stesso- sta in pertinente equilibrio espressivo e formale tra fotografia e disegno. Le sue immagini, alla fin fine fortemente fotografiche, sono il felice risultato di azioni successive e cumulative. Ancora, sono il gustoso frutto di eventi creativi che confinano con il caos... con quanto di arbitrariamente positivo questo comporti

´ CLICHE VERRE di Angelo Galantini

T

radotto dal francese di origine, “cliché-verre” significa “immagine in vetro”. In fotografia, nostro territorio di osservazione e riflessione, oltre che analisi, si intende una tecnica basata sull’incisione di un vetro affumicato alla fiamma di una candela. Eminenti pittori francesi del Diciannovesimo secolo, tra i quali si ricordano -almeno e soprattuttogli autorevoli Jean-Baptiste Camille Corot (1796-1875), Charles-François Daubigny (18171878) e Jean-François Millet (1814-1875), hanno applicato questo metodo di realizzare immagini, che si presentano in forma negativa rispetto la realtà, o quello che è, o quello che intendiamo che sia (e nel Ventesimo secolo, ci si riferisce spesso al tedesco Paul Klee; 1879-1940). Per l’appunto, quei pittori del passato remoto e prossimo annerivano il vetro; quindi, disegnavano (incidevano) con uno strumento appuntito sulla superficie coperta di fuliggine. Poi, esponendo a contatto questo “negativo” su carta fotografica, ottenevano il positivo finale. Alcuni, agivano sul negativo originario anche con

strati di inchiostro, per ottenere densità tonali maculate. Altri evitavano qualsivoglia intervento ulteriore al passo scandito dalle condizioni basilari dell’azione formale. In applicazione fotografica, si è soliti richiamare la personalità di William Henry Fox Talbot (1800-1877), al quale, peraltro, si riconosce la paternità della fotografia così come l’abbiamo sempre intesa: negativo-matrice dal quale ottenere copie positive in quantità teoricamente infinita (oggi, file digitale). Con il presupposto di creare un mondo vegetativo inventato, o quasi, il bravo Danilo Pedruzzi ha applicato la tecnica del cliché-verre secondo intenzioni convinte e consapevoli. La sua personalità di sperimentatore e frequentatore di processi antichi, perfino originari, è già stata presentata e commentata, su queste stesse pagine; in due/tre occasioni temporalmente ravvicinate: nel febbraio 2011, abbiamo osservato la sua fotografia a foro stenopeico, con immediata riproposizione sul successivo numero speciale di aprile (Numero nero, nel senso di Vogliamo parlarne? ), in interpretazione nerosu-nero; quindi, nel luglio 2011, è stata la volta della sua Natura che si fa di sé medesima pittrice, in esposizione diretta al sole. (continua a pagina 48)

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(continua da pagina 43) Oggi, e qui, è la volta di un suo ulteriore balzo indietro nel tempo e avanti nell’arbitrarietà creativa, con utilizzo e finalizzazione espressiva del cliché-verre. L’azione formale è presto riassunta e definita, come da capitolato ufficiale: con il fumo di una candela, ha annerito una lastra di vetro, creando la base sulla quale agire per la propria cadenza preordinata. Quindi, ha posato una selezione (propria) di vegetali sulla superficie affumicata (sulla base operativa), coprendoli con una plastica rigida e premendo il tutto con un efficace rullo (recuperato dalla dotazione antica di camera oscura: rullo spremicopie, per l’adesione sulla piastra della smaltatrice... quanti i ricordi, quante le evocazioni, quanti i rimpianti... forse). Ottenuto il “negativo”, in forma di cliché-verre, per esposizione a contatto, ne ha stampate copie fotografiche su carta sensibile bianconero (nello specifico, cartoline Agfa 9x14cm degli anni Cinquanta del Novecento, peraltro mal conservate): proprio questo deperimento involontario, nondimeno casuale, a propria volta ulteriormente arbitrario, definisce ora una sorta di sostanziosa unicità di ogni stampa/copia e sottolinea una affascinante personalità formale.

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Quindi, l’azione si è completata con la collocazione in multipli accostati di nove soggetti, simili ma unici, in tre file di tre stampe ciascuna. In relazione estetica, è stato tenuto conto (grafico e visivo e ottico) dell’alternanza dei chiaroscuri e del degrado perimetrale di ciascuna copia in accostamento complesso. Le immagini definitive di Danilo Pedruzzi, delle quali qui e oggi presentiamo una selezione significativa del proprio totale (che, comunque, potrebbe allungarsi all’infinito, disponibilità di cartoncini Agfa permettendo), sono il felice risultato di azioni successive e cumulative. Ancora e in particolar modo, sono il gustoso frutto di eventi creativi che confinano con il caos... con quanto di arbitrariamente positivo questo comporti e, alla fine, determini. Esprimersi con cliché-verre di tanto e tale valore di contenuti, oltre l’inevitabile forma, offre l’opportunità (benvenuta) di accostare e combinare pittura, disegno, fotografia nel modo più rudimentale (e convincente). Come fotografo, per l’autore Danilo Pedruzzi è edificante agire con mani sporche, in un rapporto creativo tra fotografia e disegno che risale alla nascita della stessa fotografia, in forma primordiale, in senso sperimentale. In direzione efficace. ❖



Prologo dovuto: nell’uso comune dei termini, l’idea di tecnologia si riferisce soprattutto alla più evidente e macroscopica combinazione di dispositivi elettronici; a volte, si riferisce soltanto a questo. Invece, più esattamente, tecnologia è lo studio della tecnica e della sua applicazione, che si può manifestare in modi diversi, non necessariamente con l’esuberanza delle connessioni elettriche ed elettroniche.

di Antonio Bordoni

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uando si parla di ripresa fotografica con apparecchi grande formato, nella nostra attuale ipotesi di Ritorno, in forma di sollecitazione, che promuoviamo dall’estate 2014, almeno, si deve intendere la tecnologia delle applicazioni legate e collegate alle esigenze pratiche e reali della rappresentazione dell’immagine, oltre la sua semplice raffigurazione, e alla necessità di assolvere compiti sistematicamente rinnovati. Oppure, e non fa differenza, all’assolvimento di quella meditazione personale e individuale, che abbiamo approfondito giusto lo scorso luglio. Ribadiamo, e sia chiaro una volta per tutte, che -con l’idea (utopia?) di Ritorno al grande formato (magari in memoria e ricordo di Giancarlo D’Emilio, nostro compagno di sogni, prematuramente scomparso)- non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -molto più concretamente- invitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen). Nella propria sostanza, la fotografia espressiva individuale è svincolata dai canoni, anche estetici, che

Riassunto sulle condizioni operative basilari della fotografia con apparecchi a corpi mobili, dotati di movimenti lineari di decentramento e rotatori di basculaggio. La loro combinazione è finalizzata al controllo della resa prospettica e della nitidezza, che rappresentano gli elementi basilari del linguaggio fotografico. La sua grammatica, con la quale ciascuno può esprimere la propria creatività. Nella concreta ipotesi di Ritorno al grande formato

Ribadiamo, e sia chiaro una volta per tutte, che -con l’idea (utopia?) di Ritorno al grande formato (magari in memoria e ricordo di Giancarlo D’Emilio, nostro compagno di sogni, prematuramente scomparso)non applichiamo, né frequentiamo, né proponiamo, né sollecitiamo alcuna antitesi, alcun contrasto, ma -più concretamenteinvitiamo in un mondo magico e incantato, nel quale «Quel tarlo dell’esistenza chiamato orologio non ha alcuna importanza» (in adattamento, da e con Georges Simenon, in L’enigmatico signor Qwen).

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invece qualificano altre produzioni fotografiche, più attente al proprio esercizio convenzionale che a un discorso complessivo. Soprattutto, la fotografia arbitrariamente personale è un elevato gesto d’amore, che risponde a canoni estranei a qualsivoglia razionalità di intenti... ma non di esecuzione.

A LUNGO MEDITATE In ulteriore ripetizione d’obbligo, proprio dallo scorso numero di luglio, riproponiamo una opportuna riflessione di Reinhart Wolf, che ha accompagnato le proprie immagini con riflessioni teoriche sugli strumenti e il significato del gesto fotografico: «L’uso degli apparecchi grande formato rappresenta una forma di resistenza agli automatismi che caratterizzano sempre di più la fotografia contemporanea: una tacita protesta contro le istantanee, una dimostrazione contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite. [...] Per la composizione strutturata dell’intero lavoro, contro il fracasso per la quiete» (in New York, del 1980; prima edizione italiana del 1986; riedizione Taschen Verlag, del 2002 [FOTOgraphia, settembre 2008 e luglio 2017]). Quindi, a proposito del Ritorno suggerito, siamo consapevoli che oggi la fotografia è altro, ed è giusto che così sia. Da cui, indipendentemente dalle questioni


MAURIZIO REBUZZINI

concrete relative alla regolazione ragionata dei corpi mobili -finalizzati al controllo della prospettiva e all’estensione ottimale della nitidezza (o sua contrazione volontaria e consapevole) [FOTOgraphia, dicembre 2016 e novembre 2015]-, bisogna prendere atto che nel rapporto inscindibile tra tecnica e creatività, gli apparecchi fotografici e il proprio impiego scandiscono tempi espressivi inevitabili. Riassumiamoli. Uno. Gli apparecchi reflex o non reflex, a mirino, portati all’altezza dell’occhio, determinano una fotografia agile e dinamica, diciamo istantanea (e dunque reportage e dintorni). Man mano che cambiano le condizioni fisiche della ripresa, si modificano anche i suoi contenuti formali e di sostanza. Due. L’inquadratura su vetro smerigliato, per esempio medio formato, impone una diversa attenzione. Rispetto al mirino, sul vetro smerigliato già si raccoglie una immagine in quanto tale, ben delimitata, sia dai propri confini esterni, sia dalla plasticità della proiezione. Tre. L’uso del treppiedi, con punto di vista rigoroso e fisso, aggiunge un altro elemento di attenzione convenzionale, che pure contribuisce ad allontanare l’esercizio dall’ipotesi originaria di “istantanea”, per avvicinarlo a quella della posa pensata e meditata. Tanto più se sul treppiedi è stata fissata una reflex medio formato con inquadratura sul vetro smerigliato.

Con la costruzione a “L” dei propri corpi, anteriore porta obiettivo e posteriore focale, il banco ottico Horseman 450 LX (in ultima e definitiva configurazione) è stato uno dei più efficaci della lunga storia evolutiva del particolare settore tecnico-commerciale. Allo stesso momento, e con sostanziosa curiosità, è stato uno dei più semplici nella propria costruzione. Da cui, un utilizzo altrettanto semplificato, abbinato a una efficienza più che consistente.

ABBECEDARIO ANTONIO BORDONI

Quattro. Al culmine del concetto di posa, l’apparecchio grande formato comporta due elementi già valutati: l’uso obbligato di un treppiedi, o di un supporto comunque sia stabile, e la composizione su vetro smerigliato. In più, la prolissità delle regolazioni dei corpi mobili (nel caso in cui siano necessarie) e, comunque sia, il laborioso rito della visione con diaframma aperto, della chiusura manuale dell’otturatore, della regolazione del valore di diaframma di lavoro, dell’inserimento dello châssis, dell’estrazione del volet e dello scatto condizionano l’ipotesi propria della autentica posa. Detto questo, basta esserne coscienti. Per quanto gli apparecchi fotografici più agili siano predisposti per riprese altrettanto veloci, e quelli più strutturati per esposizioni meditate, sono anche ammessi stravolgimenti coscienti. Ovverosia, ci sono stati fotografi che hanno usato il grande formato (addirittura al suo massimo 8x10 pollici / 20,4x25,4cm) per la moda, dandone una interpretazione classica e statuaria, alla maniera delle grandi fotografie dei decenni scorsi, in tempi lontani dalla frenesia dei nostri giorni.

DAL 4x5 POLLICI (10,2x12,7cm) Proprio queste alterazioni volontarie rappresentano il lato, diciamo così, astratto/arbitrario della questione: perché le relazioni individuali con gli strumenti impli-

Configurazione derivata dalla Sinar-p originaria, con la quale, alla fine degli anni Sessanta, la casa svizzera introdusse princìpi di regolazione calibrata e geometrica dell’accomodamento dei corpi mobili, finalizzati all’estensione ottimale della nitidezza (piuttosto che alla sua contrazione volontaria e consapevole), la Sinar p2 può essere conteggiata come punto di arrivo definitivo della tecnologia progettuale e di utilizzo della fotografia grande formato a banco ottico. Analogamente, ma -forseancora meglio e per motivi più consistenti, è da ricordare la fantastica Silvestri Micron S5, banco ottico nato in epoca digitale, presentato alla Photokina 2004 [ FOTOgraphia, novembre 2004].

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LINHOF PRÄZISIONS-SYSTEMTECHNIK (2)

A volte, e in determinate circostanze, la correttezza della disposizione del piano immagine dà un senso visivo alterato del soggetto, che richiede dunque sottocorrezioni controllate. È il caso dell’edificio, la cui trama (dei balconi) crea un senso visivo di apertura verso l’alto (da Tecnica di Ripresa; Linhof / Sixta, 1982).

(centro pagina, in alto) Ribadiamo alla successiva pagina 54, e qui anticipiamo: la folding in legno Deardorff è uno dei più brillanti miti del grande formato.

(centro pagina, al centro) Il cerchio immagine superiore alla copertura del formato in esposizione consente di applicare i movimenti dei corpi mobili, finalizzati al controllo della prospettiva e della nitidezza.

(centro pagina, in basso) Per l’uso degli apparecchi grande formato sono disponibili sostanziose famiglie di obiettivi specifici.

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cano anche personalismi che sfiorano il feticismo degli oggetti. E il rito del grande formato, con tutta la sequenza dal vetro smerigliato all’uso dello châssis portapellicola piana, fino al gusto di una lastra di dimensioni generose, è una emozione alla quale molti di noi non possono rinunciare. Né vogliono farlo. Impostati il tempo di otturazione e l’apertura del diaframma, si chiude manualmente l’otturatore centrale e si lo si mette in carica meccanica, si inserisce lo châssis nel dorso di formato e si estrae il volet. Soltanto a questo punto si è pronti per scattare. È un rito. È il proprio tempo. L’esecuzione di questi lunghi preliminari, il compimento di questi gesti, che i cultori del grande formato ripetono ogni volta, per ogni scatto, dispone a quella cura meticolosa alla quale abbiamo già accennato: induce alla ricerca della perfezione; forse... di se stessi. Proprio in virtù dell’oggettiva laboriosità dei preparativi (che presto diventano naturali), l’apparecchio grande formato genera uno stato d’animo posato e riflessivo. Infatti, come abbiamo appena annotato, i mezzi tecnici dei quali ci si avvale condizionano lo sguardo e i risultati stessi del lavoro fotografico. Di fatto, ogni fotografia contiene in sé tutti i pensieri, i gesti, le emozioni che ne hanno preceduto e accompagnato la realizzazione: anche la fatica di trasportare l’attrezzatura e la disciplina con la quale si è allestito l’apparato di ripresa... tutto -proprio tutto- finisce nell’immagine: con allungo su filosofie Zen e in utopia, richiamate e rivelate lo scorso luglio. E non ripetiamo. Dunque, se e quando l’esercizio della fotografia concede margini alla interpretazione tecnica personale, l’uso del grande formato, a partire dal vetro smerigliato 4x5 pollici, è impagabile. Piacevole nel proprio essere autenticamente “fotografia”, essenziale nella propria influenza sul linguaggio fotografico: «Tacita protesta contro le istantanee, una dimostrazione contro la casualità, in favore di inquadrature a lungo meditate e accuratamente rifinite [...]. Per la composizione strutturata dell’intero lavoro, contro il fracasso per la quiete» (Reinhart Wolf).

ALL’8x10 POLLICI (20,4x25,4cm) Nell’ambito della fotografia estetica e personale (arbitraria?), l’uso del grande formato aggiunge alla ripresa quel valore e sapore di concentrazione che sta alla base di un identificabile linguaggio fotografico. Tanto più questo si realizza quando l’immagine viene inquadrata e composta sul vetro smerigliato di più grandi dimensioni 8x10 pollici, la cui proiezione è spettacolare ed emozionante allo stesso tempo. Certo, i disagi possono essere tanti (mai troppi!), ma il piacere e il gusto sono impagabili. In termini estetici, in base a quell’idea di bellezza e grazia della funzionalità, che spesso fa capolino nelle nostre considerazioni, paradossalmente non esiste apparecchio fotografico 8x10 pollici brutto. A banco ottico oppure folding, sono tutti affascinanti, perché trasmettono un senso di equilibrio, riflessione e prudenza che distingue la fotografia che è oggettivamente destinata a sopravvivere nel tempo da quella che invece si consuma in fretta. Al culmine di questa estetica, secondo giudizi personali (che possono anche non essere interamente condivisi:


ALTIN MANAF

a ciascuno, il proprio), osiamo collocare due apparecchi quasi agli antipodi. Anche se preferiamo loro sempre e comunque l’antica e originaria Sinar Norma [FOTOgraphia, settembre 2014], da una parte, c’è la definitiva Sinar p2, che riunisce in sé le più efficaci geometrie di regolazione dei corpi mobili, con tanto di basculaggio razionale e ragionato. Dall’altra, c’è tutta l’affascinante irrazionalità della Deardorff in legno [FOTOgraphia, settembre 2013; e qui accanto]. È faticosa e laboriosa da usare, ha giochi e tolleranze oltre ogni precisione meccanica auspicabile, impone attenzioni di uso infinite... ma è impagabile. Un mito, con il quale molti autori hanno scritto capitoli fondamentali della storia evolutiva del linguaggio fotografico. Non certo per caso.

MAURIZIO REBUZZINI

APPLICAZIONI E CORPI MOBILI La consapevolezza dei vincoli tecnici caratteristici del corretto uso degli apparecchi fotografici a corpi mobili -cioè apparecchi grande formato a banco ottico, oppure a base ribaltabile (folding)- è stata una condizione operativa indispensabile, più che necessaria, per assolvere in modo adeguato i termini lessicali e linguistici della ripresa fotografica professionale. Nel metodico e meticoloso rapporto tra tecnica e creatività, si deve essere consapevoli dei rispettivi va-

ILARIO PIATTI BEPPE BOLCHI

Riferiti alla fotografia eseguita ed esposta con apparecchi grande formato, i concetti di tecnologia applicata e requisiti qualitativi intendono sottolineare che, nel corso degli anni, sono cambiati e si sono evoluti i princìpi tecnici basilari degli stessi apparecchi e, a diretta conseguenza, degli obiettivi. Sempre attenti alle particolari esigenze della fotografia professionale (di allora), i progettisti hanno sistematicamente individuato i termini di utilizzo idonei alle rinnovate necessità tecniche della fotografia, cogliendo la coerente e ordinata trasformazione delle priorità d’uso, implicite nelle metamorfosi professionali della fotografia grande formato. Dopo la propria manifestazione in esterni, con le sue relative necessità, nel corso dei decenni, la fotografia grande formato è approdata alla sala di posa, in conformità con la crescente richiesta di immagini commerciali e per la pubblicità. In studio, la sostanziale sedentarietà delle sessioni di lavoro non ha mai/più dovuto preoccuparsi della eventuale leggerezza e trasportabilità dell’apparecchio fotografico grande formato, che -dunque- hanno smesso di essere valori discriminanti. Dato il tipo di applicazione e lavoro, è stato discriminante poter disporre di sistemi fotografici costruttivamente modulari, capaci di adattarsi alle rinnovate esigenze operative, e caratterizzati da ampi movimenti di accomodamento dei piani principali: necessari, e -a volte- addirittura indispensabili, per affrontare in modo adeguato i soggetti composti in sala di posa. Prima di tutto, pensiamo al basculaggio dell’obiettivo rispetto al piano immagine, che serve a orientare adeguatamente la distribuzione della profondità di campo, ovvero della nitidezza [FOTOgraphia, novembre 2015]; e, quindi, consideriamo la disposizione del piano immagine rispetto al soggetto, dalla quale dipende la resa prospettica [FOTOgraphia, dicembre 2016].

ALTIN MANAF

ANTONIO BORDONI

ANTONIO BORDONI (2)

MODULARITÀ OPPORTUNA (ANCHE)

Per cause di forza maggiore, la sessione pilota del workshop Ritorno al grande formato, svoltasi a Pistoia, nel settembre 2014 [ FOTOgraphia, ottobre 2014] non ha poi dato avvio a una programmazione continuativa di corsi. Comunque, qui e ora (e ancora), registriamo l’impegno di Giancarlo D’Emilio, (ideatore insieme con Maurizio Rebuzzini), prematuramente scomparso lo scorso febbraio [ FOTOgraphia, marzo 2017]: in ricordo e memoria.

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Originariamente indirizzata al fotogiornalismo (dagli anni Trenta del Novecento), soprattutto statunitense, la 4x5 pollici Speed Graphic potrebbe comunque interpretare a proprio modo alcuni dei princìpi di fotografia che stanno ispirando il sollecitato Ritorno al grande formato.

(in alto) La discriminante geometrica della regolazione dei corpi mobili si basa sull’asse di basculaggio giacente sul piano focale. Teorizzata da Sinar, questa condizione è stata successivamente adottata dalla maggior parte di costruttori di apparecchi grande formato: come è il caso di Horseman, qui illustrato.

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MOVIMENTI FINALIZZATI Presentando i movimenti propri degli apparecchi grande formato, per propria natura a corpi mobili, indipendentemente dalle dimensioni della ripresa, non si debbono mai separare le definizioni e i riferimenti d’uso attribuiti agli spostamenti lineari di decentramento e a quelli rotatori di basculaggio. Cioè, i movimenti vanno valutati quali componenti del procedimento globale della regolazione dell’apparecchio fotografico, altrimenti si perde di vista il problema complessivo. Infatti, non si tratta tanto di considerare i movimenti di decentramento e basculaggio dei corpi mobili come valori assoluti e asettici (come, erroneamente, riportato in troppi manuali di uso, di dubbia competenza), quanto, invece, di riferirli alle finalità della ripresa: indirizzata al controllo prospettico del soggetto e alla messa a fuoco ottimale [rispettivamente, in FOTOgraphia, del dicembre 2016 e novembre 2015]. La mobilità dei piani degli apparecchi grande formato serve per alterare e modificare secondo necessità la disposizione originaria dell’obiettivo rispetto al piano immagine / piano focale: perpendicolare al piano immagine e centrato su questo. Tutti gli apparecchi grande formato sono uguali tra loro, nel senso che le rispettive facilità di regolazione e eventuali simulazioni possono soltanto rendere più tranquille e semplici le procedure operative, magari geometricamente comode e funzionalmente sistematiche [FOTOgraphia, novembre 2015]. Però, sapendo dove approdare, ogni apparecchio grande formato consente al fotografo di eseguire la medesima ripresa.

PROSPETTIVA CONTROLLATA L’assetto del piano immagine rispetto alla collocazione del soggetto condiziona la resa prospettica dell’inquadratura e, di conseguenza, determina la compo-

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (5)

MAURIZIO REBUZZINI (2)

lori e delle relative influenze. La tecnica è assolutamente necessaria per la trasformazione e concretizzazione fotografica dell’intuizione creativa. La creatività è un elemento individuale, che può essere educato. La tecnica si può imparare, basandosi -prima di altro- sulla conoscenza e consapevolezza dell’uso degli strumenti, che nella fotografia tutta debbono essere considerati alla stregua di utensili del lavoro. Dal banco ottico semplicemente tale, per riprese in grande formato su pellicola piana e lastra, nel corso del tempo, si è passati alle costruzioni che hanno incorporato geometrie che facilitano l’accomodamento accurato sul piano di messa a fuoco (scelto volontariamente) più idoneo alla distribuzione volumetrica del soggetto. Concentrandosi in modo particolare sulla metodologia della disposizione dei piani dell’apparecchio, per certi versi, l’evoluzione costruttiva ha implicitamente riconosciuto come secondario il formato della ripresa. A seguire e per conseguenza, la discriminante del grande formato fotografico non è più passata attraverso l’elemento originariamente qualificante del grande, ma è dipesa invece dall’aggiustamento dei piani principali -obiettivo e piano immagine-, rispettivamente finalizzati all’estensione della nitidezza e al controllo della prospettiva [FOTOgraphia, novembre 2015 e dicembre 2016].

Trasversalità Deardorff, a tutti gli effetti il Mito per eccellenza della fotografia grande formato. Anzitutto, emissione filatelica statunitense per la Fotografia, del 26 giugno 1978 (in sostanziale simultaneità, il trenta giugno, le Poste Italiane hanno celebrato l’ Informazione fotografica, raffigurando con una immagine di Tina Modotti: Linee del Telefono; Messico, 1925). Comunque, il francobollo statunitense per la Fotografia è illustrato con una folding in legno Deardorff (8x10 pollici / 20,4x25,4cm): tiratura di 163.200.000 esemplari di 3,1x4cm circa, riuniti in 4.080.000 fogli interi da quaranta francobolli ciascuno. A completamento, visualizziamo anche un annullo filatelico del primo giorno di emissione: Las Vegas, 26 giugno 1978 (e il nostro archivio di trasversalità fotografiche comprende tante altre buste analogamente personalizzate). Questo francobollo commemorativo venne ufficialmente presentato in occasione di due convenzioni di settore simultanee: l’Ottantasettesima International Exposition of Professional Photography e la Ventiseiesima National Industrial Photographic Conference, che si sono svolte a Las Vegas, in Nevada, a fine giugno 1978. Addirittura, a cura della potente associazione dei fotografi professionisti, si tenne una solenne cerimonia nella Circus Maximus Room del celebre Ceasars Palace, di Las Vegas. Quindi, ancora, tre significative testimonianze di uso della folding in legno Deardorff 8x10 pollici: Joel Meyerowitz, in autoritratto a Gound Zero, nei giorni durante i quali ha realizzato le fotografie del consistente progetto Aftermath, raccolto in monografia da Phaidon Press, nel 2006 [ FOTOgraphia, novembre 2006 e settembre 2011], e Richard Avedon, sempre con Deardorff, sulle copertine di United (mensile delle linee aeree United Airlines), del luglio 1986, e The Magazine (allegato domenicale del Sunday Times), del 26 settembre 1993. Infine, lettera autografa di Merle (e Marion) Deardorff, del 13 novembre 1990, che esprime al giapponese Tosh Komamura, al quale si deve il sistema Horseman, ringraziamenti per la sua rivitalizzazione del marchio e della produzione di apparecchi grande formato in legno Deardorff.


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (2)

sizione formale della ripresa. Nell’inquadratura dall’alto (verso il basso) o dal basso (verso l’alto), la corretta disposizione del piano immagine permette di evitare la convergenza propria degli spigoli verticali, ampiamente indesiderata [FOTOgraphia, dicembre 2016]. In sala di posa, l’inquadratura dall’alto è sempre servita per riprendere simultaneamente più lati del soggetto, appunto prospetticamente definito anche dalla sua profondità originale. La disposizione verticale del piano immagine (dorso in bolla [FOTOgraphia, ottobre 2016]) garantisce la registrazione corretta degli spigoli verticali del soggetto, che altrimenti -inquadrati dall’alto- risulterebbero convergenti verso la base. In esterni, l’inquadratura dal basso di edifici alti è condizionata dalla situazione ambientale, che non permette punti di vista diversi da quelli della strada. Anche in questo caso, la disposizione verticale del piano immagine (ancora dorso in bolla) garantisce la registrazione fotografica corretta delle architetture originarie, senza la convergenza propria delle linee cadenti, caratteristiche della ripresa fotografica priva della possibilità di accomodamento del piano focale dell’apparecchio, o priva dell’adeguata disposizione dell’obiettivo di ripresa (al caso, possibile solo con obiettivi o dispositivi decentrabili, quali il recente PC Nikkor 19mm f/4E ED, presentato e analizzato in FOTOgraphia, dello scorso aprile). Analogamente, la disposizione ragionata del piano immagine rispetto al soggetto permette anche il controllo della fuga prospettica orizzontale, che -secondo necessità- può essere ammorbidita, ovvero compressa, oppure esasperata, cioè accelerata. Essendo tutto l’esercizio fotografico assolutamente vincolato alla resa prospettica, che condiziona la rappresentazione dei tre piani originali del soggetto sulle due dimensioni della fotografia, la possibilità di comporre ed eseguire diligentemente inquadrature adeguate è materia assolutamente indispensabile della fotografia nel proprio insieme e complesso: è il suo lessico, ovvero il suo linguaggio caratteristico. I corpi mobili dei sistemi grande formato (e, in questo caso, la mobilità del piano immagine rispetto al piano dell’obiettivo) sono assolutamente necessari alla corretta rappresentazione scenica propria della simbologia fotografica.

Autoritratto con banco ottico Toyo View 810GII di Nobuyoshi Araki, fotografo giapponese noto e celebrato per la propria interpretazione dell’erotismo visivo.

NITIDEZZA OTTIMALE Così come la prospettiva è controllata e determinata dalla disposizione del piano immagine rispetto al soggetto, la collocazione differenziata dell’obiettivo permette di orientare il piano di messa a fuoco, che è determinato dall’alterazione, mediante la rotazione del basculaggio, del parallelismo originario dei due piani dell’apparecchio [FOTOgraphia, novembre 2015]. La nitidezza del campo inquadrato e fotografato dipende dall’estensione della profondità di campo, a propria volta condizionata sia dall’apertura del diaframma impostata sull’obiettivo, sia dal piano di messa a fuoco. L’estensione della profondità di campo che ne consegue può essere orientata e diretta dal fotografo-operatore secondo la disposizione del soggetto. I corpi mobili degli apparecchi grande formato consentono di svincolare la ripresa da legami prefissati, quali quello del piano di messa a fuoco rigorosamente

(in alto) Due illustrazioni con apparecchi grande formato, dalla raccolta Classic Camera Girl (Plus One), della quale abbiamo riferito in FOTOgraphia, del febbraio 2014, in accoppiamento con l’analoga selezione illustrata Camera Lens Personification. Rispettivamente, Linhof Super Technika V e Toyo Field 810M.

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parallelo al piano immagine, con relativa estensione perpendicolare della profondità di campo verso piani analogamente paralleli. Basculando in modo adeguato l’obiettivo, ovvero alterando il suo parallelismo originario rispetto al piano immagine, di fatto si realizzano e si compensano suoi differenti tiraggi al piano focale, a conseguenza dei quali si può orientare la messa a fuoco in relazione anche alla disposizione del dorso, che, poi, determina la resa prospettica [FOTOgraphia: in consecuzione, dal novembre 2015 al dicembre 2016].

OBIETTIVI (OLTRE IL FORMATO)

Per quanto a Valentina, il celebre personaggio creato da Guido Crepax, sia soprattutto riferita la biottica Polly Max (ma anche Rolleiflex), nel suo essere fotografa ha spesso utilizzato anche apparecchi grande formato, folding e a banco ottico: Linhof Super Technika V, in Il falso Kandinsky (1991; qui sopra e pagina accanto, in alto); banco ottico Linhof, in Valentina (1966; in alto), e in Pietro Paolo Rogeri (1972-1973; qui sopra, al centro); e, poi, ancora, banco ottico Cambo, in Valentina assassina (1975-1976; in alto, a destra).

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Ai fini della effettiva ripresa fotografica, il comportamento degli obiettivi per fotografia a corpi mobili si basa sulle rispettive coperture di campo di ogni disegno ottico. Le già commentate possibilità di alterare il parallelismo originario tra l’obiettivo e il piano immagine e modificare la centratura dello stesso obiettivo rispetto al fotogramma implicano l’utilizzo di obiettivi fotografici caratterizzati da un cerchio immagine superiore a quello strettamente necessario per la sola e semplice copertura del formato di ripresa. Gli obiettivi dei sistemi fotografici piccolo e medio formato, e in ogni caso gli obiettivi destinati agli apparecchi che non prevedono l’alterazione della propria disposizione originaria (a parte l’inevitabile messa a fuoco del soggetto), devono avere un cerchio di copertura soltanto congeniale al formato fotografico da esporre; non serve che sia superiore, perché tanto non ci sarebbe modo di utilizzare l’eventuale abbondanza. Invece, gli obiettivi destinati ai sistemi fotografici a corpi mobili debbono essere caratterizzati da rispettivi cerchi immagine superiori a quelli strettamente necessari alla copertura del solo formato di ripresa con cui vengono impiegati. Soltanto così possono consentire i movimenti di regolazione del proprio piano rispetto al piano focale, e viceversa. Quanto più ampio è il cerchio immagine, tanto maggiori risultano le possibilità di movimento dei corpi dell’apparecchio: decentramento e basculaggio. Di conseguenza, l’angolo di campo realmente usato da ogni formato fotografico è sempre inferiore all’angolo di campo nominale dell’obiettivo, perché lo stesso obiettivo viene solitamente sfruttato per una porzione dell’immagine totale che produce.

CERCHIO IMMAGINE La più evidente conseguenza di tutte queste considerazioni è che, riferendosi alla fotografia con apparecchi a corpi mobili, non è possibile associare in modo statico le lunghezze focali degli obiettivi grande formato e la propria costruzione ottica con singoli formati di ripresa. Per esempio, i 70-73 gradi di angolo di campo nominale degli obiettivi definiti standard (Nikkor-W, Rodenstock Apo-Sironar e Schneider Apo-Symmar, i più diffusi) qualificano una serie di lunghezze focali da 100 a 480mm, con relativi diametri del cerchio immagine proporzionali e in sistematica crescita. Effettivamente standard con il formato di ripresa 4x5 pollici / 10,2x12,4cm, la focale 150mm viene utilizzata per 53 dei suoi 70-73 gradi di angolo di campo, che equivalgono a una visione fotografica paragonabile a quella di una focale 45mm utilizzata con il piccolo


formato 24x36mm. Il resto del suo angolo di campo nominale e il residuo del suo ampio cerchio immagine garantiscono la possibilità di decentrare e/o basculare l’apparecchio fotografico secondo necessità. La stessa focale 150mm può essere usata anche da formati di ripresa inferiori, oppure, addirittura, superiori. I medio formati 6x9cm e 6x7cm fanno rispettivamente uso di 37 e 33 dei 70-73 gradi di angolo di campo nominale: con relative visioni rispettivamente paragonabili a medi teleobiettivi per 24x36mm. Invece, il grande formato 13x18cm sfrutta tutti i 70-73 gradi di angolo di campo, in questo caso fotograficamente finalizzati all’ampia visione grandangolare -equivalente a quella della focale 28mm sul formato 24x36mm-, e non per la potenziale redditività fotografica dell’ampio cerchio immagine, congeniale e necessario all’adeguato accomodamento dei corpi mobili grande formato.

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

Analogamente, un obiettivo di lunghezza focale identica 150mm, ma con disegno ottico supergrandangolare -quali i Nikkor-SW, Rodenstock Grandagon-N e Schneider Super-Angulon, con angolo di campo nominale di 106 gradi-, si comporta nello stesso identico modo nei riferimenti appena esemplificati: il formato 4x5 pollici / 10,2x12,7cm usa 53 dei suoi 106 gradi di angolo di campo nominale e il 13x18cm fa uso di 70 gradi, questa volta potendo anche disporre di movimenti di decentramento e/o basculaggio all’interno dell’ampio cerchio immagine. Inoltre, il grandangolare 150mm può essere usato come grandangolare estremo con il massimo grande formato 8x10 pollici / 20,4x25,4cm, che sfrutta le sue prestazioni ottiche per almeno 92 gradi di angolo di campo reale: tanto quanto la visione del 20mm sul formato di ripresa 24x36mm, con residue moderate possibilità di movimento dei piani. L’utilizzo di obiettivi di differente lunghezza focale dipende, quindi, dal punto di ripresa in funzione della prospettiva (nozione base dell’esercizio fotografico), dalla nitidezza adeguata al formato della pellicola e dall’estensione del cerchio immagine, che deve consentire di mettere pienamente a profitto i basculaggi e decentramenti propri dell’apparecchio fotografico grande formato. Il cerchio immagine è sempre indicato nei prospetti tecnici che sintetizzano il comportamento della gamma degli obiettivi grande formato. Riferito ai singoli formati utilizzabili, il cerchio immagine nominale serve per quantificare le possibilità di decentramento e basculaggio dei corpi dell’apparecchio, cioè l’estensione dei relativi movimenti lineari e rotatori dei piani anteriore e posteriore, rispettivamente porta obiettivo e dorso. Nelle proprie ricapitolazioni tabellari, i costruttori (Nikon, Rodenstock e Schneider) si sono sempre attenuti alla convenzione universale che stabilisce il limite dell’angolo di campo nominale in un’area utile intermedia tra il rendimento massimo (dell’obiettivo) e l’estremità oltre la quale non esiste immagine. Ancora, all’interno del cerchio immagine nominale, ciascuno ha -a propria volta- garantito prestazioni fotografiche sostanzialmente uniformi. Per un buon Ritorno. ❖

ARCHIVIO FOTOGRAPHIA (3)

FOCALI FINALIZZATE

Tre illustrazioni d’epoca, di soggetti analoghi e accostabili: bambini con apparecchi fotografici grande formato. Dall’alto: cartolina illustrata degli anni Cinquanta, datati in invio; copertina di un quaderno scolastico utilizzato altrimenti, datato 1931; e antica Figurina Liebig, identificata Bambino fotografa vasetto, attribuita agli anni 1873-1878 (Secondo Periodo).

(centro pagina) Annuncio pubblicitario della folding Linhof Technika 6x9cm, pubblicato sul mensile Ferrania, del dicembre 1952.

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Ottica teorica

di Maurizio Rebuzzini (e, poi, soprattutto, William H. Price)

ALLE ORIGINI DI TANTO

P

Per quanto datato almeno nella misura rivelata dal calendario, che rimanda alla fine del 1976 (mille e mille anni fa, se non altro dal punto di vista tecnologico), una approfondita analisi sulle proprietà implicite ed esplicite degli obiettivi fotografici, compilata dal qualificato William H. Price, del quale stiamo per riferirne gli accrediti, è ancora oggi valida da un punto di vista originario della vicenda. Ovviamente, non è affatto necessario che i fotografi-autori siano a conoscenza di questi valori teorici e queste condizioni di applicazione degli obiettivi: infatti, ciò che fa la differenza nella creatività fotografica è -ancora e sempre- il sentimento irradiato, l’anima emessa. Però, visto e considerato che persistono aree di considerazioni tecniche assolute, che esprimono giudizi incondizionati e severi sul comportamento teorico degli obiettivi, è bene che si sia consapevoli di ciò di cui si sta parlando. Almeno di questo. Non sono molti i testi che esaminano l’ottica applicata alla fotografia con chiarezza divulgativa. Ancora meno, nonostante promesse (non mantenute), sono quelli che ne riferiscono con competenza. Nello specifico, il testo di William H. Price, che qui proponiamo nell’integrità della sua pubblicazione originaria in Le Scienze, del dicembre 1976, per curiosità di circostanze sul fatidico numero Cento dell’autorevole rivista di divulgazione scientifica, edizione italiana della statunitense Scientific American, non è straordinario, né folgorante in alcun suo passaggio; però, nella propria intenzionalità esplicativa, addirittura didascalica, è utile e proficuo: quantomeno a coloro i quali -ancora oggi- antepongono/anteporrebbero la teoria delle proprietà alla loro finalizzazione espressiva. In prologo, per rimarcare la nostra idoneità alla materia, magari indipendentemente dalla successiva/attuale personalità in passo “giornalistico”, può rivelarsi necessaria una specifica individuale. Diversamente da quanto molti credono, fino ad accreditarci in questo senso, magari convinti di stabilire gradini alti di una scala gerarchica suggerita e sottolineata, non abbiamo alcuna formazione scolastica “classica” (liceo, contorni e consecuzioni). Molto più terra-terra -in adempimento della scala gerarchica appena evocata-, abbiamo soltanto una maturità tecnica in Ottica, ottenuta all’Istituto Tecnico Industriale Galileo Galilei, di Milano. Con onestà, ammettiamo di esserci diplomati con una valutazione più che modesta, al culmine di un percorso scolastico esemplare e di eccellenza assoluta (va rilevato): dopo un’ammissione “con riserva” agli esami conclusivi, espressa da una meschinità di pensiero della confraternita degli insegnanti tecnici, in richiamo di integrità e correttezza (le nostre di sempre), ci rifiutammo di svolgere il tema di disegno tecnico... da cui una media finale sostenuta soltanto dalle materie letterarie (ah, professor Arturo Colombo, di disegno progettuale, ha un debito di riconoscenza con mia madre, che non mi ha raccontato il suo spregevole comportamento del dicembre 1969, durante i nostri anni scolastici, durante la nostra frequentazione obbligata: in ogni caso, di niente le sono grato). Comunque, dopo un percorso scolastico scandito sulla prestigiosa media dell’otto, in una scala di severità di apprendimento oggi inimmaginabile, con punte sia nelle materie tecniche specifiche (ottica geometrica e fisica, matematica, disegno progettuale), sia in quelle letterarie (italiano, storia), ce ne uscimmo per il proverbiale rotto-della-cuffia, cavandocela alla meglio, a malapena. Però, attenzione: soprattutto nel campo geometrico e teorico, la nostra competenza ottica è stata di livello alto, forse addirittura eccelso (anche con visioni e interpretazioni originali, oltre le cadenze prestabilite). Tanto che, eccoci, è stata anche coltivata in seguito, dopo l’estate 1971 di fine corsi. Così che, eccoci ancora, nel dicembre 1976, di

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attuale riferimento, continuavamo ad approfondire la conoscenza, quando e per quanto se ne presentava l’occasione: per l’appunto, questa attuale delle analisi di William H. Price, oggi in riproposizione, per il quale approfondimento convinto testimoniano le pagine originarie di Le Scienze / dicembre 1976, comprensive di nostre sottolineature di interesse, concentrazione e studio [pagina accanto]. E ora, l’autore. Ai tempi del testo oggi in questione, William H. Price era direttore del Dipartimento di progettazione ottica della Eastman Kodak Company, di Rochester, Stati Uniti, dove aveva iniziato la propria carriera professionale nel 1950, all’indomani della laurea in Fisica, conseguita al Middlebury College, nel Vermont. In seguito, si è laureato anche in Ottica, presso la University of Rochester. Pur non essendo ricordato in alcuna rievocazione storica dell’ottica fotografica, è titolare di dieci brevetti nel campo dell’ottica e autore di significativi studi sul disegno e produzione di sistemi ottici. Attenzione, e per inciso: le celebrazioni storiche non trattano mai il quotidiano, né, tantomeno, il recente, ma solo il pionierismo delle origini, o quasi; per cui, eccoci qui, si soffermano soprattutto, o -addirittura- soltanto, sulle personalità leggendarie. Qualche nome, tanto per intenderci, e in stretto ordine alfabetico, che esclude qualsivoglia gerarchia, graduatoria e/o classifica: Ernst Carl Abbe (1840-1905), ottico emerito, che fu socio fondatore, con Carl Zeiss (1816-1888), dell’omonima fabbrica, avviata nel 1846, ancora oggi ai vertici planetari; Pierre Angénieux (1907-1998), eccellenza francese, che ha identificato una straordinaria gamma di obiettivi moderni; Edward Bausch (18541944), che progettò l’otturatore Iris Diaphram, nel 1888, e disegnò lo schema Plastigmat, nel 1900, ma -soprattutto-, nel 1853, suo fratello John Jacob (1830-1926) fondò una produzione ottica con Henry C. Lomb (1828-1908), la Baush & Lomb, ancora oggi conosciuta per le lenti Ray-Ban; Max Berek (1886-1949), legato agli schemi di celebri obiettivi Leitz per Leica, dall’Elmar al Summar, al Summitar e all’Hektor, soprattutto; Emil Busch (1820-1888), al quale riconosciamo il brevetto dell’obiettivo Pantoskop, del 1865, successivo la sua particolare interpretazione del Petzval originario (dal quale, potremmo datare tutta l’ottica fotografica a seguire); Charles Louis Chevalier (1804-1859), un precursore, che negli anni Trenta dell’Ottocento, supportò gli esperimenti di Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851), fino alla realizzazione dell’obiettivo che accompagnò il primo apparecchio commercializzato per dagherrotipia, realizzato da Alphonse Giroux (17761848), in vendita dal 10 agosto 1839, nove giorni prima della presentazione ufficiale del processo, il diciannove agosto (la leggenda afferma anche che fu proprio lui a raccontare a Daguerre degli esperimenti “fotografici” di Joseph Nicéphore Niépce, analoghi ai suoi, e a mettere in contatto i due pionieri); John Henry Dallmeyer (1830-1883) e Thomas Rudolph Dallmeyer (1859-1906), ai quali si devono tanti progetti, tra i quali la gamma Rectilinear e disegni ottici finalizzati al ritratto, con conseguente marchio di fabbrica; Carl Paul Goerz (1856-1923), a propria volta innovatore del disegno ottico e capostipite di una gamma di obiettivi a lui industrialmente riferiti; Josef Maximilian Petzval (18071891), a conti fatti, il capostipite, che ha disegnato/calcolato il primo obiettivo fotografico autenticamente tale e non casuale, per l’appunto identificato dal suo cognome, Petzval [in FOTOgraphia, del dicembre 1914, una rievocazione, alla luce del disegno ottico attuale Petzval 85mm f/2,2, per reflex Canon e Nikon]; Andrew Ross (1798-1859) e Thomas Ross (1818-1870), capaci di disegnare/progettare efficaci


ARCHIVIO FOTOGRAPHIA

La relazione di William H. Price, ai tempi direttore del Dipartimento di progettazione ottica della Eastman Kodak Company, di Rochester, Usa, che oggi riproponiamo nella propria completezza, è ripresa dal numero di dicembre 1976 (numero Cento!) di Le Scienze, autorevole mensile di divulgazione scientifica: con lancio dalla copertina. Quindi, certificazione della nostra concentrazione e studio, in quegli anni, successivi alla nostra maturità tecnica sulla materia. Impegno personale, oltre i giudizi scolastici.

obiettivi, con conseguente marchio industriale di fabbrica; Paul Rudolph (1858-1935), una autentica leggenda, cresciuto in Carl Zeiss AG sotto l’ala di Ernst Carl Abbe, che ha realizzato i disegni Planar e Tessar, capostipiti dell’ottica fotografica moderna, per se stessi e, poi, in tante e tante derivazioni; Willy E. Schade (1889-1973), al quale dobbiamo tanto, soprattutto il disegno Ilex, che ha fatto storia; Joseph Schneider (1855-1933), che ha dato vita all’omonima fabbrica ottica, con sede a Bad Kreuznach, in Germania; Friederich Otto Shott (1851-1935), al quale si deve lo studio delle miscele di vetro, da cui l’omonima produzione tedesca, ancora oggi leader nel mondo; Carl August von Steinheil (1801-1870), i cui progetti sono confluiti in produzione industriale omonima, condotta e sostenuta anche dall’impegno del figlio Hugo Adolph (1852-1893) e nipote Rudolph (1865-1930), progettista dell’efficace Rapid Antiplaner, del 1893; Thomas Sutton (1819-1875), che ha approfondito l’idea e ipotesi dei disegni ottici simmetrici, combinati anche nel suo progetto Panoramic; Harnold Dennis Taylor (18621943), ennesimo marchio di fabbrica, a monte dei suoi disegni a tripletto ottico; Johann Christoph Voigtländer (1732-1797), Joahnn Friederich Voigtländer (1779-1858), Peter Wilhelm Friedrich Voigtländer (1812-1878) e Friederick Ritter von Voigtländer (1846-1924; il titolo nobiliare è stato concesso dall’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe I, nel 1898), che fondarono una originaria produzione ottica, nel 1756, alla quale si attribuisce un poco consueto apparato per dagherrotipia, in metallo, del 1841, progettato da Peter Wilhelm Friedrich Voigtländer con un obiettivo acromatico, in doppietto, basato sul pro-

getto ottico di Josef Maximilian Petzval (il marchio Voigtländer ha illuminato la scena fotografica dagli anni Venti del Novecento, arrivando a lambire i nostri tempi attuali); William Hyde Wollaston (1766-1828), che realizzò una efficace camera lucida, pre fotografia, nel 1807; Andrew Wollensak (1862-1936) e John Charles Wollensak (1864-1933), tra i pionieri dell’industria ottica statunitense, dal luglio 1890, dalla cui capacità progettuale nacquero numerose interpretazioni originarie, tra le quali l’obiettivo Optimo, del 1909. A conclusione di prologo/introduzione, rileviamo che il testo originario di William H. Price è stato mantenuto nella propria stesura, con moderati interventi di dizione, là dove ritenuto necessario. Ancora, ci siamo permessi piccoli emendamenti storici, quando abbiamo riscontrato che l’autore è caduto in errore. In ogni caso, e conclusione, per quanto, nel frattempo, l’ottica fotografica abbia compiuto clamorosi e consistenti balzi tecnologici in avanti, sia nel senso di accoppiamento delle lenti, sia nella direzione delle rispettive lavorazioni, sia per quanto riguarda la progettualità nel proprio insieme e complesso, il testo che qui riproponiamo, dal 1976 di sua origine (italiana), è basilare nella propria descrizione di caratteristiche e fenomeni ottici, oltre che linea demarcatoria tra un passato e un futuro, che peraltro prevede. Il passato è spesso richiamato, soprattutto in chiave di lettura progressiva; il futuro, che nel frattempo si è realizzato secondo previsioni qui compilate, sta davanti ai nostri occhi, giorno per giorno, nelle configurazioni ottiche di stretta attualità tecnologica. Da qui, parole altrui.

GLI OBIETTIVI FOTOGRAFICI

Nuovi vetri, materie plastiche, trattamenti antiriflessi, metodi di calcolo elettronico e sistemi di fabbricazione moderni contribuiscono alla produzione di obiettivi a prezzi sempre minori di William H. Price

P

Progettare un obiettivo è come giocare a scacchi. Negli scacchi, un giocatore cerca di portare il re avversario, con una serie di mosse successive, in un punto ove rimane bloccato. Nella progettazione di un obiettivo, il disegnatore cerca di far convergere in un punto del piano dell’immagine i raggi uscenti da un punto dello spazio, facendoli passare attraverso una serie di ele-

menti trasparenti con superfici opportunamente curve. Dato che in entrambi i casi sono noti sia il risultato desiderato, sia i mezzi con cui può venire raggiunto, si può pensare che ogni fase del procedimento sia eseguibile in una sola maniera ottimale. Peraltro, il numero delle possibili conseguenze derivanti da determinata decisione è talmente grande da essere pra-

ticamente, se non realmente, infinito. Ne deriva che nella progettazione di un sistema ottico, come nella partita a scacchi, la soluzione perfetta non è raggiungibile. In questo articolo, si parla solamente degli obiettivi fotografici, ma un discorso analogo è applicabile a qualsiasi sistema ottico. Il progettista di obiettivi ha un vantaggio enorme rispetto al gio-

catore di scacchi: può utilizzare qualsiasi metodo gli paia utile per trovare la via nel labirinto di possibilità. Gli aiuti maggiori provengono dalla matematica e dalla fisica, ma, recentemente, anche la tecnologia dei calcolatori, la teoria delle informazioni, la chimica, l’ingegneria industriale e la psicofisica hanno contribuito a rendere molto più produttivo il lavoro del progettista.

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A

D Le aberrazioni possono essere studiate ingrandendo le immagini di una sorgente puntiforme formate sul piano focale. In queste microfotografie, riprese da Norman Goldberg, direttore tecnico di Popular Photography, le immagini sono ingrandite circa seicento volte. L’immagine ideale sarebbe un punto ( A ), ma l’ideale si raggiunge normalmente solo quando, come in questo caso, la sorgente è sull’asse dell’obiettivo. L’immagine B mostra uno dei difetti più comuni, l’aberrazione sferica. Un altro difetto comune, l’astigmatismo, è la causa dell’intensa linea orizzontale nell’immagine C, che mostra pure la presenza di coma e di aberrazione cromatica. L’astigmatismo è presente in forma più pura

Alcuni obiettivi oggi sul mercato [1976] erano inconcepibili dieci anni fa. Altri, vecchi di un secolo, vengono prodotti in massa a basso prezzo. Con i mezzi di produzione automatici, gli obiettivi vengono prodotti a milioni, in vetro e plastica. Le ottiche odierne sono migliori dei più famosi obiettivi del passato, e costano meno, malgrado la manodopera del secolo scorso lavorasse per poche migliaia di lire la settimana e malgrado siano più complicati. Il progettista non può non essere grato al progresso scientifico e tecnologico che ha semplificato il suo lavoro e consentito la diffusione delle sue creazioni, ma ha anche minori soddisfazioni, perché non è più conveniente che il progetto venga realizzato interamente da una sola persona. Non è noto quale sia stato il primo obiettivo utilizzato in fotografia, perché l’inventore della fotografia [in una attribuzione estranea ai riconoscimenti ufficiali e canonici], Joseph Nicéphore Niépce, non ha lasciato un resoconto dei suoi esperimenti. Si ritiene che la prima immagine di Niépce, andata perduta, sia stata ripresa nel 1822,

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con una camera obscura equipaggiata da un obiettivo a menisco. Menisco (dal greco meniskos, piccola luna) è la sezione della più semplice lente utilizzabile come obiettivo: una falce di luna, formata da due archi di cerchio di diametro diverso [meglio, “raggio”]. Le lenti per occhiali sono dei menischi. La camera obscura era nota da molto tempo. Leonardo [da Vinci] descrisse la più semplice camera obscura, una stanza in cui la luce entrava da un piccolo foro formando una debole immagine sulla parete di fronte [Non è vero: ne abbiamo riferito in diverse occasioni, la più concreta delle quali nell’ottobre 2011, in accompagnamento e integrazione alla retrospettiva La Fotografia. Le origini 18391890, a cura di Walter Guadagnini]. Nel 1500, si adattò al foro un menisco, che rendeva l’immagine molto più luminosa. Divenne uno strumento diffuso fra i pittori, che se ne servivano per studiare la prospettiva. [Rimandiamo a quanto relazionato nel dicembre 2008, in integrazione alla mostra Canaletto. Venezia e i suoi splendori, allora allestita a Treviso; quindi, registriamo

B

C

E

F

nell’immagine D. Se il fuoco dell’obiettivo viene leggermente spostato avanti o indietro, l’astigmatismo produce un’immagine costituita da una linea orizzontale o verticale ben nitida. Il coma, un’aberrazione comune quando la sorgente non è assiale, è mostrato nell’immagine E. L’ultima immagine F, nella quale sono presenti una mescolanza complessa di coma, astigmatismo e aberrazione cromatica, è una tipica immagine fuori asse dei moderni obiettivi luminosi usati a piena apertura. Tenuto conto del forte ingrandimento, è comunque chiaro che l’obiettivo manda a fuoco la maggior parte dell’energia trasmessa in un piccolo “cerchio di confusione”, la quale, in questo caso, ha il diametro di 0,03 millimetri.

anche una ulteriore sintesi, in supporto alle considerazioni sulla resa prospettica, approfondite lo scorso dicembre 2016]. Se Niépce utilizzò un menisco per i suoi primi lavori, cercò ben presto qualcosa di meglio. È noto che l’ottico parigino Charles Louis Chevalier [1804-1859] gli fornì un obiettivo acromatico a due lenti. Quest’obiettivo, che minimizza l’aberrazione cromatica del menisco, era stato introdotto in astronomia, nel 1758, dall’ottico inglese John Dollond [1706-1761], ma era ancora una novità nei primi anni dell’Ottocento. Quasi contemporaneamente all’introduzione del doppietto acromatico in fotografia, Joseph Jackson Lister [1786-1869] e Giovanni Battista Amici [1786-1863] introducevano gli obiettivi acromatici per microscopio, rendendo per la prima volta visibili i batteri. L’aberrazione cromatica è dovuta al fenomeno per cui un prisma decompone la luce bianca in uno spettro colorato [è l’illustrazione della copertina dell’album The Dark Side of the Moon, dei Pink Floyd, del 1973]. Nel vuoto, tutte

le radiazioni che compongono la luce bianca si propagano alla medesima velocità. In un mezzo materiale, la velocità della luce diminuisce, ma la velocità delle varie radiazioni componenti diminuisce tanto più quanto minore è la loro lunghezza d’onda. Quindi, quando un raggio di luce passa da un mezzo all’altro con un angolo di incidenza non nullo viene rifratto, cioè piegato, avvicinandosi o allontanandosi dalla perpendicolare all’interfaccia, a seconda che la sua velocità nel secondo mezzo sia minore o maggiore che nel primo. Questa è la base della teoria dei sistemi ottici. Circa sessanta anni prima che Isaac Newton [1643-1727] si dedicasse agli studi di ottica, il fenomeno della rifrazione venne descritto graficamente dal matematico olandese Willebrord Snell van Royen [Willebrord Snellius; 1580-1626]. Successivamente, René Descartes [Cartesio; 1596-1650] formulò la legge della rifrazione, nota come legge di Snell: il seno dell’angolo di incidenza moltiplicato per l’indice di rifrazione del primo mezzo è uguale al seno dell’angolo di rifrazione


La camera obscura con cui Niépce riprese la sua prima fotografia, nel 1822, era probabilmente munita di un obiettivo con una semplice lente a menisco, avente la sezione di una falce di luna.

moltiplicato per l’indice di rifrazione del secondo mezzo. Quando un raggio di luce bianca incide obliquamente su una superficie di vetro, le radiazioni di minor lunghezza d’onda (blu) vengono rifratte più di quelle con maggiore lunghezza d’onda (rosso). Per questo motivo, il raggio emergente mostra delle frange colorate. Lavorando con prismi di vetro, Newton fu il primo ad accorgersi che la luce bianca è una mescolanza di luci colorate. Scrisse che «Le luci che differiscono in colore differiscono pure in rifrangibilità». Egli stabilì, però, erroneamente, che, poiché l’aberrazione cromatica è propria di tutte le lenti, non è possibile correggerla. E per questo inventò il telescopio a riflessione, che, privo di lenti, non ha problemi di aberrazione cromatica. Newton non osservò che la luce, attraversando vetri di diversa composizione, veniva rifratta in maniera diversa, ovvero che, in termini moderni, i vari vetri hanno una diversa dispersione. È questa, l’arma per combattere l’aberrazione cromatica. Occorre costruire [un obiettivo] composto da almeno due elementi. Il primo è una lente convessa fatta con un vetro a bassa dispersione. Il secondo è una lente concava fatta invece con un vetro a elevata dispersione. Più propriamente, una lente convergente a bassa dispersione viene accoppiata con una divergente a elevata dispersione. Se l’accoppiamento è corretto, la dispersione viene quasi eliminata, pur avendo ancora la lente composta una notevole possibilità di rifrazione (illustrazione a centro pagina). Questa [combinazione] fu l’obiettivo standard per la fotografia di paesaggio nell’Ottocento. Viene prodotta ancora oggi, sia come obiettivo di basso costo per apparecchi semplici, sia come obiettivo di lunga focale piuttosto costoso per la fotografia di sport e

La luce viene deviata, o rifratta, quando la sua velocità varia nel passaggio da un mezzo all’altro. Poiché le radiazioni di piccola lunghezza d’onda si propagano nel vetro a velocità inferiore di quelle lunghe, la luce bianca viene dispersa nei colori dello spettro. Il grado di dispersione dipende dalla composizione chimica del vetro, o degli altri mezzi trasparenti rifrangenti.

L’aberrazione cromatica può venire corretta con vetri di diversa dispersione. In questo doppietto acromatico, la prima lente è composta con un vetro a bassa dispersione. Il secondo elemento, divergente, ma di focale inferiore al primo, è realizzato con un vetro a elevata dispersione. La dispersione viene eliminata, pur essendo il complesso convergente. La dispersione dei colori è esagerata.

naturalistica. Per questi obiettivi, che servono a riprendere soggetti lontani, occorrono una grande lunghezza focale e un piccolo angolo di campo. Ma, per quanto la ricetta originale fosse buona, rimaneva soltanto una ricetta. I primi acromatici erano obiettivi costruiti empiricamente, senza una teoria che consentisse una progettazione. Questa cominciò a formarsi nel 1841, quando Carl Friedrich Gauss [1777-1855] pubblicò la sua teoria dei sistemi ottici. In essa, si considerano solo i raggi che attraversano la lente su un piano passante per il suo asse o poco discosto da questo [raggi parassiali]. Malgrado tale semplificazione, nel modello di Gauss compaiono la lunghezza focale (che è la distanza fra il centro ottico della lente e il piano sul quale i raggi vengono messi a fuoco), l’ingrandimento, la posizione dei punti principali della lente e la posizione dell’immagine. La teoria di Gauss ebbe per il progettista l’importanza che, per il navigatore, ebbe la trigonometria. La tracciatura dei raggi parassiali fu, per svariati decenni, il metodo fondamentale di progettazione. La semplificazione introdotta nella teoria ha, però, un inconveniente: il piano su cui si forma l’immagine più nitida non coincide generalmente col piano definito dalle regole di Gauss. Ciononostante, in prima approssimazione, la teoria giunge molto vicino alla soluzione.

Il piano dell’immagine di Gauss è comunque utile per valutare tutte le aberrazioni che si presentano al progettista oltre a quella cromatica. Le principali, definite da Ludwig Seidel [Philipp Ludwig von Seidel; 1821-1896], nel 1856, sono l’aberrazione sferica, il coma, l’astigmatismo, la curvatura di campo e la distorsione. L’aberrazione sferica deriva dal fatto che le superfici delle lenti sono sferiche e, pertanto, i raggi che passano attraverso i margini di una lente vengono a fuoco in un punto diverso da quello dei raggi che passano per il centro. Anche il coma ha la medesima origine, e il nome indica la forma a cometa che assume l’immagine di un punto lontano dall’asse ottico. Astigmatismo indica il fatto che i raggi uscenti da un punto del soggetto non vengono a fuoco pure in un punto. Come il coma, è dovuto all’asimmetria delle immagini lontane dall’asse, ma il suo effetto è quello di disperdere i raggi provenienti da un punto lungo una linea diretta verso l’asse della lente o a novanta gradi con questa direzione. Un effetto curioso di questa aberrazione è che non è possibile avere contemporaneamente a fuoco le linee orizzontali e verticali del soggetto. Curvatura di campo significa che il luogo in cui viene a fuoco l’immagine è una superficie curva e non un piano. Non è quindi pos-

sibile avere contemporaneamente a fuoco i punti centrali e marginali del soggetto. In certi grandi telescopi non si corregge l’aberrazione sferica e si curva invece il film per compensarla [attenzione, lo stesso princìpio è stato applicato ad apparecchi fotografici economici e semplificati del passato; un esempio sopra tutti riguarda il fuoco curvo sul quale si adagia la pellicola a rullo 120 della Eura Ferrania e della più recente Holga]. L’ultima fra le aberrazioni principali, la distorsione, provoca una deformazione del soggetto simile a quella per cui la Groenlandia appare tanto più grande del vero, nelle carte geografiche di Mercatore. Il 1840, non vide solo l’inizio della progettazione scientifica degli obiettivi secondo la teoria di Gauss [una citazione d’obbligo per l’obiettivo Petzval, del quale ci siamo occupati nel dicembre 2014], ma anche la nascita di due uomini che dovevano portare i successivi grandi contributi: Ernst Abbe [1840-1905] e John William Strutt Rayleigh [1842-1919]. Nato nel 1840, Abbe divenne il principale fisico e progettista di obiettivi della famosa industria ottica di Carl Zeiss. Fra i suoi contributi, vi sono il Numero di Abbe, utile per classificare i vetri ottici, e la condizione dei seni, che definisce un sistema ottico privo di coma. Il Numero di Abbe è l’inverso dell’indice di dispersione e definisce la differenza nella rifrazione di due radiazioni visibili molto distanti nello spettro. Guidato dal Numero dì Abbe, il progettista può eliminare l’aberrazione cromatica per due lunghezze d’onda qualsiasi. È la risposta all’errore di Newton. Per selezionare i vetri necessari, il progettista consulta un grafico, il cui asse orizzontale è graduato in Numeri di Abbe e sul cui asse verticale è riportato l’indice di rifrazione per una determinata lunghezza d’onda appartenente alla parte centrale dello

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L’aberrazione sferica è una caratteristica delle lenti con superfici sferiche. I raggi provenienti dal medesimo punto-oggetto vengono a fuoco in posizioni diverse ( P e P’) a seconda che i raggi passino per il centro o la periferia. La distanza fra P e P’ varia con l’apertura.

Il coma (macchia con coda a cometa) si manifesta quando i raggi provenienti da un punto fuori asse attraversano il perimetro della lente, e vengono a fuoco in un anello spostato radialmente rispetto al fuoco dei raggi che hanno attraversato il centro della lente.

La curvatura di un campo dipende dal fatto che i raggi obliqui vanno a fuoco più vicino alla lente di quelli assiali. Di conseguenza, la superficie sulla quale va a fuoco l’immagine risulta curva, anziché piana.

La distorsione dipende dal fatto che l’ingrandimento varia con l’obliquità dei raggi incidenti sulla lente. La conseguenza di questa aberrazione consiste nel produrre un’immagine curvata delle linee rette.

L’astigmatismo è un altro comune difetto delle immagini fuori asse. I raggi di un punto, che incidono sulla lente secondo il diametro ab, vengono focalizzati in S; mentre i raggi provenienti dal medesimo punto, passanti per il diametro cd, vanno a fuoco in T. S, noto come fuoco sagittale o radiale, è un segmento perpendicolare all’asse ottico. T, il fuoco tangenziale, è tangente a un cerchio centrato sull’asse ottico.

La condizione dei seni di Abbe definisce i requisiti per la correzione contemporanea dell’aberrazione sferica e del coma. I prolungamenti dei raggi entranti e uscenti dall’obiettivo si intersecano su una superficie S, che definisce il luogo in cui appaiono rifratti i raggi provenienti da un punto oggetto assiale infinitamente distante. La correzione è ottenuta quando y è uguale a “f x seni ?”: è quindi una sfera.

spettro (pagina accanto, a sinistra). Con questo grafico, si vede immediatamente qual è l’interazione della luce dei tre colori principali con i vetri in produzione. La condizione dei seni di Abbe stabilisce che il coma viene eliminato quando la distanza fra l’asse del sistema ottico e il punto in cui vi entra un raggio proveniente dal soggetto è uguale alla lunghezza focale moltiplicata per il seno dell’angolo compreso fra il raggio e l’asse del sistema ottico, in corrispondenza del piano di messa a fuoco (in alto, ultima illustrazione). Oggi, tutti i buoni obiettivi fotografici soddisfano la condizione dei seni di Abbe. Lord Rayleigh, di due anni più giovane di Abbe, diede al progettista la possibilità di misurare quanto la sua creazione si scosti dalla perfezione. Egli mostrò che l’immagine prodotta da un sistema ottico non si scosta sensibilmente dalla perfezione solo se tutti i raggi percorrono un cammino ottico di uguale lunghezza. Rayleigh trovò che, in pratica, si ottiene un’immagine perfetta se la differenza tra il più breve e il più lungo cammino ottico non supera un quarto della lunghezza d’onda. La qualità di un

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simile obiettivo è limitata solo dalla diffrazione. Per raggiungere tale risultato, tutti i vetri impiegati nella costruzione devono avere la medesima dispersione parziale, anche se i valori assoluti della dispersione possono essere diversi. La dispersione parziale è la variazione della dispersione al variare della lunghezza d’onda, mentre la dispersione definisce la variazione dell’indice di rifrazione in funzione della lunghezza d’onda. Nel secolo scorso e nei primi anni del Novecento, Józeph Miksa Petzval [Josef Maximilian Petzval; 1807-1891], Henry Coddington [1798/1799-1845], Alexander Eugen Conrady [1866-1944] e vari altri svilupparono metodi matematici e tecniche di controllo per valutare l’entità di determinate aberrazioni, a partire dal minor numero possibile di dati, in modo da ridurre il volume eccessivo dei calcoli necessari per il progetto. Petzval, inventore dell’omonimo obiettivo per ritratti, scoprì che la curvatura di campo, in assenza di astigmatismo, è una funzione relativamente semplice degli indici di rifrazione e dei raggi di curvatura dei singoli componenti dell’obiettivo. Coddington trovò delle for-

mule semplici per calcolare l’astigmatismo a piccole aperture. Conrady è considerato da molti il padre del moderno calcolo ottico, per aver applicato il concetto della differenza nel cammino ottico al calcolo delle aberrazioni principali, cromatiche e monocromatiche. Dopo un secolo di storia, negli anni Venti [del Novecento], la progettazione di un obiettivo non era più guidata da ricette empiriche, ma, pur tuttavia, rimaneva più un’arte che un fatto scientifico. Solo pochi uomini di genio, dotati di una sensibilità particolare, erano in grado di scegliere la direzione giusta. Poi, la progettazione diveniva solo una laboriosa e ripetuta applicazione della legge di Snell, man mano che il disegno veniva controllato, tracciando il percorso dei raggi dal soggetto al piano focale. È difficile per un non esperto comprendere le dimensioni di questo lavoro. Gli unici strumenti disponibili erano le tavole dei logaritmi a sei decimali e, negli anni Trenta [del Novecento], una calcolatrice meccanica. La soluzione di un problema difficile poteva richiedere anni di calcoli. La chiave del successo era una grande costanza.

Malgrado l’ineleganza di tale approccio, basato sulla forza bruta, in quegli anni, vennero ideati quasi tutti gli schemi ottici degli obiettivi oggi in commercio. Alcuni di essi, come il Carl Zeiss Sonnar f/1,5, avevano un’apertura eccezionale; altri, come i tripletti di Cooke, erano notevoli per la loro semplicità. Una breve digressione nel campo dell’ottica geometrica è necessaria per comprendere il significato particolare dei tripletti, descritti per primo da Dennis Harold Taylor [1862-1943], della Cooke & Sons. L’ottica geometrica, a differenza della più generale ottica fisica, trascura tutte le cognizioni sulla luce, tranne quelle che servono per determinare il cammino di propagazione. Consideriamo l’aberrazione sferica dell’ipotetico obiettivo disegnato sulla pagina accanto, a destra. Il progettista vorrebbe che tutti i raggi uscenti da un’origine O venissero a fuoco in un punto I. Si vede che l’obiettivo L manca lo scopo in quanto la maggior parte dei raggi non convergono in I. Questa non convergenza può venire misurata determinando la distanza fra I e il punto d’incontro del raggio col piano focale. Una simile deviazione, misurata per-


Ottica teorica Le proprietà dei vetri ottici vengono definite mediante l’indice di rifrazione e il Numero di Abbe, che misura l’entità della dispersione. La dispersione aumenta al diminuire del Numero di Abbe. I punti rappresentano singoli vetri. Quelli alle terre rare (area in colore) uniscono una bassa dispersione a un alto indice di rifrazione. I materiali plastici si trovano nell’area tratteggiata, sotto i vetri ottici.

L’aberrazione sferica trasversale h dell’obiettivo L è una misura della mancata convergenza dei raggi uscenti da O nel punto immagine gaussiano I. L’aberrazione varia con l’apertura y, secondo l’espansione in serie “h = ay 3 + by5 + cy7 + ...”. La curva mostra l’andamento di tale funzione, passante per alcuni punti calcolati tracciando i raggi. L’aberrazione di ogni altro raggio viene letta senza ulteriori calcoli.

pendicolarmente all’asse dell’obiettivo, viene detta aberrazione trasversale. Per l’obiettivo L, l’aberrazione trasversale h rispetto al punto I può essere espressa in funzione della grandezza y che designa il punto in cui il raggio incide sull’obiettivo. In altre parole, l’aberrazione sferica trasversale è funzione dell’apertura dell’obiettivo. Si tratta di una proprietà generale degli obiettivi: per cui la maggior parte di essi raggiungono il massimo di nitidezza quando vengono usati a un’apertura inferiore alla massima. L’aberrazione sferica riguarda solo l’immagine di puntioggetto giacenti sull’asse dell’obiettivo. Può variare con la distanza fra obiettivo e punto-oggetto O. Il valore di h per ognuno degli infiniti raggi aberranti può essere trovato risolvendo l’equazione “h = ay3 + by5 + cy7 + ...”. I coefficienti “a, b, c...” vengono determinati tracciando i raggi per alcune aperture y, così da calcolare i corrispondenti valori di h, e risolvendo poi il sistema di equazioni in “a, b, c...”. Il valore dei coefficienti è diverso per ogni obiettivo, ma, una volta trovati per alcuni valori di y, servono a descrivere il comportamento di tutti i raggi aberranti per tutte le aperture intermedie. Ci si può chiedere come mai, nell’equazione, compaiono solo esponenti dispari. Il termine del primo ordine y1 è assente perché rappresenta i raggi non aberranti che vanno a fuoco esattamente in I. I termini di ordine pari mancano perché sono sempre positivi per y positivo o negativo, mentre l’immagine è simmetrica rispetto all’asse. Essi distruggerebbero tale simmetria, e non hanno, quindi, significato fisico.

ghezza focale); quindi, se si hanno esperienza e tempo a sufficienza, il progettista può, in linea di princìpio, trovare qualche combinazione delle otto variabili che elimina le aberrazioni del terzo ordine. Il secondo secolo di vita dell’obiettivo fotografico ha visto svilupparsi un altro filone di ricerca. Nel 1927, George W. Morey, del Laboratorio di geofisica della Carnegie Institution for Science, a Washington, si rese conto che la formulazione dei vetri ottici era basata solo sulla tradizione. Egli era convinto che potevano trovarsi molte altre formulazioni interessanti, ma non gli era ben chiaro quali caratteristiche sarebbero state più utili. Contattò, allora, Charles W. Frederick, il progettista capo della Eastman Kodak Company, e lo interessò al problema. Per rispondere alla domanda di Morey, Frederick fece progettare diversi obiettivi a base di vetri ipotetici. Morey e Frederick giunsero alla conclusione che sarebbe stato molto utile un vetro a bassa dispersione [basso indice di dispersione] e con un indice di rifrazione molto più elevato di qualsiasi vetro allora in commercio. Verso la fine del 1932, la Kodak firmò un contratto con Morey, che, lavorando nella cantina di casa propria, doveva cercare di mettere a punto un vetro dalle caratteristiche richieste. I campioni di Morey dimostravano che egli stava muovendosi nella direzione giusta, ma i suoi vetri erano troppo poco trasparenti per l’impiego in campo ottico. Per quanto non riuscisse a ridurre la colorazione, Morey ottenne vetri con le caratteristiche desiderate di dispersione e rifra-

Per gli obiettivi con apertura e angolo di campo piccoli, i termini di ordine elevato sono piccoli. Se si correggono solo le aberrazioni corrispondenti alla terza potenza dell’apertura, la maggior parte della luce viene concentrata nel punto immagine. Le prime formule pratiche per calcolare i valori del terz’ordine delle aberrazioni principali vennero pubblicate da Seidel centoventi anni fa [rispetto al 1976 di relazione]. L’eliminazione delle aberrazioni di ordine inferiore non implica la riduzione contemporanea di quelle di ordine elevato, ma, in ogni caso, esse tendono a diminuire. E, se vengono ridotte, ci troviamo di fronte a un obiettivo molto buono. Il grande vantaggio del tripletto di Cooke è che esso contiene il minor numero di elementi con cui è possibile eliminare tutte le sette aberrazioni del terzo ordine. Esse sono aberrazione sferica, coma, astigmatismo, distorsione, curvatura di campo e le due aberrazioni cromatiche longitudinale (secondo l’asse dell’obiettivo) e trasversale. Oltre a queste, occorre poi controllare un’ottava variabile, la lunghezza focale, che determina l’ingrandimento. Di fronte a otto variabili dipendenti, occorre avere altrettante variabili indipendenti, perché il problema abbia una soluzione. Per una data scelta dei vetri, le variabili indipendenti, o gradi di libertà, per un tripletto sono le seguenti: innanzitutto, vi sono le distanze fra i tre elementi; poi, per ognuno di questi, si può stabilire a priori la lunghezza focale e la curvatura di una delle due superfici (l’altra curvatura è stabilita dalla prima e dalla lun-

zione. Questi vetri erano composti da ossidi di boro e lantanio, un elemento del gruppo delle terre rare. I Laboratori di ricerca Kodak misero, allora, in funzione un piccolo impianto pilota, per determinare le cause della colorazione, ed eliminarla. Venne trovato che era dovuta alla presenza di ossidi metallici incorporati nel vetro, durante la lavorazione. Utilizzando un crogiolo di platino per la fusione del vetro, la colorazione venne ridotta a un giallo che, pur eccessivo per gli obiettivi fotografici comuni, era accettabile per quelli usati nelle macchine per fotografia aerea, impiegate dagli Stati Uniti nel corso della Seconda guerra mondiale. Il giallo, infatti, riesce a eliminare alcuni effetti del velo atmosferico. Continuando la ricerca per eliminare la colorazione, fu possibile spingere la rimozione delle impurità fino a meno di una parte per miliardo, ottenendo vetri di buona qualità. Per alcuni vetri, occorre impiegare crogioli d’oro, anziché di platino. Questi vetri divennero noti come “EK”, secondo la loro designazione nei cataloghi Kodak. Il progetto degli obiettivi ipotetici era stato profetico. Oggi, tutti i produttori di vetri ottici fanno vetri alle terre rare, e almeno un elemento costruito con uno di questi vetri viene impiegato praticamente in tutti gli obiettivi di buona qualità prodotti in tutto il mondo. Come era facile pensare, i nuovi vetri alle terre rare crearono un nuovo problema, nel momento stesso in cui ne risolvevano altri. Dal momento che le riflessioni interne in un obiettivo aumentano con l’aumentare dell’indice di rifrazione delle lenti componenti, i nuo-

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Ottica teorica Il tripletto di Cooke, concepito nel 1893 da Harnold Dennis Taylor [1862-1943], è probabilmente l’obiettivo più studiato e raffinato oggi in uso. I suoi tre elementi costituiscono il sistema più semplice che consente l’eliminazione di tutte le sette aberrazioni principali fino al terzo ordine. I termini d’ordine maggiore sono di solito molto piccoli. Le sette aberrazioni sono: aberrazione sferica, coma, astigmatismo, distorsione, curvatura di campo e aberrazione cromatica lungo due assi.

La riflessione delle superfici aria-vetro ha limitato la libertà di progetto, prima dell’introduzione degli strati antiriflessi, alla fine degli anni Trenta [del Novecento]. Quando occorrevano molti elementi, era necessario cementarli fra loro, per ridurre il numero delle superfici libere (in alto). Si riducevano così i gradi di libertà del progetto, e gli obiettivi risultavano costosi. Per molti scopi, l’obiettivo di Gauss, col minor numero di elementi (al centro), era quasi altrettanto soddisfacente. Oggi, grazie agli strati antiriflessi, sono realizzabili sistemi con molti elementi spaziati (in basso), che consentono la produzione di obiettivi di grande apertura e molto corretti, a prezzo moderato.

vi obiettivi risentivano più dei vecchi della luce dispersa, che non contribuisce alla formazione dell’immagine. La luce dispersa, dovuta alle riflessioni interne, ha più importanza di quanto non si immagini. Distrugge molte informazioni e, quindi, è analoga al rumore nei sistemi di comunicazione. Fin dal 1936, era noto che un sottile rivestimento trasparente sulla superficie delle lenti poteva ridurre la riflessione, fino ad annullarla per una particolare lunghezza

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d’onda, dipendente dallo spessore dello strato. Il materiale di rivestimento deve avere un indice di rifrazione pari alla radice quadrata dell’indice di rifrazione del vetro, e lo spessore dello strato deve essere pari a un quarto della lunghezza d’onda per la quale si vuole eliminare il riflesso. Questo strato non solo riduce la riflessione, ma migliora anche la trasmissione della luce attraverso l’obiettivo. I tentativi di deporre il rivestimento per via chimica erano, però, stati insoddisfacenti. La soluzione venne trovata nel 1936, quando John D. Strong [1905-1992], del California Institute of Technology, riuscì a deporre sul vetro uno strato di fluorite (fluoruro di calcio) per evaporazione, sotto vuoto. I primi rivestimenti non aderivano bene e non erano abbastanza duri. Il problema venne eliminato scaldando la lente durante la deposizione, per eliminare le impurezze. Oggi, in quasi tutte le applicazioni, la fluorite è stata soppiantata dal fluoruro di magnesio, più durevole. Fra gli obiettivi che fu possibile realizzare, grazie all’introduzione degli strati antiriflessi, vanno segnalati gli “zoom”, il primo dei quali è il Busch Vario-Glaukar, del 1931. Gli zoom si sono evoluti, dai primi tipi a sette elementi e rapporto di zoomata di 1:3 fino a quelli con rapporto 1:20, usati oggi nella ripresa televisiva degli eventi sportivi, e in grado di portare lo spettatore dalla visione di un singolo giocatore a quella dell’intero campo di football. Questi obiettivi hanno anche più di venti elementi, e sono equipaggiati con controlli motorizzati della zoomata, della messa a fuoco e dell’apertura. Ottenuta una relativa libertà dagli effetti della luce dispersa, i progettisti hanno potuto abbandonare un costoso metodo di produzione ampiamente utilizzato fino ad allora. Per evitare le riflessioni, erano stati realizzati obiettivi a molti componenti, con superfici perfettamente combacianti, che venivano cementate fra loro per minimizzare il numero delle interfacce aria-vetro. Diveniva, invece, possibile realizzare obiettivi di Gauss, che sfruttano le interfacce aria-vetro. Un

obiettivo tipo Gauss può avere anche solo quattro elementi, ma ha almeno otto interfacce. Non è necessario l’accoppiamento delle superfici, perché l’aria si adatta perfettamente a qualsiasi superficie curva. Inoltre, per ogni coppia di lenti che vengono separate, il progettista guadagna una variabile indipendente che può utilizzare. Oggi, praticamente tutti gli obiettivi più luminosi (f/2 o meno) utilizzano elementi con spazi d’aria. Nuovi metodi di controllo hanno, poi, reso possibile la deposizione di strati antiriflessi multipli, in grado di ridurre la riflessione su tutto lo spettro. Per diversi anni, apparecchiature e tecniche messe a punto dalla Optical Coating Laboratory, un’industria della California, sono state ampiamente utilizzate in Giappone per la produzione di obiettivi fotografici. Una volta ottenuto un vetro alle terre rare perfettamente trasparente, i tentativi di ottenere un vetro a bassa dispersione, con elevato indice di rifrazione, non vennero abbandonati. Mentre negli anni Trenta [del Novecento] si cercava un vetro a bassa dispersione, con indice di rifrazione di 1,75 (mentre i vetri Crown giungevano a un indice di 1,62), negli anni Settanta [dello stesso Novecento] sono stati realizzati vetri sperimentali con indice di rifrazione di 2,01 e dispersione relativamente bassa. La Kodak è ora in grado di produrre in maniera economica un vetro perfettamente trasparente, a dispersione relativamente bassa, con indice di rifrazione compreso fra 1,95 e 2,0. Questo materiale ha consentito di realizzare obiettivi migliori, senza incorrere in costi proibitivi: è possibile aumentare l’apertura dell’obiettivo, per consentire la ripresa a colori con bassi livelli d’illuminazione. Per questo, è necessaria un’apertura f/1,9. Fino a oggi, un buon obiettivo di quest’apertura richiedeva sei lenti. Il nuovo vetro consente di ottenere un obiettivo della stessa qualità con solamente quattro elementi (pagina accanto, a destra). Negli anni Trenta [sempre del Novecento], per cercare di ridurre il costo degli obiettivi fotografici,

vennero sperimentate delle lenti in materia plastica. Ma con le tecniche di stampaggio a pressione allora disponibili non fu possibile ottenere una finitura superficiale soddisfacente. Benché fosse possibile ottenere delle lenti di buona qualità per fusione, il processo era troppo lento e costoso. Finalmente, lo stampaggio per iniezione ha dimostrato di essere un mezzo assai promettente. Nel 1952, delle lenti di plastica vennero utilizzate per il mirino di apparecchi a cassetta. Questo successo condusse, nel 1957, a utilizzare materiali plastici per qualcuno degli obiettivi più semplici e, nel 1959, vennero realizzati degli obiettivi a tripletto. Non si è trattato di un risultato facile, perché si dovettero risolvere molti problemi. Un problema è costituito dalle variazioni di temperatura. Col caldo, la densità delle lenti diminuisce, e così il loro indice di rifrazione. Alla Kodak, trovammo che era possibile fabbricare degli obiettivi in cui un elemento si modifica al caldo, spostando il fuoco all’indietro, mentre -contemporaneamenteun altro elemento sposta il fuoco in avanti, in compensazione. Più insidioso il problema delle tensioni interne. Queste producono degli effetti ottici indesiderabili. Per di più, le tensioni possono diminuire in seguito a cicli termici, come avviene normalmente d’inverno, quando si esce di casa e si rientra. Al diminuire delle tensioni, in seguito a molti di questi cicli, le dimensioni delle lenti cambiano tanto da degradare l’immagine. Provammo stampi d’acciaio di ogni tipo, ma nessuno forniva lenti prive di tensioni. Finalmente, trovammo un materiale ceramico, che può venire polito fino a fornire una superficie ottica soddisfacente, e possiede caratteristiche di scambio termico tali da consentire di produrre lenti senza tensioni. Su queste lenti è anche possibile evaporare uno strato antiriflessi, come si fa con le lenti in vetro. Nel frattempo, abbiamo continuato a studiare il procedimento di stampaggio, facendone un modello matematico con l’intenzione di ridurre le tolleranze. Ora, siamo


Ottica teorica Gli “zoom”, che possono variare l’ingrandimento dell’immagine entro limiti considerevoli, sono pure divenuti possibili grazie agli strati antiriflessi. Lo zoom a sette elementi (in alto), progettato all’inizio degli anni Sessanta [del Novecento] per cineprese 8mm, ha apertura f/1,9, e consente di variare la lunghezza focale fra 10mm e 30mm. Il primo e terzo elemento si muovono solidalmente, per variare la focale, pur mantenendo l’immagine a fuoco. Lo zoom in basso può variare venti volte la lunghezza focale. Il secondo e terzo gruppo di elementi si muovono linearmente in direzione opposta. Il gran numero di elementi è necessario per mantenere il controllo delle aberrazioni.

in grado di ottenere tolleranze dell’ordine del millesimo di millimetro, lungo il diametro di una lente, e dieci volte più strette, per i contorni della superficie e di mantenerle per trentamila cicli di stampaggio. Dato che in ogni ciclo vengono prodotte sedici lenti, possiamo fabbricarne mezzo milione prima di ricondizionare lo stampo. La superficie sferica delle lenti è solo un’approssimazione rispetto alla superficie ideale. In un telescopio riflettore, lo specchio ideale ha sezione parabolica. Lenti perfette dovrebbero avere una superficie ancora un po’ più complicata. Sistemi ottici asferici sono impiegati da quando Bernhard Schmidt [1879-1935] scoprì, abbastanza accidentalmente, nel 1930, una tecnica manuale per produrre una lente correttrice asferica da usare congiuntamente con uno specchio sferico. Il procedimento, ancora in uso, sfrutta la tensione superficiale del vetro, per mantenere la politura quando una lastra viene scaldata e lasciata colare entro una forma. La superficie che viene a contatto con lo stampo risulta di cattiva qualità, e deve venire successivamente molata e polita, ma la superficie libera mantiene la politura originale. Con questo metodo, si realizzò il telescopio grandangolare di Schmidt. A parte quest’applicazione, lenti asferiche vengono usate solo in certi obiettivi per cinema professionale e in una mezza dozzina di obiettivi per apparecchi fotografici 35mm. Questi ultimi, hanno un’apertura di f/1,2,

e costano poco meno di un milione [di lire]. Il costo ha messo questi obiettivi fuori della portata della maggior parte dei fotografi. Questa situazione verrà mutata dagli elementi asferici in plastica. Oggi, abbiamo sviluppato dei procedimenti per costruire stampi asferici per lenti in plastica con la precisione e la riproducibilità richieste dalla produzione di obiettivi. Attualmente, gli obiettivi con una superficie asferica su un elemento in materiale plastico hanno una luminosità doppia di quella ottenibile con un obiettivo a superfici sferiche con lo stesso numero di elementi e di qualità paragonabile. Il controllo delle superfici asferiche ha richiesto la messa a punto di tecniche nuove. In una di queste, un sistema ottico, detto di Zero, converte un fascio di raggi paralleli in un fronte d’onda intenzionalmente distorto, o aberrato, che va a incidere sulla superficie asferica, che lo riflette verso il sistema di Zero e, se la superficie ha la forma richiesta, viene ripristinato l’originario fronte d’onda piano. Ciò rende possibile un controllo interferometrico delle superfici asferiche, al pari di quelle sferiche. Con il sistema di stampaggio a iniezione, abbiamo trovato anche possibile, e talvolta preferibile, costruire una montatura di plastica intorno a una lente in vetro finita. I problemi del montaggio sono fra i più gravi nella produzione degli obiettivi, e con questa tecnica è possibile ottenere una precisione e una riproducibilità altrimenti non

raggiungibili economicamente. Attualmente, il vetro è superiore alla plastica, per quanto riguarda la stabilità dimensionale, l’elasticità, la durezza e l’indice di rifrazione. I materiali plastici per ottica comprendono pochi tipi di polimeri, praticamente solo acrilici, polistirolo e il copolimero acrilonitrilestirolo. Gli obiettivi fotografici in materiale plastico, che siamo convinti verranno prodotti in massa e con superfici asferiche, richiederanno un minor numero di elementi, per ottenere i medesimi risultati delle ottiche in vetro, e offriranno la possibilità di correggere le aberrazioni di ordine superiore. Un’alternativa alle superfici asferiche per sopperire alle loro limitazioni tipiche è costituita dai vetri con indice di rifrazione variabile. L’aberrazione sferica, tipica, appunto, delle superfici sferiche, è dovuta al fatto che queste sono troppo “forti” ai margini. Per correggere l’inconveniente, si può introdurre una superficie asferica, debole ai margini, oppure si può diminuire gradualmente l’indice di rifrazione dal centro verso il bordo. Presso l’Istituto di ottica dell’University of Rochester, in collaborazione con la Bausch & Lomb, si sta lavorando sui vetri a gradiente di indice di rifrazione. Presso i Laboratori di ricerca Kodak, si studiano, invece, le plastiche a gradiente e i metodi matematici necessari per la progettazione degli obiettivi con lenti in tale materiale. Infatti, la luce non si propaga secondo una retta in un mezzo a indice di rifrazione variabile, e quindi la tracciatura dei raggi e la determinazione del fronte di onda divengono notevolmente complicate. Anche se si tratta di un campo appena scoperto, in futuro ci sarà spazio sia per le superfici asferiche sia per le lenti a gradiente. Il mio predecessore al posto di direttore del Dipartimento di progettazione ottica della Kodak, Rudolf Kingslake [nato Rudolf Klickmann; 1903-2003], notava spesso che i progettisti di obiettivi hanno beneficiato, forse più di chiunque altro, dell’introduzione dei calcolatori elettronici [oggi, computer]. E, in effetti, senza il loro aiuto,

I nuovi vetri a elevato indice di rifrazione consentono la riduzione del numero di elementi necessari per raggiungere una determinata correzione. Le due configurazioni in figura hanno apertura f/1,9, e forniscono immagini equivalenti. Nell’obiettivo di Gauss a sei elementi, l’indice di rifrazione dei vari vetri è compreso fra 1,6 e 1,75. Nello schema Tessar, a quattro lenti, varia fra 1,9 e 1,95. Un altro vantaggio del Tessar è dato dalla possibilità di mettere il diaframma in posizione frontale, consentendo un preciso allineamento delle lenti in una singola montatura.

avremmo dei grossi problemi nel calcolo delle superfici asferiche o degli obiettivi zoom. Nel 1950, erano già stati scritti dei programmi di tracciatura dei raggi per vari calcolatori, fra cui la macchina Ibm programmata a schede, l’Eastern Automatic Computer, del National Bureau of Standards, e il Mark I, di Harvard. Nel 1954, la ricerca nel campo della progettazione automatica dei sistemi ottici era in pieno sviluppo a Harvard, all’University of Manchester e presso il National Bureau of Standards. Nel 1956, Kingslake assunse Donald P. Feder per scrivere un programma di calcolo automatico alla Kodak. All’inizio, si lavorava sul calcolatore utilizzato per la gestione, ma presto le necessità del calcolo scientifico richiesero la costituzione di centri di calcolo separati. Feder aveva scritto, per il National Bureau of Standards, un programma per la verifica degli obiettivi destinati all’aviazione militare. L’analisi di un obiettivo con questo programma costava, nel 1956, circa un milione e mezzo di lire. Nel 1957, Feder scrisse per la Kodak un programma ancora più ambizioso, che consentiva la verifica per poco più di cinquantamila lire. Un programma scritto, nel 1971, da Philip E. Creighton consentiva una verifica completa su otto piani focali con cinque lunghezze d’onda e cinque angoli di campo per un obiettivo con dodici superfici. Il costo era inferiore a cinquemila lire.

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La funzione di trasferimento della modulazione di un sistema fotografico completo comprende le perdite di ogni stadio del trasferimento. I dettagli di un’immagine vengono considerati modulazioni spaziali dell’intensità luminosa, e trattati esattamente come un tecnico delle trasmissioni tratta le modulazioni temporali di un segnale, quando valuta il rendimento di un apparecchio radio. In ogni stadio del procedimento fotografico, i dettagli più fini (modulazioni spaziali a elevata frequenza) perdono contrasto, ovvero subiscono un’ulteriore modulazione.

Però, la vera forza del calcolatore non consiste nella possibilità di effettuare una verifica, bensì di migliorare un determinato progetto. Il problema è quello di ridurre le aberrazioni a un livello accettabile. Sarebbe bello poter ridurre gli errori al loro minimo matematico, ma questo non è possibile, perché occorrerebbe risolvere un sistema di equazioni non lineari, con un gran numero di incognite, cosa che la matematica d’oggi non è in grado di fare. Quello che è possibile ottenere è una serie di approssimazioni successive nella direzione dell’obiettivo ideale. Che questo fosse possibile, fu dimostrato, nel 1962, nel corso di un simposio presso l’University of Rochester, quando Feder e i suoi colleghi progettarono un obiettivo a quattro elementi, nel corso di una serata. Il lavoro prese due ore e mezza di tempo-macchina, e il progetto divenne noto come “l’obiettivo del simposio”. Feder ritiene che i calcolatori di oggi, utilizzando il medesimo programma, potrebbero effettuare il lavoro in un paio di minuti. Quando, lo stesso anno, quel programma venne utilizzato per migliorare un obiettivo per microfilm, progettato manualmente, fu possibile ottenere un sistema ottico migliore e anche più economico.

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A partire dai primi anni Sessanta [del Novecento], vari programmi di calcolo degli obiettivi sono stati messi a punto all’University of Rochester, in varie altre università, da industrie produttrici di obiettivi in tutto il mondo e da ditte di consulenza, come la David Gray Associates, di Waltham, nel Massachusetts. Non v’è più dubbio che i migliori programmi consentono di ottenere risultati superiori a quelli raggiungibili con i metodi manuali. Si stima che l’impiego dei calcolatori abbia decuplicato la produttività di un progettista ottico. Inoltre, i progettisti sono molto più fiduciosi di un tempo sull’affidabilità delle loro previsioni riguardanti le caratteristiche degli obiettivi. I fotografi hanno sempre molto da dire sulle caratteristiche dei vari obiettivi, in particolare su quelli di alta qualità prodotti per gli apparecchi 35mm. Benché sia possibile controllare, fotografando appositi test, le caratteristiche di risoluzione degli obiettivi, ci si è resi conto che il potere risolvente (definito come il numero di righe ad alto contrasto che un obiettivo può risolvere per millimetro di immagine) è un dato sorprendentemente poco utile per definire la qualità delle immagini trasmesse dall’obiettivo. Gran parte degli aspetti misteriosi della “qualità” di un obiet-

Le curve in figura sono normalizzate rispetto alla resa dell’occhio, per cui la risposta massima di quest’ultimo corrisponde alla frequenza relativa unitaria. Diversamente dagli obiettivi, l’occhio degrada il contrasto delle immagini con frequenza spaziale maggiore e minore di Uno (1). L’immagine vista dall’occhio ha un contrasto relativo pari al prodotto delle prime quattro curve di modulazione. La qualità dell’immagine trasmessa al cervello è proporzionale all’area sottostante all’ultima curva, che è il prodotto delle curve di modulazione di tutti gli stadi.

tivo fotografico vennero chiariti, nel 1951, quando Otto H. Schade [1903-1981], della Rca Television, descrisse le sue ricerche sugli obiettivi usati nella catena di trasmissione delle informazioni, costituita da un sistema televisivo. Poté dimostrare che la registrazione dei dettagli più fini non è necessariamente correlata con l’efficienza complessiva del sistema di trasmissione. Il suo risultato più sorprendente fu l’aver trovato che certi obiettivi altamente considerati erano meno buoni per la televisione di altri considerati inferiori. Le ricerche di Schade aggiunsero una dimensione alla definizione di qualità dell’immagine data da Rayleigh. Il criterio di Rayleigh è considerato oggi un caso limite: definisce un’estremità del continuo della qualità. Ci dice quando un obiettivo si approssima alla perfezione, ma non ci dice quale sia il migliore fra due obiettivi imperfetti. Considerando le variazioni spaziali di luminosità dell’immagine formata da un obiettivo, allo stesso modo in cui un tecnico delle trasmissioni considera le variazioni nel tempo dell’intensità di un segnale, Schade fu in grado di applicare ai sistemi ottici la teoria delle informazioni e di attribuire loro una “funzione di trasferimento ot-

tica” [MTF: Modulation Transfer Function]. Il fatto che la funzione di trasferimento coincida piuttosto bene con i criteri usati per generazioni dai progettisti di obiettivi è indicativo della sua validità. Ma è ancora più importante che la funzione di trasferimento dell’obiettivo possa venir combinata con le funzioni di trasferimento della pellicola, degli apparecchi di stampa, degli obiettivi da proiezione e così via. La funzione di trasferimento può venire calcolata in base al progetto dell’obiettivo e anche misurata sull’obiettivo finito. Di conseguenza, con l’aiuto di un calcolatore, è possibile realizzare un modello matematico dell’intero sistema fotografico, che comincia con l’obiettivo da ripresa e termina con la funzione di trasferimento dell’occhio dell’osservatore. Il confronto fra tutti questi calcoli oggettivi e la misura delle reazioni soggettive di chi osserva i risultati fotografici ci dà delle informazioni su quello che viene giudicata una buona immagine, e, quindi, sulle specifiche di progettazione dei sistemi ottici. Questi modelli concettuali hanno fornito un grosso aiuto all’industria fotografica, per decidere le direzioni in cui concentrare gli sforzi di ricerca, col risultato di migliorare il rapporto qualità-prezzo degli obiettivi fotografici. ❖



MAURIZIO REBUZZINI

25 luglio 1917•2017

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