#55 •
sett/ott '14
•
€10
• le bugie del cinema •
La Grande Bellezza
TEXTURE
Little White Lies
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Redazione
DIRETTORE Francesco Mazzenga
CAPOREDATTORE Gabriele Baresi
REDATTORI Francesco Alò Leonardo Goi
ART DIRECTOR Francesca Ceccarelli PROGETTO GRAFICO Francesca Ceccarelli
DESIGNER Francesca Ceccarelli Irene Cremonesi Laura Lucchesi
ILLUSTRATORI Francesca Ceccarelli Vittoria Calabresi Samuele Dellucci
PHOTO EDITOR Enrico Marchesi
COLLABORATORI Giulia Fanelli, Davide Borgia Angelo Guttadauro, Stefano Bessoni, Daniela Catelli, Adriano Ercolani
illustrazione in copertina di Francesca Ceccarelli stampa Peristegraf s.r.l. via Giacomo Peroni, 130 - 00131 Roma distribuzione Accademia di Belle Arti di Roma / Via di Ripetta, 222 - o0186 Roma
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La memoria e lo sperpero La Grande Bellezza
10 路 LittleWhiteLies
La Grande Bellezza
regia
cast
anno
Paolo Sorrentino
Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli
2013
Qual è il soggetto de La Grande Bellezza? Di cosa parla il film, mentre racconta come vive Jep Gambardella? di DANIELA BROGI
P
a rtiamo dalla traccia narrativa: Jep si è trasferito a Roma da giovane, in cerca di successo – come tanti altri – per occupare il centro della mondanità e diventarne imperatore, tanto da essere distolto dalla cura del proprio talento. A venticinque anni aveva conquistato la fama col suo primo e unico romanzo L’apparato umano, ma quarant’anni più tardi, lo guardiamo vivere essenzialmente senza far nulla, mentre divaga continuamente, tra feste in terrazza, incontri, passaggi onirici e camminate solitarie sul Tevere. Intanto giunge la notizia della morte della donna di cui era stato innamorato da ragazzo. Qual è, dunque, la storia più vera messa in scena? Quella di un’ambizione implosa? Quella dello sperpero esistenziale della mondanità capitolina? Quella di una crisi d’identità e del tentativo di ritrovare una spiritualità? Quella di Roma? Proviamo a muoverci tra le varie ipotesi con minore affanno rispetto alle stroncature e alle accoglienze preventive che si sono buttate addosso al film, spesso al medesimo ritmo frenetico dei balli di gruppo in mezzo ai quali trionfa Jep. Per dare attenzione al film che Sorrentino ha
definito – a ragione – il suo lavoro più maturo, è opportuno ripartire da com’è fatta quest’opera. La Grande Bellezza non è un film su Roma, e nemmeno è un remake de La dolce vita. Anzitutto perché il documentarismo e il rifacimento sono due moduli estranei alla poetica e al modo di lavorare di un regista che fin dagli esordi si è principalmente ispirato al grottesco e all’allegorismo. Per l’uso della macchina da presa, delle luci e dei suoni, per il lavoro del montaggio e la relativa costruzione del tempo del racconto, nonché della posizione del protagonista rispetto allo sfondo, La Grande Bellezza è un film che persegue in maniera perfino troppo rigorosa un paradossale progetto di impersonalità, impegnandosi a respingere e a impedire a tutti i costi l’effetto classico della messa in prospettiva, tanto nel senso della ricostruzione organica di uno sguardo unico e armonioso sulle cose, quanto nel senso della possibilità di definizione di un bilancio individuale. Per Jep, come per l’opera che lo narra, lo sfondo in cui vive è imprescindibile, eppure non sembra né interessante né necessario, perché il punto di fuga non è nella tela del racconto, né si fissa in una trascendenza a cui guardare. Le situazioni sono quel che sono: l’identità della storia, il “Jeppino”/Jep, è formata da chi e 11
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cosa accade all’io di frequentare e di incontrare per caso. La voce over con cui il protagonista osserva con distacco la vita – come faceva anche Titta Di Girolamo ne Le Conseguenze dell’amore – non funziona, tecnicamente, da affondo nell’interiorità di Jep.
Le inquietudini, il malessere, in qualche modo persino l’insonnia che lo affratella a tanti altri personaggi di Sorrentino: tutto questo mondo oscuro è messo al di fuori dell’individualità emotiva, è spostato sull’esterno – la maggior parte del film è girato di notte – e viene lasciato esistere senza commento, diventando spazio drammaturgico grazie alle scenografie teatrali, all’uso delle luci e all’interpretazione di Servillo, che è il volto estremo dell’apatia, maschera assoluta di espressiva inespressività; altre volte invece la vita dell’anima si palesa attraverso la rêverie in medias res, senza intermediazioni narrative. In un certo senso, il film tenta di essere quell’opera sul niente che voleva scrivere Flaubert, a cui del resto si rimanda due volte nel film. Mentre anche il titolo si sottrae a un’interpretazione unica, perché per un verso ha un significato letterale riferendosi a Roma, la diva più inseguita di tutte, la capitale mondiale dei tramonti spettacolari: “grande” nel senso di monumentale, di una bellezza che incombe, dà i brividi e pretende venerazione, fino a uccidere («Roma o morte» è la prima frase, incisa su marmo, che leggiamo) come accade nella prima scena del turista giapponese colto da un infarto al Gianicolo. Per l’altro verso, come racconta la seconda scena di apertura del film – quella della festa di compleanno di Jep – La Grande Bellezza è anche un titolo antifrastico, usato cioè per rivelare la “grande bruttezza”. Esso racconta, in maniera simile alla bellezza in disfacimento delle nature morte barocche, la vanitas vanitatum, la fatica di un mondo che fa perdere un sacco di tempo e che accoglie tutti come un grande catino, dove si confondono, fermentando l’uno nell’altro, alto e basso, 12 · LittleWhiteLies
grandezza e meschinità, musica sacra e ritmo techno, Proust e Ammaniti e dove il tragico finisce in una pernacchia. Ogni cosa e ogni persona diventano una caricatura e recitano la propria parte: «tutta questa gente non sa fare niente»; non importa che si tratti di una ex soubrette televisiva, di un cardinale, o di una perfida altoborghese convinta di essere un’intellettuale solo perché dichiara di non avere la televisione da vent’anni; il disfacimento è trasversale, con un sottofondo permanente di coazione alla cacofonia (Roma/Romano/Ramona) che non fa condoni al blasone di classe o alla vecchia commedia delle apparenze. In mezzo a questa terra desolata, i residui di esperienza sentimentale si consumano, di conseguenza, in quanto attimi di riavvicinamento, ma sempre inscenato, alle radici – come nella scena surreale in cui la Contessa decaduta va nella reggia dove è nata, ora adibita a museo, e davanti alla teca contenente la sua culla ascolta da un citofono attaccato a una guida automatica a gettoni la storia del luogo e della sua nascita. E torna in mente pure Jep che parla in dialetto napoletano di quanto è buona la pizza di scarola con la colf filippina, o consuma le minestrine preparate da Dadina, l’amica nana, davanti a un gigantesco orso di peluche: tutte tracce di un mondo infantile anteriore ripreso però con ironia formale e il discorso vale anche per i fenicotteri rosa sulla terrazza di Jep. «Siamo l’unica coppia che si ama», dichiara il personaggio di Lello Cava, che aveva fatto la sua prima apparizione nel film gridando tra le danze a una ballerina «T’chiavass’!», e che in un’altra scena scopriremo essere un cliente abituale di prostitute. Eppure Lello non mente del tutto, perché sdentata – con effetti grotteschi spinti fino al kitsch – non è solo la “Santa” ricostruita sul modello di Madre Teresa di Calcutta, ma la capacità di afferrare e fermare, per via del racconto, l’esperienza autentica. L’ingenua contrapposizione tra realtà e finzione è narrata allora per quello che è: un bellissimo e ributtante trucco («Trentacinque anni insieme e io appaio in due righe come un buon compagno», «Avete visto? – dirà Ramona della Cupola di San Pietro – sembrava enorme e invece è piccola, piccola»). Tutto è menzogna, anche quando il protagonista pare avvicinarsi a un momento di verità che però si perde, svuo-
PER JEP, COME PER L’OPERA CHE LO NARRA, LO SFONDO IN CUI VIVE È IMPRESCINDIBILE, EPPURE NON SEMBRA NÉ INTERESSANTE NÉ NECESSARIO, PERCHÉ IL PUNTO DI FUGA NON È NELLA TELA DEL RACCONTO, NÉ SI FISSA IN UNA TRASCENDENZA A CUI GUARDARE
La Grande Bellezza Sorrentino ha scritto il ruolo di Ramona, pensando subito a Sabrina Ferilli, una delle figure della romanitĂ , insieme a Carlo Verdone
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La Grande Bellezza
“A luce intermittente, l’amore si è seduto nell’angolo. Schivo e distratto esso è stato. Per questa ragione non abbiamo più tollerato la vita”
La casa di Jep si affaccia sul lato sud del Colosseo, quello più inesplorato e più provato dal tempo
tato dalla progressione del racconto, perché Jep continuerà a vivere con la stessa pigrizia. In fondo, persino Romano, quando comunica a Jep la sua decisione di abbandonare Roma per la delusione, in una certa misura mente, perché, come avevamo impercettibilmente saputo in una scena precedente, nel paese dove farà ritorno, ha avuto un’avventura con un’amica della sorella alle quali, chissà, potrebbe forse sperare di aggrappare la sua malinconica ricerca della bellezza. La nostalgia, se non la si prende con ironia, come svago, è una baracconata, una necessaria baracconata. Due circostanze, tuttavia, sembrano interrompere l’eterna ripetizione della vita di Jep: l’occasione di una riemersione del passato, attraverso la notizia del decesso di Elisa, la ragazza amata in gioventù e l’incontro – e la morte – di Ramona, una spogliarellista tanto bella quanto enigmatica per i suoi sguardi di sofferenza.
Entrambe le figure si muovono nella storia come due fantasmi, e aumentano, anziché chiarire, l’effetto di opacità dell’insieme, rafforzando il senso che i destini umani, e la narrazione che provasse a contenerli, sfuggano continuamente alla pretesa di una sistemazione unica, capace di comprendere o addirittura di risolvere le scuciture attraverso le quali la vita si trasforma in destino. Da questo punto di vista, Jep Gambardella, come tutti gli altri protagonisti della filmografia di Sorrentino, è una grande figura di solitudine, completamente scollata dal mondo circostante, oltre che da se stessa. Ma il punto da cui si sceglie di raccontare e esprimere questa condizione non è l’introspezione individuale che canta l’angoscia della mancata esperienza della bellezza, bensì lo sfondo circostante di involontario eppure implacabile cinismo. Il nulla, il nastro di indo15
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lenza su cui scorre, consumandosi per logoramento, la fallita sincronia tra mondo interno ed esterno, tra l’ansia della bellezza e il tempo. Per rendere questo effetto, La Grande Bellezza si serve di due espedienti particolarmente efficaci: anzitutto la composizione per ellissi, che elimina dalla scena le spiegazioni d’intreccio (come ha fatto Jep a diventare così ricco e potente?), o le situazioni di pathos eclatante (la mancata paternità, o la morte di Ramona), e disarticola il racconto, eliminando spesso i raccordi, e procurando da un lato l’idea della ripetizione e dello sperpero quotidiano che disturba continuamente la vita; dall’altro lato, l’effetto della memoria che lavora sotto la coscienza di superficie (il ricordo della prima volta con Elisa, spezzato e recuperato in due scene diverse e distanti). L’altra soluzione attraverso cui è resa questa esistenza inattiva, fatta di confusione perpetua tra interno ed esterno, passato e presente, è forse uno dei tratti più forti del cinema di Sorrentino: la saturazione visiva del racconto, intesa non come affermazione prepotente e drammatica dello sguardo soggettivo ma, come forma di narrazione della catastrofe in una prospettiva antiromantica e antiromanzesca, cioè senza sviscerarne le cause, ma presentandone le manifestazioni. Tanto il grottesco caricatu-
rale quanto l’onirismo visionario (assecondati da un uso altrettanto straniante della colonna sonora) accrescono il potenziale narrativo della scena, senza spiegare, ma procedendo per sovraccarico e condensazione; per esempio, nel pianto di Jep mentre trasporta la bara di Andrea, si scarica anche la tensione della morte di Ramona, di cui si avrà la notizia definitiva nella scena successiva, ma impersonalmente: senza che ci sia Jep e attraverso una veloce inquadratura del padre di Ramona – uno dei tanti genitori, in questo film, che perdono i figli. Elisa e Ramona sono fantasmi di una possibilità prodigiosa di felicità compiutasi in un tempo attimale e irrecuperabile, sono la grande bellezza delle situazioni che per spreco di tempo non abbiamo vissuto pienamente, se non per un momento e che non rivivremo più. Il rimando più significativo a Fellini – tra i molti omaggi di inquadratura al suo film Roma – potrebbe essere, allora, quello all’episodio riportato da Sorrentino in Tony Pagoda e i suoi amici: «Il grande regista, in un momento non facile, aveva preso a incontrare psicanalisti. A ciascuno si presentava cortese, si sedeva di fronte, estraeva una foto di se stesso a tredici anni e, con la voce candida che ce lo
“Questa è la mia vita, non è niente. Flaubert voleva scrivere un romanzo sul niente, non c’è riuscito. Ci posso riuscire io?” 16 · LittleWhiteLies
La Grande Bellezza
aveva fatto amare, diceva pacato mostrando la foto: – Dottore, io voglio tornare a questa foto. Lei mi può aiutare? – » Il titolo del film, a questo punto, non fissa soltanto un’immagine estetica o morale, ma un’esperienza del tempo e dei suoi «incostanti sprazzi di bellezza», come dirà Jep uscendo di scena e dando inizio al suo romanzo. Il passo di Céline usato sulla soglia iniziale: «Viaggiare è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient'altro che una storia fittizia. Lo dice Littrè, lui non si sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita» acquista significato pieno solo se recuperiamo il dialogo che intrattiene con la soglia finale, quando Jep dice: «Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove». Accetta, come il suo autore, di stare al di qua dell’illusione di oltrepassamento, di non cercare più la grande bellezza pensando la vita come un “apparato”, cioè una macchina organizzata per uno scopo unico, ma si occuperà del silenzio e del sentimento sotto il chiacchiericcio e il rumore.
autobiografica anti-organica, che raccoglie le divagazioni frammentarie, squarci memoriali e eventi accaduti all’io narrante in contemporanea con l’incontro, a Parigi, con una donna. Il libro parte dalla domanda che Jep Gambardella riporta distrattamente conversando sulla terrazza con Trumeau: «Chi sono io?». Recuperiamolo quell’inizio, perché ricorda molto da vicino la traccia del film: «Chi sono io? Se per una volta mi rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui je hante: chi frequento, chi infesto. Debbo riconoscere che questa espressione mi porta fuori strada, in quanto tende a stabilire tra certi esseri e me rapporti più singolari, meno evitabili, più conturbanti, di quanto non pensassi. Dice molto di più di quello che vuol dire, mi attribuisce da vivo il ruolo di un fantasma, implica evidentemente un’allusione a ciò che ho dovuto cessare di essere per essere colui che sono». Al racconto dei pensieri del protagonista si alternano immagini: di monumenti, dei personaggi incontrati, dei disegni reali di Nadja. Uno, in particolare, sconcerta per la somiglianza con la scena de La Grande Bellezza in cui Ramona passeggia per Roma, con Jep, indossando un curioso mantello. E colpisce il finale: «La bellezza sarà convulsa o non sarà». È solo un trucco: il romanzo di Jep può avere inizio. lwl
3 La biografia di Jep, come quella degli eroi che lo hanno preceduto, non sarà dunque un racconto centrato sull’io, ma un collage di fatti autobiografici, in maniera molto simile a quanto era stato fatto in un libro che, tra i tanti riferimenti letterari presenti ne La Grande Bellezza, è probabilmente il testo citato più sommessamente ma in realtà più presente di tutti gli altri: Nadja di André Breton, scritto nei medesimi anni dei manifesti surrealisti. Nadja è una narrazione
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Anteprima NON VEDEVAMO L’ORA DI VEDERE LA PROSSIMA PELLICOLA DEL “MAESTRO” SORRENTINO. LE ASPETTATIVE SONO ALTE, COME SEMPRE
Visione ATTRAVERSO GLI OCCHI E LA MENTE DI SORRENTINO VENIAMO PROIETTATI IN UNA FAVOLA TRAGICA E SURREALE. E SÌ, QUELLA È ROMA, MA COME NON L’AVETE MAI VISTA
Flashback MORALE DELLA FAVOLA: UNA TOCCANTE RIFLESSIONE SULLE PROPRIE RADICI, IL PROPRIO FUTURO, IL PROPRIO PAESE. MA FORSE È TUTTO UN TRUCCO!
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2. Coverstory P16
Jep Attitude
P18
L'uomo in piĂš
P24
Roma Cafonal
P26
La fuffa dell'arte contemporanea
P32
Come perdere tempo a Roma
P34
Il mare in una stanza
P37
EďŹƒmeri marmi
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Coverstory
I T T A P E J I N A L CATEL
K N I DRbecchi Re
E I R U FLÂNE
I N I N TRE
20 · LittleWhiteLies
a ff u f
E D U T I
Jep Attitude
i strazioni d testo e illu eccarelli aC Francesc
cabile c e p m i l look a o r t e ella? i d d r e a d b n m o a asc pG Cosa si n mondanità, Je lla del re de
A
Parigi la chiamano “Jep attitude”. Servillo preferisce definirla una forma di cinismo sentimentale, che rimanda al vecchio anarchismo di destra degli anni ’50, fantasma magnificato di un dandismo sterile e senza uscita, di cui alcuni scribacchini di oggi tracciano a fatica una pallida caricatura: certo è che quel passo lento, quei blazer dai colori accesi, quei completi impeccabili, quei pantaloni così bianchi, indossati con le calze chiare e le scarpe bicolore e quella montatura retrò in Italia e all’estero (soprattutto) non sono passati inosservati, e sono già una moda affermata. Uno stile ineccepibile per il re dei mondani, colui che è destinato alla sensibilità, Jep Gambardella, uno strepitoso Toni Servillo che veste i suoi panni con un’eleganza, una nonchalance e un fascino irripetibili. Esquire ha definito La Grande Bellezza il film più elegante del 2013 e il merito va a Daniela Ciancio, costumista eccellente, che ha avuto il compito di vestire l’anima dei personaggi. Jep non è un contenitore vuoto, ma un vuoto che non trova un contenitore. E quei capi sgargianti e raffinati gli servono per calarsi in un ruolo preciso nella società. Tutti portati con la stessa disinvoltura e sicurezza. Sono i capi griffati di Armani insieme a quelli
È UN CO, C U R T UN SOLO O! C TRUC
d’alta sartoria di Cesare Attolini, abbinati ad uno squisito e classico Borsalino e a delle scarpe Tod’s. Ciliegina sulla torta, una montatura Ray Ban. Jep, insomma, non è altro che un dandy raffinatissimo. Un dandy “Made in Italy”, un’Italia da un lato vicina e da un lato lontana anni luce da quella degli anni ’50, quella della fin de siècle. Infatti, se molti hanno voluto avvicinare troppo forzatamente il film a La Dolce Vita di Federico Fellini, forse in pochi hanno marcato la vicinanza con Il Piacere di Gabriele D’Annunzio. Jep non è (solo) l’evoluzione postmoderna di Marcello Rubini, ma anche (e soprattutto) di Andrea Sperelli, protagonista del romanzo di D’Annunzio. Al pari di Sperelli, Jep si aggira per una Roma elegante e decadente, sperperando la sua esistenza tra inviti galanti ed eventi mondani. La Capitale e i suoi monumenti, le sue strade, i suoi palazzi, i suoi salotti e le sue opere d’arte fanno da sfondo a una vita che è un eterno ritorno, la ricerca continua e continuamente frustrata di una felicità fuggevole e inafferrabile, di un senso aristocratico della raffinatezza e del gusto. La società nella quale sono intrappolati è vacua, indolente, disfatta e deprimente, e prepotentemente concentrata sull’affermazione individualistica. È una società che sta attraversando una crisi di valori, prima che economica. Una crisi, però, che come i trenini delle feste di Jep, non porta da nessuna parte. lwl 21
Coverstory
L'UOMO IN PIÙ Il poeta dell'immagine Paolo Sorrentino, vincitore dell'Oscar per il "Miglior Film Straniero", ci spiega l'altra faccia della medaglia de La Grande Bellezza e i suoi progetti a venire. di FRANCESCA CECCARELLI
È UN PAOLO SORRENTINO SERENO, quasi pacificato con se stesso, quello che incontriamo mesi dopo la premiazione de La Grande Bellezza, ultimo film del regista partenopeo. Indossa un bel completo blu marinaro con doppio petto, ed ha i soliti capelli scomposti e quel sorriso sghembo da cui trapela tutta la sua ironia napoletana. Ed è proprio da questo aspetto caratteriale che partiamo con la nostra intervista, senza rete, al nostro autore più amato e rispettato in casa e all’estero, come dimostrano le positive recensioni internazionali del film, che vede protagonista l’immancabile Toni Servillo, ma anche un cast molto corale che ha coinvolto Sabrina Ferilli, Carlo Verdone, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Giorgio Pasotti e tantissimi altri esponenti del nostro cinema. 22 · LittleWhiteLies
L'uomo in più
Quanto c’è dell’ironia napoletana nel film?
illustrazione Francesca Ceccarelli
Ovviamente La Grande Bellezza è un sentito omaggio all’ironia partenopea e forse ne sono talmente condizionato da utilizzarla inconsciamente senza rendermene più neanche conto. Il personaggio di Toni, Jep Gambardella, corrisponde a una tipologia di napoletano che sia io che lui conosciamo molto bene: meravigliose figure in via d’estinzione per motivi anagrafici, che sanno conciliare in modo amabile la passione per il superficiale e il profondo, senza essere snob. Jep può frequentare indifferentemente lo star system televisivo, ma nella conversazione con Orietta lasciar cadere di aver frequentato Moravia. 23
Coverstory In lui, però, c’è anche tanta “fame” da provinciale: di vita, di mondanità…
Sì, è vero. Si è sempre provinciali rispetto a qualcuno e c’è anche tutta una tradizione letteraria che descrive il forestiero che va alla conquista della capitale e come strumento di autodifesa, rispetto a un ambiente estraneo e ostile, utilizza il cinismo. Ma tutti i cinici hanno anche un lato sentimentale molto pronunciato, che nel caso di Jep emerge attraverso il rimpianto della ragazza amata in gioventù. Anche perché di troppo cinismo si muore.
ho raccolto suggestioni e aneddoti. Ma è stata l’idea del personaggio di Jep a far sì che quegli appunti diventassero film, perché ci voleva un testimone che attraversasse quel mondo. Sono ancora stupito e affascinato da Roma. L’intenzione era di gettare uno sguardo su un’ampia rappresentanza umana, con un occhio anche tenero e affettuoso. Possono sembrare un po’ insulsi o non frequentabili, ma dietro ognuno di quei personaggi ci sono malinconie, sofferenze, storie personali. Non abbiamo nessun problema a dire che ci siamo anche noi. Anche noi siamo sull’orlo della disperazione.
Lei descrive molte figure religiose nel film: le suore, il cardinale “ricettaro”, la Santa… Ha ricevuto un’educazione religiosa o ha fatto molte ricerche in proposito?
In realtà, non conosco così bene il mondo ecclesiastico, ma ho cercato di avere sui tanti contesti mostrati uno sguardo onesto e sensibile. Jep a un certo punto della storia sente il bisogno di recuperare una dimensione sacra, ma prima viene rimbalzato dal cardinale (un magnifico, come sempre, Roberto Herlitzka, ndr.) e poi incontra la Santa che con il suo “farlo tornare a una dimensione più povera e semplice” gli offre una certa serenità. Alla fine che cos’è La Grande Bellezza? Un concetto metafisico o l’essenza della Città eterna?
Come hanno preso il film i romani?
Io li guardo tutti con uno sguardo benevolo e tenero. C’è chi si sente troppo coinvolto e si ribella, altri con grande onestà intellettuale si riconoscono e ci scherzano su, congratulandosi con me per aver colto in modo così preciso ed accurato la loro realtà. La domanda era inevitabile e gliel’hanno già fatta in molti: questo film è equiparabile a quello che fu La dolce vita per Fellini?
Fellini realizzò un affresco meraviglioso di Roma, il mio film è più calibrato: una galleria di Quel che mi premeva forse mostrare è la bellezza personaggi che raccontano una città e un modus della fatica di vivere. Per questo il film è così lungo vivendi, senza giudizi. e pieno di personaggi e situazioni. Il film contiene in sé tutte le domande che ci poniamo ogni giorno, i perché… Jep non trae più piacere da nulla, neppure dal sesso. Ha un età (65 anni, ndr) in cui non si può più credere di poter essere felici… Cosa c’è di suo in questo personaggio?
Non lo saprei dire. Non è vero che non mi appartenga o che non mi senta coinvolto. Anche io sono un napoletano approdato a Roma. Un provinciale nella Capitale, da cui rimango sempre stupito, affascinato, meravigliato: dalla gente così come dalla città. Napoli ha dimensioni rassicuranti, che vivendo a Roma vengono meno. Che sentimento nutre nei riguardi di Roma?
Da napoletano sono andato a Roma da ragazzo e più tardi mi sono trasferito a viverci. In tanti anni 24 · LittleWhiteLies
«Volevo gettare uno sguardo sulla natura umana, con un occhio tenero e affettuoso»
L'uomo in pi첫
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Coverstory
26 路 LittleWhiteLies
L'uomo in più
«La Grande Bellezza è un sentito omaggio all’ironia partenopea. Il personaggio di Toni corrisponde a una tipologia di napoletano che sia io che lui conosciamo bene» prende forma. Ma non disegno, non so disegnare. L’altro momento importante è quando cerco i posti dove girerò. La visione dei luoghi mi aiuta Credo sia un luogo comune, quello degli stranie- a entrare nel film, a “vederlo”. ri che non vogliono trovare film che parlino bene dell’Italia. C’è sempre stato un grande amore per il nostro cinema, per Tornatore e Salvatores per esempio. Non hanno un’idea preconcetta. Ad altri stranieri invece è piaciuto molto. Pensa che piaccia loro vedere esposti i punti deboli del nostro Paese?
Parlando, invece, della sua attività di regista in generale, qual è il suo processo creativo “standard”?
Prima individuo un personaggio, più che una storia. E su quello comincio a raccogliere molti appunti, anche su cose che in apparenza non hanno attinenza immediata col personaggio. Scrivo su un grosso quaderno. Quando il quaderno diventa corposo comincio a “fare delle rime fra le cose”, a cercare le assonanze. Sfrondo molto e pian piano la struttura dell’idea
Cosa può dirci, invece, del film a cui sta lavorando La Giovinezza?
Al centro della vicenda ci saranno due vecchi amici, Fred e Mick, interpretati da Michael Caine e Harvey Keitel. I due, vicini agli 80 anni, si ritrovano in vacanza in montagna. Fred è un direttore d’orchestra e compositore al quale viene chiesto di tornare sulla scene, mentre Mick è un importante regista a fine carriera pronto a scrivere il suo ultimo film importante. È una storia sulla profondità dell’amicizia. lwl 27
Coverstory
I PARTY
ESCLUSIVI
DI ESCA FRANC I ARELL CECC
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E L A T I P A C A L L DE
Roma Cafonal
LLA ELLE FESTE DE N : O C S E TT O R LLA. CHIC AL G A PROPRIO NU DAL RADICAL C N A M N O N O ENTIN ? ROMA DI SORR TUTTO QUESTO O TR IE D E D N O ASC MA COSA SI N
uella che Sorrentino ci mostra ne La Grande Bellezza è una Roma indolente, stra-cafona, con donne di plastica e uomini da poco. Eppure allo stesso tempo barocca, papalina, imponente quanto distaccata. E questo con la guida di una sorta di "Virgilio" colto, cinico e ironico: Jep Gambardella, un uomo approdato nella Capitale da ragazzo, che si porta dietro tutta la fame e la curiosità della provincia, e anche quell'accento napoletano che fa tanto blasé. Jep ha accesso ai luoghi più esclusivi e conosce le persone giuste, quelle che vivono la notte proprio come lui. Tutti sono passati per la sua terrazza che dà sul Colosseo dove si balla, si beve e si sniffa. Una fauna ricca, come dice lui stesso. C’è la radical chic moralista, supponente e ricca. Il medico guru che dispensa botulini a volontà, iniettati come fossero una pugnalata al cuore. L'artista che fa performance autodistruttive e che parla di vibrazioni, la spogliarellista agé, l'uomo di spettacolo fallito, ambizioso e fragile. E infine, c'è anche la missionaria in odor di santità che ha sposato la povertà e mangia radici. È gente – eccetto la Santa – che si stordisce per affossare la propria vergogna. Talmente senz’anima da trasformare il lutto ed il funerale di un giovane ragazzo suicida nell’evento mondano per eccellenza. E intanto il Paese affonda, come si vede nell'inquadratura di una Costa Concordia alla deriva. La Roma di un tempo però luccica ancora, anche se dimenticata e lasciata sullo sfondo. Per coloro che li hanno acquistati, o perlomeno sfogliati, l'opera di Sorrentino in più scene – specialmente quelle di festa – ricorda quei ma-
nuali fotografici curati da Roberto D'Agostino: "Cafonal" e "Ultra Cafonal". Sorrentino li avrà sicuramente visti. D’altra parte è così che funziona nel cinema: si parte dalle immagini della realtà. Se per produrre i film in costume ci si basa sugli antichi dipinti ad olio (le uniche immagini disponibili), per realizzare un film così coraggioso su una parte dell’Italia di oggi, l’occhio indiscreto dei fotoreporter e dei paparazzi diventa fondamentale. Quella che emerge da questi volumi è un’Italia rumorosa e strombettante in segreto, fatta di personaggi altolocati in più livelli e settori. Fatta di feste mondane sfrenate e riservatissime, dove se ne vede di ogni e dove tutti conoscono tutti. Cibo e alcool a volontà, vestiti chic luccicanti, giochi pirotecnici, spettacoli d’arte personalizzati, eserciti di inservienti caricati con le molle e tanta, tantissima nudità. Se volessimo sintetizzare gli scatti (più o meno rubati) di Roberto D’Agostino e Umberto Pizzi con due hashtag, questi sarebbero #volgarità e #trash. Un’Italia cafona (l) che se la spassa alle spalle dei cittadini, senza sensi di colpa. Una macabra danza su un Paese che dorme, accecato da tutte quelle bende perfidamente avvolte da questi signori del potere. Un sottobosco che ha radici lontane, nonostante da pochi anni vive sotto i riflettori mediatici. Se un tempo lo svago dei potenti viveva solo nella nostra immaginazione, oggi la realtà dimostra che va anche peggio di ogni fantasia. Politici, imprenditori, artisti più o meno (de)cadenti, personaggi televisivi, ma anche preti, prelati, giornalisti… Ma non è solo gossip. Il mood generale che ne esce è la sensazione che oltre al divertimento delle abbuffate in quei saloni, giardini, palazzi, ville (e così via…), si consumino anche importanti decisioni per l’Italia. O meglio, importanti decisioni a vantaggio personale, tra maggior guadagno e poltrone raccomandate. Trattative tra scollature, vodka, silicone, torte di panna e porchetta e qualche sostanza eccitante, da consumare più o meno appartati. Insomma, in questi teatrini raccapriccianti che Sorrentino ripropone alla perfezione, Jep Gambardella è il leader indiscusso. Ma d’altronde lo dice lui stesso, che di quella mondanità vuole esserne il re e che ambisce al potere di "far fallire quelle stesse feste" in cui lui scivola con innata ed elegante disinvoltura. In effetti... un gran bel cafone!! lwl 29
Coverstory
La
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La fuffa dell'arte contemporanea
dell'arte contemporanea di Federico Giannini
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Coverstory
TRA I PRIMISSIMI COMMENTI CHE SONO STATI FATTI AL PREMIO OSCAR LA GRANDE BELLEZZA, UNA BUONA PARTE RIGUARDA IL MODO IN CUI VIENE TRATTATA L’ARTE CONTEMPORANEA. SORRENTINO, INFATTI, METTE ALLA BERLINA L’ARTE, SBEFFEGGIA LA BODY ART E DERIDE APERTAMENTE IL RUOLO CHE HA
C'
C’è una scena de La Grande Bellezza che in pochi hanno sottolineato a sufficienza e che invece nasconde molto: la performance artistica al Parco degli Acquedotti, e la successiva intervista di Jep Gambardella alla body artist Talia Concept. Si tratta di una scena che mette in ridicolo le performance artistiche contemporanee, ma soprattutto l’ignoranza e la vacuità che si nascondono dietro coloro che si fanno chiamare oggi “artisti”. Una scena che rivela una conoscenza piena del mondo dell’arte contemporanea, e dei suoi grotteschi rituali.
L'ARTISTA OGGI. TUTTO GRAZIE (ANCHE) A TALIA CONCEPT, LA BRAVISSIMA ANITA KRAVOS, UNA SORTA DI MARINA ABRAMOVIC DI PROVINCIA.
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La performance contiene tutti i luoghi comuni del caso: la presenza di corpi nudi, un set che preveda la contaminazione fra antico e contemporaneo, i riferimenti politici, meglio se internazionali – la falce e il martello sul pube tinto di rosso – ma sempre decorativi e innocui, la presenza di sangue, il silenzio rituale di contemplazione-attesa rotto dall’urlo improvviso, la parola striminzita che deve risultare ambigua e allusiva a chissà quale dramma (il grido finale «Io non vi amo!»). E poi c’è il pubblico, sul prato, ormai composto indistintamente da signori e signore dell’alta borghesia annoia-
Talia Concept, Testata su Acquedotto, 2013. Sangue su mattone. Roma, Parco degli Acquedotti. 33
Coverstory
NEL FILM, L'ARTE CONTEMPORANEA DIVENTA QUASI LO SPECCHIO DELLA SOCIETÀ IN CUI JEP SI È CONDANNATO A VIVERE: UN CONTENITORE VUOTO E INUTILE, FATTO DI APPARENZA E DI INGANNO, CHE NON HA NIENTE DA RACCONTARE 34 · LittleWhiteLies
troverà piuttosto facile leggere nelle parole di Jep Gambardella una critica all’arte contempoIN ESCLUSIVA ranea da parte degli autori del film, e allo stesUN ESTRATTO so modo nella performance dell'artista riuscirà a intravedere i modi di Marina Abramovic, la DEL FILM performer per antonomasia. Tuttavia va detto subito, Talia Concept non è Marina Abramovic. Ne è, tutt’al più, la patetica parodia, "la falce e martello" al posto della "stella a cinque punte" che Marina si incise sul ventre nella performance Lips of Thomas del 1975, la corsa verso l’acquedotto al posto della lentissima camminata lungo la Muraglia Cinese nel 1989. Talia sarebbe dunque, più che una satira dell’arte, una presa in giro della sua degenerazione, in una Roma basso imperiale, dove disimpegno e ta e dall’altrettanto annoiata gioventù pseu- ottusità vanno a braccetto. do-alternativa. La gente distesa sul prato che osserva attenta e concentrata la performance, e altrettanto diligentemente applaude, è un ritratto del vuoto esistenziale interclassista contemporaneo. La grande idiozia dell’arte contemporanea Nel film, l'arte contemporanea diventa quasi lo coinvolge ricchi e poveri, senza più alcuna di- specchio della società in cui Jep si è condannastinzione, tutti uniti nel presentismo modaio- to a vivere: un contenitore vuoto e inutile, fatto lo, tutti alla disperata ricerca di qualcosa che di apparenza e di inganno, che non ha niente da li faccia sentire “diversi”, capaci di intendere raccontare. E nell'ottica del film, questa iniziale qualcosa che gli altri non capiscono. Tutti privi critica mossa all'arte contemporanea, non rapdelle facoltà culturali, intellettuali, ma soprat- presenta che una delle prime prese di coscienza tutto umane, utili a decifrare la palese truffa che porteranno il protagonista sul suo percorso, che lo guiderà verso la "grande bellezza". L'arte contemporanea diventa quindi vuota, autoreferenziale, uno sfoggio auto compiacente di concetti fondati sul niente, che riescono tuttavia ad abbindolare i più sprovveduti: uno che si cela dietro la parola “arte”. sfoggio che però, si discioglie di fronte alla Nella scena immediatamente successiva, l'ar- seppur minima richiesta di dialogo e di argotista, che parla di sé in terza persona, è intervi- mentazione. È la realtà degli artisti contempostata da Jep Gambardella. Il colloquio fra i due ranei che parlano di fronte a platee silenziose è surreale: l'artista vorrebbe che si parlasse de- e acclamanti: ma cosa sarebbe l'arte contemgli argomenti da lei richiesti, ma Gambardella poranea se in ogni platea ci fosse un Jep Gaminsiste nel voler farsi spiegare cosa intenda la bardella pronto a incalzare la "Talia Concept" donna quando dice che la sua arte è ispirata da di turno con domande circa l'essenza della loro "vibrazioni”. Talia Concept parla di cose di cui arte. Quella del film è una critica che non si ignora il significato, ma d’altronde lei è un’arti- muove solo verso i protagonisti dell'arte consta e non ha bisogno di spiegare nulla. Eppure temporanea (l'artista, appunto, e il pubblico), Jep non ci casca. ma anche verso il mondo che gli sta intorno, ed Chi ha confidenza con l'arte contemporanea, esemplare in tal senso è la scena del lanciatore
La fuffa dell'arte contemporanea
Roma è monumentale maestosa e marmorea. Una scenografia metafisica in cui si agitano personaggi tormentati e privi di senso
di coltelli, o ancora meglio quella della piccola Carmelina, una "enfant prodige", costretta a dipingere contro la sua volontà e strappata brutalmente dai giochi con gli amici per esibirsi di fronte a una di quelle platee silenziose e acclamanti di cui sopra, con la viscida condiscendenza dei genitori. E la ragazzina sfoga la sua frustrazione di fronte a una tela contro cui lancia barattoli di vernice, piangendo e imbrattandosi, ma creando alla fine un "capolavoro" che sarà venduto a un facoltoso gallerista.
È un mercato vorace e cinico, quello dell'arte contemporanea, pronto a strumentalizzare persino una bambina, aiutato da personaggi dalla dubbia moralità che rimangono impassibili di fronte al disagio della fanciulla. Ma è proprio su questo sfacelo che s’innesta un'arte salvifica, che eleva i protagonisti del film dalla volgarità nella quale hanno sguazzato fino a quel momento. Non è però "l'arte contemporanea", o almeno non quella vuota, malata di protagonismo, osannata dalla critica e sostenuta dal mercato. È invece l'arte antica, che si rivela sommessamente a lume di candela, nel silenzio più totale, quando Jep porta Ramona a fare un tour dei più bei palazzi di Roma, di notte, con la sola guida di un amico che in mano ha un candelabro. Un’arte “calda”, colma di storia e avvolta da un timore reverenziale, lo stesso che ha Ramona nel contemplarla. Ma la Roma de La Grande Bellezza è anche la Roma monumentale, maestosa, marmorea, popolata da architetture fredde e pure, candide e immobili, che la rendono una scenografia metafisica in cui si agitano personaggi tormentati e privi di senso. Allora sembra lecito voler paragonare queste due grandi realtà opposte – l’arte contemporanea e quella antica – ai binomi con cui il film ci schiaffeggia di continuo: moralismo e amoralità, spiritualità e volgarità, sfarzo e povertà, fede e perdizione. E perché no, anche il tatuaggio di Papa Wojtyla sull’avambraccio di una Sabrina Ferilli spogliarellista. lwl 35
Coverstory
COME PERDERE TEMPO A ROMA I LUOGHI DELLA CAPITALE NEI PASSI DI JEP GAMBARDELLA di Costantino D’Orazio illustrazioni di Francesca Ceccarelli SEGUENDO JEP GAMBARDELLA in tutti gli eventi mondani più esclusivi, La Grande Bellezza ci dà la possibilità di ammirare una Roma diversa da quella che troviamo sulle cartoline, una Roma nascosta dietro portoni, muri e cancelli che sembrano sempre chiusi. Eppure esiste un modo per visitarli, anche quando sembrano 36 · LittleWhiteLies
inaccessibili. Ecco una guida che vi permetterà di scoprirli, per rivivere i luoghi del film sui passi di Jep. Partiamo dalla casa del protagonista, un attico di un palazzo in Piazza del Colosseo, che si affaccia sul lato sud dell’Anfiteatro Flavio. Orietta, la bella donna annoiata con cui Jep consuma una notte d’amore, vive in un apparta-
Come perdere tempo a Roma
mento di piazza Navona, proprio sotto uno dei campanili della Chiesa di Sant’Agnese in Agone, all’estremità di Palazzo Pamphilj. Viola, l’amica ricca e depressa, abita a Palazzo Sacchetti, in via Giulia, dove organizza un pranzo a cui non parteciperà nessuno.
Non lontano da lei vivono i fantomatici Principi Colonna di Reggio, i nobili in affitto che hanno allestito il loro museo di famiglia a Palazzo Taverna. Sorrentino gioca con le identità dei luoghi, li intreccia e li trasforma secondo le sue esigenze narrative: i “palazzi delle principesse” che Stefano apre per Jep e Ramona sono in realtà musei che conservano alcune tra le opere più affascinanti di Roma. Dal portone di Santa Maria del Priorato all’Aventino, col buco della serratura più famoso di Roma, alle sculture dei Musei Capitolini, dal cortile di Palazzo Altemps allo scalone monumentale di Palazzo Braschi, dalla Fornarina di Raffaello in Palazzo Barberini alla
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Palazzo dei Penitenzieri Palazzo Sacchetti Palazzo Taverna Palazzo Altemps Piazza Navona Palazzo Braschi
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Terme di Caracalla Santa Maria del Priorato Santa Sabina Giardino degli Aranci Anfiteatro Flavio Colosseo (casa di Jep Gambardella)
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Palazzo Spada Muraglioni del Tevere (da Ponte Sisto) Tempietto del Bramante Fontanone Gianicolo
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Palazzo Barberini Via Bissolati Via Veneto Villa Medici Villa Giulia
Musei Capitolini Angelicum Palazzo Brancaccio Scala Santa Cimitero monumentale del Verano
falsa prospettiva di Borromini in Palazzo Spada, fino al gruppo scultoreo dei Niobidi nel cuore di Villa Medici, dove si conclude la loro affascinante esplorazione notturna. Roma è meravigliosa soprattutto quando appare deserta: così riesce ad ammirarla Gambardella nelle sue passeggiate all’alba, di ritorno dalle feste più mondane. La prima lo conduce sul colle Aventino, dove incontra un gruppo di novizie nel portico di Santa Sabina e scopre una suora intenta a cogliere i frutti da un albero nel Giardino degli Aranci. Pochi giorni dopo lo troviamo pensieroso lungo i Muraglioni del Tevere, dove è arrivato dopo aver percorso una Via Veneto deserta, che conserva solo un vago ricordo de La Dolce Vita. È qui che si svolge la sua festa di compleanno, allestita sulla terrazza di un palazzo degli anni ‘30 in Via Bissolati. Un ballo sfrenato a cui partecipano volti deformati dal botulino, che si ritrovano tutti a Palazzo Brancaccio per sottoporsi alle iniezioni del miracoloso rimedio di bellezza. Sul lato opposto della città, Sorrentino esplora a modo suo i luoghi più celebri del Gianicolo: il cannone che spara proprio all’inizio del film si trova sotto la terrazza in cui troneggia la statua equestre di Garibaldi, circondata dai busti degli eroi della Repubblica Romana.
A pochi passi, scroscia l’acqua del Fontanone, che sormonta il complesso di San Pietro in Montorio, col Tempietto del Bramante. Anche quando la cinepresa abbandona il Centro Storico, Roma appare monumentale: la performance d’arte contemporanea va in scena nel Parco degli Acquedotti, mentre per il funerale dell’unica donna amata da Jep, il regista ha preferito il Cimitero Monumentale del Verano. Spesso Sorrentino fa scelte sorprendenti, come quella di allestire un negozio di abbigliamento nell’atrio del Salone delle Fontane all’EUR, dove va in scena il monologo del funerale. La Grande Bellezza è un film tra sogno e realtà, proprio come la mostra di fotografie sotto la loggia di Villa Giulia o il trucco che fa scomparire la giraffa, nel cuore di Roma archeologica, alle Terme di Caracalla. lwl 37
Coverstory
tes t Fra o e il nc lust esc ra a C zion e cc i d are i lli
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ep Gambardella è steso sul letto, le braccia incrociate dietro la testa, e fissa il soffitto. Ma non vede il soffitto, vede l’acqua. Acqua fredda, limpida e azzurra come il cielo d’estate. Vediamo quest’immagine suggestiva e quasi surreale più volte nel corso de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. E non ci sono altri aggettivi appropriati per descrivere il premio Oscar come “Miglior Film Straniero”, perché La Grande Bellezza è semplicemente un bellissimo film da guardare, da sentire e da ponderare. Dopo essere stato acclamato per il suo capolavoro (?) giovanile – L’apparato umano – Jep Gambardella decide di accontentarsi di riposare sui propri allori e condurre la vita facile del classico flâneur europeo, invece di impegnarsi nel difficile compito di scrivere. A Roma – con il suo cibo eccel-
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A Z N A T S A lente, i party notturni, donne mediterranee senza inibizioni, viste mozzafiato e possibilità infinite per una languida visione sulla natura umana – perché scrivere? Se si hanno i mezzi per godersi la vita, e si vive in una città dove divertirsi non è così difficile per chi può permetterselo, perché lavorare? Ma a sessantacinque anni, Jep sembra vivere una crisi di mezza (se non tre quarti) età. Cerca di capire, Jep, cosa gli sia successo, ma sembra non trovare mai risposte, e dover sempre “lasciar stare”; e così continua a muoversi in solitaria, ma accompagnato da un'umanità malinconica e segnata. Sembrerebbe dunque che la sorte delle nostre speranze sia quella di trapassare inevitabilmente in disillusioni. Fino a dire, appunto, che tutto in fondo è illusione. Ma la delusione che cosa ci dice? Essa non è solo la sconfitta delle nostre aspettative, ma è come il segno indelebile di quello che aspettiamo. E possiamo aspettarlo perché, in qualche modo, esso ci ha già toccato. Anche Jep era stato toccato, nel momento di grazia della sua giovinezza, dallo sguardo di una ragazza, Elisa, che era stato per lui la grande promessa di una bellezza che può riempire il cuore e rispondere al suo desiderio di felicità. E quello sguardo riluce ancora, a tratti, in quello di Jep, squarciando la foschia dello scetticismo o il fastidio di chi pensa di aver già visto tutto. In questo sguardo è custodita l’unica cosa interessante da cercare, l’unico tema per cui varrebbe la pena riprendere a scrivere, l’unica promessa per cui vivere, e morire. Ma tante volte è per dimenticare questo sguardo, che si chiacchiera a vuoto (come il Cardinale
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esperto nell’”esorcizzare” il demone che abita la mente degli uomini, ma che poi preferisce parlare di improbabili ricette di cucina). Ed è per non ascoltare più questa urgenza del cuore che ci si agita, come i tanti personaggi del film la cui occupazione principale sembra essere quella di stordirsi per sopportare la vita, tacitandola. Ma Jep, no: egli resta sospeso sulla soglia della disillusione, senza mai abbandonare del tutto la promessa da cui la delusione era nata, e senza (ancora) trascinarla nella disperazione. Quando viene a conoscenza della morte di Elisa, riprende in qualche modo il contatto con il suo passato e ci vengono mostrati, quindi, dei ricordi fugaci di lei e sono proprio quei ricordi che catalizzano l’improvvisa rivalutazione della sua vita. Questa riconsiderazione è provocata inconsciamente anche dallo spettro costante della religione che circonda lui e tutti gli altri personaggi. In molte città – per esempio La Mecca o Gerusalemme – la religione è un aspetto estremamente importante nella cultura, società e struttura. Anche il profano è circondato dal sacro; la religione è tessuta nella stoffa della città così come la corrente scorre nei muri degli edifici moderni. Anche se è invisibile, c’è. E la religione è una presenza fissa ne La Grande Bellezza, principalmente perché la presenza del Cattolicesimo è inevitabile a Roma. Jep è spinto ancora più vicino all’orbita della religione quando incontra suor Maria, una “santa” centenaria un po’ grottesca, sull’iconografia ideale di Madre Teresa. Ecco il binomio più stridente e affascinante del film: il flâneur e la santa, l’intellettuale e il clero, il 39
Coverstory
mondo e il mondo a venire. Due classi di individui apparentemente opposte: a volte l’una guarda all’altra sforzandosi di compensare alcune lacune. Il tentativo di Jep di compiere un’opera buona – aiutare la figlia di un suo amico – potrebbe essere l’ammissione della mancanza di moralità, così come il modo eccessivo in cui il Cardinale si entusiasma per il cibo, potrebbe essere la rivelazione della mancanza di altre forme di piacere. Eppure, nonostante il loro flirtare con altri modi di vivere ed esperienze di altro tipo, alla fine essi si rassegnano alla vita che hanno condotto, perché credono di aver vissuto la vita che era meglio per loro. Come Jep e la sua cerchia – riempiranno la vita di qualche significato e – se ne avranno bisogno – di qualche barlume di speranza per il futuro, non è chiaro. Ma mentre uno degli amici di Jep diventa così sconsolato verso il suo futuro senza prospettive, da lasciare Roma, forse Jep non deve aspettarsi nulla. Forse la questione che preme maggiormente nella sua vite non è cosa c’è da aspettarsi dal domani, ma come vivere al meglio la propria esistenza ogni giorno. Jep non si occupa dell’altrove, lo dice a se stesso quando raggiunge finalmente una sorta di catarsi emotiva e spirituale. Il suo compito è quello di raccontare la vita umana in questo mondo. E la santa allora? Al contrario di Jep, sa che i suoi compiti non riguardano i piaceri e le ricchezze, e quindi perché essere gelosi di quello che ha avuto Jep? Ovviamen40 · LittleWhiteLies
La religione è una presenza fissa ne La Grande Bellezza. Roma è una città dove anche il profano è circondato dal sacro te lui non può percorrere la via dell’ascetismo, della spiritualità e della carità. Egli è molto più simile al Cardinale edonista e raffinato. In poche parole, essendo Jep un uomo con molta carne e “poco spirito”, non si può sovrapporre alla santa, non può seguirne le orme, ma può trarne ispirazione. E infatti essa non darà prescrizioni o consigli morali, ma dirà alla sua maniera che la grande bellezza può manifestarsi solo seguendo quell’incontro iniziale della grazia, che ogni uomo ha sperimentato almeno una volta nella vita, e che qui riaccade nella stupefacente, surreale presenza di uno stormo di fenicotteri rosa, in volo verso una qualche loro terra promessa. Ecco quindi, dove si incontrano il flâneur e la santa in un tacito punto di incontro: lui sulla cima di un’altura di fronte ad un faro, lei in cima alla Scala Santa, davanti al crocefisso. lwl
Speciale
Little White Lies presenta
DURI COME LA PIETRA ALL’APPARENZA, MA FRAGILI NELLA LORO INTERIORITÀ. E SE I PROTAGONISTI DE LA GRANDE BELLEZZA, FOSSERO FATTI REALMENTE DI MARMO?
illustrazioni di Francesca Ceccarelli
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Coverstory
Jep 42 路 LittleWhiteLies
Speciale
Romano
Dadina 43
Coverstory
Ramona
La santa 44 路 LittleWhiteLies
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Recensioni
46 路 LittleWhiteLies
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3. Recensioni P44
La trattativa
P57
Colpa delle stelle
P68
Frank
P47
Intervista a
P58
Boyhood
P69
Jimi •
Sabina Guzzanti
P60
Piccole crepe, grossi guai •
Tutto può cambiare
Una promessa
P70
Dearest
P61
Love is strange
P71
Kuzu
Birdman
P62
Si alza il vento
P72
Journey to the West •
P51
Lucy
P65
Se chiudo gli occhi
P52
Il giovane favoloso
non sono più qui •
P73
Il regno d'inverno
P55
Intervista a
Boxtrolls
P76
Italy in a day
P78
Intervista a
P48
Sin City 2 • Perez.
P49
Posh
P50
P56
Elio Germano
P66
Le due vie del destino
Romeo & Juliet
P67
La spia
Nobi
Gabriele Salvatores 47
Recensioni
48 路 LittleWhiteLies
La trattativa
PASSATO O PRESENTE? LA TRATTATIVA di Sabina Guzzanti • con Sabina Guzzanti, Enzo Lombardo, Ninni Bruschetta
NON ERA PER NIENTE FACILE. E invece Sabina Guzzanti ce l’ha fatta a raccontare con brio ed eleganza una delle pagine forse più buie del dopoguerra italiano. Al suo quarto lungometraggio documentario, dopo il folgorante Viva Zapatero! sulla censura subita in Rai, Le ragioni dell’aragosta su un'auto-analisi di gruppo comico, Draquila sui terremoti che colpirono il capoluogo abruzzese e zone limitrofe nella primavera del 2009 e Franca, la prima sull’attrice e sceneggiatrice Franca Valeri… la regista romana punta molto in alto. Il suo obiettivo è ricostruire, con il supporto di un cast di attori sopraffini, quello che alcuni magistrati pensano possa essere successo all’indomani della stagione delle bombe di Cosa Nostra dopo gli omicidi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E cosa potrebbe essere successo? Che lo Stato trattò con una "Cosa Nostra", destabilizzata dalla mancanza di un nuovo interlocutore politico dopo il voltafaccia della DC che non fece niente per fermare quel Maxiprocesso di Palermo, così insultante per i mafiosi da decidere di freddare per vendetta il parlamentare democristiano Salvo Lima il 12 marzo 1992, e cominciare a meditare di far saltare in aria il P.M. di punta del Maxiprocesso Giovanni Falcone. Si pensava che dopo le lunghe trasmissioni di Michele Santoro dedicate all’argomento da Annozero a Servizio Pubblico più i numerosi interventi de Il Fatto Quotidiano, il tema della supposta trattativa Stato-Mafia fosse trito e ritrito. E invece la Guzzanti è riuscita a mettere insieme 108 minuti snelli e vivaci.
La trattativa è molto godibile e interessante. Ci piace soprattutto il taglio brechtiano, con attori che annunciano la loro discesa in campo recitativa prima di interpretare uno dei vari personaggi chiave di quel periodo, oppure, e con una insospettabile voglia di scherzare, annunciano i flashback del racconto ad altri personaggi creando buffi equivoci metacinematografici rompendo la sospensione dell’incredulità. Si è preso chiaramente spunto dall’Elio Petri e Gian Maria Volonté del corto Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970), ma con una leggerezza e senso dell’umorismo in più niente affatto male rispetto alla severità anni ’70 che traspare da Volonté. Eccoli dunque sfilare e recitare. Da Gaspare Spatuzza (in una scena iniziale esilarante dà gli esami di teologia in carcere facendo la figura del maturando impreparato di Ecce bombo di Moretti), a Scarantino, Massimo Ciancimino, l’ex Procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, il Comandante dei ROS Mario Mori, il colonnello dei Ros Michele Riccio, l’eroico pentito Luigi Ilardo, l’ex Senatore, e fondatore, di Forza Italia Marcello Dell’Utri. Possono sembrare solo nomi, anche se alcuni illustri, ma ne La trattativa diventeranno dei personaggi a tutto tondo, perfettamente caratterizzati. Chi ai limiti della macchietta, chi in chiave tragicomica, chi recuperando la commedia dell’arte, chi con l’espediente del registro della commedia poliziesca. È un cine-teatro dell’assurdo estremamente plausibile dove la coppia più divertente è rappresentata dal politico DC Vito Ciancimino e suo figlio Massimo, qui simi49
Recensioni
li a Father&Son de I soliti idioti, laddove Vito è un padre virile, manesco e perennemente incazzato, mentre Massimo è una sorta di gagà dinoccolato, viziato, un po’ femminuccia e cresciuto a “pane e schiaffi”. Si sente lo sguardo ironico di un grande comico donna su questi due uomini del Sud, intenti a mettere in scena i più triti luoghi comuni dell’educazione maschile siciliana. Molto, molto divertenti. Marcello Dell’Utri? Un pacioso palermitano, tondo, gentile, molto appassionato di calcio e tendente a minimizzare ogni cosa con ampi gesti delle mani per indurre l’interlocutore a non prendere mai niente troppo sul serio. Emozionante invece la coppia carabiniere integerrimo e pentito spericolato, che Hollywood avrebbe potuto subito trasformare in star di una commedia poliziesca per quanto sono simpatici e appassionanti, come carabiniere e infiltrato ex mafioso, soli contro tutto e tutti. Così affiatati nel lavoro da diventare cari amici. A loro il compito di mettere in scena uno degli episodi più sconcertanti di tutti: una volta individuato dall’infiltrato in Cosa Nostra Ilardo il covo del boss Bernardo Provenzano… il superiore di Riccio, Mario Mori, opterà per un pronto non-intervento lasciando Provenzano lì tranquillo per buoni 6 anni. Per non parlare di quei fatidici 18 giorni in cui il covo di Totò Riina, una volta individuato, verrà lasciato incomprensibilmente incustodito dai carabinieri permettendo ai mafiosi di portare via documenti scottanti… e visto che c’erano, ridipingerlo pure tutto. Interessante anche la tesi della cattura, non casuale, del sanguinario Riina – una Mafia troppo esigente con lo Stato – per portare avanti Bernardo Provenzano – una Mafia più accomodante, come dimostrano quei bellissimi flashback che ricostruiscono l’amicizia nata un giorno di pioggia nel bosco tra un piccolo Bernardo Provenzano, ragazzo selvaggio alla Truffaut, e un giovane Vito Ciancimino studente azzimato. Ci sarebbe tanto da ridere, se La trattativa non facesse anche un po’ piangere. Dopo la visione del film si ha la netta sensazione di aver assistito a una sorta di bestiario tutto italiota: carabinieri superficiali un po’ da bar-
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Anteprima UNA STORIA COMPLESSA DA RACCONTARE
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Un’opera di impegno civile che riesce a far ridere in una storia tutta da piangere zelletta, ministri che non conoscevano Borsellino nonostante fosse il magistrato più famoso d’Italia, e mafiosi più seri e coerenti rispetto ai tanti interlocutori istituzionali di quel periodo. Sembra anzi dal film, che gli affiliati di Cosa Nostra abbiano una fierezza e codice etico degna dei samurai giapponesi, rispetto a tanta classe dirigente nostrana. La trattativa giunge a questa conclusione con estrema lucidità e potenza cinematografica. Non era facile. FRANCESCO ALÒ
Visione QUALCHE LACUNA, MA IL TENTATIVO È BUONO
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Flashback L'EMPATIA È FORTE: CI HA CONQUISTATO MOLTISSIMO
Il film è stato girato in green screen e le scenografie sono fatte con dei modellini applicati a computer
Intervista
LA REGISTA DE LA TRATTATIVA CONCEDE A LWLIES UNA BREVE, MA INTENSA CHIACCHIERATA SULLA SUA ULTIMA FATICA
Sabina Guzzanti di FRANCESCA CECCARELLI
Ci racconti come ha avuto inizio la storia de La trattativa? È una storia che ho studiato per un bel po’, cercando varie fonti e tentando di mettere insieme i pezzi. Ovviamente si potrebbe approfondire in eterno. Fatto questo, ho cominciato a pensare a come strutturarla: ho fatto 2 o 3 tentativi e alla fine sono arrivata al risultato che volevo. È una storia raccontata da molti punti di vista, che sono poi quelli dei testimoni, e quindi soggettivi. Insieme – come se fosse un giallo – si ricostruiscono tutti pezzi del mistero di tutte quelle stragi che sembrano fatte alla mafia, ma non secondo le loro modalità, ci sono dietro i servizi segreti, ma non si riesce a provarlo. Entrano i carabinieri, i ROS, di ministri e quindi una buona parte dello Stato: ecco perché si parla di trattativa. La cosa interessante di questo racconto è che in quegli anni in Italia succede qualcosa che cambia la storia: sembrava che le cose dovessero prendere un altro corso, che ci si potesse liberare dalla corruzione e invece si prende la direzione opposta. La massima corruzione e il massimo allontanamento delle Istituzioni dal popolo. I testimoni che raccontano la loro versione sono reali?
Sono attori che mettono insieme una parte. La documentazione purtroppo è poca e non ci ha permesso di trovare altre fonti certe.
Come ti sei documentata?
Con le registrazioni dei processi che si trovano sia negli archivi di Radio radicale che su siti come antimafia2000.it. Noi abbiamo scelto una messa in scena teatrale ma i loro processi sono davvero un teatrino. Ascoltando le registrazioni c'era da ridere, dai rumori che ci sono prima del processo, che paiono i suoni prima di un concerto di classica, quando l’orchestra accorda, ai siparietti involontari con i cancellieri… Come mai hai optato per uno stile che mescola realtà e finzione?
Avevo pensato di raccontarlo tutto con la finzione inizialmente, perché usare solo la forma classica del documentario sarebbe risultato poco comprensibile e non sarebbe stato un film. Dunque quando ho potuto ho usato materiale reale e per le parti per le quali non esisteva mi sono rivolta alla finzione, cioè, nessuno filmava Spatuzza mentre dichiarava di aver fatto lui l’attentato a Borsellino. Quando è nata l’idea del film?
Girando Draquila e intervistando Massimo Ciancimino. Mi ero appassionata alla sua intervista ‒ le mie sono sempre molto lunghe ‒ e ho pensato di andare più a fondo sulla materia con un altro film perché è una storia che pare perfetta per il cinema.
illustrazione Francesca Ceccarelli
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AVVOCATO AGLI INFERI PEREZ. di Edoardo De Angelis • con Luca Zingaretti, Marco D’Amore
Confezionato su misura per Luca Zingaretti, Perez. può essere definito come un lungo episodio divertente e rock’n’roll della serie ispirata al best-seller di Roberto Saviano. A Venezia ha oscurato Anime Nere, altro noir. Il merito va a Edoardo De Angelis e Massimiliano Gallo, una coppia vincente già dai tempi dell’esordio con Mozzarella Stories. Sono loro due (il primo alla regia, l’altro alla recitazione), a tenere alto il ritmo e trasformare questo noir d’azione in un’esperienza estremamente gradevole. Il film? Molto carino. L’avvocato d’ufficio Perez (Luca Zingaretti) è un uomo senza punto (il titolo invece ce l’ha) perché sono anni che si fa trattare male da tutti. Colleghi che sarebbero anche migliori amici, figlia, clienti, ex moglie, balordi incontrati per strada. Cosa può andare di più storto a un avvocato d’ufficio così sfigato e bistrattato da essere ricusato in aula da un suo cliente, che lo chiama addirittura “latrina” davanti a tutto il tribunale? Semplice: che la figlia si fidanzi con un giovane boss
Ritorno alla città del peccato
Eva Green interpreta Ava Lord, primo amore di Dwight McCarthy
SIN CITY: UNA DONNA PER CUI UCCIDERE di Frank Miller e Robert Rodriguez • con Jessica Alba, Mickey Rourke, Eva Green Ci sono voluti quasi 10 anni per realizzare un secondo film dai fumetti di Sin City, nel frattempo quell’estetica ha contaminato molto altro cinema (da 300 in poi almeno). Ora Sin City torna completamente digerito dal cinema, non è una novità ma è parte del sistema, non rompe degli schemi ma li conferma. In questo senso dovrebbe aver in teoria perso la sua forza, in realtà conferma tutti i propri pregi e difetti. Perché questo secondo film mantiene una sceneggiatura e dei dialoghi terribili (non aiutati dal doppiaggio italiano) a fronte di soggetti ottimi (la parte di storia che proviene dai fumetti), ma lavora di estetica in maniera ancora migliore, ancora più radicale e ancora più milleriana quindi ancora più eccitante. Al secondo tentativo Robert Rodriguez (di nuovo con Miller stesso) centra molto più l’obiettivo
di tradurre le componenti migliori del tratto milleriano al cinema. Se le parole riescono a prosciugare di qualsiasi interesse la vicenda, è anche vero che la prospettiva che inquadra gli eventi è fenomenale. Prova ne è il segmento di Joseph Gordon-Levitt, sulla carta il più vacuo e meno compiuto, mentre nella pratica uno dei più suggestivi. Le tre storie di Sin City 2 disegnano ancora una volta e con più forza il tema portante del noir duro e puro, sebbene tendano quasi all’hard boiled. Lungi dall’essere banale, la sovraesposizione al posto dell’ammiccamento e del suggerito nella dimensione visiva di Miller diventa l’essenza dell’espressionismo fumettistico. Non c’è quasi nulla di nemmeno “probabile” in Sin City 2, ma questo rende ogni idea visiva capace di dire cose vere. GABRIELE NIOLA
1 Anteprima NESSUN FILM CON EVA GREEN PRENDE UNO ZERO
4 Visione NE È DECISAMENTE ALL’ALTEZZA!
1 Flashback PROIETTILI, PUGNI E SESSO: SIAMO ALLE SOLITE
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camorrista rampante e lo umili davanti a tutti cacciandolo da casa sua durante un party. A questo punto entra in scena lui: Massimiliano Gallo. È Luca Buglione, un altro camorrista ma più psicopatico e sui generis rispetto a Corvino. Porta gli occhiali, parla forbito, ha una voce leggermente stridula e in combutta con un mitico fratello sempre citato e mai visto, ha un piano che, indirettamente, potrebbe risolvere i tanti problemi di Perez. La cosa, con l’ingresso di Buglione, si fa parecchio eccitante. Ci saranno diamanti da spartire, tori da aprire in due, amici depressi da motivare, boss da nascondere e figlie da recuperare. De Angelis ama il dialogo forte, location d’impatto, le urla, whiskey da bere come nei film americani, parole che feriscono come nei romanzieri hard-boiled e pallottole che non è necessario sprecare. Tanto ne bastano poche per uccidere. Il suo film, come Mozzarella Stories, vale assolutamente la pena di essere visto. Anni fa avremmo gridato al miracolo vista la morte cinematografica del noir e poliziesco italiota con la fine dei ’70. Adesso, dopo la tv di Romanzo Criminale e Gomorra, il cinema ci sembra un passo indietro. Anime Nere crolla rispetto al piccolo schermo. Perez. regge il confronto. Ma può bastare, oggi, un pareggio? Il cinema non dovrebbe essere ancora più grande, provocatorio e significativo? È un bel problema per gente in gamba come De Angelis. Seguiremo con attenzione la faccenda. Punto. FRANCESCO ALÒ
Il club dei posh viziati THE RIOT CLUB di Lone Scherfig • con Max Irons, Sam Claflin, Douglas Booth Viene dall’Inghilterra e da una regista danese, Lone Scherfig, questo veicolo per giovani attori bellocci, lo stesso ha davvero poco di europeo. Posh sarebbe la versione per il cinema di The Riot Club, opera teatrale di Laura Wade che lei stessa ha adattato per il cinema allargando l’unità di luogo dalla cena che costituisce la seconda parte del film ad un affresco più grande di un certo tipo di gioventù britannica da Oxford. Posh sembra una versione andata male di un film comico, in molti momenti potrebbe svoltare sul demenziale ma non lo fa per rimanere nei canoni del proprio genere. Il filo rosso della storia è abbastanza chiaro e didascalico: esiste una parte della futura classe dirigente che viene caricata di aspettative, riempita di livore sociale e annebbiata da ideali di unicità e potere, questa finisce ben presto con il credere di poter sopravvivere a tutto e pagare qualsiasi errore con il denaro. Quelle persone si formano così da secoli e poi dirigono il Paese. È però proprio l’approccio così diretto a far cadere il film. Perché sia Lone Scherfig sia Laura Wade sembrano avere una verità rivelata che intendono mostrare: sembrano voler insegnare al pubblico come stanno davvero le cose, invece che cercare di mettere in scena una rappresentazione della realtà, in cui i problemi e le crisi siano affrontati
da una complessità di punti di vista. L’ostentata bontà dei bravi lavoratori umiliati dai viziati studenti, la purezza della piccola storia d’amore calpestata dall’arroganza e l’insistito sadismo dei protagonisti sembrano la peggiore delle vendette a mezzo filmico invece che un racconto interessante. L’unica pallida nota positiva è la conferma dell’abilità di Lone Scherfig a tratteggiare con pochi gesti e un’economia d’inquadrature invidiabile il sentimento amoroso più semplice e onesto. L’avevamo vista farlo già in Once e An education ma qui è ancora più essenziale e magistrale. La cosa più banale, il romanticismo adolescenziale, nelle sue mani diventa la più originale. GABRIELE NIOLA
2 Anteprima È TRATTO DALL’OPERA TEATRALE DI LAURA WADE
1 Visione UN FILM ALIMENTATO DA FALSI PREGIUDIZI
0 Flashback SE PENSI CHE TUTTI I POSH SIANO CRUDELI, QUESTO FILM È PER TE
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L’anti Batman BIRDMAN di Alejandro González Iñárritu • Michal Keaton, Edward Norton, Emma Stone Negli anni '90 Michael Keaton ha interpretato davvero un supereroe, ma si tratta di Batman, che viene menzionato nel film
2 Anteprima NON È UN UCCELLO, NON È UN AEREO. ALLORA COS’È?
3 Visione OTTIMI RITMO E MUSICA, MOLTI LUOGHI COMUNI
2 Flashback NIENTE DI TROPPO NUOVO, MA OTTIMA TECNICA
54 · LittleWhiteLies
L’unità di tempo e di luogo di Birdman, enfatizzata dal gioco a incastro dei piani sequenza, porta con sé lo stesso retrogusto delle frammentazioni narrative/geografiche/temporali delle opere precedenti di Alejandro González Iñárritu. Dal meccanismo metacinematografico e metateatrale emerge ancora una volta tutto l’artificio della poetica di Iñárritu, regista forzatamente autoriale, teso costantemente alla ricerca di qualcosa di stupefacente, di altro. La vita non sgorga dalle immagini di Babel, 21 grammi o Birdman, nonostante l’apparente vitalità degli script e lo spessore delle performance attoriali. Nemico giurato del lavoro di sottrazione, Iñárritu carica la sua nuova pellicola, di qualsiasi possibile sovrastruttura: il lavoro e la vita dell’attore, Hollywood e Broadway, l’improvvisazione e la sua simulazione, il processo artistico e la sua analisi (o la sua nemesi) e via discorrendo. Si teorizza parecchio, dalla dannazione e salvezza dei blockbuster e dei superhero movie, a una colonna sonora extradiegetica e poi diegetica – quei corridoi, quei piani sequenza, quella dannata frenesia del tutto e di più. Birdman si adagia volontariamente su un accumulo di cliché, ponte ipotetico per uno sfrenato realismo: vita/teatro/cinema consumati come una sniffata di coca, in un labirinto di corridoi che ingigantiscono il dietro le quinte.
È la frenesia una delle parole chiave di Birdman: non solo i ritmi sovraeccitati, borderline, della ex-stella Riggan Thomson, in un fecondo intreccio tra la finzione cinematografica e la reale carriera di Michael Keaton, ma qualsiasi personaggio, ogni singola sequenza, anche il più insignificante dei contatti umani. Una costruzione che vorrebbe essere sagace e spettacolare – e almeno nella prima ora sembra girare nel verso giusto – ma che si ripiega su se stessa, quando narrazione e macchina da presa escono dal microcosmo del teatro e dal labirinto dei claustrofobici piani sequenza. L’architettura visiva e narrativa elaborata da Iñárritu è infatti tenuta in piedi, soprattutto dai frizzanti confronti tra Keaton ed Edward Norton e tra lo stesso Norton ed Emma Stone. Attori a confronto, più che personaggi. Birdman snocciola tutta la grandeur autoriale di Iñárritu, saltabeccando da Raymond Carver all’onnipresente e invasivo jazz, dal declino fisico dell’ex-divo sessantenne alla critica di grido cinica e cattiva, aggrappandosi alle performance sopra le righe di Keaton, Norton e Stone – ad Andrea Riseborough e Naomi Watts poche briciole e una sequenza saffica che, per coerenza con l’abuso di luoghi comuni, non poteva mancare. ENRICO AZZANO
Al cento per cento LUCY di Luc Besson • con Scarlett Johansson, Morgan Freeman, Amr Waked
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Che percentuale del nostro cervello utilizziamo e siamo potenzialmente in grado di utilizzare? Cosa accadrebbe se, per qualche motivo, così, all’improvviso, trovassimo un modo per aumentare le nostre capacità d’utilizzo di quella prelibata pietanza che veniva servita a Indiana Jones nei dintorni del Tempio Maledetto? Il nuovo film di Luc Besson prova a rispondere a queste con il suo nuovissimo Lucy. Fra i motivi principali per cui Lucy si fa apprezzare, c’è il suo essere un raro caso di film che sa quanto deve durare. Ottantanove minuti. Magari può sembrare poco, ma la verità è che in quegli ottantanove minuti Besson dice tutto quel che ha da dire e ce ne avanza pure. Scarlett Johansson, interpreta il ruolo di una povera donna che finisce invischiata in un traffico di droga sperimentale orchestrato dal protagonista di Oldboy, solo che il sacchetto che le infilano nella pancia si rompe, il suo corpo assorbe tutte le sostanze, in pochi secondi e improvvisamente le si spalanca il cervello. Da lì parte la brutale salita verso il 100% e lo status divino o giù di lì. Il modo in cui Besson sviluppa la faccenda non è particolarmente originale, anzi, è un tripudio di cliché, ma la loro somma riesce ad essere fresca, coinvolgente e soprattutto priva di tempi morti, nonostante il fatto che
il film, teoricamente venduto come action, di scene d’azione praticamente non ne ha. Lucy, infatti, diventa molto in fretta qualcosa di ingestibile da qualsiasi essere umano e ogni volta che sembra si stia preparano la grande coreografia spettacolare, lei spazza via tutti con uno sguardo o il gesto di una mano. Lucy diventa quindi quasi più una riflessione sulla condizione umana e sul nostro potenziale sprecato e alla fine i suoi limiti stanno più che altro nel potenziale che viene fatto intuire ma poi esplorato solo di sfuggita. Nel film che sarebbe potuto essere, ma che non è. Nella sua semplicità, o forse proprio per la sua semplicità, Lucy funziona, regala comunque almeno un paio di scene che, veicolano emozioni forti grazie anche alla bravura della Johansson, ma tende un po’ a perdersi per strada, raccontando di una specie di onnipotente Terminator in divenire. Però sono comunque novanta minuti scarsi divertenti, con (le solite) tante belle immagini, qualche lampo di bravi attori e due o tre trovate suggestive. È un film che, pur inventando molto poco, riesce a trovare una sua personalità distintiva e, soprattutto, tiene duro dall’inizio alla fine, trovando un buon equilibrio fra pomposità e leggerezza. ANDREA MADERNA
Anteprima LUC BESSON GIRA ANCORA FILM?
3 Visione IL PARADISO ESISTE
3 Flashback IL FILM D’AZIONE PIÙ DIVERTENTE (E FOLLE) DI QUESTA STAGIONE
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IL GIOVANE FAVOLOSO
di Mario Martone • con Elio Germano, Michele Riondino, Massimo Popolizio
L’ERMO COLLE 56 · LittleWhiteLies
Il giovane favoloso
S
ergio Rubini non c’è mai riuscito mentre Michele Mancini lo interpretò brevemente nel piccolo e sperimentale Stradia Pia del 1983. Cinema italiano e Giacomo Leopardi: una relazione mai esplosa. Arriva dunque come una sorta di liberazione nazionale Il giovane favoloso di Mario Martone, ancora una volta immerso nell’800 italiano dopo Noi credevamo del 2010. È un biopic composto, senza fiammate, ma interessante nell’idea che propone del nostro tormentato poeta. Giacomo Leopardi era un prigioniero. Prima della famiglia, poi del corpo e infine del secolo. Tre cattività per il ragazzo che vagava nei boschi di Recanati, fissando un orizzonte infinitamente lontano e irraggiungibile oltre quella siepe così difficile da scavalcare. Bello l’inizio dove si ripropone la coppia Popolizio-Germano. Papà è un conte generoso, premuroso, ma rimane atterrito dalla potenza rivoluzionaria con cui il ragazzo comincia ad elaborare tutto lo scibile appreso durante gli studi matti e disperatissimi a un centimetro dalle pagine dei libri. Moderazione? Giacomo forse non la conoscerà mai. Ma quel bambino comincerà presto a soffrire di mali corporali, piegandosi sempre di più su stesso e tornando sempre più mogio alla dimora di famiglia dopo aver sfruttato ogni occasione per correre via dalle quattro mura domestiche. È l’intellettuale Pietro Giordani – un ottimo Valerio Binasco – che strappa Giacomo dalla morsa del padre: arriva come una tempesta e lo riempie di complimenti, ma commette l’errore fatale di parlare con nonchalance di rivoluzione a tavola della famiglia Leopardi. La madre è una sfinge di cattolica rigidità, mentre il padre fa capire subito che rivoluzione per lui è sinonimo di dissolutezza. Ma quello che in paese chiamano “saccentuzzo” vuole spiccare il volo e grazie alla stima di Giordani lo ritroviamo, dopo una forse troppo violenta ellissi temporale di 10 anni, fare una sorta di vita da studente universitario fuori sede a Firenze con un amico di nome Antonio Ranieri bello e gentile, interpretato da un ottimo Michele Riondino. 57
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3 Anteprima UNA STORIA COMPLESSA DA RACCONTARE
3 Visione QUALCHE LACUNA, MA IL TENTATIVO È BUONO
3 Flashback L'EMPATIA È FORTE: CI HA CONQUISTATO
58 · LittleWhiteLies
Leopardi è un prigioniero: della famiglia, del suo corpo e infine del secolo Ecco completata la doppia coppia già vista. Giacomo è sempre più gobbo e quando Germano fa lo sguardo allucinato… ci duole dirlo, ma il Marty Feldman di Frankenstein Junior è in agguato dietro l’angolo. A Firenze Ranieri è popolare con le donne e Giacomo segue arrancando facendo il terzo incomodo. Da giovane favoloso a gobbo il passo è breve. Qualche passeggiata con il bel Ranieri e l’italiana che sembra francese Fanny (la interpreta la transalpina Mouglalis) per i boschi di Firenze e poi… il deserto. Ranieri gli vuole bene e la coppia è così strana e bella che avrebbe meritato un film tutto suo dove magari si sarebbero esplorate dimensioni omoerotiche qui solo accennate (Giaco-
mo osserva con eccessiva curiosità il corpo nudo di Ranieri). Diciamolo subito… laddove il film perde clamorosamente è nella sessualità. E perché mai questa autocensura? Davvero vogliamo pensare che il rapporto, o non rapporto, tra il buon Giacomo e il suo corpo, e quello degli altri, non abbia influenzato minimamente la sua visione del mondo? Saremmo eccessivamente freudiani, ma la pensiamo così. La sfera erotica del nostro viene solo sfiorata quando non addirittura sviata. Si doveva fare molto di più. Oppure, a questo punto, molto di meno. Meglio togliere tutto che suggerire maldestramente qualcosa. In quel di Firenze si intuisce la crescita artistica e la cosa più bella del film sono le parole e i modi di dire di un’epoca che oggi è bello riascoltare: saccentuzzo, indicibilmente, onnipossente, “contino mio” (come lo apostrofa simpaticamente Giordani), canaglia, amicissimo, “lazzaroni e pulcinelli” (per Giacomo i napoletani sono così), infelicissimo. Questo è il momento in cui la seconda prigione, quella del corpo, fa sentire tutte le sue ruvide catene sul corpo stesso del film. La terza prigione libera definitivamente il film dandogli il suo senso più compiuto: Leopardi è incarcerato dal suo secolo, un’epoca arrogante, boriosa e dipendente da una visione del futuro cui egli dedicherà il sarcastico passaggio «le magnifiche sorti e progressive» de La ginestra. Tutti attorno a lui sono su di giri e rampanti: politicamente, economicamente, sessualmente (Ranieri) e religiosamente. Giacomo nostro, invece, è tendente al sarcasmo, nichilismo e quando è proprio in vena… fervido scetticismo. Questo poteva essere anch’esso tutto un film singolo. E anche parecchio interessante. «Non riesco a immaginare masse felici composte da individui infelici», lo sentiremo dire. Povero Giacomo. Nel ’900, nell’era dell’arte pop industriale, avrebbe avuto donne (o uomini, o entrambi), droga e un delirio rock ai suoi piedi per questo humour così all’avanguardia. È la parte più bella della pellicola. Quella in cui si comprende compiutamente la solitudine di un uomo infelice. E forse sarebbe stato un pizzico più felice perché, in un momento di libertà dalle difese dell’intelletto, lo sentiremo affermare stremato: «Io ho bisogno di amore». Germano non sfonda. L’eloquio è neutro e per un maestro della fonetica come lui sembra riduttivo. Peccato, perché la pellicola è ricca di spunti e riflessioni più che interessanti sul ruolo dell’artista nel suo tempo. E nel suo corpo. FRANCESCO ALÒ
Intervista
L’INTERPRETE DEL GIOVANE LEOPARDI CI SPIEGA COME SI È CALATO DENTRO IL CORPO, UN PO’ GOBBO, DEL GRANDE POETA ITALIANO
Elio Germano di FRANCESCA CECCARELLI
Com’è stato portare la poesia di Leopardi sul grande schermo? È stato di sicuro una bella sfida, molto curiosa ed interessante. Le scene in cui Leopardi ripete ciò che scrive sono state particolarmente complesse perché dovevo capire come mai lui avesse l’esigenza di recitare quanto stava scrivendo: voleva rileggerlo, voleva memorizzarlo, ci si voleva immergere oppure nascondere?
illustrazione Francesca Ceccarelli
Qual è stato l’aspetto della vita di Leopardi che ti ha appassionato maggiormente? Pensi che l’immagine canonica che gli viene data a scuola – dell’eterno infelice – sia così veritiera? Innanzitutto l’immagine che gli viene data è figlia dell’esigenza di creare delle definizioni. La definizione, tra l’altro, è una forma di “violenza” ed è forse ciò per cui Leopardi ha combattuto di più. Ogni modo in cui è stato definito Giacomo Leopardi è una forma che non merita, dietro la quale si nasconde una complessità ben maggiore. L’unico modo per capirlo è leggerlo, e non solo i suoi scritti più celebri, ma tutti: Lo Zibaldone e le lettere, per esempio. Le sue opere descrivono il funzionamento dell’essere umano e quindi sono senza tempo, risultano attuali anche oggi. Credo che l’aspetto più interessante sia la sua completa dedizione a studiare tutto ciò che abita la no-
stra testa, tutto ciò che è frutto della nostra immaginazione, dei nostri sogni e delle nostre paure, e forse a dargli un valore più alto. È un mondo indefinibile. Come ha studiato la mimica del poeta? Ci sono molti scritti – alcuni molto rari – e molte informazioni di persone che l’hanno conosciuto. Ci sono le sue lettere o le lettere di altre persone che scrivevano di lui. Era molto famoso all’epoca, un po’ come una rockstar ai giorni nostri: destava molta curiosità, era scomodo e mal tollerato. Una volta raccolto il materiale, ho dovuto fare una “violenza”, ovvero dare una forma al personaggio, che era più bello e più ricco nel suo essere indefinito. L’interpretazione che ne è uscita è frutta del mio personale percorso immaginifico: così è come me lo sono immaginato io. Per finire, hai anche tu, come Leopardi, un luogo che potresti definire “ermo colle”? L’ermo colle è l’affezionamento alla vita interiore, dove proteggerci, rinchiuderci. Quindi sì, direi che anche io di averlo. In realtà credo che ognuno sia alla ricerca di un luogo – figurato o meno – in cui si sente protetto e al sicuro, una sorta di grembo materno. C’è chi lo trova in molti vizi, in degli ambienti che ti riportano ad un preciso momento della tua vita… molti, per esempio, lo trovano in alcune relazioni.
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Un amore senza fine ROMEO AND JULIET di Carlo Carlei • con Hailee Steinfeld, Douglas Booth, Paul Giamatti Oltre al fascino di essere stato girato in molta parte nei luoghi in cui il Bardo aveva immaginato la vicenda, per il resto il film non propone alcuna novità, al contrario si inabissa quasi subito (non) sorretto da un'idea di regia piatta. L'insistenza di alcuni ralenti a sottolineare i momenti emotivamente più forti, oppure il soffermarsi del montaggio sui primi piani degli attori per acuirne i sentimenti, sono mezzi che a livello narrativo non servono e si svelano invece come semplici artificiosità. Lo stesso vale per le musiche di Abel Korzeniowski, belle a tratti ma per la maggior parte del tempo ridondanti, soprattutto perché adoperate senza alcuna parsimonia. La confezione di questo Romeo and Juliet voluta da Carlei non sfrutta neppure al meglio un cast di attori composto comunque da alcuni nomi di rilievo. Attori consumati come Stellan Skarsgård o Natascha McElhone, ad esempio, di certo non danno il meglio delle loro possi60 · LittleWhiteLies
bilità nei ruoli di contorno loro assegnati. Lo stesso si può dire per la star televisiva Damian Lewis(grandissimo in serie TV come Band of Brothers e Homeland) attore che evidentemente al cinema non riesce ancora a trovare dei personaggi in grado di restituirne la bravura. L'unico a regalare al pubblico un'interpretazione degna di nota è, come sempre, Paul Giamatti nei panni di Friar Laurence. Per quanto riguarda i due giovani protagonisti, l'inglese Douglas Booth nei panni di Romeo è decisamente inespressivo, impossibilitato ad esprimere con veridicità la vita interiore del ruolo. Diverso è il discorso per Hailee Steinfeld: la sedicenne californiana dimostra di essere un'attrice ancora acerba, e non riesce ad eccellere in un film in cui non è evidentemente ben diretta (riguardatela ne Il Grinta dei fratelli Coen, per esempio). Allo stesso tempo anche nel ruolo di Giulietta la ragazza dimostra di avere notevole presenza scenica e una bellezza non comune, più magnetica che esteticamente perfetta. Da lei ci aspettiamo un futuro cinematografico più che promettente. L'opera immortale di Shakespeare non ne esce scalfita perché sotto la confezione soporifera la potenza del testo è comunque percepibile. Tutto il resto, o quasi, è cinema realizzato senza alcuna inventiva. Peccato. ADRIANO ERCOLANI
Le riprese si sono svolte in Italia, negli studi di Cinecittà e a Subiaco, Caprarola, Mantova e Verona
0 Anteprima ANCORA? SERIAMENTE?
3 Visione SENTIMENTALE E STRAPPALACRIME, COME LA TRAGEDIA
1 Flashback OTTIMA COLONNA SONORA, OTTIME LOCATION, MA GLI ATTORI...
Scritto nelle stelle COLPA DELLE STELLE di Josh Boone • con Shailene Woodley, Ansel Elgort, Laura Dern È proprio colpa delle stelle – a differenza di quello che Cassio dice a Bruto nel Giulio Cesare – quello che accade ai giovani protagonisti del film, Hazel (Grace) e Augustus Waters, due geniali adolescenti che vivono il loro amore in costante compagnia della morte, visto che sono entrambi malati terminali. Amore e morte sono stati sempre un connubio vincente, in letteratura e al cinema, da Romeo e Giulietta a Love Story. L’adolescenza in particolare è il periodo in cui ci sono meno compromessi e tutto si vive al massimo. Sono anche gli anni in cui ci si sente immortali e invece a volte, come accade a Hazel e Gus, si viene investiti dal treno lanciato a tutta velocità di malattie che possono essere rallentate e contrastate – spesso al prezzo di enormi sofferenze – ma non vinte. Ma Gus e Hazel sono due combattenti e questo è sicuramente ciò che ha toccato il cuore di milioni di loro coetanei. Quando un libro è amato come il best-seller di John Green che ha dato vita al film, il confronto rischia sempre di essere impietoso. Dal punto di vista del casting degli attori principali, ci sembra che chi ha deciso di portare sullo schermo Colpa delle stelle, abbia fatto un ottimo lavoro con i due protagonisti, ma non con gli adulti. In particolare nel caso dello scrittore, Peter Van Houten: all’aspetto gonfio di un alcolista di lunga data si sostituisce la scheletrica magrezza di Willem Dafoe, bravo ma non al suo massimo. Sicuramente i fan del libro ritroveranno nel film le situazioni e i personaggi che hanno amato, la trasposizione è piuttosto fedele, anche se la regia di Josh Boone appare statica e poco coinvolgente. Ma va anche detto che film come questi non sono diretti alla critica o al pubblico adulto e ormai disincantato. Gli adolescenti a cui è rivolto Colpa delle stelle potranno vederlo con occhi diversi e con la forza pura di emozioni e sentimenti non filtrati dalla razionalità, come è giusto che sia, identificandosi nei protagonisti e riscoprendo la gioia catartica di piangere al cinema. DANIELA CATELLI
2 Anteprima MENO DI 18 ANNI? IL TUO ROMANZO PREFERITO È SUL GRANDE SCHERMO
3 Visione RIDERE, PIANGERE, RIDERE, PIANGERE...
2 Flashback QUANDO FINIRAI DI PIANGERE, AVRAI AFFERRATO IL MESSAGGIO
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UN FILM LUNGO 12 ANNI BOYHOOD di Richard Linklater • con Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Patricia Arquette
3 Anteprima IL RITORNO DI LINKLATER, CHE È STATO PER TROPPO TEMPO FUORI SCENA
4 Visione MALINCONICO, NOSTALGICO E DIRETTO ALLA PERFEZIONE
4 Flashback IL MOMENTO PIÙ ALTO DEL REGISTA, LO GUARDEREMO ANCORA FRA 12 ANNI
62 · LittleWhiteLies
BOYHOOD NON È UN FILM NORMALE e dalla sua peculiarità non si può prescindere. Nel senso che non è stato realizzato normalmente e il suo strano processo produttivo ha influito (e per fortuna) sul risultato finale, rendendo quella che è una storia comune, un film unico e mai visto prima. Richard Linklater ha girato solo alcune scene ogni anno per 12 anni. Dal 2002 ha richiamato ogni 12 mesi gli attori del cast a lavorare sul film, in modo che invecchiassero realmente lungo lo scorrere di una storia che quindi doveva per forza riguardare lo scorrere del tempo (altrimenti come usare scene brevi girate una l’anno per 12 anni?). Partendo da questo presupposto la storia di Boyhood è la più canonica tra quelle di formazione personale negli anni del titolo, quelli più o meno tra gli 8 e i 20, e fa leva sui sentimenti e sulla rievocazione del periodo dal 2002 al 2014, attraverso musica, tecnologia, fatti d’attualità e moda. Eppure nonostante uno svolgimento che conosciamo bene il racconto della vita di Mason
tra gli 8 e i 20 anni, di sua sorella Samantha di poco più grande, della mamma Olivia, separatasi quasi subito aver avuto i bambini dal padre Mason Sr. e poi dei molti altri mariti che si susseguono, degli amici, dei cretini che li circondano, degli amori e di chi li aiuta, ha una forza che fino a oggi era sconosciuta al cinema, in virtù di una componente che è propria dell’esistenza reale: l’evidenza dello scorrere del tempo sui volti e sui corpi. Non c’è trucco invecchiante o ringiovanente che non sia suonato falso, non c’è attore chiamato ad interpretare un personaggio da adulto che non fosse comunque diverso da quello che lo interpretava da piccolo e non c’è crescita che non suonasse falsa, lo capiamo tutto insieme adesso che esiste Boyhood e abbiamo visto Mason cambiare di pochissimo in ogni scena e poi magari di molto in un’altra, a seconda delle età, ora che abbiamo visto Ethan Hawke 32 all’inizio e 44enne bolso alla fine e via dicendo. L’effetto del passare del tempo sui corpi, in un film che si fonda esattamente sul racconto di
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La storia è molto canonica, ma ha una forza finora sconosciuta un brandello di vita fatto quanto più da vicino e quanto più minuziosamente possibile, pare ora una condizione a cui si dovrebbero conformare tutti. Ed è incredibile quanto Linklater, sebbene già avesse legato il suo nome a progetti a lungo raggio (vedi Prima dell’alba, Prima del tramonto e Before Midnight), riesca in Boyhood a fare qualcosa di completamente differente. Non un racconto generazionale portato avanti per decenni in cui i protagonisti invecchiano assieme al pubblico ma uno tradizionale in cui il tempo si contrae nella durata del film. Per quanto possa sembrare
Ogni anno, per dodici anni, Linklater ha radunato la stessa troupe e lo stesso cast per girare alcune scene
paradossale Boyhood è un film narrato in maniera decisamente più convenzionale rispetto alla trilogia di Jesse e Celine, ma è come se avesse una componente in più che gli altri period movie o film di formazione non hanno: per l’appunto il potersi fondare sui corpi che mutano. Per questo è evidente come sia esso stesso un film sul “cambiare”, un’unica grande esaltazione della crescita negli anni della boyhood ma anche del mutamento umano in generale (come inizia e come finisce il personaggio di Ethan Hawke, e quanto non cambi il suo rapporto con Mason, è forse la cosa più commovente). Unica concessione alla modernità del racconto è il fatto di non fondarsi sulla rappresentazione di una serie di momenti topici o decisioni difficili da prendere ma di voler affrontare il vivere attraverso i momenti più convenzionali e dimenticabili, come se Linklater fosse convinto che è la quotidianità a svelare quel che siamo in ogni momento e non l’eccezionalità. GABRIELE NIOLA 63
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Antoine è interpretato da Gustave Kervern, un comico francese, famoso anche per le sue brillanti sceneggiature
Le crepe dell’anima PICCOLE CREPE, GROSSI GUAI di Pierre Salvadori • con Catherine Deneuve, Gustave Kervern, Féodor Atkine
Pierre Salvadori, traveste da classica, stralunata commedia corale “da cortile” una sceneggiatura che non ha paura di affondare invece nel baratro dell’ossessione e del disagio mentale. Il risultato è sorprendente. Antoine è un improbabile cantante, si esibisce in squallidi locali di provincia. Ma a un certo punto non ce la fa più: quando la gente fischia lui attraversa il palco e se ne va. 64 · LittleWhiteLies
2 Anteprima LE COMMEDIE FRANCESI SONO SEMPRE INTRIGANTI
4 Visione UNA COPPIA INASPETTATA E UN MIX PERFETTO DI SENTIMENTI
2 Flashback MOLTO PIACEVOLE, MA DIMENTICABILE
Una scena che sintetizza molto di Dans la cour, la storia di un uomo che non ce la fa, che non riesce ad esibirsi nel mondo, a interagire con gli altri, preso da una depressione che lo blocca. Finisce per caso a fare il portiere, in uno di quegli edifici parigini con un cortile interno. Per lui sembra l’ideale, può rinchiudersi dietro le quinte, convivendo con un’insonnia che lo tormenta. Cavaliere contemporaneo con molte macchie ma irresistibile, Antoine si regala solo qualche cavalcata al parco a vedere i ragazzini giocare, e un rapporto d’amicizia in divenire con una inquilina del palazzo, impegnata nei sindacati, che sembra avere come lui difficoltà a mimetizzarsi nel quotidiano. Due personaggi usciti da un racconto di Raymond Carver, umili marginalità che si mimetizzano, che vivono il loro disagio con la vergogna serale di chi è roso dall’ansia durante il giorno e finisce per rimanere sveglio la notte, insonne, magari vedendo le crepe su una parete come la conferma che sta per crollare tutto, anche fuori, anche nel mondo. Antoine è il comico stralunato Gustav Kervern, maschera malinconica esilarante, l’inquilina è invece una Catherine Deneuve che sta recentemente scegliendo i suoi ruoli con grande intelligenza e poca attenzione al glamour. Il film di Pierre Salvadori è un piccolo gioiello, in cui si ride molto, che non richiede superlativi, ma l’affetto malinconico che può suscitare una persona intravista in metropolitana o per strada, che ci distrae per qualche minuto da tutto il resto e ci fa viaggiare con la fantasia immaginandoci la sua storia. Non dura molto, come Dans le cour, poi si ritorna alla vita di tutti i giorni, ma con la consapevolezza che qualche frammento di quella storia ci accompagnerà ancora per parecchio. MAURO DONZELLI
UN MELÒ NON RIUSCITO UNA PROMESSA di Patrice Leconte • con Rebecca Hall, Richard Medden, Alan Rickman
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore austriaco Stefan Zweig, Una promessa si inserisce alla perfezione nel filone del melodramma classico in cui l’intreccio è imperniato su un triangolo sentimentale dagli esiti potenzialmente tragici. Ludwig, un ragazzo di umile estrazione sociale ma con un ottimo istinto per gli affari, inizia una brillante carriera sotto l’egida del ricco industriale Karl Hoffmeister di cui non tarda ad accattivarsi le simpatie. Non ci vorrà molto prima che Ludwig sia introdotto in casa di Hoffmeister e faccia la conoscenza della sua giovane moglie da cui rimane immediatamente folgorato; e fra i due si instaura una reciproca confidenza che, con il passare dei giorni, li avvicinerà sempre di più l’uno all’altra... Se la trama di Una promessa può apparire abbastanza convenzionale, la raffinata messa in scena di Leconte riesce comunque a conferire al film la necessaria dose di attrattiva, in particolare nei confronti del pubblico amante dei period-drama: la cura formale dell’opera è
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Due cuori senza affitto LOVE IS STRANGE di Ira Sachs • con John Lithgow, Alfred Molina, Marisa Tomei L’amore fa girare il mondo a tutti i livelli. D’amore, inteso come sentimento che lega una coppia, ma anche famiglie e amici, parla Ira Sachs nel crepuscolare Love is strange. Protagonista di Love is strange è la coppia formata da Ben e George che, dopo trentanove anni di felice convivenza a New York, decide di sposarsi con il benestare di famiglia e amici. Il gesto non viene ben accolto dalla scuola cattolica in cui George lavora come insegnante di musica ed infine viene licenziato, costringendo così i due coniugi a vendere il costoso appartamento che occupano da vent’anni e separare le loro esistenze in attesa di trovare una nuova sistemazione. George viene accolto da due giovani amici, mentre Ben viene ospitato dal nipote. Trovare un film che affronti con la stessa chiarezza e semplicità di Love is Strange la questione del matrimonio tra omosessuali e le sue possibili conseguenze a livello sociale è raro. La pellicola di Ira Sachs non è, però, un’opera politica e non rivendica un impegno civile dichiarato. Ciò che la rende diversa dalla maggior parte dei film dedicati al tema, è la capacità di superare il concetto di diversità, tratteggiando Ben e George come una qualunque coppia di attempati coniugi, per nulla diversa dalle altre se non nel problema economico che si trovano costretti ad affrontare, a causa dei pregiudizi. Questo approccio così diretto, quotidiano, rappresenta la ricchezza del film che, nei suoi momenti migliori, sa essere commovente e coinvolgente. Il problema di fondo di Love is strange, però, è la stessa scrittura.
Tra i difetti strutturali si pone, inoltre, un finale (troppo) tardivo: c’è un momento preciso del film, in cui lo spettatore percepisce la possibilità di un finale aperto, che gioverebbe alla sua riuscita. Sachs decide, però, di raccontare tutto, troppo. I pochi momenti lievi e brillanti, sono dovuti principalmente allo straordinario talento dei due protagonisti. I due attori sfoderano un’inedita sintonia, necessaria ai loro personaggi. John Lithgow (Ben, pittore con la testa tra le nuvole) e Alfred Molina (George, l’unico della coppia con i piedi per terra), sanno essere credibili in ogni singolo istante e nei pochi momenti in cui li vediamo insieme, i gesti d’affetto che si scambiano scaldano il cuore. VALENTINA D’AMICO
4 Anteprima MOLINA E LITHGOW IN VERSIONE CRISI DI COPPIA? CI PIACE
2 Visione UN PO’ DELUDENTE... CI ASPETTAVAMO DI PIÙ
1 Flashback
innegabile, a partire da scenografie e costumi fino alla colonna sonora di Gabriel Yared, passando per la morbida fotografia di Eduardo Serra. Il Ludwig di Richard Madden, lungi dall’essere un ambizioso seduttore alla Bel Ami, mostra al contrario una giovanile ingenuità, mentre Rebecca Hall riesce ad esprimere in maniera efficacissima i sottili palpiti e gli impulsi repressi di questa moglie alto-borghese immancabilmente divisa fra il senso di responsabilità familiare e sociale ed una passione illecita. Ma se, almeno per la prima ora, Una promessa si configura come una pellicola convenzionale ma pur sempre pregevole, un melodramma di alta classe insomma, all’improvviso qualcosa, nel meccanismo del film, si inceppa irrimediabilmente. Un problema da attribuire forse alla sceneggiatura, in troppi casi superficiale e sbrigativa: d’un tratto il ritmo narrativo accelera per condurre la storia verso un epilogo banale, frettoloso e privo di un reale impatto emotivo. Il regista, che rinuncia ad un possibile approfondimento della dimensione sociale e classista nei rapporti di potere fra i personaggi, preferisce puntare su un blando sentimentalismo, con uno scivolone finale davvero poco giustificabile da parte sua. Mentre l’apparizione dei primi moti nazisti e delle svastiche, del tutto fuori luogo rispetto al resto del film, è un tentativo di contestualizzazione storica a dir poco forzato. STEFANO LO VERME
CI HA FATTO SORRIDERE, NULLA DI PIÙ
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CADUTA LIBERA SI ALZA IL VENTO
di Hayao Miyazaki • con Hideaki Anno, Miori Takimoto, Hidetoshi Nishijima 66 · LittleWhiteLies
Si alza il vento
Il nome dello a fondato da Miyazaki, Ghibli, deriva dall'omonimo veivolo realizzato dall'azienda di Battista Caproni
ualche fortunato l’aveva visto a Venezia lo scorso settembre. Per tutti gli altri, il capolavoro con cui il maestro giapponese Hayao Miyazaki ha annunciato il suo ritiro dal grande schermo, arriverà nelle sale italiane solo a settembre. Si alza il vento racconta la vita di Jiro Horikoshi, l’ingegnere che ha progettato parecchi aerei tra cui il micidiale Mitsubishi A6M, noto come “Zero” e usato dai giapponesi nel ’41 nell’attacco di Pearl Harbor agli Stati Uniti. Geniale e gentile, Jiro ha la passione per l’aeronautica fin da bambino. Nei suoi sogni, che lo accompagneranno anche da adulto, oltre a fantasiosi biplani e motori volanti, incontra spesso l’italiano Giovanni Battista Caproni, pioniere dell’aviazione italiana. Una sorta di guida profetica e saggia, ma con i baffi da dandy e l’attitudine da artista godereccio, che rispecchia un po’ quel che da Tokyo dovevano pensare (e che forse pensano ancora) del Belpaese. È proprio Caproni a ispirare il Jiro ragazzino, che sa già che non potrà mai pilotare gli aerei per via della sua forte miopia. Di piloti ce ne sono un sacco, ma i bravi progettisti sono rari a questo mondo, gli spiega l’italiano mentre sorvolano nel vento paesaggi bellissimi. Così, il protagonista decide cosa farà da grande: costruire “splendidi aerei”, frase che diventa quasi un mantra ossessivo nel film, a ricordare al protagonista (e agli spettatori) l’obiettivo finale di un lavoro e di un sogno che, all’epoca, faceva rima con guerra e distruzione. Un messaggio contenuto anche nella citazione di Paul Valery, che dà poi il titolo all’opera e che i personaggi ripetono spesso: «Si alza il vento...bisogna provare a vivere». I tempi storici sono scanditi da riferimenti come il terribile terremoto del Kanto del 1923, che fa anche da sfondo all’incontro tra Jiro e Naoko, l’amore che ritroverà 10 anni dopo, o come la recessione degli anni ’30 e le avvisaglie del nuovo conflitto che vedrà il Giappone allearsi con la Germania di Hitler. Nel frattempo, il parallelo tra Jiro e il suo creatore si fa sempre più incalzante (il protagonista, per volere del regista, è stato persino doppiato dal collega animatore Hideaki Anno, l'autore di Neon Genesis Evangelion). Il padre di Miyazaki, infatti, era un ingegnere e aveva una fabbrica di componenti
I più grandi successi del maestro Miyazaki
NAUSICAÄ NELLA VALLE DEL VENTO 1984
LAPUTA CASTELLO NEL CIELO 1986
IL MIO VICINO TOTORO 1988
KIKI CONSEGNE A DOMICILIO 1989
PORCO ROSSO 1992
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PRINCIPESSA MONONOKE 1997
LA CITTÀ INCANTATA 2001
IL CASTELLO ERRANTE DI HOWL 2004
PONYO SULLA SCOGLIERA 2008
ARRIETTY IL MONDO SEGRETO SOTTO IL PAVIMENTO 2010
LA COLLINA DEI PAPAVERI 2011
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aeronautici, da qui la passione per le macchine volanti del cineasta. E anche il giovane Hayao, come Jiro, deve rinunciare al sogno di fare il pilota perché molto miope, scegliendo poi di passare la vita sul tavolo da disegno. Si alza il vento è forse tra i film più realisti del maestro, che ci racconta un Giappone povero, pieno di contraddizioni e ancora arretrato, ma che grazie all’estrema dedizione al lavoro e al sacrificio riuscirà a recuperare il gap tecnologico a pieni voti. Jiro vorrebbe progettare aerei senza mitragliatrici, che possano trasportare passeggeri. Non approva la guerra e non ne capisce le ragioni, ma dà sfogo alla sua creatività e insegue i suoi sogni, consapevole delle conseguenze. Un approccio laico e pragmatico alle ferite del passato, con cui il regista sembra volerci dire che la vera purezza è nell’anima e nelle intenzioni. E che giudicare è sempre difficilissimo. I toni diventano commoventi soprattutto nella seconda parte, in cui prende sempre più piede la tormentata vicenda amorosa di Jiro e Naoko, che tratteggia con eleganza anche temi più forti e sicuramente più “adulti”. Infine, Si alza il vento è inevitabilmente il testamento artistico di Miyazaki: si ritrova anche nelle parole di Caproni, suo secondo alter ego e sembra proprio dire ai giovani di lavorare sodo e assecondare le proprie idee, soprattutto nella decade più fertile della loro vita lavorativa. Probabilmente non siamo ai livelli massimi che il cineasta nipponico ha saputo esprimere nel corso della sua carriera, ma è certo che in questo film Miyazaki si mette a nudo e riesce a toccare tante corde scoperte, regalandoci un’opera che è densa di significati. E che, tra le lacrime, riesce a farci riflettere come un libro di storia non potrà mai fare. SARA SCHEGGIA
Il film è tratto da una storia vera, ma è anche la trasposizione dell'omonimo manga disegnato dallo stesso Miyazaki, ispirato a sua volta al romanzo di Tatsuo Hori
3 Anteprima UN COLOSSO DELL'ANIMAZIONE CI OFFRE IL SUO CANTO DEL CIGNO
3 Visione DIVERSO DAGLI ALTRI FILM FIRMATI GHIBLI. DIVERSO DAGLI ALTRI FILM D'ANIMAZIONE. STRANO E COMMUOVENTE
4 Flashback L'UNICO PER CUI MIYAZAKI VERRÀ RICORDATO
Stelle che proteggono i ricordi UNA FAVOLA STEAMPUNK BOXTROLLS: LE SCATOLE MAGICHE di Graham Annable, Anthony Stacchi • con Elle Fanning, Simon Pegg, Ben Kingsley
Dopo Coraline e Paranorman la Laika di Travis Knight ci regala un nuovo folgorante capolavoro in animazione stop-motion. I Boxtroll sono dei buffi folletti che indossano scatole abbandonate e dal cui contenuto prendono i loro nomi, come Fish, Fragile, Sweet. Eggs è convinto di essere uno di loro e vive come una creatura del sottosuolo. The Boxtrolls è una favola dal sapore steampunk, tratta dal libro di Alan Snow Here be Monsters, un racconto, che non aspettava altro che essere portato in scena con lo stop-motion. Questo mantiene orgogliosamente la sua autonomia e tutta la sua riconoscibilità. Le scenografie e i costumi sono portentosi, soprattutto per il senso di decadente e di sporco che trasmettono. The Boxtrolls è una favola per grandi e bambini, ma destinata ad essere pienamente apprezzata dai palati più raffinati, che per fortuna, sono sempre più numerosi. STEFANO BESSONI
SE CHIUDO GLI OCCHI NON SONO PIÙ QUI di Vittorio Moroni • con Giorgio Colangeli, Beppe Fiorello, Mark Manaloto
Vittorio Moroni riprende ancora una volta l’interesse del regista per il tema dell’immigrazione e della sua evoluzione. Ma questo film costituisce soprattutto un profondo percorso di conoscenza sull’universo adolescenziale e sulle sue problematiche. Kiko, un ragazzo italo-filippino, ha perso il padre e il nuovo compagno della madre, Ennio, lo costringe a lavorare in cantiere con lui dopo la scuola. Ma Kiko, ancor prima di essere un immigrato di seconda generazione, è un sedicenne come tanti altri, che si trova a dover affrontare quella perdita di sicurezze che porta i giovani di oggi a voler essere altrove, a non essere più qui. Quando incontra Ettore, vecchio amico del padre, inizia a sentire nuovi stimoli e la
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Anteprima NON SAPPIAMO MAI COSA ASPETTARCI DA UN FILM ITALIANO
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voglia di decidere del proprio futuro. Kiko, quindi, è costretto a confrontarsi con due figure maschili, apparentemente una buona e l’altra cattiva: da una parte Ettore, che rappresenta la sua occasione di emancipazione e crescita intellettuale e lo fa riflettere sui diritti degli adolescenti, come quello a formarsi, studiare, ma soprattutto sognare; dall’altra Ennio, antitesi vivente della filosofia sul rispetto dei più giovani, che cerca con lui un contatto ma lo fa in modo sbagliato, portandolo così ad allontanarsi sempre di più e a bloccare sul nascere il loro rapporto. In questa ricostruzione malinconica e poetica riusciamo facilmente a condividere assieme ai personaggi i loro disagi e le loro emozioni. Il racconto è fluido e ben costruito, e offre in ogni scena lo spunto per riflettere su un aspetto differente della vita del ragazzo, spaziando dai rapporti familiari a quelli scolastici e affettivi, così come di questa Italia spaccata tra immigrazione, integrazione e lavoro nero. Vittorio Moroni, incrociando film di finzione e documentario, ha portato alla luce un quadro realistico e commovente di una giovane generazione composta da ragazzi che sempre più devono far affidamento sulle loro stesse forze per ritagliarsi il loro posto nel mondo. ELEONORA MATERAZZO
Visione UN’OTTIMA STORIA SUGLI AFFETTI ETERNI E SULL’IMMIGRAZIONE
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Flashback MOLTI BUONI SPUNTI, MA IL CAST NON SEMPRE CONVINCE
Esordio sul grande schermo per Mark Manaloto, nei panni del sedicenne Kiko
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Fra paranoia e thriller LA SPIA: A MOST WANTED MAN di Anton Corbijn • con Philip Seymour Hoffman, Rachel McAdams, Willem Dafoe
Si tratta dell’adattamento cinematografico del romanzo Yssa il buono, di John Le Carré e ambientato in quella Amburgo dove il romanziere un tempo lavorava come agente segreto al servizio di Sua Maestà. In un momento in cui “spionaggio” è sinonimo di spettacolarizzazione e costante tensione in confezione serializzata, A Most Wanted Man percorre la strada inversa, cercando respiro e immergendosi in dubbi, voglia di creare pause prima di agire e soprattutto il sacrificio ad una vita miserabile dove l’unica garanzia è rinunciare totalmente a intimità e ad ogni forma di gioia. Tutto pur di mantenere la sicurezza di un Paese. Sentimenti scolpiti alla perfezione sul volto di Philip Seymour Hoffman in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche. Un ruolo sofferente e silenzioso: nei panni dell’agente della sicurezza nazionale Günther Bachmann, Hoffman se ne va in giro come un pugile stanco, arrivato all’ultimo round della sua carriera di spia. Siamo abituati a vedere i super-agenti totalmente mancanti di ogni emozione, puntualmente lontani dalla loro umanità.
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L'ultima magistrale interpretazione di Seymour Hoffman, scomparso quest'anno
A Most Wanted Man illumina invece le vite di coloro che stanno dietro una scrivania e che, allo stesso modo dei vari 007, hanno una vita altrettanto dura, forse più frustrante. Persone che tengono una bottiglia di whisky nascosta nel cassetto, per affrontare i momenti più critici. La trama è incentrata sul terrorismo moderno. Amburgo è stata la città che ha ospitato alcuni dei terroristi che hanno dirottato gli aerei dell’11 settembre. Tredici anni dopo seguiamo un'operazione legata al terrorismo mediorientale. Lo script sottolinea al massimo l’atmosfera di paranoia dei governi occidentali che seppur in collaborazione contro i terroristi, non riescono mai a fidarsi pienamente l’uno dell’altro. Ecco perché, come il film mostra, si creano anche fazioni opposte sotto il tetto di uno stesso ufficio. Il film di certo non brilla di originalità, dal momento che sono tutti temi già ampiamente raccontati. Questa spia, interpretata da un grande protagonista, si muove in un film dalle atmosfere meno gelide rispetto a La talpa (bellissimo film tratto sempre da Le Carré) e catturate alla perfezione da Anton Corbijn, fotografo professionista al suo terzo film dietro la macchina da presa. Il regista olandese crea immagini fascinose, sceglie gli ambienti giusti, raduna un cast perfetto. Eppure, come nel caso precedente di The American, la sua corsa creativa si ferma lontana dal traguardo. Atmosfere ed eleganza non bastano a tenere in piedi un film. PIERPAOLO FESTA
3 Anteprima CON IL THRILLER SPIONISTICO NON SI SBAGLIA MAI
2 Visione ASPETTA, COSA C'È IN GIOCO?
2 Flashback IL RITRATTO DI UOMO DIVISO TRA FEDELTÀ E OBBLIGO
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UN TRENO VERSO IL PASSATO LE DUE VIE DEL DESTINO - THE RAILWAY MAN di Jonathan Teplitzky • con Colin Firth, Nicole Kidman, Stellan Skarsgård Jeremy Irvine è stato scelto per la versione più giovane di Eric Lomax (sopra) su suggerimento dello stesso Colin Firth
1 Anteprima SARÀ ALL'ALTEZZA DI UNA STORIA COSÌ DELICATA?
2 Visione MOLTO COMMUOVENTE, MA PRENDE IL VERSO SBAGLIATO
3 Flashback L’ATTO DEL PERDONO DI LOMAX È INDIMENTICABILE E LODEVOLE
Le due vie del destino prende le mosse dalla storia vera di Eric Lomax, un ex soldato britannico che ha vissuto sulla propria pelle il dramma della Seconda Guerra Mondiale venendo internato dai giapponesi e costretto a lavorare in condizioni disumane alla costruzione di una ferrovia in mezzo alla giungla. Potenzialmente, il best-seller scritto dallo stesso Lomax, morto solo pochi anni fa, potrebbe offrire da solo materia narrativa degna del miglior film storico biografico a cui si possa pensare e che ultimamente, spesso e volentieri, capita di vedere su grande schermo. Purtroppo Le due vie del destino sceglie un andamento, dal punto di vista registico, molto classico senza nessun guizzo degno di nota e in cui lo sviluppo dei personaggi e la trama sono piuttosto prevedibili. I richiami a due capostipiti del genere sono immediatamente evidenti: Il ponte sul fiume Kwai e il più crudo Furyo di Nagisa Oshima senza però arrivare in profondità. Non che il film di Jonathan Teplitzky sia completamente deludente. Rimane infatti molto apprezzabile l’interpretazione di Colin Firth, impegnato nel tentativo di dare anima e spessore a un Eric Lomax profondamente tormentato da quanto accaduto in gioventù. Il film infatti si divide su due fronti: il presente con Lomax che, dopo anni di solitudine e spaesamento, pare trovare inaspettatamente la felicità tra le braccia della dolce Patti (Nicole Kidman, non in uno dei suoi ruoli più memorabili) e le
allucinazioni e i flashback sulla prigionia che infestano sonno e vegliat di Lomax, tanto da spingerlo a tornare sui luoghi da cui ragazzo aveva disperatamente sperato di fuggire e che ritroverà quasi tali e quali in un viaggio destinato a cambiargli la vita. Quello di Lomax è quindi un percorso non solo nella sua torbida memoria, ma anche nella Storia con la maiuscola e in un recesso di essa che spesso viene tralasciato dai libri di scuola. Su questo aspetto dunque, nell’aprire uno squarcio su una pagina buia del passato e nella minuziosa ricostruzione delle condizioni di detenzione e degli eventi, Le due vie del destino merita un encomio, perché solo così molti spettatori sapranno quanto fosse spietato il regime giapponese nei confronti dei soldati avversari doppiamente colpevoli, ai loro occhi, per non aver deciso, nella sconfitta, per un onorevole suicidio. Questo però è anche uno dei “talloni d’Achille” di questo lungometraggio che parla di onore, vero coraggio e della forza del perdono, intimo e sincero. Non c’è infatti grande approfondimento dei terribili aguzzini giapponesi, se non, in ultimo, del carnefice di Lomax interpretato da un convincente Hiroyuki Sanada (47 Ronin) in alcune delle scene più intense del film. Come dicevamo non si tratta di un film da evitare, ma di una pellicola che non rimarrà certo nella storia del cinema... MARIA SOLE BOSAIA 71
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L’UOMO DIETRO LA MASCHERA FRANK di Lenny Abrahamson • con Michael Fassbender, Domhnall Gleeson, Maggie Gyllenhaal Il film di Lenny Abrahamson Frank è una commedia amara su un improponibile gruppo di teneri – ed irresistibili – disadattati. Jon è un giovane musicista alla ricerca del suo vero io artistico ma, soprattutto, dell’ispirazione e di un ingaggio. La sua vita cambia all’improvviso quando incontra la band dei Soronprfbs: costituita dalla cupa maniaca depressiva Clara, dal feticista Don, dal taciturno chitarrista francese Barraque e dall’inquietante batterista, il ragazzo viene accolto come nuovo tastierista al posto del vecchio, finito addirittura in una clinica psichiatrica. A guidare la band c’è Frank: un misterioso ed enigmatico leader che indossa una testona di cartapesta che non toglie mai. Figura liberamente ispirata a Frank Sidebottom, alter ego del comico e musicista britannico Chris Sievey, oltre ai cantautori Daniel Johnston e Captain Beefheart, Frank è una biografia impossibile ed utopica che rovescia, sovversivamente, tutti i cliché tipici del mondo “rock’n’roll” seguendo le caotiche vicende di una band dal nome impronunciabile e del suo leader: inquietante figura celata dietro un’ingombrante maschera, fa sorgere nello spettatore una domanda riguardo alla vera natura della sua
Il protagonista è ispirato all'alter ego del comico Chris Sievey, Frank Sidebottom, che era anche leader della band The Freshies
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identità, per capire fino in fondo l’inafferrabile enigma che si cela dietro quella testa gigante che permette, a Frank, di esprimersi davvero senza vergogna o reticenza, innescando un illimitato processo creativo completamente fuori dagli schemi. Lo stile di Abrahamson, veloce, sintetico e complesso ricorda lo sguardo alienato e straniante del miglior Wes Anderson quando si cimenta con le storie di ordinaria follia di teneri disadattati, personaggi che vivono al limite tra genio e follia e che rischiano di restare schiacciati dallo scontro col mondo esterno. Ed è quello che capita a Frank stesso, interpretato da un sorprendente Michael Fassbender che si cala con delicatezza e determinazione nei panni di una improbabile rock star, che riesce a gestire sempre meno – e sempre peggio – i problemi psichici che lo affliggono man mano che aumenta la sua popolarità. Per questo Frank affronta, inoltre, con occhio disincantato e irresistibilmente umoristico, un problema serio come l’instabilità mentale dimostrando come anche dietro una commedia, tra gag e dialoghi surreali, ci sia la volontà di riflettere su temi importanti, oppure di lanciare nuovi sguardi su tematiche delicate. LUDOVICA OTTAVIANI
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Visione
Flashback
FASSBENDER CHE INDOSSA UNA TESTA GIGANTE?
UN CAOS SOTTILMENTE ANARCO PUNK
IL FINALE SENTIMENTALE SEMBRA UNA SCAPPATOIA
Lezioni di vita e di chitarra JIMI: ALL IS BY MY SIDE di John Ridley • con André 3000, Imogen Poots, Haley Atwell Il leggendario Jimi Hendrix è uno di quegli artisti che non necessitano di presentazioni, considerato come uno – se non il più grande – chitarrista della storia della musica. Ma come è diventato una leggenda? Da questa semplice domanda il regista John Ridley parte per la costruzione del suo personale biopic su Jimi Hendrix uno, se non il più grande chitarrista della storia della musica. Chi era Jimi prima del concerto del leggendario Monterey (dove diede fuoco e poi distrusse la sua chitarra)?
2 Anteprima FINALMENTE UN FILM SULLA LEGGENDA DEL ROCK
3 Visione UN’OTTIMA RICOSTRUZIONE DELL’ANNO DI FUOCO DELL'ARTISTA
3 Flashback NON POTEVAMO GIUDICARE DA MENO UN FILM SU JIMI
Interpretato dal cantante degli Outkast, André Benjamin, Jimi sopravvive facendo il turnista per alcuni gruppi e suonando in fumosi locali dove nessuno lo ascolta. Proprio in uno di questi incontra la modella Linda Keith (Imogen Poots) che si accorge del talento di quel giovane, forse proprio per la vicinanza con un altro grande chitarrista, Keith Richards, di cui è la fidanzata. L’incontro tra i due segna così l’inizio di una relazione che porterà il chitarrista dall’altra parte dell’oceano, in Inghilterra alla conquista di Londra, grazie anche all’aiuto del manager Chas Chandler, ex-bassista degli Animal. Nella Swinging London, il chitarrista ventitreenne, incontrerà una rossa esplosiva, Kathy (Haley Atwell), un attivista per i diritti dei neri, Michael X, ma, soprattutto, incontrerà la droga, che se lo porterà via a soli 27 anni, nel 1970, in seguito ad un mix di allucinogeni e tranquillanti. Il film si sviluppa così su binari radicalmente diversi da ciò che forse ci si poteva aspettare da una biografia sul musicista. Non una mera trasposizione della sua vita, dagli inizi della carriera fino alla morte, ma un’analisi più approfondita di un solo anno, il 1966, quando Jimi è partito letteralmente alla conquista musicale di Londra, facendosi strada prima nel mondo underground e poi in quello mainstream, incontrando personaggi altrettanto leggendari come i Beatles ed Eric Clapton. Un film che lascia poco spazio alla musica di Hendrix – non diventando così un lungo e banale videoclip – ma qualcosa di più profondo. Proprio grazie alla colonna sonora, vero punto forte dell’intera opera, che si trasforma di volta in volta in base alla situazione, diventando un vero e proprio tappeto sonoro che accompagna le immagini, qui in modo dissonante e distorto, là in modo gradevole e quasi sinfonico. ELEONORA MATERAZZO
SULLE NOTE DI NEW YORK TUTTO PUÒ CAMBIARE
di John Carney • con Keira Knightley, Mark Ruffalo, Adam Levine
La musica c’è. L’alchimia tra i protagonisti anche. Ma non bastano due elementi a rendere una commedia memorabile. Tutto può cambiare ha buone premesse. Greta (Keira Knithley) è una compositrice sconosciuta che segue il fidanzato (Adam Levine dei Maroon 5) a New York quando la carriera del musicista decolla. Lui, Mark Ruffalo, è un produttore discografico ormai alla deriva. Lei spesso diventa una lamento che si riversa su chiunque incroci la sua strada. Non fa eccezione neppure Dan (Mark Ruffalo). Va riconosciuto al film il merito di una trama godibile, sulle note di una colonna sonora eclettica ed originale quanto il tentativo di Dan di metterla in scena fuori dallo studio di registrazione, nell’imprevedibile giungla metropolitana della Grande Mela. La magia delle note si disperde ben presto in un ritratto di New York incapace di catturarne l’essenza. Lasciarsi corteggiare dalla musica resta allora l’unica cosa che conti, in assenza del resto, senza chiedersi il perché. SANDRA DE TOMMASI
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Un romanzo popolare sulla Cina moderna DEAREST di Peter Chan • con Zhao Wei, Hao Lei, Huang Bo Il rapimento di bambini è un problema sempre più grave nello Shenzhen, dove sono circa 30mila i casi all'anno
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Ispirato a una vicenda reale, quella del rapimento di un bambino avvenuta a Shenzen nel 2009, Dearest di Peter Chan sembrava avere gli ingredienti giusti per far cadere lo spettatore nella lacrima facile e nel patetico di retroguardia. Invece, l’hongkonghese Peter Chan – da esperto mestierante quale è e da abilissimo metteur en scène – ha saputo evitare ogni soluzione semplice e si è fatto carico di un racconto pieno di chiaroscuri, di ribaltamenti di prospettiva e di personaggi capaci di proporre una notevole complessità, allo stesso tempo carnefici e vittime. Da sempre, del resto, il melodramma è questo: esagerazione, barocchismo estetico e narrativo, strepiti e furori, disperazione più assoluta e gioia, kitsch e sublime.
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Visione
Flashback
LACRIME E TRAGEDIA: MA NE VALE DAVVERO LA PENA?
PETER CHAN È UN MAESTRO NEL RACCONTARE DRAMMI PROFONDI
C'È QUALCHE LACRIMA DI TROPPO, MA IL MESSAGGIO COLPISCE
74 · LittleWhiteLies
In Dearest si ritrovano alla perfezione tutte queste caratteristiche, tanto che lo si può far rientrare a pieno titolo nell’alveo del grande cinema popolare, come è sempre più raro vedere non solo in Italia, ma anche altrove. Quel che però rende Dearest un caso davvero interessante è la sua articolata organizzazione narrativa, di marca tipicamente hongkonghese, anche se il film è pan-cinese. Infatti, a voler schematizzare, nel nuovo lavoro di Peter Chan accade che a metà circa della proiezione i buoni diventano “cattivi” e i “cattivi” svelano il loro lato umano, finendo dunque per affondare tutti quanti in un purgatorio in cui ogni legame sentimentale è perso e irrecuperabile, sfocato nei meandri del passato. Peter Chan sa come stuzzicare le corde più profonde della sensibilità spettatoriale e piazza due vere e proprie sequenze action a fare da spartiacque, due scene speculari, quasi completamente mute, e costruite con una suspense quasi hitchcockiana. Nel disegno complessivo di Dearest, sembra cruciale, tra l’altro, il ruolo del personaggio che ha fondato l’associazione dei genitori senza più figli, il cui scopo è quello di sostenersi a vicenda. Infatti, il vittimismo di questo leader improvvisato si trasforma progressivamente in aggressività e in violenza, arrivando a usurpare i diritti del suo prossimo. Poi, improvvisamente, costui farà una scelta radicale, che finirà per trovarsi in contrasto con la burocrazia – ormai, pare, superata – che è presa evidentemente di mira da Peter Chan in questo suo film. Film sull’assenza e sulla perdita di affetti, sul vuoto che crea rigidità ed odio, sulla brutalità innata cui finisce per cadere l’uomo quando viene aggredito dai suoi simili e/o dalla legge, Dearest colpisce nel segno e ci fa sperare per il meglio: il cinema hongkonghese, anche se girato nella Cina continentale e prodotto con soldi mandarini (invece che cantonesi), forse non morirà mai… ALESSANDRO ANIBALLI
Mert Tastan interpreta con grande sentimento il bambino, omonimo, protagonista della storia
Oltre la tradizione e il culto KUZU di Kutlug Ataman • con Nesrin Cavadzade, Cahit Gok, Mert Tastan Breve film turco scoperto nella sezione Panorama del Festival di Berlino, Kuzu (l’agnello) prende come punto di partenza una tradizione religiosa ancestrale, che vorrebbe che la circoncisione dei bambini sia celebrata in pompa magna. La cerimonia implica alcune regole precise, come la partecipazione di tutta la famiglia e del villaggio, e il sacrificio di un agnello. Questa rivela la situazione della famiglia in questione: c’è in ballo la sua immagine e quella di tutti i suoi componenti. Il film racconta la storia di una famiglia che cerca, a fatica, di racimolare del denaro per pagare la festa ed evitare di essere malvista da tutto il villaggio. Il bambino che sta per essere circonciso, però, crede che verrà sacrificato al posto dell’a-
2 Anteprima IL MARCHIO DI FABBRICA ATAMAN È SEMPRE UNA PIACEVOLE RIVELAZIONE
3 Visione HUMOR E TRAGICITÀ SI ALTERNANO E INCASTRANO ALLA PERFEZIONE
gnello e cominciano, quindi, una serie di fraintendimenti che rendono la visione molto piacevole. Il film non manca di una generosa dose di humor nero, in cui Ataman è maestro – che si incarna perfettamente nel ruolo della ragazzina – e tesse con arguzia questo triste scherzo, all’interno un quadro reale ben più serio: quello delle difficoltà che le donne affrontano quando i loro uomini sono negligenti e si sottraggono alle loro responsabilità verso la famiglia e verso la comunità. Ataman fa centro con la decisione di raccontare una storia su uno dei problemi più frequenti e seri della società turca in modo scanzonato e acutamente ironico. Se fosse stato un film cupo sui problemi di una famiglia in una comunità tradizionale, si troverebbe probabilmente insieme a tutte le altre storie con questa tematica che sono state uscite nelle zona tra la Turchia e il Medio Oriente. Kuzu, invece, ha tutte le carte in regola per diventare uno degli ottimi titoli usciti dal circuito dei festival, nonostante la narrazione qua e là risulti un po’ goffa. Inoltre, l’assenza di una colonna sonora, eccetto all’inizio e alla fine, aiuta ad evitare di “addolcire la pillola” mentre la fotografia cristallina di Feza Caldiran trasforma le montagne maestose, i fiumi limpidi e gli alberi nudi e spogli dell’Anatolia nei testimoni silenti dei futili problemi che preoccupano i personaggi, oltre che tramutare il racconto in una storia senza tempo sul comportamento, le paure e i desideri degli uomini, oltre che sull’infanzia. FRANCESCA CECCARELLI
4 Flashback I PROBLEMI DEGLI ADULTI VISTI DA VUN DIVERSO PUNTO DI VISTA
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PASSO DOPO PASSO 4 Anteprima NON RIUSCIAMO A CREDERE CHE QUESTO È L'ULTIMO LAVORO DI MING-LIAN
4 Visione IL VUOTO E IL SILENZIO FANNO VENIRE VOGLIA DI FERMARCI E PENSARE
4 Flashback UN RIBALTAMENTO DEL FARE CINEMA, CHE DIVENTA UN'ESPERIENZA UNICA
XI YOU - JOURNEY TO THE WEST di Tsai Ming-liang• con Denis Lavant, Lee Kang-sheng Lee Kang-sheng e Denis Lavant: è la coppa che Tsai Ming-liang fa protagonista di Journey to the West, visione insperata, disperatamente desiderata dopo l’addio dichiarato con Stray dogs (2013). Un monaco buddhista (lo stesso che ha, letteralmente, attraversato i quattro corti No Form, Walker, Diamond Sutra e Sleepwalk) procede in sospensione, con una lentezza che prescinde dal tempo, per Marsiglia. Tra la moltitudine incurante che avanza a passi cadenzati sulla ritmicità accelerata della città, un uomo comincia a seguirlo ricalcandone la camminata. Ne accetta remissivamente l’incedere acronico. Tsai non si mostra interessato a svelare l’interiorità dei
Il film è liberamente ispirato a "In viaggio in Occidente" di Wu Cheng'en, un classico della letteratura cinese
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suoi personaggi, ma rimane sulla soglia delle loro esistenze fisiche. Una così radicale dimostrazione di fedeltà al concreto da assumere i contorni della stilizzazione e della trasfigurazione astratta; una totale essenzialità fenomenologica che si rivela contemplazione trascendentale. L’artista sfronda l’aneddotica delle cose per distillarne l’essenza, lasciando affiorare il segreto che le abita. Si è spettatori di un cinema di pazienza e di attesa che mette in discussione le dinamiche del linguaggio filmico recuperando modalità rappresentative dello xiey, tradizione pittorica cinese che riduce al minimo l’essenza stessa del fenomeno rappresentato. È quindi necessario porsi verso Journey to the West con lo stesso atteggiamento con cui Lavant segue il monaco Lee: entrare in consonanza con il suo ritmo, lasciandosi trascinare nelle sue derive, senza la fretta di chiarire tutto subito. Tsai, in un inarrestabile processo di depurazione stilistica, conduce lo spettatore a confrontarsi con pure immagini, sempre più autosufficienti, ormai liberatesi quasi del tutto delle stampelle narrative. L’estenuazione della durata di ripresa, necessaria per cogliere l’impercettibile movimento dei due protagonisti, permette allo spettatore di affrontare la sequenza come se si trattasse di un quadro da esplorare, in cui l’occhio si perde; cosa che succede soprattutto nel campo lungo finale dove l’immagine che appare all’improvviso capovolta si rivela poi essere riflesso speculare. MATTEO MARELLI
FUGA DISPERATA NOBI: FIRES ON THE PLAIN di Shinya Tsukamoto • con Lily Franky , Shinya Tsukamoto, Tatsuya Nakamura
Salutato alla vigilia come uno dei grandi protagonisti di Venezia71, Shinya Tsukamoto arriva al Lido con Nobi: Fires on the Plain, remake dell’omonimo classico anti-militarista diretto nel 1959 da Kon Ichikawa, e porta sullo schermo il dramma di Tamura, interpretato dallo stesso Tsukamoto, soldato semplice in fuga dalle violenze del fronte filippino. Un film che fa della critica alla guerra il suo tema fondante e che si avvale di dosi massicce di orrore e di macabro per enfatizzarne le atrocità, ma che riesce nel suo intento a convincere solo in parte. Primo doveroso appunto: Nobi non è un film per spettatori dallo stomaco debole. Sin dalle prime scene Tsukamoto mette in chiaro la volontà di trattare la guerra in tutta la sua barbarie. Tra teste mozzate, corpi sventrati e cadaveri in putrefazione, Tamura si aggira in un mondo che richiama il Conrad di Cuore di Tenebra (e in una certa misura Apocalypse Now di Coppola) specie quando l’orrore della guerra
inizierà a trasformare lui e i pochi giapponesi sopravvissuti in esseri disumani, pronti a uccidersi e a sfamarsi l’uno dell’altro. Un’involuzione che Tsukamoto-Tamura riesce a rendere credibile con una prova coinvolgente e che, in veste di regista, accentua ricoprendo gli attori di un trucco color pece, scelta che gli consente di enfatizzare l’oscurità della condizione umana davanti all’orrore della guerra. Ora, se Tsukamoto si fosse limitato a proporre un film carico di immagini d’una violenza devastante, Nobi sarebbe riuscito a convincere molto di più. Le continue carrellate di uccisioni, esplosioni e morti funzionano nella misura in cui rendono con forza e realismo l’inumanità e il terrore della guerra. Il problema è che questo macabro in Nobi è realistico, e convincente, solo a metà. Perché se è vero che per buona parte del film Tamura percorre una foresta-cimitero e campi di battaglia che si trasformano in mattatoi, spesso e volentieri Tsukamoto porta in scena gli scontri girandoli con una lentezza e una teatralità che li rendono ripetitivi e poco credibili. Così l’effetto da pugno sullo stomaco delle scene iniziali a poco a poco viene meno, e di conseguenza anche l’incisività della pellicola nel suo insieme. Peccato, perché Nobi era una delle grandi attese del Festival e, pur rimanendo un film interessante, lascia addosso la sensazione che avrebbe potuto offrire molto di più. LEONARDO GOI
L’inverno della vita WINTER SLEEP di Nuri Bilge Ceylan • con Haluk Bilginer, Melisa Sözen, Demet Akbag Winter Sleep è un film che rappresenta appieno lo stile precipuo del regista turco, nonché la naturale prosecuzione del suo percorso cinematografico. Ancora una volta a fare da protagonisti sono le lande immense e desolate dell’Anatolia, che coprono quasi tutto il flusso narrativo estremamente lungo e denso sia nei lunghi che nei serrati dialoghi, ma soprattutto nei paesaggi che con la loro grandezza colmano l’incompiutezza, l’inquietudine di tutti i protagonisti del film. La storia gravita attorno a Aydin, un facoltoso ex attore e proprietario di una pensione situata in un paesaggio di pietra, che è circondato di personaggi asfittici, colti nel pieno del loro stato di crisi. Nuri Bilge Ceylan costruisce ancora una volta un’opera non facile da seguire, che richiede allo spettatore un notevole impegno mentale, al fine di seguire tutti quei fili narrativi apparentemente slegati. Quelli che ritroviamo tra Aydin e gli altri personaggi, sono infatti tutti ritagli, fotografie di una vita che segue sempre gli stessi binari ma lo fa in modo diverso a seconda dei luoghi, e delle persone che ne sono protagonisti. I protagonisti di Winter Sleep faranno di quei luoghi così remoti e solitari il loro rifugio, la loro prigione in attesa – forse – di una ritrovata libertà (emotiva e mentale). I condizionamenti, gli stereotipi, e soprattutto il consuntivo da fare con le proprie personali aspettative, rappresentano infatti in Winter Sleep il nodo più intricato da affrontare
Le riprese si sono svolte nello scenario spettacolare della Cappadocia, la regione centrale della Turchia
2 Anteprima GLI STESSI TEMI GIÀ TRATTATI DA CEYLAN?
3 Visione TOCCANTE E MOLTO RIFLESSIVO
4 Flashback CEYLAN CI REGALA UN’ALTRA FAVOLA ATTUALE IN UN PARADISO BIANCO
e che Ceylan scioglie, molto lentamente, usando i bellissimi luoghi a sua disposizione come bombe ma anche e soprattutto come detonatori. La nitidezza delle immagini, la geometria delle inquadrature, la precisione linguistica, sono ancora una volta per Ceylan i mezzi con cui entrare (poco alla volta) nell’intimità della storia facendone emergere dettagli universali che appartengono a ogni vita, sia essa vissuta nelle valli sperdute dell’Anatolia o nella confusione di una metropoli europea. Qualcuno avrà da obiettare che in Winter Sleep non accade nulla, ma è proprio nella fotografia di quella (apparente) stasi che si nascondono i percorsi delle nostre mille vite e dei nostri gelidi “inverni”. ELENA PEDOTO 77
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78 路 LittleWhiteLies
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ERA MOLTO ATTESA questa prima opera cinematografica di livello (un premio Oscar a dirigere, la più grande industria culturale del paese a co-produrre e distribuire) che faccia divulgazione delle idee nate e fiorite in rete. E per fortuna non ha deluso. Fondata sul crowdsourcing, animata da persone che vivono la rete (solo lì si poteva venire a sapere del progetto e parteciparvi) e possibile grazie al dono individuale, alla libera condivisione di se stessi, Italy in a day è una macchina da commozione inesorabile che Salvatores guida con mano sicura e seguendo le proprie ossessioni. Sciolto da un'incombenza puramente documentaristica – che apparteneva più al primo film, tarato su scala mondiale e all'epoca unico – Salvatores lavora per cavalcare il sentimentalismo del materiale pervenutogli, non disdegna il piacere epidermico di molte riprese impressionanti (sequenze d'azione, di sport e di volo libero) ma fa sempre ritorno agli interni, i video umani e per80 · LittleWhiteLies
Un documentario solare e ottimista che racconta l'intimo meglio del pubblico sonali, le dichiarazioni di matrimonio e l'intimità. Italy in a day è un documentario solare e ottimista – pochi i contributi che non sembrino un inno al vivere – che racconta l'intimo molto più e meglio del pubblico, in maniera anche maggiore del suo omologo planetario. È un documentario girato tra le coperte e nelle cucine, in grado di ribadire e confermare il più grande stereotipo nazionale: l'attaccamento alla famiglia.
IL FILM
Italy in a day
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DEGLI
Anteprima ABBIAMO TEMUTO L'EFFETTO "SELFIE"
4 Visione GLI ITALIANI SONO GLI ATTORI DI UN GRANDIOSO SPACCATO DI VITA
ITALY IN A DAY di Gabriele Salvatores
ITALIANI Di certo rispetto all’originale di Kevin Macdonald questo documentario realizzato montando insieme molti tra i 44.000 video inviati a Salvatores indugia più su certe storie, invece che correre di clip in clip spesso ritorna su alcune, le segue di più per investirle del dovere di farsi portatori di piccole storie. Bambini, coppie, madri, nonni e nuclei che si stringono, si annunciano belle notizie, piangono e si fanno forza. Come prevedibile i contributi sono demograficamente sbilanciati, pochi gli over 40, quasi nessun professionista affermato e molti disoccupati. I ragazzi sono quasi sempre soggetto e oggetto, operatore e attore, in video che hanno il sapore del protagonismo solo se visti singolarmente mentre collettivamente mostrano ciò che sta cambiando nella cultura audiovisiva, un rapporto mutato, meno schivo e più consapevole con la rappresentazione di se stessi e quindi della propria immagine ripresa. Perché il secondo e più audace racconto che Italy in a day – e Life in a day prima – riescono a fare è
Il 26 ottobre 2013 gli italiani hanno inviato 44.000 video, per un totale di 2200 ore di girato che Salvatores ha selezionato e montato
4 Flashback IL SOCIAL MOVIE SARÀ UN FENOMENO ALLARGATO... NON VEDIAMO L'ORA
quello del cambiamento culturale e antropologico che il moltiplicarsi di videocamere e video fruiti sta causando. Se Salvatores mantiene un saldo controllo, selezionando cosa mostrare e cosa no, è anche vero che i momenti più sorprendenti sono frutto di soluzioni visive interne ai singoli video. Molti dei contributi infatti contengono piccoli climax, svelano solo nel finale la loro vera natura. In questo senso Italy in a day è un imprescindibile documento della storia contemporanea, la più significativa opera di divulgazione della internet culture che sia mai stata realizzata nel nostro Paese. Si tratta della più grande rappresentazione delle potenzialità della cultura partecipativa, dell'atteggiamento di quella parte di Paese che vive online (solo così si poteva aderire al progetto) e dei risultati inaspettati e clamorosi a cui può portare l'unione di un'intelligenza centrale (l'autore) unita alla libera condivisione. Ormai è innegabile, la tecnologia ci sta cambiando. In meglio. FRANCESCA CECCARELLI 81
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IL REGISTA "SOCIAL" DELL'APPLAUDITO ITALY IN A DAY, CI CONCEDE UN'INTERESSANTE INTERVISTA SUL SUO ULTIMO LAVORO E DELLE ANTICIPAZIONI SUL SUO PROSSIMO PROGETTO
Gabriele Salvatores di FRANCESCA CECCARELLI
Quanto è stato difficile mettere insieme i vari filmati pervenuti, quanto c’è di suo nel montaggio finale?
Ci sono dei fili rossi, tra il vulcano che erutta e quella ragazza che mai esce da sotto la propria coperta, ripiegata su se stessa, e il viaggio in mezzo al mare di questo ragazzo con i container. Una sorta di astronave su acqua. In un esperimento del genere ci sono cose che mai avrei potuto fare in un film di funzione. Una delle scene più commoventi è quella della persona anziana malata di Alzheimer chevvnon ricorda il nome dei figli. Se fai queste cose al cinema sarebbe impossibile, poco credibile. Neanche il miglior regista e la miglior attrice su piazza risulterebbero convincenti. Questa è la forza di questo esperimento.
82 · LittleWhiteLies
È anche vero che non basta avere una macchina fotografica per diventare fotografo, bisogna avere un proprio occhio e una propria visione del mondo. In termini cinematografici è il montaggio a farla da padrone. L'anima del film è il montaggio. La potenza del montaggio è la visione del regista. Cosa può dirci della musica invece? Gli autori sono dei musicisti americani. Hanno fatto un ottimo lavoro, perché è difficile comporre la soundtrack di un film così tanto frammentato, che cambia registro continuamente, dal comico al tragico nel giro di pochi secondi. Loro, invece, sono stati dei maestri in questo componendo delle musiche che si armonizzano alla perfezione con il girato.
Intervista Perché gli italiani hanno mandato così tanti video, alcuni estremamente intimi, perché hanno sentito questo bisogno di mostrarsi?
È vero, abbiamo ricevuto moltissimi video, circa 45000, più di quanti ne abbia ricevuti Ridley Scott da tutto il Pianeta, ovvero 15000. I motivi possono essere due: o siamo un popolo di esibizionisti, oppure siamo un popolo che ha bisogno di essere ascoltato. Io credo più in quest’ultimo. L’esibizionismo è certo molto forte oggi, soprattutto sul web, ma credo che la voglia di farsi sentire sia maggiore. La situazione di crisi, ovviamente, ha giocato a nostro favore in questo caso, perché ha esasperato le nostre condizioni. Qual è l’Italia che emerge da questo enorme esperimento sociale?
«Bisogna avere una conoscenza verticale, ma la rete per definizione è orizzontale. Le due forze dovrebbero incrociarsi, a formare una spirale che sale»
È l’Italia che non si piange addosso. Esce l'immagine di un'Italia ferita, sofferente ma con dignità. Ci possono riempire di mazzate ma ci Internet è diventato un supermercato. Facerialziamo. C'è anche molta paura, soprattutto book si è comprato WhatsApp soltanto perché tra i giovani, ma sorge una visione di speranza. fino ad ora non aveva i numeri di telefono degli utenti. Adesso avrà anche quelli. Il web può esCosa può dirci di più sul suo ultimo lavoro, sere il futuro, io ci credo. Possono nascere felici Il ragazzo invisibile? esperienze. Innanzitutto si tratta di un cinecomic, un gene- Con il concorso de Il Ragazzo Invisibile sono arre ancora sconosciuto in Italia. Il film parla di un rivati oltre 1000 brani. E molti di questi bellissibambino di 13 anni che scopre di avere il potere mi. Doveva esserci una sola canzone vincitrice, più economico di tutti: quello di scomparire. ma alla fine ne abbiamo scelte tre. Però è un potere che non può controllare, molto legato alla sfera intima, quindi scompare e ri- Infine, da tutto questo emerge che il web è un’arma potente e positiva in mano ad compare all'improvviso. Chi non è mai stato – o non ha mai voluto diven- un regista, ma quanto può effettivamente tare – invisibile in vita sua? La storia tratta di aiutare il cinema, e soprattutto la nuova questo, ma anche di molto altro, come dei pro- generazione di cineasti e potenziali registi in Italia? blemi seri visti con gli occhi di un bambino. Un tempo si diceva che bisognava avere una coAnche ne Il ragazzo invisibile si è affidato noscenza verticale, ma la rete per definizione è al pubblico ‒ la composizione di una orizzontale. Le due forze dovrebbero incrociarcanzone, in questo caso ‒ segno che lei si, a formare una spirale che sale. Il web è di fatpunta molto sul mezzo della rete. to un’arma potente per un regista, perché forQuando nel 1996 girai Nirvana venni in qual- nisce una quantità enorme di materiali che però che modo visto come un pazzo visionario, par- devono essere filtrati dal suo sguardo. Penso lavo di internet, di hacker e la gente usciva dal che ogni macchina da presa abbia due obiettivi: cinema spaesata, non capiva di cosa stessi par- uno che va verso l’esterno, che registra quello lando. Era il 1996, ma già all'epoca avevo gran- che vede, e uno che va verso l’interno di chi fode fiducia nel mezzo della rete. Poteva portare il tografa – se questo ha la capacità e l’occhio. "Pianeta Terra" ad aprirsi completamente. È questo che bisogna trovare: il web con un’idea Non è poi andata a finire così. di racconto e una visione del mondo.
illustrazione Francesca Ceccarelli
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uesto progetto rappresenta per me il raggiungimento di un importante obiettivo, ed è il punto di arrivo di un percorso durato circa 4 anni che mi ha portato dove non credevo sarei mai arrivata. In questo “viaggio” ho incontrato delle persone straordinarie, che hanno sempre creduto in me, mi hanno sostenuta e hanno contribuito a fare di me quella che sono ora. Un grandissimo ringraziamento, quindi, va a loro che in questo progetto sono stati la mia “estensione oggettiva”, giudicando il mio lavoro con imparzialità e dandomi preziosi consigli su come migliorarlo. Un infinito ringraziamento va anche e soprattutto al mio relatore, il professor Francesco Mazzenga. Oltre ad avermi supportato in questo percorso, mi ha anche seguito con pazienza, serietà e professionalità, riuscendo a guidarmi nella realizzazione della rivista che state sfogliando e permettendomi di infondervi la mia personalità, senza che questo compromettesse il risultato finale. Grazie di cuore F.C.