Motus

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EMOZIONE E COMUNICAZIONE EMOZIONI E CULTURE PILLOLE DI PSICOLOGIA RICORDI ED EMOZIONI

Mensile di Febbraio 2022 - n.0 - €5.00

MOTUS



Motus è un’innovativa rivista, mensile, che tratta la tematica delle emozioni in ogni sua sfaccettatura, sia dal punto di vista psicologico che della comunicazione visiva. Le emozioni sono un argomento a nostro avviso molto importante ma che spesso viene sottovalutato e che invece, soprattutto in questo momento, merita una particolare attenzione. La scelta del nome nasce da una profonda ricerca sulla derivazione della parola emozione, dal latino “motus” che significa sia emozione che mettere in movimento. Ogni emozione infatti mette in movimento sensazioni diverse all’interno di ogni persona, da questo è nata l’idea di chiamare la rivista Motus. L ​ a rivista è stata realizzata da Alessia, Aurora, Cristina, Francesca e Giorgia, studentesse dell’Accademia di Belle Arti.


Emozioni e comunicazione visiva Arte ed emozione

10-11

Quando il giudizio altrui influenza le nostre azioni e le nostre scelte

12-15

Il potere emozionale del colore in ambito sanitario

16-19

Le emozioni attraverso i colori

20-25

Il potere delle immagini

26-28

INDICE

Emozioni e culture L’espressione vocale delle emozioni dipende dalla cultura

31-34

Emozioni senza nome

35-37

I volti della violenza sulle donne del mondo

38-40

I colori nelle diverse culture

41-43

L’espressioni delle emozioni in culture diverse

44-47


Pillole di psicologia Overthinking: come smettere di essere schiavi della propria mente

50-53

Cosa sono le emozioni in psicologia?

55-60

La rabbia...

62-64

Anoressia: l’inferno e la rinascita di Nicole

66-69

Come aiutare chi ha un attacco di panico

70-73

Ricordi ed emozioni Vita di coppia.. Intervista agli sposi

75-77

La vita tra emozioni, sensazioni, percezioni e sentimenti

78-81

Come cambia la percezione di un dolore passato

82-85

La relazione tra emozione e memoria

86-89

Quando l’emozione diventa ricord0

91-93


REDAZIONE

CRISTINA BELLONIA

AURORA BENNI


FRANCESCA CERIONI

ALESSIA CORRADINI

GIORGIA FEMIA


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L’arte non è emozione, o meglio, emozionare non è la sua funzione primaria e principale. l’arte è innanzitutto pensiero. poi può anche arrivare l’emozione, ma non necessariamente.

artiamo dal principio: fin troppo spesso mi è capitato di discutere con amici sul valore artistico delle opere di certi artisti contemporanei o comunque del ventesimo secolo. Questo tipo di incomprensioni partono infatti più o meno sempre con le avanguardie, per l’arte precedente dubbi non esistono. Per fare un esempio pratico scegliamo un artista che è spesso protagonista della diatriba “è arte – non è arte”, Lucio Fontana, la cui figura catalizza feroci critiche anche per le enormi, e per molti inconcepibili, quotazioni che le sue opere raggiungono. L’accusa più utilizzata dai suoi detrattori, oltre alla classica “lo potevo fare anch’io”, è, appunto: “Non è arte perché non mi emoziona”. Capirai bene che ragionando in questa maniera ci si infila in un vicolo cieco dal quale diventa impossibile uscire: l’emozione è qualcosa di estremamente personale e come si fa a decretare lo statuto di opera d’arte seguendo principi prettamente soggettivi? 10

Facciamo un esempio banale: prendiamo due persone, Marta nata in un caratteristico paesino delle Alpi e Giorgia su un’isola del Mediterraneo. L’infanzia di entrambe è segnata da esperienze, ricordi ed emozioni legate anche inevitabilmente all’ambiente nel quale hanno passato la loro infanzia. Cresciute e trasferitesi a vivere in città, si conoscono e un bel giorno, in visita a una mostra, si trovano davanti a un dipinto raffigurante un maestoso paesaggio di montagna. Ovviamente Marta ne è affascinata: un insieme di ricordi e di emozioni le si affollano nel cuore. Rimane incollata al dipinto, non riesce a staccare gli occhi dal quadro. Giorgia invece passa avanti del tutto indifferente, a lei la neve non provoca nessuna reazione, per lei quella non è arte. Però quando scorge un dipinto raffigurante una bella marina, i ruoli si invertono ed è lei ad essere ipnotizzata, mentre Marta non si accorge neanche del dipinto. Le due ragazze stanno giudicando le due


opere attraverso il filtro delle loro emozioni, quindi ciò che è arte per una, può non essere arte per l’altra. Oltre ogni giudizio personale Qual è dunque quella caratteristica unica e sopra le parti, intrinseca in ogni opera d’arte e che oggettivamente (per quanto possibile) può permetterci di goderne la grandezza indipendentemente dai nostri gusti, ricordi o Rodin - Il pensatoresensazioni personali? Sicuramente il pensiero. Non mi stancherò mai di dirlo, lo scopo di un’opera d’arte non è quello di farci emozionare, ma quello di farci ragionare, l’emozione è solo una conseguenza. Cosa rende grande una persona e la pone un gradino sopra agli altri, forse la sua capacità di emozionarsi? La storia ci racconta per caso la vita e le gesta di personaggi che sapevano emozionarsi più e meglio degli altri? Direi proprio di no. Mi dispiace deluderti, ma se sei una di quelle persone che vive credendo di essere superiore agli altri perché possiede un cuore sensibilissimo,

dolce e delicato, forse ti stai un po’ illudendo. È sempre stata la capacità di pensare e di ragionare, non di emozionarsi, quella che ha contraddistinto un uomo da un altro e che ha portato l’umanità a certi alti livelli. D’altronde, pensiamoci bene, tutti si emozionano, anche le persone che in apparenza sembrano più fredde provano delle emozioni che probabilmente per loro sono persino fortissime. Questo perché emozione è vita e chiunque respiri e muova i passi su questa terra non può non provarne. Anche il mio gatto si emoziona, quando torno a casa, quando gli do da mangiare o quando lo accarezzo. Non è quindi l’emozione che ci differenzia dagli animali, ma ancora una volta il pensiero e l’arte, essendo la più alta delle espressioni umane non può che essere manifestazione del pensiero, non dell’emozione. Leggendo ti accorgi di come questo rozzo olandese non fosse poi uno sprovveduto ma, al contrario, fosse un grandissimo conoscitore della pittura. Van Gogh aveva un credo estetico molto sviluppato e l’emozione espressa dai suoi quadri è filtrata da un pensiero profondo e da una conoscenza dei colori, dell’arte e della pittura in generale, fuori dal comune. Ci sono periodi storici e correnti artistiche per le quali il binomio arte ed emozione funziona alla perfezione: in determinate opere, l’emozione del fruitore prende esplicitamente parte al significato dell’opera. Ho già accennato alle varie forme di espressionismo, ma pensiamo anche a tutta l’arte barocca che aveva come obiettivo quello di dare risalto alla grandezza della Chiesa e lo faceva cercando di toccare le corde emotive dello spettatore. Oppure prendiamo in considerazione i lavori di Mark Rothko che sono il tentativo di smuovere le emozioni di chi si ferma in loro contemplazione. Oppure ancora, possiamo parlare di Marina Abramović, le cui performance suscitano sicuramente forti reazioni emotive nello spettatore. Questi artisti cercano di dialogare sul piano intellettuale con l’osservatore, cercano di stimolare il loro pensiero piuttosto che le loro emozioni. 11


La paura del giudizio altrui è uno dei freni più duri da superare. Spesso siamo condizionati da ciò che potrebbero pensare gli altri e rimaniamo nel limbo dell’indecisione. Questo limite ci mette in ansia verso le scelte da fare autonomamente, indipendentemente dal fatto che la nostra scelta possa essere più o meno giusta o sbagliata. Alla base della nostra autostima c’è la continua ricerca di essere amati e accettati a tutti i costi; in realtà temiamo di non essere apprezzati, peggio ancora di essere giudicati. La paura di essere giudicati ha come primo riflesso quello di spingerci ad adeguarci costantemente alla situazione, perdendo così la nostra spontaneità ed individualità. Ed è così che adeguandoci alla società per paura del giudizio altrui, andiamo in contro ad un duplice problema: innanzitutto ci allontaniamo da noi stessi poiché, adeguandoci ad un contesto al quale ci conformiamo, in realtà ci allontaniamo dalla nostra vera identità, dalle nostre convinzioni e sensazioni; di conseguenza ci allontaniamo anche dagli altri poiché l’impegno a modificare i nostri comportamenti crea un distacco con le intenzioni e lo stato d’animo dell’altro). Così modifichiamo il nostro comportamento senza accorgercene, con l’intenzione di avvicinarci agli altri, ma l’effetto che ne risulta è l’opposto perché, non siamo autentici, perché la nostra rimane una maschera di convenienza e ciò oltre ad allontanarci dalla parte più intima e vera di noi stessi, ci allontana dalle persone 12

legate al nostro cuore. Tutto ciò non fa altro che aumentare l’ansia e la paura, creando un circolo vizioso dal quale uscirne non è così semplice. Spesso poi, la paura del giudizio è strettamente collegata al senso di vergogna che proveremmo se le nostre azioni fossero oggetto di derisione. In altre parole, la vergogna assume un valore solo negativo “se mi vergogno vuol dire che sono inadeguato…incapace…per questo l’altro mi deride”. Questi pensieri non fanno altro che aumentare l’imbarazzo, rendendoci incapaci di gestire la situazione. Sarebbe invece più utile imparare a tollerare la vergogna, tenendo presente che è un’emozione naturale. L’uomo è un animale sociale e tende, per sua natura, ad aggregarsi ad altri individui: chi vive in gruppo con uno o più obiettivi comuni ha una probabilità di sopravvivenza molto più elevata rispetto a chi sta solo. L’appartenenza al gruppo fin dalla preistoria stabilisce anche un senso di identità (l’appartenenza) e dà un carattere diverso al nostro io, pertanto essere giudicati o etichettati all’interno del gruppo fa sentire diversi (il famoso capro espiatorio). Quando il pensiero altrui ci colpisce come una sacralità, diamo all’altro un potere che di fatto

Giudicare i difetti degli altri deriva spesso dal bisogno di assolvere i propri.


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non ha e ciò non ci aiuta, perché scarica su di noi una grande responsabilità, senza fare i conti con il proprio mondo interiore. Bisognerebbe infatti non focalizzarsi, comprendere che si tratta di un altro modo di pensare, semplicemente diverso dal nostro, al quale non si deve dare troppo peso e che il pensiero altrui può essere gestito proprio perché non assoluto, ma semplicemente diverso dal nostro. Il nostro sentire è vero ed è solo nostro; esso deve acquistare più fiducia ai nostri occhi, più spessore; dovremmo lasciarlo crescere e dovremmo trovare il coraggio di presentarlo agli altri con fierezza. Liberarsi dalla paura del giudizio degli altri significa scrollarsi di dosso un peso che rallenta ogni nostra scelta e ci allontana dagli obiettivi che ci siamo posti. Un’altra falsa chimera che dovremmo imparare a lasciar andare è il voler raggiungere la “perfezione” (cosa impossibile per chiunque) sia per noi stessi, sia agli occhi degli altri. Non dobbiamo necessariamente piacere a tutti, non potremo mai piacere a tutti! Evitiamo quindi di interpretare il ruolo di colui che 14

Trattenere la rabbia, il risentimento e le offese ti provoca solo muscoli tesi, un mal di testa e una mascella dolente causata dal digrignare dei denti. Il perdono ti restituisce la risata e la leggerezza nella tua vita.

non sbaglia mai, poiché oltre a farci spendere un gran numero di energie irrigidendo il nostro cuore, ci porterà sicuramente ad allontanarci dalla nostra vera personalità perdendo tempo prezioso. Ecco che, ripuliti da tutte queste false sovrastrutture, che spesso il modello della nostra società ci getta addosso, i nostri pensieri diventano le nostre emozioni; le nostre azioni formano il nostro modo di fare e la nostra routine, influenzando a loro volta il nostro percorso di vita, e costruendo la nostra personalità.


Le emozioni sono difficili da controllare; spesso abbiamo bisogno di parlare con qualcuno per dare un nome ed un volto all’emozione rimasta incastrata nel profondo della nostra anima e questo “qualcuno” è molto importante che non proietti su di noi nulla di personale, che rimanga neutrale e privo di giudizio; molte decisioni che si prendono, si prendono in base alle esperienze degli altri.

Sin da piccoli veniamo influenzati dalle decisioni degli altri, basti pensare come l’influenza dei genitori, parenti ed amici cambi il nostro modo di pensare e di essere. Quando si è piccoli ancora non si è formata la propria identità, tutto appare bello e nuovo, un gioco può riservare mille sfaccettature, celare mille messaggi, influire sul bambino che cresce i mille modi diversi; in più il modo in cui gli adulti interagiscono con lui fa la differenza: può scoprire cose belle e brutte, cose giuste e sbagliate e ogni volta che qualcuno mette dei paletti o dice che siamo stati cattivi ci aiuta a capire cosa si può o cosa non si possa fare. Il problema di questa influenza continua e pressante, accompagnata da figure già formate, che talvolta sono a loro volta disturbate, è quella di correre il rischio di diventare, già dai primi anni di vita e a volte anche per tutta la propria esistenza, un essere senza un proprio giudizio, incapace di far sentire la propria voce, che cambia idea facilmente in base alla proiezione altrui in noi di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, in base al ruolo

che gli altri gli hanno attribuito, in base a ciò che ci si aspetta che faccia. Ed è così che , per non deludere nessuno, per non perdere l’amore, si recita consciamente o meno il ruolo prestabilito. Le emozioni sono difficili da controllare; spesso abbiamo bisogno di parlare con qualcuno per dare un nome ed un volto all’emozione rimasta incastrata nel profondo della nostra anima e questo “qualcuno” è molto importante che non proietti su di noi nulla di personale, che rimanga neutrale e privo di giudizio; molte decisioni che si prendono, si prendono in base alle esperienze degli altri. Tutti sono bravi a giudicare una persona o una situazione, ma nessuno riesce a parlare con un amico restando imparziale; è per questo che a volte, per poter vivere e far parte al meglio della società, l’unica figura che può daci un consiglio, semplicemente indicarci una direzione o dare un nome alle nostre emozioni è la figura del psicoterapeuta, figura che dovrebbe aiutarci, in modo imparziale, a far emergere in noi il nostro vero io.

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Il potere emozionale del colore in ambito sanitario Ci siamo mai chiesti perché, in qualsiasi ospedale andiamo, vediamo sempre utilizzati gli stessi colori? Il colore sulle pareti di ospedali e case di cura può sembrare un elemento da trascurare, se si pensa solo all’igiene e quindi al tipo di pittura che deve essere 100% lavabile, tuttavia molti studi stanno confermando il valore dei colori negli ambienti dove sono ricoverati i pazienti e gli anziani, luoghi già di per sé ostili nell’immaginario collettivo. Infatti i colori sono in grado di dare diverse sensazioni, che possono essere utili nel combattere le malattie, non perché siano

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miracolosi, ma perché possono dare ai pazienti calma e serenità e quindi metterli in uno stato psicologico migliore per affrontare le cure, che in questo modo risulteranno più efficaci. Come sosteneva l’infermiera britannica Nightingale:

“La varietà nelle forme e la brillantezza dei colori negli oggetti presentati ai pazienti sono un vero e proprio mezzo di guarigione.”


Pensiamo agli effetti sorprendenti che ha la Terapia del Sorriso. C’è una spiegazione scientifica: ridere rilassa i muscoli e produce un effetto terapeutico, soprattutto sui bambini. La Terapia del Sorriso è un’attività professionale che integra le cure tradizionali, aiutando il bambino a superare il trauma del ricovero in ospedale. Un bimbo psicologicamente più forte guarisce prima, è scientificamente provato. Inoltre ridere riduce la somministrazione di analgesici, i tempi di degenza, i tempi di miglioramento clinico e aumenta le difese immunitarie e il livello delle endorfine. Ma non solo, l’intervento dei Dottori del Sorriso produce effetti positivi su tutte le persone coinvolte nel processo terapeutico: distrae e diverte i bambini, aiutandoli ad affrontare con maggiore leggerezza il contesto ospedaliero, allevia la preoccupazione e il senso di impotenza dei genitori di fronte al ricovero

dei propri figli, e infine consente al personale medico di operare con più serenità. L’ospedale deve essere un luogo accogliente sia per chi è ricoverato che per chi ci lavora, e in questo la scelta dei colori è fondamentale. Ogni reparto adotta un colore differente, in parte per indirizzare e far orientare i pazienti (per cui ogni area ha un tono a sé), e in parte per trasmettere emozioni diverse a seconda del tipo di cure che si affrontano in ogni reparto. I medici spesso osservano il tono della pelle del paziente durante l’anamnesi, quindi i colori audaci devono essere evitati in quanto possono portare a diagnosi errate causate da eventuali ombre riflesse sulla pelle. In generale si è visto che tinte forti trasmettono buon umore e riducono l’ansia, ecco perché nei reparti pediatrici sono utilizzati colori molto intensi e spesso le pareti sono dipinte con disegni di animali o personaggi dei cartoni animati, così come anche le stanze da gioco devono essere vivaci e piene di giochi per rendere la degenza meno traumatica possibile.

“In generale si è visto che tinte forti trasmettono buon umore e riducono l’ansia”

Patch Adams, il Dottor Sorriso

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In ogni reparto ospedaliero i colori scelti vanno dall’arancione al verde intenso, rilassanti e che trasmettono voglia di vivere, ideali per le stanze di degenza; il turchese è usato per le sale operatorie; il rosa per la ginecologia e per i corridoi il magenta o il verde. Ci sono alcune scelte di colore da evitare durante la progettazione di aree per ambienti sanitari: •L’arancione è un colore che stimola la mente e quindi viene evitato nei progetti per aree dedicate alla salute mentale, in quanto può alterare gli stati emotivi; •Il rosso è noto per aumentare la pressione sanguigna oltre ad essere associato al sangue, quindi non è un colore usato nei progetti di aree cardiache o chirurgiche; •Nei reparti neonatali e maternità, il giallo è da evitare, non solo perché fa piangere di più i bambini, ma anche perché rende più difficile diagnosticare un eventuale ittero; •Il blu elettrico mette inquietudine. Il colore è anche utile negli ambienti di passaggio, di ingresso e di sosta, proprio perché in questi luoghi si svolgono i rapporti interpersonali e quindi è importante trasmettere senso di accoglienza e serenità. Per anni negli ospedali è stato utilizzato il bianco, perché considerato il colore dell’igiene, ma, secondo gli studi condotti in materia, il bianco è impersonale e asettico, crea una certa freddezza e ricorda al paziente il suo stato di malattia e sofferenza. A fare da apripista del color design è stato l’ospedale Cà Grande Niguarda di Milano, che nel 2009 ha ingaggiato un consulente speciale per ridare colore, e calore, alle sue strutture. Le idee di Jorrit Tornquist, noto architetto della “Teoria del colore” e professore di Design Industriale al Politecnico di Milano, sono state un successo. Il designer austriaco, italiano di adozione, ha 18

elaborato un progetto cromatico per l’ospedale Niguarda, adottando l’uso di colori diversi per reparti e corsie. “In realtà più che dalla percezione visiva siamo influenzati dal fascio di luce sprigionata e dall’energia elettromagnetica”, ha puntualizzato Tornquist. Il designer ha inoltre scelto come colori predominanti l’arancio e il verde intenso, molto rilassanti, ideali per le camere di degenza, queste tonalità infatti aiutano a riequilibrare l’ emotività. Il verde-turchese è stato scelto per le sale operatorie “perché minimizza il rosso del sangue”, e via dicendo con i colori che abbiamo spiegato precedentemente. Infine le pareti degli spogliatoi per i pazienti in tutte le aree sono in arancio chiaro, un colore vicino al colore della carnagione, per evitare senso di disagio e estraneità. “Negli ultimi decenni – ha spiegato Nicola Orfeo, medico di Direzione Sanitaria – gli architetti hanno affrontato la crescente esigenza di umanizzazione degli ambienti senza trascurare gli aspetti tecnici, manutentivi e igienico sanitari”


E la cromoterapia non è certo un invenzione, da anni si registra all’interno dei reparti colorati, soprattutto quelli pediatrici, il riflesso positivo della scelta dei colori e non solo da parte dei pazienti ma anche del personale che vi lavora. Un esperto del potere del colore ci aiuta a capire come funziona la cromoterapia. Franco Cusimano, fondatore dell’Istituto Superiore di Psicologia Vibrazionale a Roma e docente all’Università di Messina dice: “Il colore agisce su di noi anche se abbiamo gli occhi bendati, e perfino sugli altri mammiferi che, diversamente da noi, vedono in bianco e nero: quelle che percepiamo anche solo con il tatto sono le vibrazioni delle miriadi di fotoni di cui è composta la luce”. E per chiarire le idee riporta un esempio a tutti noto: “Sembra strano ma quando compriamo una medicina la cura inizia già con la scatola. Per questo le confezioni di molti antinfiammatori hanno le tonalità calmanti dell’azzurro o del verde. E mai il rosso”.

Il professor Cusimano ha anche messo a punto il S.A.R.A. test, una serie di 94 domande per una diagnosi a colori di sintomi e disturbi, inserite anche nella nuova edizione di Cromoterapia, spiritualità e psicologia. Un test basato sui colori stimola l’interesse e la curiosità di sapere cosa i colori possono raccontare di noi. Basterà comprendere il linguaggio dei colori per poter penetrare nella realtà emozionale della persona. Il chromatest individua i bisogni fondamentali, analizza la personalità e gli stati energetici e definisce gli obiettivi del trattamento. A ogni colore sono associate delle caratteristiche, sul piano fisico-strutturale e sul piano emotivo. In fase di consulenza, questo test diviene uno degli strumenti fondamentali per creare trattamenti personalizzati. 19


LE EMOZIONI ATTRAVERSO I COLORI

In questo articolo affronteremo tematiche come la psicologia dei colori e come essi causano determinate emozioni in noi. Alla fine dell’articolo sarà presente un test (il test dei colori di Max Luscher), il quale si basa sulla teoria per la quale la preferenza che un soggetto mostra per un colore piuttosto che per un altro, è in base allo stato d’animo attuale del soggetto. COSA SIGNIFICANO I COLORI? La psicologia del colore si basa sugli effetti mentali ed emotivi che i colori hanno sulle persone nelle varie situazioni della vita. La psicologia dei colori Il significato psicologico dei colori non è frutto di un’elaborazione percettiva, ma è uguale per tutti gli individui appartenenti anche a culture differenti. Ogni colore ha un significato proprio che ha un determinato impatto sul cervello e, pertanto, la psicologia del colore al giorno d’oggi è uno strumento fondamentale per il neuromarketing.

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I colori giocano un ruolo fondamentale nel modo in cui i clienti percepiscono il tuo brand. La psicologia dei colori nel web marketing può essere utilizzata per aiutare a costruire un brand forte e con il quale ci si possa relazionare. In questo articolo ti spiegheremo che cos’è la psicologia dei colori e cosa significano i colori più popolari. La psicologia dei colori è lo studio dei colori in relazione al comportamento umano. Ha lo scopo di determinare come il colore influenza le nostre decisioni quotidiane, come la scelta di comprare un determinato prodotto. Il colore di un abito ci spinge all’acquisto? I colori di una confezione ci fanno preferire un marchio agli altri? Il colore di un’icona ci rende più propensi a cliccare su di essa? La risposta breve è sì. Leggermente più complicato è il motivo. Il significato dei colori in psicologia può avere un effetto sul perché preferiamo alcuni colori rispetto ad altri. Inoltre, uno stesso colore può anche avere significati diversi in base alla nostra educazione, al sesso, al luogo, ai valori e ad altri fattori esterni.


Comprendere in che modo reagisce il consumatore a determinati stimoli cromatici permette un aumento degli acquisti, e il suo effetto funziona al 100%, si osservano modelli che confermano l’utilità della psicologia del colore.

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IL COLORE È UNA DELLE PIÙ GRANDI FORME DI COMUNICAZIONE. La scelta del colore giusto aumenta le probabilità di attrarre un potenziale cliente verso il proprio prodotto. Un colore che può evocare una reazione in una persona e ne può suscitare una totalmente differente in un’altra, questo può dipendere dalla cultura, dalle tradizioni o più semplicemente dai gusti personali.In Giappone le donne si sposano in rosso mentre in Italia esclusi casi particolari è tradizione utilizzare il bianco ad esempio. Conoscere la teoria dei colori è fondamentale per un designer, sapere che emozioni può suscitare un determinata scelta è sicuramente un fattore che può aumenta la qualità dei servizi offerti ai nostri clienti. I COLORI CALDI I colori caldi includono il rosso, il giallo, l’arancione e tutte le loro varianti. Sono i colori del fuoco, della passione, del tramonto e dell’alba, rappresentano l’energia, la positività e la passione. Nel design l’uso dei colori freddi da un senso di calma e professionalità. ROSSO Il rosso ha molteplici significati, viene associato al fuoco, ma anche alla passione e all’amore. Il rosso può avere effetti fisici sulle persone, aumentare la pressione sanguigna e la respirazione. Al di fuori della nostra società occidentale il rosso assume tutt’altri significati, ad esempio in Cina rappresenta la felicità e viene utilizzato per portare fortuna. Il rosso è sicuramente adorato da tutti i designer per il suo forte potere evocativo, un uso coscienzioso di questo colore può portare a risultati comunicativi veramente efficaci.

Proprio perché viene associato ad un cambiamento di stagione questo colore può rappresentare un’evoluzione. Nel design viene utilizzato per richiamare un tipo di attenzione meno imminente, basti pensare al semaforo. GIALLO Il giallo è sicuramente il più brillante ed energico fra i colori caldi. Associato alla felicità e alla luce il giallo può anche rappresentare la codardia. In Giappone rappresenta il coraggio mentre in Egitto il lutto, in India è utilizzato da tutta la categoria dei commercianti. Nel design viene usato per rappresentare la felicità e l’allegria mentre nelle sue tonalità più scure per i prodotti di lusso e più raffinati. I COLORI FREDDI I colori freddi sono il blu, il verde e il viola. Sono colori della notte, natura, calma, relax e riservatezza. Il blu è l’unico ad avere uno spettro freddo, questo sta a significare che gli altri due colori freddi sono creati fondendo quest’ultimo con il giallo e il rosso, proprio per questo verde e viola ricavano i loro significati in parte da loro. Nel design l’uso dei colori freddi da un senso di calma e professionalità. VERDE Il verde rappresenta rinnovamento, crescita e nuovi inizi ma anche invidia, gelosia e mancanza di esperienza. Incorpora la calma del blu e l’energia del giallo. Nel design trasmette un senso di armonia e stabilità, le sue varianti più chiare vengono utilizzate per rappresentare la natura e la salute mentre quelle più scure per la solidità.

ARANCIONE BLU L’arancione è un colore energetico e vibrante, associato principalmente all’autunno. 22

Il blu incarna la pace e la spiritualità,


Nel design i significati del blu variano con le sue tonalità, quelle più chiare per figurare la freschezza e l’energia mentre quelle più scure per la forza e l’affidabilità.

spazio vuoto da riempire ma come spazio destinato per lasciare i nostri occhi “respirare”.

VIOLA

Spesso considerato un colore “triste” il grigio è conservativo e formale. Nelle sue varianti più chiare è generalmente accostato a colori come il bianco, quelle più scure sono invece impiegate insieme al nero. Spesso utilizzato come colore aziendale dove la chiave è la formalità e la professionalità, il grigio è molto apprezzato dai designer specialmente come sfondo di alcune composizioni tipografiche.

In antichità era estratto dalle lumache e il procedimento richiedeva molto tempo e denaro, quindi i capi colorati con questo tipo di pigmento erano costi. Generalmente è associato alla creatività e all’immaginazione. Nel design il viola più scuro è usato per dare un senso di ricchezza e raffinatezza, mentre le versioni più morbide e chiare per il romanticismo.

GRIGIO

MARRONE I COLORI NEUTRI Vengono spesso utilizzati come sfondo nel design oppure accostati ad altri colori, mentre da soli per creare layout davvero sofisticati. NERO Il nero è il colore neutro più forte e denso di significati, ed è associato alla forza, l’eleganza, la formalità e non solo ma anche alla morte, il mistero, l’esoterismo e il demonio. In alcuni paesi occidentali come l’Italia il nero rappresenta il lutto, molte donne divenute vedove tutt’oggi usano indossare abiti neri in segno di lutto. Nel design questo colore è utilizzato principalmente per i caratteri nelle composizioni tipografiche oppure per comunicare eleganza e raffinatezza

Il marrone è il colore della natura, della terra e degli alberi. Nel design è impiegato principalmente nella progettazione di layout per prodotti ecosostenibili o biologici. Questo colore nelle sue varianti più scure può essere impiegato come sostituto del nero come sfondo di alcuni progetti grafici. BEIGE Il beige può essere considerato un po’ un colore speciale in quanto può assumere toni freddi o caldi a seconda di ciò che viene accostato ad esso. Utilizzato principalmente come sfondo il beige lo si può vedere molto spesso in design raffinati e minimalistici.

BIANCO

AVORIO

Il bianco opposto del nero è il colore della purezza, innocenza, pulizia è utilizzato nel mondo della medicina, dai dottori sino ai dentisti. Mentre nella religione, il bianco è il colore delle ali degli angeli e di Dio. In India è utilizzato dalle vedove. Nel design il bianco è impiegato soprattutto come sfondo nelle progettazioni di layout minimalistici, è di vitale importanza non considerarlo come

Generalmente adoperato per trasmettere eleganza e calma l’avorio può essere utilizzato per schiarire i colori più scuri senza creare un forte distacco che invece si verrebbe a generare utilizzando il bianco. L’avorio è un colore calmo che richiama la purezza del bianco sebbene sia leggermente più caldo di quest’ultimo. 23


l test di scelta del colore fu inventato nel 1949 da Max Luscher. Il test si basa sulla teoria per la quale la preferenza che un soggetto mostra per un colore piuttosto che per un altro è funzione dello stato d’animo attuale del soggetto. Allo stesso modi il rifiutare un colore da indicazioni circa lo stao d’animo di una persona.

E tu, che colore scegli? Non pensare a quale sia il tuo colore preferito, osserva la tavola dei colori che ti viene proposta e rispondi d’istinto.

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BLU Il blu induce alla calma e si connota come placida e profonda soddisfazione. Fissando a lungo questo colore si produce un effetto di quiete, soddisfazione ed armonia. Chi sceglie il blu desidera legami fondati sulla fiducia, sulla lealtà, sulla dedizione. cerca un ambiente dove i conflitti siano rivolti su un piano di elevatezza spirituale. Chi rifiuta il blu, è profondamente insoddisfatto moralmente, perché perché i rapporti che vive sono inferiori alle sue aspettative e vorrebbe allontanarsene, nella realtà o nella fantasia. GIALLO Il giallo rimanda alla radiosità che risveglia e dà calore. Suscitando una sensazione di espansione e spingendo al movimento, il giallo corrisponde a una condizione di libertà e autosviluppo. Chi preferisce il giallo tende perciò al cambiamento e alla ricerca del nuovo. Chi rifiuta il giallo, probabilmente si sente vuoto e frustrato nelle sue ambizioni personali, sul punto di rinunciare alle sue speranze. ROSSO Il rosso sottolinea lo slancio spontaneo, la “forza di volontà” e tutte le forme di vitalità e di forza, dalla capacità sessuale al desiderio di cambiamenti rivoluzionari, è uno slancio verso l’azione, lo sport, la lotta, la competizione, l’eroismo e la produttività.

una tensione interiore. La scelta del verde indica inoltre autostima. Chi rifiuta il verde, è agitato, al contrario, da forti dubbi sul proprio valore, non si è sentito abbastanza considerato, si sente minacciato dalla paura di perdere i propri possessi o la propria posizione, perché su tutto ciò riposa il senso di autostima. GRIGIO Il grigio è il colore della perfetta neutralità, una terra di nessuno priva di vita. Chi sceglie il colore grigio tende alla distanza e al non coinvolgimento. MARRONE Il marrone corrisponde alla sensazione della corporeità. Il forte bisogno, l’indifferenza o il rifiuto verso questa tinta indicano pertanto un preciso atteggiamento verso ciò che è corporeo e materiale e verso i piaceri fisici. VIOLA Il viola, che nasce dalla mescolanza di rosso e blu, è il colore della metamorfosi, della transizione, del mistero e della magia, preferito dai bambini, dalle donne incinte e dalle personalità immature. È il colore tradizionale della mistica, della spiritualità ma anche della fascinazione erotica, il viola indica l’unione degli opposti, la suggestionabilità. Chi rifiuta il viola, ha difficoltà a lasciarsi andare, rifugge da intimità considerate pericolose, perché in passato hanno ricevuto sofferenze e delusioni. NERO

VERDE Il verde corrispondono sensazioni di solidità, stabilità. L’energia del verde è un’energia potenziale raccolta in se stessa che denota

Il nero rappresenta la negazione assoluta, il “no” radicale in opposizione al “si” del bianco. Il nero è la tinta dell’opposizione dietro la quale può esprimersi una rivendicazione di potere. 25


Evocare ricordi e aggirare blocchi emotivi Le immagini sono uno strumento potente e estremamente importante e hanno percorso tutta la storia dell’uomo fin quasi dai suoi albori. L’essere umano ne ha infatti sempre sentito la necessità a prescindere dalla sua cultura di appartenenza o dall’epoca storica, infatti a partire dai geroglifici e i primi segni le immagini non ci hanno mai più abbandonato. Se ci si pensa è un fenomeno estremamente interessante vedere come l’umanità non abbia mai perso interesse in esse ma al contrario non ha fatto che aumentare con il passare del tempo tanto che oggi l’immagine è quasi più importante delle parole. Nella nostra epoca siamo sempre più bombardati e circondati da immagini, fanno parte del nostro quotidiano e 26

probabilmente la loro importanza non potrà fare altro che aumentare. Nel corso della storia ci si è resi conto che le immagini svolgono un ruolo importante anche a livello psicologico. Le tecniche immaginative fanno parte del campo della psicologia già dalla metà del ‘900, agli albori del cognitivismo, ma in nome dell’approccio evidence-based sono state per molto tempo accantonate. Quest’ultimo si basava su dati scientifici affidabili per decidere il tipo di intervento sul paziente, cercando di integrarli con evidenze emerse da esperienze cliniche. Negli anni ‘70, con la psicologia dello sport, le tecniche immaginative (o imagery) sono tornate alla ribalta mostrando tutto il loro potenziale,


soprattutto per quello che riguarda le immagini positive. La Psicologia Positiva di Martin Seligman ha dimostrato ampiamente come un’immagine sia in grado di evocare la speranza, cioè la sensazione di poter affrontare con successo una situazione che ci dà ansia. Nella psicologia clinica di oggi, le tecniche immaginative vengono largamente utilizzate anche con finalità terapeutiche, perché sono in grado di sollecitare ricordi carichi di emozioni e di riportare alla memoria in maniera ancora più incisiva delle tecniche verbali antichi significati sul sé ancora presenti a livello inconsapevole nella vita del paziente adulto. Nella fase di formulazione del caso, quando lo psicologo cerca di comprendere i legami fra gli eventi del passato e i significati attuali che la persona attribuisce ai fatti Nel momento terapeutico, quando cioè cerca insieme al paziente di ristrutturare le rigide convinzioni che ancora condizionano il suo comportamento.

Il paziente spesso sa a livello razionale che l’evento traumatico è nel passato e che nel suo presente ha tutte le condizioni per sentirsi al sicuro; nonostante questo, continua a temere che quell’evento possa verificarsi ancora o ad avere immagini intrusive terrificanti che può interpretare in vario modo: alta probabilità di ritrovarsi di nuovo in una certa situazione, premonizione, avvertimento di una parte saggia della coscienza e così via. Per questo la psicoterapia ricorre a tecniche che lavorano sull’immagine angosciante per elaborare il trauma anche a livello emotivo. La potenza delle immagini è proprio quella di riuscire spesso ad aprire un varco attraverso il quale accedere alle emozioni per poterle elaborare attraverso la psicoterapia, cosa che spesso con le tecniche verbali avviene a livello razionale, ma non emotivo. Dopotutto questi due tipi di conoscenza, quella del cuore e quella della ragione, sono noti fina dai tempi del filosofo Pascal (1623-1662): 27


“Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” Metacognizione, richiamo dell’immagine e ristrutturazione: il percorso delle tecniche immaginative. L’uso di queste tecniche sta ottenendo un largo consenso fra i clinici e, dalle ricerche riportate nel testo Le tecniche immaginative in terapia cognitiva (A. Hackmann, J. Bennet-Levy, E. A. Holmes, Eclipsi 2014), emergono alcuni tratti comuni da tenere presenti per usare l’imagery in modo efficace: la metacognizione, ossia la capacità di pensare ai nostri processi di pensiero, riconoscendo le nostre costruzioni mentali per quello che sono e distinguendole dalla realtà (o togliendo loro ogni presunto potere magico o premonitorio). La capacità di richiamare l’immagine disturbante e mantenerla nella mente fino a riconoscere l’emozione che essa suscita con l’aiuto del terapeuta, piuttosto che archiviarla in fretta senza comprenderla e accettarla. Strettamente correlata alla ricerca del significato della memoria, la ristrutturazione, ossia la ricerca collaborativa fra paziente e psicologo di un nuovo senso per ciò che è successo nel passato. Questa ricerca può avvenire in modi

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diversi: si possono utilizzare tecniche verbali, come il dialogo socratico, attraverso il quale si confutano le convinzioni in maniera razionale e si scoprono nuove possibili interpretazioni; si può proseguire con le tecniche immaginative per far tornare alla memoria ricordi che correggano parzialmente le convinzioni fino a quel momento date per certe; si può intervenire nell’immagine del paziente, riscrivendone una parte in maniera più positiva. In questo modo l’adulto di oggi può finalmente tollerare e accettare un’emozione provata durante l’infanzia; Anche le tecniche comportamentali, con l’esposizione misurata a situazioni ritenute particolarmente difficili da affrontare per il paziente, possono essere efficaci per ridimensionare la sua assoluta certezza che una aspettativa negativa si concretizzerà. Anche se alcuni aspetti restano ancora da chiarire (per esempio il motivo del loro rapporto privilegiato con la nostra parte emotiva), sembra che le tecniche immaginative, insieme alle modalità tradizionali, rappresentino un buono strumento psicoterapeutico per aggirare le resistenze che spesso abbiamo nel mostrare la nostra parte più autentica.


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L'espressione vocale delle emozioni dipende dalla cultura ono tanti i sentimenti e gli stati d’animo che scandiscono la vita delle persone. Tutti esprimiamo queste emozioni usando un codice vocale specifico che è influenzato dalla cultura di appartenenza. Il risultato è una differenza notevole nel modo in cui un italiano accompagna con la voce il proprio disappunto o la propria gioia rispetto a un cittadino asiatico o del nord Europa. Per la prima volta, una ricerca durata quattro anni e pubblicata sulla rivista internazionale “Journal of Cross-Cultural Psychology”, ha confrontato somiglianze e differenze nel modo in cui cinesi e italiani esprimono otto diversi stati emotivi attraverso la voce (disprezzo, gioia, paura, orgoglio, rabbia, colpa, tristezza e vergogna).

Il progetto è stato messo a punto e realizzato da Luigi Anolli e Fabrizia Mantovani, del Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione dell’Università di Milano-Bicocca, insieme a Lei Wang, professore di psicologia dell’Università di Pechino e direttore del Consiglio Nazionale Cinese di Pscicologia per l’Educazione Superiore, e ad Alessandro De Toni dell’Università Cattolica di Milano. 48 laureandi di differenti facoltà, 19 italiani e 29 cinesi tra i 20 e i 24 anni, hanno preso parte al progetto leggendo ad alta voce, in uno scenario adeguatamente predisposto per rendere più realistica l’interpretazione, brevi storie di grande impatto, rappresentative dei diversi stati emotivi indagati. Successivamente le letture registrate sono state esaminate con sofisticate apparecchiature per l’analisi acustica digitale.

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I risultati ottenuti, da un lato hanno ulteriormente sottolineato il ruolo fondamentale degli aspetti vocali nella manifestazione delle varie emozioni, dall’altro, hanno evidenziato che esistono significative differenze culturali in merito alle espressioni dell’emotività. L’impiego di sofisticate apparecchiature per l’analisi acustica digitale ha chiarito come tono, volume e ritmo della voce presentino variazioni sistematiche in funzione sia dello stato emotivo sia della cultura di appartenenza. In particolare, è emerso come l’espressione delle emozioni da parte degli studenti cinesi sia caratterizzata da uno stile più controllato e da minori variazioni di tono, volume e velocità di eloquio rispetto a quelli italiani, in linea con gli standard culturali orientali che pongono un forte accento sui valori della moderazione, dell’armonia relazionale e del rispetto dello spazio personale altrui. Tali differenze risultano più consistenti nell’espressione di emozioni quali la gioia, la collera e il disprezzo. Inoltre, mentre gli italiani impiegano maggiormente le variazioni di tono e intensità della voce per caratterizzare i propri stati emotivi, i cinesi variano principalmente ritmo e velocità nel parlare. «Le emozioni - spiega il professor Luigi Anolli, docente di Psicologia della comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca - pur avendo una base biologica universale, si manifestano con stili comunicativi significativamente differenti, fatti spesso di sfumature e di indizi non verbali, in funzione delle credenze, delle aspettative, dei valori, delle relazioni sociali e delle pratiche emotive di ogni cultura di appartenenza». La ricerca apre interessanti prospettive nella comprensione della comunicazione vocale delle emozioni, in particolare per quanto riguarda il ruolo dei fattori culturali. Ciò consente di 32

capire meglio alcuni aspetti fondamentali della comunicazione emotiva nell’interazione fra persone di culture diverse. Basti pensare a contesti quali sanità, scuola, giustizia e azienda, caratterizzati da una crescente presenza multiculturale, nei quali la capacità di condividere emozioni riveste una funzione molto importante. I rischi di fraintendimento, spesso legati all’uso dei criteri della cultura di appartenenza nell’interpretare gli aspetti vocali dell’interlocutore, possono avere conseguenze negative nella costruzione di una relazione efficace, a livello umano e professionale. Quelli che possono essere considerati, per esempio, un tono o un volume appropriato in una reazione di gioia o di collera per un italiano,


potrebbero, al contrario, apparire eccessivi e fuori luogo agli occhi (e alle orecchie) di un interlocutore cinese, e viceversa. L’acquisizione di una maggiore conoscenza e consapevolezza delle differenze che esistono tra le diverse culture a livello vocale può favorire comprensione, sintonia, tolleranza e dialogo. Tuttavia, c’è anche da dire che le emozioni sono universali, stanno nella voce, non nella lingua parlata. Quelli che possono essere considerati, per esempio, un tono o un volume appropriato in una reazione di gioia o di collera per un italiano, potrebbero, al contrario, apparire eccessivi e fuori luogo agli occhi (e alle orecchie) di un interlocutore cinese, e viceversa.

L’acquisizione di una maggiore conoscenza e consapevolezza delle differenze che esistono tra le diverse culture a livello vocale può favorire comprensione, sintonia, tolleranza e dialogo. Tuttavia, c’è anche da dire che le emozioni sono universali, stanno nella voce, non nella lingua parlata. Uno studio sperimentale su bambini e giovani adulti ha infatti rivelato che la capacità di riconoscere l’emozione di chi parla è indipendente dalla familiarità con la lingua in cui è espressa, poiché è legata alle caratteristiche del suono della voce e migliora solo in minima parte ascoltando la propria lingua madre. Quindi è vero che il modo di esprimere le proprie emozioni con voce e gesti cambia a seconda della cultura a cui si appartiene, ma è vero anche che, nonostante le differenze culturali, siamo comunque in grado di capire le emozioni che prova il nostro interlocutore solo sentendo il modo in cui si esprime, il suo tono di voce e la gestualità del suo corpo, anche se sono diverse dalle nostre. Torniamo adesso allo studio sperimentale sopracitato: pubblicato sulla rivista “Scientific Reports”, è stato fatto da Georgia Chronaki, dell’Università del Central Lancashire, nel Regno Unito, e colleghi, e sono stati coinvolti nella ricerca sperimentale soggetti di diversa età. L’obiettivo era il seguente: capire in che misura la comunicazione emotiva sia universale e innata, e quindi plasmata dalla matrice biologicocomportamentale che si è evoluta nell’arco di milioni di anni, e in che misura invece è determinata dall’apprendimento culturale, dall’esperienza o dalla maturazione dell’individuo. L’attenzione dei ricercatori era rivolta in particolare a tutti quegli aspetti che prescindono dal significato di ciò che si dice, e che riguardano solo i suoni emessi di chi parla, come il ritmo, l’intonazione della voce o la distribuzione degli accenti nella frase. 33


Lo studio di Chronakie colleghi ha coinvolto 57 bambini e 22 giovani adulti che non conoscevano lingue straniere, in alcuni test di riconoscimento emotivo di pseudo-frasi – cioè frasi prive di significato compiuto, per far sì che il compito dipendesse soltanto dagli elementi extrasemantici del parlato – pronunciate da attori nella loro lingua madre (l’inglese) e in altre tre lingue straniere (spagnolo, cinese e arabo). Le frasi esprimevano rabbia, felicità, tristezza o paura oppure avevano una colorazione emotiva neutra. Dall’analisi dei dati raccolti è emerso che tutti i partecipanti erano in grado di riconoscere le emozioni anche nelle lingue straniere, anche se il riconoscimento era un po’ più accurato nella lingua madre. È apparso evidente, inoltre, che alcune emozioni, tra cui rabbia e tristezza, erano molto più riconoscibili di felicità e paura.

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Secondo l’interpretazione degli autori, l’abilità nel riconoscere le emozioni dalla voce di chi parla dipende solo dalle caratteristiche del suono della voce: dall’altezza, cioè dalla frequenza del suono emesso, dall’intensità del suono e dal ritmo. E si tratta di una capacità innata, già presente nei bambini. Su questa capacità poi s’innesta un fattore socio-culturale, cioè la conoscenza delle regole linguistiche della lingua di appartenenza, che aiuta nel riconoscimento del tono emotivo di quanto udito. Un altro risultato saliente dello studio è che il riconoscimento emotivo migliora nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Non ci sono invece grosse differenze tra la capacità dei bambini e quella degli adolescenti. Per questo specifico compito, dunque, l’adolescenza è un importante periodo per l’acquisizione di nuove competenze.


Le emozioni non hanno a che fare soltanto con la biologia o con la storia personale di ogni persona, ma si intrecciano con le aspettative e con le idee della cultura in cui viviamo, rispecchiando e rispettando le usanze e i modi di fare. Da questo possiamo concludere che, se per alcune culture un particolare sentimento è tenuto in grande considerazione, per un’altra ha un valore differente; ci sono emozioni che non possono essere tradotte, esse sono fondamentali per alcuni popoli, nella maggior parte dei casi in un’altra lingua non hanno neanche un termine

corrispondente, non hanno una traduzione, se quel termine viene applicato ad un’altra cultura deve riprendere il termine così com’è stato utilizzato per i secoli precedenti. La cosa su cui riflettere è questa: se le persone hanno modi diversi di intendere ed elaborare le proprie emozioni significa che hanno anche maniere diverse di provarle? Come determinati valori legati alla cultura lasciano il segno nelle nostre esperienze private? Come avvicinarci a questo può aiutare ad accorciare la distanza sociale? 35


Di origine indiana, abhiman è impossibile da tradurre con una sola parola; significa “orgoglio di sé” o “dignità” ma andando più in profondità possiamo dire che ha a che fare con il dolore e la rabbia provati quanto una persona che amiamo ci fa del male, una persona dalla quale ci aspettiamo solo di essere trattati con gentilezza. In India questa dignità ferita è una reazione accettabile e spesso ostinata, considerata una parte inevitabile della vita emotiva. A differenza di quanto scrive l’autrice, i miei amici indiani (uno del nord e una del sud del Paese) mi hanno spiegato che questo termine ha a che fare con il “self pride”, cioè “orgoglio”; tuttavia in un contesto differente può essere usato anche come “orgoglio” per una persona vicina, ad esempio per dire “mio figlio è il mio orgoglio, la mia forza”. Hanno aggiunto che quello che viene descritto nel libro come abhiman in realtà corrisponde a swabhimaan e significa “self respect”, cioè “avere rispetto per sé stessi”. I due termini indiani possono essere facilmente confusi anche perché una persona difficilmente può avere rispetto per sé stessa se non è anche orgogliosa di ciò che è.

In inglese questo termine esprime il misto di angoscia e disagio che si forma alla bocca dello stomaco, soprattutto quando non riusciamo a prendere sonno mentre ci scorrono davanti agli occhi scadenze lavorative o discussioni avute durante il giorno. 36

La tribù baining che vive sulle montagne della Papua Nuova Guinea ha dato questo nome al senso di vuoto che resta dopo la partenza di un ospite; nonostante un certo grado di sollievo che si può provare, resta addosso una sensazione ovattata. Questo perché i baning credono che i visitatori si lascino dietro una coltre di pesantezza quando partono per poter viaggiare leggeri; questa permane per tre giorni e per questo motivo lasciano una ciotola piena di acqua in casa per una notte intera, perché assorba l’aria contaminata e la vita possa ritornare alla normalità.

Glee è un termine inglese che deriva dalla lingua dei vichinghi. Fa riferimento a un sentimento positivo ma che non è del tutto innocente. Si dice “rubbing hands with glee”, cioè “sfregarsi le mani per la felicità” ma, come avrete capito, si tratta del piacere maligno di festeggiare la propria fortuna a scapito di altri. Provate a pensare a un attore che a teatro compie questo gesto; è per far capire al pubblico, senza parlare, che il suo personaggio in apparenza innocente è in realtà il più colpevole di tutti.

È il desiderio impellente di scoprire fino a che punto si può provocare qualcuno, un divertimento un po’ sadico a spese di un’altra persona che consiste nel pungolarla per vedere quando


arriva il punto di rottura. Questo termine belga è apparso per la prima volta nel 1983 nel libro “The Deeper Meaning of Liff” di D. Adams e J. Lloyd.

La popolazione di Ifalik, un piccolo atollo corallino nelle Isole Caroline del Pacifico, utilizza questo termine per un particolare concetto emozionale che unisce compassione, tristezza e amore. È la pietà provata per chi è in difficoltà e che ci spinge a occuparci di loro ma pervasa al contempo dalla sensazione che un giorno perderemo queste persone. Proviamo il fago quando il nostro amore per gli altro e il loro bisogno di noi ci prende alla sprovvista e ci commuove ma ci fa essere anche ottimisti pensando che lo sforzo umano possa limitare il dolore degli altri. Facendo una piccola ricerca ho scoperto che già nel 1982 l’antropologa americana Catherine Lutz ha parlato di fago in un articolo su “The American Ethnological Society“. Potete leggerlo e scaricarlo gratuitamente qui.

Si tratta del termine giapponese utilizzato per descrivere l’emozione che provoca in noi una temporanea resa, in totale sicurezza, ad esempio tra le braccia di una persona cara per essere rassicurati. In Giappone è riconosciuta come parte di ogni relazione umana e non la si prova solo in famiglia ma anche tra amici o colleghi. Ci sono poi varie sfumature che vanno dal “comportarsi come un bambino viziato” al “contare sulla buona volontà e la gentilezza di

qualcuno”. Ma a rendere pienamente giustizia a questo termine è forse l’idea di un’emozione che dà per scontato l’amore dell’altra persona. Abbandonarsi all’amae è un po’ come tornare all’accudimento incondizionato dell’infanzia, è il simbolo della fiducia più profonda e unisce vulnerabilità e appartenenza.

Molte delle lingue nord-europee hanno una parola per esprimere la sensazione di comodità e accoglienza. Ricordate quando vi ho parlato della danese hygge? È molto più complesso di così ma, per semplificare, in inglese è paragonabile a “cosy”. Questo è il termine olandese che si usa per descrivere una sensazione fisica e uno stato emotivo che hanno a che fare con lo stare in compagnia (non si prova da soli), al caldo, in un posto confortevole sentendosi confortati da qualcuno. Nello stesso ambito vi segnalo la parola tedesca gemütlichkeit legata alla cordialità e la finlandese kodikas all’essere accogliente. Nelle lingue del Mediterraneo invece è difficile trovare un termine che combini la vicinanza fisica e il conforto emotivo.

L’emozione chiamata han è una parte profonda della cultura coreana, probabilmente legata al fatto che la Corea è stata a lungo una colonia; si tratta di accettazione collettiva della sofferenza unita a un desiderio intimo che le cose cambino e a una risoluta determinazione ad aspettare quel momento. Han significa quindi tristezza e speranza allo stesso tempo. 37


I VOLTI DELLA VIOLENZA SULLE DONNE DEL MONDO Nel 1999 le Nazioni Unite hanno deciso che il 25 novembre divenisse la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne.

Il livello di violenza sulle donne, ma in generale di tutta la condizione femminile, misura Il grado di sviluppo di una ‘civiltà’ si misura anche dalla condizione femminile, dal rispetto della donna e delle sue libertà all’interno di una società. Se oggi dovessimo applicare fedelmente questo criterio, emergerebbe un quadro sconfortante e saremmo persuasi del degrado complessivo e della barbarie in cui versano la maggior parte degli stati. Infatti, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, una donna al mondo su cinque è stata vittima di violenze di genere almeno una volta nella vita. La violenza è poliforme e si esprime nei modi più diversi, in aggressioni fisiche, percosse e contusione, violazione del corpo e abusi sessuali, ma anche come forme perverse di condizionamento psicologico e minacce. In diverse realtà, la violenza psicologica si esprime nel controllo delle donne, nella limitazione della loro libertà di movimento e l’impossibilità di disporre indipendentemente di risorse economiche; sostanzialmente, la 38

violenza di genere spesso corrisponde sia a forme di controllo sulla vita delle donne sia all’atto estremo quando non si riesce a farlo. All’interno della categoria di violenze di genere rientrano quindi atti persecutori o stalking, divieto di intraprendere attività lavorative esterne all’ambiente domestico e divieto a possedere un patrimonio, aborto selettivo, mutilazioni genitali, matrimoni coatti, per non parlare di omicidi, stupri e istigazione al suicidio. Possiamo rispondere con le parole pronunciate durante la IV conferenza mondiale delle donne nel 1995, a Pechino: «La violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente inuguali tra gli uomini e le donne, che hanno condotto alla dominazione sulle donne e alla discriminazione da parte degli uomini e costituisce un ostacolo al pieno progresso delle donne». Le donne e le bambine sono spesso le vittime più facili contro cui sfogare frustrazione, rabbia, odio, insoddisfazione sociale e disperazione, perché


sono più fragili fisicamente e più svantaggiate economicamente, spesso sotto ricatto. I dati di oggi sulle violenze descrivono il fenomeno come un problema endemico che riguarda i paesi economicamente sviluppati come i più poveri e identificano i familiari, mariti e padri, gli amici e i conoscenti stretti come i primi responsabili degli abusi. Insomma, la violenza sulle donne è una minaccia costante e opprimente, che arriva da parti inaspettate. Per questa ragione si può e si deve usare una terminologia ad hoc quando si parla di violenza sulle donne, adottando per esempio termini come femminicidio per indicare l’assassinio di una donna in quanto donna. La violenza avviene in tutti gli ambienti sociali e in tutti i paesi, ma è stata rilevata una maggiore incidenza nei contesti caratterizzati da un basso livello di istruzione, dove è maggiore l’esposizione ad abusi e a maltrattamenti sui minori (vederla perpetrata o viverla su di sé) e più frequente assistere a violenze in famiglia, spesso correlato all’abuso di alcool

da parte dei genitori, prevalentemente del padre. Il 14 aprile 2021 è stato pubblicato Il rapporto annuo sullo stato della popolazione mondiale, stilato dal Fondo Onu per la popolazione (Unfpa), col titolo “Il corpo è mio. Diritto ad autonomia e autodeterminazione”. Il rapporto misura sia la capacità delle donne di prendere decisioni autonome sul proprio corpo sia il ruolo delle leggi dei vari Paesi nel sostenere o interferire con il diritto di scelta delle donne. I risultati mostrano che, nei Paesi in cui sono disponibili i dati, solo il 55 per cento delle donne ha pieno potere decisionale sulle scelte in merito a sanità, contraccezione e rapporti sessuali. “In sostanza, a centinaia di milioni di donne e ragazze non appartiene il proprio corpo, le loro vite sono governate da altri,” ha denunciato Natalia Kanem, Direttore Esecutivo di UNFPA. Ad esempio, il matrimonio precoce oggi riguarda 650 milioni di donne, forzate a sposarsi prima dei 18 anni, 12 milioni di ragazze ogni anno. Nella sola India sono stati censiti 8 mila morti e ogni anno vengono commessi circa 5 mila delitti d’onore, soprattutto in Medio Oriente e Asia meridionale. Per quanto riguarda la piaga della violenza domestica, nel mondo colpisce 137 donne ogni giorno, uccise al 58% dal partner o da un membro della propria famiglia. Essere donne con disabilità, poi, aumenta del 30% le probabilità di subire violenze sessuali e complica ulteriormente le sfide per disporre del proprio corpo. In 20 Paesi nel mondo – tra cui Russia, Venezuela e Thailandia – sono ancora in vigore i matrimoni riparatori, con leggi che consentono agli stupratori di sposare la propria vittima per evitare procedimenti penali. In Africa la violenza sulle donne è diffusa ed è un grave problema sociale. Il COVID 19 ha fatto da detonatore, costringendo milioni di donne e bambine a convivere a stretto contatto con uomini che si sono spesso rivelati violenti. Ci confrontiamo con queste ogni giorno in Kenya e Nairobi, nelle baraccopoli dove i diritti umani non esistono. 39


LA VIOLENZA DI GENERE E QUELLA DOMESTICA, CHE COLPISCNO IN PARTICOLARE LE DONNE E LE RAGAZZE, RESTANO UNA PIAGA IN EUROPA. LA PARITÀ TRA DONNE E UOMINI È UNO DEI PRINCIPI FONDANTI DELL’UNIONE EUROPEA.

Durante la pandemia sono aumentati i casi di violenza tra partner e questo ha generando un impatto su tutta la famiglia. Nell’ottobre 2021 il Parlamento ha chiesto misure urgenti per proteggere le vittime della violenza nelle battaglie per la custodia, sottolineando che le udienze dovrebbero essere condotte da professionisti qualificati e svolgersi in ambienti a misura di bambino. I deputati hanno inoltre esortato i paesi dell’UE a sostenere le vittime per consentire loro di raggiungere l’indipendenza finanziaria e abbandonare le relazioni abusive e violente. Si stima che il 22% delle donne abbia subito violenze fisiche e/o sessuali dal partner attuale o da partner precedenti e che il 43% abbia subito violenze psicologiche, la maggior parte delle quali denunciate. La pandemia di Covid-19 ha portato anche a un drammatico aumento della violenza contro le donne sui social media e su Internet in generale. Nel dicembre 2021, i deputati hanno chiesto all’UE di adottare una definizione comune di 40

cyberviolenza di genere e di renderla punibile per legge, con sanzioni minime e massime armonizzate per i paesi alti. La proposta si basa su una relazione del 2016 sulle molestie online. Tra le azioni che il Parlamento vorrebbe rendere sanzionabili compaiono: le molestie informatiche, lo stalking informatico, le violazioni della privacy, le registrazioni e la condivisione di immagini di aggressioni sessuali, il controllo e sorveglianza a distanza (comprese le app spia), le minacce e gli appelli alla violenza, l’incitamento all’odio sessista, l’induzione all’autolesionismo, l’accesso illecito a messaggi o account di social media, la violazione dei divieti di comunicazione imposti dai tribunali e la tratta di esseri umani. In sostanza, sia a livello globale che in Italia, una donna su tre ha subito una forma di violenza almeno una volta nella vita. Non solo violenza fisica, ma anche svalutazione, controllo, isolamento ed intimidazione, nonché privazione o limitazione dell’accesso a risorse economiche, sono tra i comportamenti che gli autori di violenza agiscono sulle donne.


I colori nelle varie culture rappresentano emozioni e azioni diverse tra loro. Intervistando una ragazza su un viaggio fatto in Thailandia, ci ha aperto un mondo attraverso il quale abbiamo capito, bene o male, le usanze e i simboli legati al diverso significato dei colori, e abbiamo scoperto che sono tante le culture nel mondo che attribuiscono significati diversi ai medesimi colori, spesso anche opposti. Questa ragazza ci ha spiegato che nel suo viaggio, la loro guida, gli raccontò che molti thailandesi rispettano il giallo e il blu che hanno una valenza particolare riconducibile al Re e alla Regina del Regno della Thailandia, figure da tutti molto rispettate. Ma entriamo meglio in questo processo di conoscenza dei colori e delle emozioni a loro collegate che mutano da cultura a cultura.

Ad esempio, il rosso è un colore ambiguo che può rappresentare sia il buono che il cattivo. Viene associato all’aggressività, all’amore passionale, al comunismo, al fuoco e ad un temperamento focoso. Come colore forte, è utilizzato nella segnaletica, specialmente di divieto e pericolo, per la correzione dei compiti in classe e nelle spie luminose. Evoca vicinanza e calore. Nel neuromarketing viene usato per attirare i clienti. E’ dimostrato che oltre a stimolare l’appetito (ideale nei ristoranti), induce eccitazione e per questo motivo è apposto sulle pareti degli uffici dove si svolgono lavori operativi. In India significa purezza ed in Cina serve ad indicare un augurio di buona fortuna. Infatti, per chi ha visitato la città, può confermare come il rosso risalti all’occhio per le vie della città. È un colore che viene utilizzato per matrimoni o per la nascita, infatti spose e neonati indossano i tradizionali abiti di colore rosso e questo viene visto come simbolo di felicità, prosperità e fortuna. In sud Africa è il colore del lutto mentre in Russia rappresenta: comunismo e bolscevismo.

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Il colore arancione in Irlanda è (per i protestanti) un segno di unione e religiosità; negli USA sta ad indicare la festa di Halloween, mentre nelle culture orientali è sinonimo di buon auspicio. Lo stesso colore per cinesi e giapponesi è associato all’amore e alla felicità. Alcuni paesi associano a questo colore la ricchezza, mentre nei paesi bassi esso rappresenta il colore nazionale; mentre in Egitto esso è associato al lutto. Simbolo di forza e coraggio in Ucraina: rappresenta il periodo in cui il paese si è riunito nel 2004 opponendosi al Governo durante una delle più grandi elezioni presidenziali conosciuta come la rivoluzione arancione. Gli scienziati hanno dimostrato che questo colore induce calma, risveglia l’attenzione senza aggressività, stimola il colloquio. È consigliabile in ingressi e zone conviviali. Nella cristalloterapia viene utilizzato per curare la depressione poiché rende le persone più ottimiste, spontanee ed estroverse.

Il colore blu viene associato al rilassamento psichico. Esso simboleggia la spiritualità e la meditazione. Da una breve indagine psicologica è emerso che il blu sia il colore preferito da più della metà della popolazione occidentale poiché evoca sogno, lontananza, infinito, ma anche nostalgia. In Occidente rappresenta il colore della fedeltà e della Fede; anche il simbolo di Pace, è stato adottato come colore tipico dell’ONU. Nell’ambito del neuromarketing si stanno sviluppando studi per individuare ciò che può stimolare i consumatori per l’acquisto. Esso viene spesso scelto per l’interno dei negozi perché suscita una percezione di rilassamento, ma è anche un colore che favorisce le intuizioni “geniali”, infatti spesso viene utilizzato per le pareti di uffici dove si svolgono lavori creativi. 42

Il colore giallo che, come già accennato in precedenza, in Thailandia è il colore del Re; ha in Cina una doppia valenza, da una parte il “prendersi cura”, dall’altra simboleggia l’amore carnale: viene associato infatti alla pornografia. Per la Cina un film giallo non farà riferimento ad un thriller o ad un film su crimini e assassini, bensì a film vietati ai minori. In Egitto questo colore rappresenta il lutto; in Giappone invece simboleggia il coraggio, in India è il colore dei mercanti e per gli occidentali simboleggia la gelosia oppure il pericolo. Da alcune ricerche sociologiche è emerso che questo colore sia apprezzato più dai bambini che dagli adulti, infatti nel Neuromarketing evoca energia, allegria, gioia e viene utilizzato nel settore infantile e culturale. Per contro è bizzarro il fatto che una tonalità più slavata dello stesso colore, rimandi al tradimento, alla slealtà ed infedeltà. Secondo il Feng Shui, l’antica arte cinese che studia le varie disposizioni degli oggetti all’interno ed all’esterno per dare all’uomo influssi positivi che lo facciano star bene, questo colore è consigliabile nelle cucine perché stimola l’appetito, nelle camere da letto delle persone stanche è un valido aiuto per rigenerarsi, ma per coloro che non riescono ad addormentarsi facilmente è sconsigliato in quanto non stimola il riposo. Tuttavia, in ambito professionale aiuta la concentrazione, per le persone depresse aiuta a rigenerarsi. Come vediamo lo stesso colore ha una influenza decisamente diversa a seconda della situazione che si viene a creare.


Il colore verde che in Cina indica purezza, sincerità, affidabilità e salute, in alcune circostanze invece simboleggia l’adulterio della moglie. Se per l’Islam viene considerato come colore legato alle spose, che lo indossano come buon augurio, in altre parti del paese viene considerato come segno di pericolo; in Irlanda invece è il colore del patriottismo e dell’Irlanda stessa, in Occidente invece è il colore della speranza e della primavera. Da una ricerca sociologica è emerso che questo sia un colore molto amato dalle persone. In Neuromarketing evoca tranquillità, pace, crescita, denaro e viene utilizzato anche nel settore medicale della gioventù. È un colore calmante che induce alla fiducia. Negli ambiti professionali è raccomandato nelle sale riunioni, studi legali.

Un colore molto importante tra quelli esistenti è il colore bianco che può assumere anche connotazioni opposte da un paese ad un altro. In Oriente, infatti, si usa in riferimento alla morte e al lutto in quanto per essi rappresenta il decadimento e il declino, infatti durante le festività non viene mai indossato o utilizzato come colore, né lo utilizzano per incartare regali in quanto il bianco farà loro pensare al momento stesso della morte. In occidente invece prende tutt’altra connotazione ed il bianco diventa il colore del paradiso, della pace e del matrimonio, della purezza e dell’innocenza, infatti si usa nei battesimi. Nel neuromarketing indica freschezza, purezza, verginità, ed è spesso utilizzato nel settore religioso, medicale e tecnologico. È sconsigliato il suo uso nelle camere dei bambini in quanto non stimola e non rilassa, mentre posto nelle pareti opposte alle finestre è ottimo perché riflette i raggi solari. È consigliato negli ospedali, e negli ambienti medici.

Come possiamo vedere, il significato dei colori, varia molto nelle diverse culture, ambiti, discipline, suscitando emozioni talvolta contrastanti e questi sono soltanto alcuni degli esempi più comuni e conosciuti. Trattarli tutti sarebbe stato quasi impossibile vista l’enorme vastità di sfumature ed informazioni ad essi associate. Vale la pena però approfondire, in separata sede, aspetti che hanno catturato di più la nostra attenzione ed i nostri sensi. Conoscere queste differenze può aiutare chiunque a comprendere al meglio le varie sfumature emozionali di cui siamo impregnati, a indirizzarci verso luoghi da visitare e culture da scoprire nella nostra vita. Ogni cultura vive le proprie emozioni in modo differente e ad esse associa colori diversi e questo ci fa apprezzare ancora di più la diversità di questo mondo; sapere come far emergere le proprie emozioni attraverso l’utilizzo di un solo colore, dovrebbe aiutare l’uomo di oggi ad approcciarsi meglio alle sfumature del mondo che lo circonda.

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L’espressione delle emozioni in culture diverse Come gli Americani e i Giapponesi interpretano le diverse emozioni

Nel 1987 Ekman e i suoi collaboratori, dopo ulteriori prove ed esperimenti, conclusero che la prova dell’università delle emozioni è travolgente e che sei sono le emozioni universali: rabbia, disgusto, paura, gioia, tristezza e sorpresa. Ancor prima (1967) Ekman e Friesen, intrapresero un viaggio in Nuova Guinea presso le tribù del posto, per verificare l’ipotesi che tutte le popolazioni anche di culture diverse e non letterate, comprendevano e usavano le stesse espressioni facciali. Nonostante le numerose conferme, tuttavia c’erano da spiegare delle differenze culturali che portavano a fenomeni di incomprensione nella comunicazione interculturale, che facevano intuire l’esistenza di qualcosa di culturalmente specifico. Da qui nasce la teoria neuro-culturale.

Cosa vuol dire? Con il termine ” neuro” ci si riferisce alla relazione tra una specifica emozione e uno specifico programma espressivo. Ad esempio, la paura porta ad avere ambedue le sopraciglia alzate, le palpebre superiori sollevate e le labbra leggermente semichiuse e tirate. Il termine “cultura” invece, sta a sottolineare che sul programma espressivo intervengono elementi appresi culturalmente. Vale a dire, che al di là della base universale per l’espressione delle emozioni, esistono una serie di display rules, cioè regole sociali di esibizione delle emozioni, culturalmente apprese, che prescrivono il controllo e la modificazione delle espressioni emozionali a seconda della circostanza sociale. L’esistenza di queste regole fu dimostrata empiricamente in uno studio cross-culturale da Ekman e Friesen in cui analizzarono le risposte espressive di soggetti americani e giapponesi alla visione di un film, sia in condizioni isolate, sia in presenza di uno sperimentatore.

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ESPERIMENTO

In un primo momento i soggetti vennero registrati con una videocamera nascosta mentre guardavano un film da soli a tonalità emotiva neutra (panorami) e a tonalità emotiva negativa (interventi chirurgici). In un secondo momento, vennero registrate le espressioni facciali in risposta a stimoli emotivamente neutri e negativi con soggetti non piú in isolamento bensì in presenza di uno sperimentatore. Nella prima condizione, quando i soggetti credevano di essere soli, non si verificarono differenze nelle espressioni facciali tra le due culture, americani e giapponesi. Invece, nella seconda condizione, la presenza dello sperimentatore condizionava notevolmente le risposte facciali. Infatti, i soggetti giapponesi tendevano a manifestare meno le espressioni negative e a nasconderle con sorrisi, al contrario dei soggetti americani. Tale differenza fu attribuita a regole di decodifica delle emozioni apprese culturalmente e che possono essere distinte su quattro livelli: INTENSIFICAZIONE: che esagera la manifestazione; ATTENUAZIONE: che la minimizza; INIBIZIONE: che sopprime in modo deliberato la manifestazione; MASCHERAMENTO : c h e s o s t i t u i s ce l a manifestazione, mimando l’espressione di una emozione che non si sente in quel momento. Questo vuol dire che le due culture usano in maniera diversa queste regole e quindi per alcune culture l’espressione di un’ emozione può non riflettere con esattezza cosa la persona stia provando realmente. Queste regole non valgono solo quando si parla di espressione delle emozioni ma, anche di riconoscimento di queste. Le prove sono state date dallo studioso giapponese Matsumoto. Nel suo lavoro, soggetti giapponesi e Americani dovevano interpretare stimoli facciali 46

di 48 foto raffiguranti le sei emozioni universali, i cui attori erano di diversa cultura e sesso. Il risultato fu che gli americani risultarono piú precisi nel riconoscimento delle emozioni negative rispetto ai giapponesi. L’apparente maggiore precisione del popolo americano, è la conseguenza di una cultura di tipo individualista, alla quale apparteniamo anche noi, cioè una cultura che pone l’accento sulle esigenze e gli obiettivi dell’individuo, anziché del gruppo. Piú precisamente, in questo tipo di culture le emozioni hanno un valore interpersonale piú alto. I sentimenti personali, e la loro libera espressione, ribadiscono l’importanza dell’individuo rispetto alle relazioni sociali. Il Giappone, al contrario, come molti dei paesi asiatici, fa parte di una cultura cosiddetta collettivista e pone quindi maggiore attenzione ai bisogni del gruppo, promuovendo sè interdipendenti, incoraggiano i vincoli di parentela e le relazioni di comunità. Inoltre, i loro sentimenti personali e la loro libera espressione hanno un’importanza relativamente minore in confronto al loro significato interpersonale. Tutto questo implica che è scoraggiante per i giapponesi percepire ed esprimere emozioni negative. Ma allora le emozioni sono universali o no? Si, le espressioni emotive sono una “lingua universale”, ma diversi “accenti”o “dialetti” possono variare in modo sottile attraverso le culture. Vale a dire che le espressioni di felicità, tristezza, paura e così via sono uguali e si manifestano attraverso lo stesso programma motorio in tutte le culture. Tuttavia, l’appartenenza a diverse culture porta ad un uso diverso delle norme di espressione condizionando la manifestazione e il riconoscimento delle emozioni.


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Overthinking è un termine inglese che, come si intuisce dalla parola, sta ad indicare il pensare troppo e questo si riferisce ad uno stato della mente tipico della società del momento, afflitta com’è dal multitasking e dalla reperibilità H24 e dall’uso eccessivo dei social network. Questo pensare e ripensare non è positivo ma al contrario è estremamente dannoso per la salute sia fisica che mentale dell’individuo. Nonostante a primo impatto possa non sembrare un grande problema ma anzi in alcuni casi anche un vantaggio, come quando stiamo cercando di risolvere un problema, in realtà è un problema piuttosto grande. Questo perché il continuo pensare porta la persona a trovarsi in uno stato di confusione, trovandosi immobili e frustrati ed è davvero difficile uscire da questa spirale di pensieri, perché si rimugina così tanto che alla fine ciò che rimane sono solo i pensieri negativi. L’overthinking è infatti una delle principali cause di ansia e depressione e può portare anche a disturbi dell’alimentazione, insonnia e altri comportamenti autodistruttivi. Inoltre non aiuta a risolvere i problemi ma al contrario interferisce in maniera notevole con il problem solving, infatti il continuo pensare non ci aiuta ma al contrario può contribuire a complicare la situazione, in quanto può portarci a vedere un problema più grande di quello che è. L’overthinking, quando non si tratta di situazioni non patologiche, può presentarsi anche in specifici momenti della vita come quando ad 50

esempio stiamo affrontando un cambiamento o viviamo un periodo di forte stress. Quando si pensa ad una possibile soluzione a questi mille pensieri potrebbe venire da pensare che non sia possibile liberarsene in quanto non è possibile fermare la propria mente. In realtà la nostra mente può tranquillamente essere fermata attraverso l’attenzione focalizzata ed è proprio grazie ad essa che possiamo sconfiggere l’overthinking. Se ti ritrovi in un momento problematico in cui la tua mente non la smette di infastidirti, puoi provare a intraprendere un’attività che ti metta in stato di flow. Il flow è uno stato mentale in cui ci si trova in un momento di attenzione intensa senza tuttavia pensare consciamente a quello che accade. Ogni cosa succede intorno a noi senza fatica, senza il bisogno di concentrarsi su ogni minimo dettaglio, come se fossimo noi a tirare le fila dell’universo. Il flow fa esperire un qualcosa di magico: si è rilassati anche se si sta compiendo qualcosa di intenso, difficile, faticoso. E intanto la mente parla poco o se ne sta addirittura zitta. Per spiegarlo con un esempio semplice Avete presente quando ci si diverte moltissimo e “il tempo vola”? Ecco: quello è il flow. Tornando alla tecnica per sconfiggere l’overthinking, ovunque tu sia, inizia a descrivere in maniera oggettiva e asciutta il luogo in cui ti trovi. Per farti capire cosa intendo con “oggettiva e


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asciutta”, ti faccio un esempio del luogo in cui mi trovo ora: Parete bianca Quadro con scritto Viaggio in nero su bianco Cassettiera da 120 bianca – 4 cassetti 4 cubi libreria Chitarra classica appesa alla parete E così via. Posso andare più in dettaglio o descrivere altre cose, ma avrai notato che non ci sono opinioni: solo informazioni base inconfutabili. L’attenzione focalizzata utilizza troppa energia perché ne rimanga altra disponibile. Per cui, se inizi qualcosa che ti richiede una focalizzazione abbastanza forte, la tua mente non potrà fare molto altro che seguire quell’attività e quella tua decisione. Naturalmente questo non è l’unico modo per intervenire attivamente sull’overthinking. Di soluzioni ce ne sono anche altre, a breve e lungo termine. Un piccolo disclaimer a questo punto: pensare troppo, come abbiamo detto, può essere causa di disturbi anche seri e difficili da estirpare. In quei casi è sempre imperativo richiedere l’aiuto di uno specialista. Da non tutti i pozzi si può uscire da soli e richiedere una corda non è un fallimento… ma l’unica via di successo. Altrimenti c’è la tecnica del mantra. Quello più famoso e gettonato è l’Ohm, un vero e proprio cliché della meditazione che però funziona davvero.Si tratta di una parolina magica con connotati religiosi però chiunque può farla propria, ripetendola a loop solo al fine di svuotare la mente e rilassarsi. Esistono tanti altri mantra famosi, ad esempio “Io sono io”, ma potete utilizzare qualsiasi parola, frase, titolo di film e anche non-sense. Trovate il mantra che più si addice a voi e ripetetelo all’infinito (si fa per dire). Bastano dai 2 ai 5 minuti per scacciare i pensieri, 52

alleggerire la mente e tornare finalmente con i piedi per terra, nel qui e ora. Ora che avete imparato due metodi efficaci per tornare nel presente fermando il treno infinito di pensieri, provate a fare un esperimento che vi dirà molto di voi, del vostro io profondo. Aspettate che i pensieri riemergano e lasciatevi trasportare da loro. Seguite la mente che vaga, fatelo per 5 o 10 minuti e indagate come se foste investigatori, scoprendo dove vi ha portato la vostra testa. Sicuramente nel futuro, provocando ansia, o nel passato, causando nostalgia, rimpianti, rimorsi e ruminazioni. Registrate ogni tappa di questo viaggio mentale, scrivendo su una specie di “diario dei pensieri”. Dopodiché tornate nel presente, facendovi aiutare dall’attenzione focalizzata o dalla ripetizione del mantra. Per riacquistare la nostra serenità e felicità è necessario che riportiamo la nostra mente e il nostro corpo nel presente. Infatti numerose ricerche rivelano un fenomeno, se ci pensiamo, estremamente inquietante: gli esseri umani trascorrono tra il 46% e il 60% del proprio tempo a pensare al passato e al futuro. Quindi solamente il 40% della vita viene da noi trascorsa nel presente. Siamo assenti per quasi la metà della nostra esistenza. Quindi riuscire a tornare nel presente diventa una delle cose più importanti per un uomo.


Soffrire di overthinking è come trovarsi ai piedi di una montagna

“Se si è depressi si vive nel passato, se si è ansiosi si vive nel futuro e se si è in pace si vive nel presente”. “Se si è depressi si vive nel passato, se si è ansiosi si vive nel futuro e se si è in pace si vive nel presente”. Lao Tzu docet. Adesso che avete gli strumenti base per riportare la vostra mente a casa, facendola attraccare nel porto sicuro del presente, avete anche la lucidità e la serenità adatte per capire in quale assurda trappola eravate incastrati. Soffrire di overthinking è come trovarsi ai piedi di una montagna con l’obiettivo di arrivare in cima. Anziché mettersi in cammino per raggiungerla, la si guarda e riguarda continuamente, pensando a come sarebbe bello essere lassù. Però è lontana, come si fa a raggiungerla? E se prendessi una scorciatoia?

No, non funzionerebbe. E se aspettassi che costruiscano una funivia? Sì, ma quanto ci impiegherebbero? Forse una mongolfiera. O un palloncino gonfiato con l’elio. Nel frattempo si è rimasti esattamente nel punto di partenza e si è comunque stanchissimi, anche se non abbiamo fatto nemmeno un passo. La stanchezza mentale è più devastante di qualsiasi spossatezza fisica. Tornando al palloncino gonfiato a elio, la mente umana è proprio quello. Un palloncino che vorrebbe volare via, continuamente, questa è la sua natura. Ma basta capire come tenerlo saldamente e riportarlo a terra quando si vuole, questo è il modo per vivere felici. 53


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Cosa sono le emozioni in psicologia?

Le emozioni sono un processo articolato in più componenti, hanno un decorso temporale e sono attivate da stimoli interni o esterni. Tale struttura multicomponenziale differenzia le emozioni da altri fenomeni psicologici (come ad esempio le percezioni o i pensieri). In termini di decorso temporale è importante sottolineare che le emozioni non sono stati, bensì processi in continua evoluzione. Il decorso temporale delle emozioni può essere estremamente differente: in alcuni casi hanno un chiaro inizio e una chiara fine, con una intensità stabile nell’arco temporale; in altri casi è più difficile definire in modo preciso il decorso temporale poiché presentano un pattern maggiormente discontinuo e fluttuante anche in termini di

intensità. Le emozioni sono il segnale che vi è stato un cambiamento, nello stato del mondo interno o esterno, soggettivamente percepito come saliente. Le altre componenti che costituiscono le emozioni sono: la valutazione cognitiva da parte dell’individuo di un determinato antecedente (come un ricordo), l’attivazione fisiologica dell’organismo (ad esempio variazioni nella frequenza cardiaca e respiratoria, sudorazione, pallore, rossore, etc.), le espressioni verbali (ad esempio il lessico emotivo) e non verbali (espressioni facciali, postura, gesti, etc.) e infine il comportamento vero e proprio, generalmente finalizzato a mantenere o modificare il rapporto tra individuo e ambiente. 55


Per capire meglio come analizzare a livello psicologico le emozioni, approfondiamo ora le più comuni che generalmente proviamo nella vita quotidiana. La tristezza è un’emozione negativa che si sperimenta nel momento in cui perdiamo qualcosa di caro o che manifestiamo in seguito a una serie di eventi sfortunati, rispetto ai quali non riusciamo a individuare nessuna possibile alternativa. L’umore precipita e ci critichiamo autosvalutandoci per non aver saputo affrontare adeguatamente la situazione. Di conseguenza la postura diventa ricurva, come se fosse di chiusura verso qualsiasi tipo di alternativa possibile, e la mimica facciale assume tratti caratteristici, come fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto.

della tristezza: depressione. Attenzione, la tristezza non è la depressione. Quest’ultima è una patologia molto più invasiva e quantitativamente più invalidante. Porta ad avere una visione negativa di se stessi, del mondo e degli altri. La depressione è uno stato che può protrarsi e che in alcuni casi sfocia in situazioni funeste. Dalla depressione non si esce con un atto di volontà, ma tramite psicoterapia e terapia farmacologica.

Esistono comportamenti che spesso accompagnano questa emozione, si tratta di crisi di pianto, passività, carenza di appetito e a volte insonnia. Una persona triste non ha più stimoli da un punto di vista relazionale e sociale, per questo preferisce la solitudine, in cui continua a pensare e ripensare a quello che ha perso. L’intensità emotiva varia in base all’importanza data all’oggetto perso. Vale la pena citare anche la nostalgia, tra le esperienze emotive che fanno parte della famiglia della tristezza. Infatti, le diverse esperienze emotive possono raggrupparsi all’interno di “famiglie’ concettuali e lessicali, in cui diversi termini fanno riferimento a esperienze emotive non nettamente distinte le une dalle altre, bensì a stati emotivi che presentano somiglianze. La nostalgia è un’emozione o sentimento di tristezza e di rimpianto per la lontananza da persone o luoghi cari o per un evento collocato nel passato che si vorrebbe rivivere. In ogni caso è uno stato passeggero, a meno che non si cristallizzi. A quel punto diventa uno stato patologico che può diventare qualcosa di più 56

La gioia è un’emozione primaria, presente nei bambini fin dai primi mesi di vita perché è importante per poter comunicare. Solitamente si esprime con il sorriso, gli occhi e i muscoli degli zigomi che si contraggono. La gioia è dovuta ad all’attivazione di alcune aree cerebrali specifiche correlate al piacere. Ci si sente gioiosi perché uno dei nostri bisogni fondamentali è stato soddisfatto. Per esempio siamo gioiosi dopo aver mangiato, dopo che qualcuno ci ha fatto compagnia, quando incontriamo una persona che ci fa stare bene. In realtà, quest’emozione, come tutte le altre,


può essere vissuta con diversi gradi di intensità. Possiamo quindi dire che ci sentiamo “gioiosi” quando siamo ad un grado intermedio di intensità, diciamo che ci sentiamo “contenti” quando il livello è un po’ inferiore e “felici” quando invece il livello è alto. Si può usare anche la parola “euforici” quando la gioia si accompagna ad un’attivazione psicofisica di eccitazione. Quando condividiamo emozioni positive o eventi che ci hanno resi felici durante la giornata con le persone a cui vogliamo bene, il senso di benessere e di fiducia in noi stessi aumenta. Se poi il partner, gli amici, i figli e i parenti riescono a gioire insieme a noi, mostrandoci di aver capito quanto è importante per noi quella promozione o quel traguardo, non aumentano solo le nostre emozioni positive, ma rafforzano la relazione che abbiamo stretto con loro. Quando i partner si concedono di essere felici l’uno per l’altro, aumentano sia il loro benessere come persone sia come coppia e

ciò li rende ancora più felici. La paura è una delle emozioni di base, comune al genere umano e al genere animale. La funzione della paura è quella di promuovere la sopravvivenza dell’individuo e si innesca nel momento in cui si ha la percezione di una minaccia o di una situazione di pericolo. Eventi che suscitano paura possono essere: trovarsi in una situazione non familiare, trovarsi in una situazione di reale pericolo per la propria incolumità, trovarsi in una situazione che ricorda una passata circostanza in cui si era in pericolo o in cui sono accaduti eventi dolorosi. In termini di tendenza all’azione e corrispettivi fisiologici-comportamentali, la risposta fightor-flight (o in italiano attacco-o-fuga) è la prima reazione automatica che utilizziamo quando percepiamo di essere in pericolo. Lo scopo è quello di difenderci o di scappare dalla situazione pericolosa.

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Questa risposta è accompagnata da una serie di modificazioni fisiologiche che avvengono nel nostro corpo: il cuore batte più velocemente del solito, ci sentiamo tesi, respiriamo rapidamente, sudiamo, abbiamo la bocca secca e siamo molto più vigili perché dobbiamo capire istantaneamente cosa fare per metterci al sicuro o ci paralizziamo totalmente. La paura è una emozione provata da tutti, soprattutto in condizioni di reale pericolo, ma capita, a volte, che diventi qualcosa di diverso: stiamo parlando dell’ansia. Ansia e paura sono codificate nella medesima area cerebrale, ma i motivi per cui si manifestano sono diversi. Nel primo caso, quando proviamo paura, siamo spaventati da qualcosa di reale, l’ansia invece si scatena quando si effettuano irrazionali previsioni negative e catastrofiche su eventi che noi percepiamo come importanti o pericolosi. Anche in questo caso ci sono una serie di modificazioni fisiologiche simili a quelle della paura: giramenti di testa, vertigini, senso di confusione, mancanza di respiro, senso di costrizione o dolori al torace, appannamento della vista, senso di irrealtà, il cuore batte in fretta o salta qualche battito, perdita di sensibilità o formicolii alle dita, mani e piedi freddi, sudore, rigidità muscolare, mal di testa, crampi muscolari, paura d’impazzire e di perdere il controllo (a questo punto l’ansia è diventata panico). In generale, i pensieri che possono generare ansia sono: -Sopravvalutazione del pericolo; -Sottovalutazione delle proprie capacità di affrontare una situazione. Il senso di colpa fa parte delle emozioni complesse, cioè si inizia a delineare più tardivamente rispetto alle emozioni di base. È fortemente legato alla morale. Per capire cosa si intende per senso di colpa è 58

necessario rendersi conto che la colpa non è una proprietà interna delle azioni umane, ma deriva dal modo in cui la persona giudica le azioni umane. Sentire una colpa implica che il soggetto si sia accorto di avere avuto la possibilità di agire in un altro modo, di agire meglio, con la consapevolezza dell’occasione persa di determinare un altro corso degli eventi. Il senso di colpa si manifesta con auto-rimproveri o rimorsi apparentemente assurdi, con condotte delittuose o sofferenze che il soggetto si auto-infligge. Il senso di colpa non necessita di una base oggettiva, infatti, così come accade per la vergogna, non è indispensabile che l’accadimento che genera colpa sia reale, può essere, infatti, presente anche un giudizio su qualcosa di immaginario, facente parte della rappresentazione mentale che la persona ha del comportamento da seguire nelle diverse situazioni in cui si trova. La capacità di provare senso di colpa, è strettamente connessa alla disponibilità a sentire il dispiacere per l’eventuale danno provocato all’altro con il nostro agire, seppure involontariamente. Anche la vergogna compare generalmente più tardivamente rispetto alle emozioni di base, poiché è necessario lo sviluppo del sé personale, dal momento che questo stato emozionale implica necessariamente la percezione di un giudizio dell’altro. La vergogna ha a che fare, quindi, con l’immagine di sé e soprattutto con la autoconsapevolezza. La gioia, la rabbia e


tante altre emozioni cosiddette di base risultano di natura differente rispetto alla vergogna o all’imbarazzo, perché non sono emozioni autoriferite, non vanno, cioè, a toccare esclusivamente la consapevolezza di sé e non mettono in discussione la valutazione di se stessi nei confronti degli altri e da parte degli altri. La vergogna è stata definita come un’emozione complessa, rientrando, infatti, in quel tipo di emozioni che devono essere apprese. Nasce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo quel senso di fallimento tipico di quest’emozione, e quando si espone all’osservazione degli altri, siano essi realmente presenti o immaginati. L’intensa sensibilità verso questa emozione può avere effetti disturbanti o patologici sullo sviluppo della personalità. L’individuo, infatti, può mettere in atto delle modifiche nei riguardi dello stile di vita relazionale, che possono tendere a una limitazione della libertà di azione, dovuta al timore di dover fare i conti con questa condizione emotiva sgradevole. È quanto accade, ad esempio, in chi è affetto da fobia sociale, che elabora in senso negativo la costruzione del suo sé sociale. La vergogna è uno stato emotivo che caratterizza anche alcuni disturbi di personalità, come il disturbo borderline. È opportuno sottolineare che vergogna e senso di colpa, pur presentando una serie di somiglianze, sono due emozioni profondamente diverse. Una condizione tipica di vergogna vede la persona concentrarsi principalmente sulla condizione del sé personale, con la percezione dolorosa di un sé negativo. Si insinua, così, la sensazione di sentirsi una persona incompetente e cattiva, accompagnata da un senso di restringimento, quasi a sentirsi più piccoli, inutili e deboli. Un elemento molto interessante che riguarda la

vergogna riguarda la presenza o meno di altre persone, infatti, si è visto che affinché si manifesti un sentimento di vergogna non è necessario che la situazione coinvolga osservatori esterni, questo accade perché il soggetto si trova a raffigurarsi mentalmente un pubblico immaginario, e grazie alla finta presenza di altre persone il sentimento di vergogna si genera ugualmente, anche in circostanze di solitudine. Una condizione tipica di vergogna vede la persona concentrarsi principalmente sulla condizione del sé personale, con la percezione dolorosa di un sé negativo. Si insinua, così, la sensazione di sentirsi una persona incompetente e cattiva, accompagnata da un senso di restringimento, quasi a sentirsi più piccoli, inutili e deboli. Un elemento molto interessante che riguarda la vergogna riguarda la presenza o meno di altre persone, infatti, si è visto che affinché si manifesti un sentimento di vergogna non è necessario che la situazione coinvolga osservatori esterni, questo accade perché il soggetto si trova a raffigurarsi mentalmente un pubblico immaginario, e grazie alla finta presenza di altre persone il sentimento di vergogna si genera ugualmente, anche in circostanze di solitudine. 59


Di contro una tipica situazione di senso di colpa è meno dolorosa e penosa del sentimento di vergogna: si può affermare, infatti, che il sentimento di colpa riguarda la valutazione negativa di uno specifico comportamento verso un’altra persona, perciò il proprio sé non viene incluso nella sofferenza emotiva del soggetto, al contrario di quanto avviene quando nel soggetto si vengono a creare sentimenti di vergogna. È quindi evidente come vergogna e colpa siano due stati affettivi simili, ma non sovrapponibili. La rabbia è un’emozione definita da diversi autori come innata e basilare, infatti, è tra i primi affetti a formarsi, inizia a delinearsi presto nel bambino, tra i 3 e gli 8 mesi. È un’emozione provocata da una moltitudine di eventi e genera un impulso all’azione aggressiva verso la fonte che provoca questo sentimento, generalmente, però, le persone tendono a reprimere l’impulso che percepiscono, è per questo motivo che la rabbia è considerata una sensazione principalmente interna, che le persone non esprimono necessariamente con un comportamento reale. Apparentemente la rabbia si manifesta quando le persone percepiscono una minaccia nei confronti di

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qualcosa che ritengono appartenente a loro, anche la perdita di status o di autostima può innescare questo sentimento, si è così notato che l’aggressione verso gli altri e al contempo l’aggressione verso se stessi sono entrambe manifestazioni di rabbia. Ovviamente anche la rabbia, come tutte le altre emozioni, ha una funzione adattiva, cioè spinge la persona all’azione quando è minacciata da qualcosa. A livello cognitivo, affinché si generi l’emozione di rabbia, la situazione viene analizzata nella corteccia frontotemporale, successivamente si ha l’attivazione del sistema limbico, in particolar modo del nucleo centrale dell’amigdala, come risultato di questo processo si ha la produzione di noradrenalina e adrenalina nel sangue da parte del midollo surrenale. A questo punto aumentano anche i livelli di glucosio nel sangue, per aiutare l’individuo a prepararsi all’attacco. Il ruolo dell’amigdala nella creazione dei comportamenti aggressivi è stato dimostrato con alcuni esperimenti su animali, ai quali veniva asportata questa porzione di cervello; questi dopo l’asportazione manifestavano una diminuzione dei comportamenti aggressivi.


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ANORESSIA

L’INFERNO E LA RINASCITA DI NICOLE L’intervista fatta a Nicole Rossi e alla sua psicologa che l’ha aiutata ad uscire dal tunnel della malattia

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Avrebbe sminuito il disturbo alimentare della figlia, che sarebbe diventata anoressica anche per non perdere, crescendo, l’affetto del padre. Una storia che fa nascere diversi interrogativi: che cos’è l’anoressia e quali sono i meccanismi alla base? Lo spiega a Il Giornale la psicologa Alessia Santoro. Non riconosceva il disturbo alimentare della figlia e ne sminuiva l’importanza, aggravando la malattia. A Torino un uomo è stato condannato a due anni e mezzo di carcere, e questo avrebbe influito nella condanna. Dal canto suo la ragazza avrebbe sostenuto di essere diventata anoressica perché temeva di perdere l’affetto del padre. Partiamo col comprendere questo disturbo alimentare: che cos’è l’anoressia? “Il termine deriva dal greco an e órexis, che significa ‘senza appetito’. Si tratta di un digiuno protratto, che inizia con un’idea di dieta. Per questo, inizialmente, queste persone ricevono spesso rinforzi dall’esterno, dato che la prima fase coincide con una semplice dieta, che si manifesta con un senso di energia e porta a un miglioramento dell’aspetto fisico. Poi però questo digiuno continua con regole sempre più strette: i pazienti sanno bene che stanno esagerando”. A cosa può portare questa rigidità?


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“Andando avanti si arriva anche al punto di confondersi, senza rendersi conto di quale sia il giusto quantitativo calorico da assumere durante la giornata, tanto che un pasto giornaliero può consistere solamente in 5 fagioli. La confusione riguarda anche il proprio corpo, del quale non si ha più una percezione reale: le persone anoressiche non riescono a capire se siano grasse, non hanno più un criterio di normalità. Tanto è vero che ricorrono moltissimo alla bilancia. Un altro aspetto fondamentale è quello del controllo massimo di sé, del corpo, tanto che spesso le persone anoressiche controllano ogni loro prestazione o rapporto interpersonale: devono sempre dare il massimo o il meglio di sé, come se la vita fosse una performance”. Il rapporto con gli altri può influenzare questo disturbo? “Certo. I pazienti che soffrono di anoressia sono caratterizzati da una ipersensibilità e da un continuo bisogno di approvazione e di grande sostegno dall’esterno. È come se avessero sempre un deficit di riconoscimento, di approvazione, come fossero sempre carenti di questa parte e dovessero sempre cercare di rifornirla. In queste persone è presente una profonda fragilità e sensibilità, tanto che fanno spesso fatica a reggere un mancato riconoscimento, una critica, che diventa la ferita sulla quale poi costruiscono le proprie paure e le proprie ansie”.

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Nel caso dtella ragazza di Torino, il disturbo potrebbe essere stato influenzato da un bisogno di accettazione da parte del padre? “Assolutamente sì: i genitori (e per le ragazze il padre) sono una figura fondamentale e sono i primi specchi dei propri figli. Ma spesso i genitori non si accorgono di rimandare un’immagine che ricalca il meccanismo sbagliato del rinforzo, esaltando i propri figli quando ricevono buoni risultati, invece che riportarli alla normalità di un possibile fallimento”. 63


ANORESSIA LA VOCE DI NICOLE

Sminuire il disturbo può essere dannoso?

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“Certo. C’è una correlazione tra rinforzare e sminuire. Spesso questi genitori diventano controllanti, ricchi di aspettative e di rinforzi, e dall’altra parte tendono a sminuire la gravità del disturbo, perché non riconoscono il reale bisogno del figlio o della figlia e nemmeno la loro fragilità, i loro reali bisogni, le difficoltà di crescere: è esattamente come sminuire una parte autentica e profonda della persona, mentre viene esaltata la parte di performance. È anche per questo che il figlio continua a portare avanti il circolo di prestazione e rinforzo, perché ottiene un riconoscimento. Le persone anoressiche dicono spesso che riescono a raggiungere il proprio bisogno di apprezzamento tenendo il peso basso, altrimenti si ha paura di non piacere, di non riuscire più suscitare un senso di protezione: quante volte l’ho sentito dire”. Questo senso di protezione potrebbe essere alla base del meccanismo che ha portato all’aggravarsi dell’anoressia della ragazza? “Sì, rientra in questo caso. L’idea è quella di sacrificare il proprio corpo per non crescere, così si rimane dentro a una protezione genitoriale e sociale, evitando di andare incontro al processo di crescita, che porta a separazioni, conflitti e disapprovazioni. Da un punto di vista del legame invece il caso rientra in una dipendenza affettiva col genitore da cui non ci si riesce a separare e ad affermare: rimane il genitore quello che 64

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decide chi deve essere il figlio, senza lasciargli la possibilità di prendere in mano il processo di identità, anche perché una parte profonda di sé non gli viene riconosciuta”. In questo campo è possibile fare prevenzione? “Sì, le scuole sono il nostro grande bacino, dove si deve iniziare a spiegare che esistono meccanismi di questo genere, alla base dell’anoressia. La prevenzione deve essere pensata su larga scala, sia rivolgendosi ai ragazzi che ai genitori, ma non è ancora stato pensato un vero e proprio programma continuativo. Ci sono buone associazioni, ma sarebbe utile parlare più spesso dei disturbi alimentari. Una prevenzione più costante aiuterebbe a risparmiare moltissimi casi. In questo senso c’è ancora tanto da fare, ma si può fare e si possono avere risultati”.

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“La mia luce è stata la mia famiglia e i miei amici che non mi hanno mai lasciata sola”

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rabbia talvolta sembra l’unica risposta possibile, ma non è sempre così… Se ci fermassimo e ci guardassimo intorno, percepiremmo all’istante che la nostra vita è intrappolata in una rete di ansie ed angosce, specialmente ora, in questo momento storico in cui le situazioni cambiano continuamente, quasi alla velocità della luce. Non facciamo in tempo a digerire un cambiamento che si ripercuote anche sulla nostra vita, che subito ne arriva un altro rendendo instabile ogni certezza. Ecco che quindi vediamo emergere stati d’animo e comportamenti nuovi per il nostro modo di fare abituale, risposte che in passato non avremmo mai dato (anche sotto pressione) e che stupiscono per primi noi stessi. Tra le svariate risposte emozionali che possiamo dare, oltre alla paura, allo smarrimento, all’incertezza, al non saper più prendere decisioni importanti, ecco che emerge la rabbia. La rabbia è un’emozione primaria che si attiva in differenti circostanze della vita e spesso come dicevamo, facciamo fatica a comprenderne la natura e la causa sottostante. È un’emozione che tutti, chi più o chi meno nella vita, hanno sperimentato attivando strategie più o meno efficaci per controllarla e gestirla. Molto dipende dal tipo di carattere che si ha, dal vissuto familiare che ci ha volenti o nolenti plasmati, dalle situazioni che abbiamo imparato a gestire, dalle figure che hanno accompagnato e guidato la nostra crescita e poi la nostra formazione come individui adulti. Molto spesso ci troviamo a gestire la rabbia altrui e se questo non è nelle nostre corde, 66

esso richiede un grande equilibrio tra calma e assertività, anche quando verrebbe voglia di rispondere alla stessa maniera o quando vorremmo darci alla fuga. Ci sono, infatti, persone tendenzialmente più aggressive e litigiose, meno capaci di incanalare la rabbia in modo costruttivo e funzionale; altre invece più calme e tranquille che affrontano le situazioni con maggior responsabilità ed assertività; altre ancora che invece di esplodere implodono, talvolta facendosi del male. Tra le cause di fondo ci può essere la frustrazione: un’emozione molto sottovalutata nella nostra società, eppure si manifesta spesso sotto forma di aggressività. Secondo i “comportamentisti” l’aggressività si lega alla frustrazione, in quanto reazione all’impossibilità di raggiungere i propri scopi.


L’aggressività può essere diretta contro l’ostacolo concreto oppure contro un nemico ipotetico. Secondo Dollard e i suoi collaboratori di Yale e nello specifico: “Un comportamento aggressivo presuppone sempre uno stato di frustrazione e, inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di aggressività.” Maggiore è la frustrazione, maggiore è l’aggressività che si scatena. Maggiore è il grado di interferenza nei confronti dei propri scopi, maggiore sarà la reazione. Tante piccole frustrazioni sommate insieme daranno un effetto maggiore rispetto ad una sola frustrazione. Maggiore è la frustrazione, maggiore è l’aggressività che si scatena. Maggiore è il grado di interferenza nei confronti dei propri scopi, maggiore sarà la reazione. Tante piccole frustrazioni sommate insieme daranno un effetto maggiore rispetto ad una sola frustrazione. Ai nostri figli chiediamo spesso di tollerare la frustrazione: una caramella negata, un giocattolo che arriverà solo a Natale, l’impossibilità di andare in un luogo a loro caro. Sono tutti piccoli episodi che scatenano crisi di rabbia nei nostri figli che non possono ottenere ciò che desiderano. Questa aggressività ci sconvolge, ci infastidisce spingendoci a cedere ai piccoli dittatori, un po’ per stanchezza e un po’ perché se non sappiamo gestire la nostra frustrazione, è difficile gestirla negli altri. Eppure, riuscire a dire di “no” è un grande regalo che si può fare ai piccoli: la capacità di tollerare la frustrazione senza aggressività, per vedere ciò che di bello c’è nella nostra vita nonostante un piccolo/grande no. Molti genitori non hanno

ancora sviluppato la consapevolezza della loro responsabilità nei confronti dei loro figli. Crescere un bimbo, accompagnarlo ad essere un ragazzo e poi un uomo della società, implica un meraviglioso cammino da fare insieme. Non si tratta solamente di assicurargli i beni primari come il cibo, il vestiario ed una casa, qui c’è in ballo un’educazione totale che sappia rispettare la natura del bimbo, ma che al tempo stesso sappia dare un indirizzo chiaro alla sua vita. Ho sentito genitori chiedere al loro figlio di tre anni cosa desiderasse mangiare. A tre anni sei “tu” genitore che sai cosa fa bene a tuo figlio. Educare coscientemente significa “non delegare”, ma assumerti la responsabilità mettendoti in gioco, non temere di farti cambiare, crescere insieme rispettando ciò che emerge dal bambino stesso ed aiutandolo a conoscersi come individuo anche in relazione all’altro. Ci sono dei principi fondamentali che non possono non esser presi in considerazione, delle regole morali che la società di oggi ha completamente dimenticato, la carità verso i meno fortunati e tanti altri aspetti che di fatto mancano, impoverendo i nostri cuori. Ed allora ci chiediamo come fare a controllare la rabbia che gli altri ci scagliano contro? La prima strategia per gestire la rabbia degli altri è quella di mantenere la calma. A primo

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impatto sarà capitato di reagire impulsivamente all’aggressività altrui con rabbia e reazioni negative. È tendenzialmente la reazione più naturale e spontanea in quanto, sentendosi attaccati si attiva un meccanismo difensivo per mantenere un equilibrio e una posizione ferma. Tuttavia, reagire alla rabbia con ulteriore rabbia porta a scarso successo. Quello che accade infatti è l’attivazione di un’escalation aggressiva che via via si ingrandisce e non porta alla risoluzione del conflitto, ma solo ad un suo incremento fino, talvolta, a livelli poco piacevoli. Oppure si può innescare una risposta di fuga o passività. Nel primo caso si attiva quel circolo vizioso visto precedentemente, nel secondo, invece, ci si sottopone all’altro, mostrandosi deboli e vulnerabili, dando maggiore spazio con facilità di nuovi attacchi. La via più adeguata sta nel mezzo, ovvero rispondere in modo assertivo cercando di mantenere la calma. L’assertività è la capacità di esprimere in modo chiaro, diretto ed efficace le proprie opinioni ed emozioni, senza esprimere un giudizio sull’altro. Altra strategia utile è quella di mostrarsi aperti al dialogo e al confronto, accoglienti e presenti. Mostrarsi empatici potrebbe comunicare all’altro un’apertura nei suoi confronti dandogli la possibilità di poter comunicare il motivo della propria rabbia, non sentirsi giudicato riducendo la sensazione di doversi difendere a tutti i costi. Cercare di utilizzare frasi come “comprendo quanto possa essere difficile…”, “so che non è facile…”, “capisco e hai motivo di arrabbiarti ma proviamo a trovare una soluzione assieme…” possono mostrare supporto e apertura. L’accoglienza apre al dialogo. Ovviamente questo atteggiamento non è molto utile laddove la persona sia in preda a un attacco di rabbia e in escandescenza. In questo caso è bene restare calmi e aperti, mostrandosi in ascolto attivo e presente. Solo quando l’intensità delle emozioni inizia a ridursi 68

allora è possibile provare a creare uno spiraglio per una comunicazione. Quando si è arrabbiati si fatica a comprendere la vera natura delle cose, a trovare soluzioni funzionali ed a razionalizzare. Nella gestione della rabbia altrui è quindi utile aiutare l’altro a comprendere il fondamento della propria emozione, supportando la razionalizzazione delle cose e la ricerca di soluzioni. Per farlo, in primo luogo, è bene assumere un comportamento non giudicante, anzi è bene mostrarsi aperti al dialogo e fare domande che possano stimolare la riflessione. La persona infatti con le domande

è portata ad allontanare piano piano il proprio focus sull’unico punto di vista considerato e inizia ad intravedere una soluzione o semplicemente cambia prospettiva. Ovviamente è qualcosa che va fatto a piccoli passi e spesso inizialmente ha poca utilità perché l’emozione è troppo forte. Queste strategie possono essere funzionali laddove via sia un livello di rabbia gestibile e specialmente dovuto o legato a cause esterne, a circostanze, situazioni o conflitti rispetto a un avvenimento. Diversi sono i casi in cui si ha rabbia “patologica” e aggressività agita in continuazione magari all’interno di relazioni coniugali o lavorative: in questi casi è importante armarsi di altre strategie e magari chiedere aiuto laddove la gestione ed il controllo dell’altro diventano difficili e le conseguenze per sé faticose o pericolose.


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COME AIUTARE CHI HA UN ATTACCO DI PANICO Assistere all’attacco di panico di una persona, soprattutto se cara, può rivelarsi un’esperienza traumatica e molto impegnativa per chiunque. E’ frequente sentirsi impotenti in quella che sembra (ma spesso non è) una situazione apparentemente semplice. Vorremmo sentirci utili alla persona che sviluppa un attacco di panico ed evitare di danneggiarla ulteriormente. Abbiamo quindi provato a stilare una sorta di lista di comportamenti da avere o, al contrario, da evitare. Alcune fasi per riconoscere ed aiutare a superare l’attacco di panico:

FASE 1 Riconoscere e valutare la situazione 1. Cercare di capire che cosa sta succedendo alla persona: Gli attacchi di panico sono caratterizzati dalla paura di una catastrofe o di perdere il controllo anche quando non c’è alcun pericolo reale e senza alcun motivo evidente e possono durare da cinque minuti a diverse ore. Inoltre, portano il corpo a un picco di eccitazione che fa sentire l’individuo come se perdesse il controllo di sé. La mente si sta preparando a una falsa lotta o a una fuga, costringendo il corpo della presunta vittima a scappare dal pericolo percepito, che sia reale o meno. 2. Osservare i sintomi Se siamo in grado di determinare che si tratti proprio di un attacco di panico, questo risolve la metà del problema.

I sintomi possono essere: Palpitazioni e dolore al petto Accelerazione del battito cardiaco Respirazione molto rapida o iperventilazione Mal di testa Mal di schiena Tremore Formicolio alle dita delle mani o dei piedi Sudorazione Bocca asciutta Difficoltà a deglutire Vertigini, sensazioni di svenimento (dovuto solitamente all’iperventilazione) Nausea Crampi addominali Vampate di calore o brividi 3. Scoprire la causa dell’ attacco di panico Parlare alla persona che non sta bene per determinare se si tratti di un attacco di panico o di un altro tipo di emergenza medica. Molti attacchi non hanno una causa chiara o perlomeno, la persona in preda al panico non è coscientemente consapevole di cosa sia. Per questo motivo, determinare la causa può non essere facilmente fattibile, soprattutto nell’immediato. Se la persona non sa perchè, possiamo solo prenderne atto, senza insistere e rischiare di creare ulteriore pressione.

FASE 2 Mettere la persona che ha un attacco di panico a proprio agio 71


1. Mettere la persona “al sicuro”, portare l’individuo in una zona tranquilla. Per facilitare questa operazione, portare la paersona in una zona diversa, preferibilmente aperta e tranquilla. Non toccare mai una persona che sta avendo un attacco di panico senza chiedere e ottenere l’autorizzazione definitiva a farlo. In alcuni casi, questo potrebbe aumentare il panico e peggiorare la situazione. 2. Parlare in tono rassicurante ma deciso È di estrema importanza che si riesca a mantenere la calma, poiché la persona in questione potrebbe cercare di fuggire, possiamo chiederle di stare ferma. Nel caso in cui la persona volesse muoversi, conviene suggerire di fare stratching o jumping jack o di accompagnarci in una, seppur breve, passeggiata. Se la persona si trova in casa sua, suggerirle di tenersi occupata in azioni impegnative (ad es, organizzare l’armadio o fare le pulizie). Se non è a casa, suggerire un’attività che possa aiutarla a concentrarsi. Può trattarsi di qualcosa di semplice (come, ad es., sollevare e abbassare le braccia). Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di stancare la persona e farla annoiare, così da farla stare meno concentrata sul panico. 3. Non negare o sminuire le paure Dicendo frasi come “non c’è niente di cui preoccuparsi”, “è tutto nella tua mente” o “stai esagerando”, aggraveremo soltanto il problema. In quel momento il meglio che possiamo fare è provare a “stare con la persona” per fronteggiarla insieme. 4. Supporto emotivo e empatia (vietato dire “calmati!” o “non c’è nulla da temere“) Cercare di far ragionare la persona portando alla luce la realtà dei fatti, non farebbe altro che peggiorare la situazione. Provare invece a usare espressioni tipo “so che sei preoccupato, va tutto bene, sono qui per aiutarti!”, fa sentire 72

la persona meno sola e inadeguata. Soprattutto la fa sentire accolta nelle proprie vulnerabilità e non ridicolizzata. È importante che ci mettiamo nei panni dell’ individuo che sta affrontando un attacco di panico, solo osservando la situazione, dal suo punto di vista possiamo essere d’aiuto.

5. Non fare pressioni Questo non è il momento di costringere la persona a rispondere o a fare cose che peggiorerebbero l’ansia. Al contrario, riduciamo al minimo i livelli di stress, provando ad indurre nell’individuo sotto panico calma e rilassamento. Non insistere nel capire che cosa ha causato il suo attacco, soprattutto se ci rendiamo conto che al momento questo non sia possibile. Potremmo solo peggiorare la situazione. Non giudicare in alcun modo, ascoltiamolo semplicemente e lasciamolo parlare.

6. Incoraggiare il controllo della respirazione Riacquistare il controllo della respirazione può contribuire a eliminare i sintomi e aiutare a calmarli. Molte persone prendono brevi e rapidi respiri quando sono nel panico (rischiando di iperventilare), altre trattengono il fiato. Questo riduce l’apporto di ossigeno, che causa l’accelerazione cardiaca. questo può rivelarsi un valido intervento. 7. Cercare di regolare la temperatura corporea Molti attacchi di panico possono essere accompagnati da sensazioni di calore, soprattutto intorno al collo e al viso. Un oggetto freddo, idealmente una salvietta bagnata, può spesso aiutare a minimizzare questo sintomo e aiutare a ridurre la gravità percepita.


8. Non lasciare la persona da sola Questo è un aspetto importante, almeno finché non si è ripresa dall’attacco. Non lasciare mai solo qualcuno che sta lottando per respirare o per riprendere il controllo di sé. Anche se abbiamo la sensazione di non essere utili, ricordiamo sempre che rappresentiamo quantomeno un motivo di distrazione per la persona. Se questa, infatti, viene lasciata sola, non ha altro che se stessa e i propri pensieri. Il fatto che abbia qualcuno vicino in quel momento, è utile a tenerla ancorata al mondo reale. Essere soli durante un attacco di panico può rivelarsi un’esperienza terribile. 9. Aspettare che passi Generalmente gli attacchi di panico tendono ad avere un picco intorno ai 10 minuti e da lì si assiste a un declino lento ma costante. In ogni caso, gli attacchi di panico meno gravi tendono a durare di più. Detto questo, la persona riuscirà meglio a gestirli, quindi la durata è un problema secondario.

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Vita di coppia...

intervista agli sposi! Angela e Gianpaolo Il giorno del matrimonio è un susseguirsi di emozioni forti vissute dagli sposi in prima persona, ma anche dagli invitati, tutti si sentono partecipi di un sogno contribuendo alla riuscita di un evento indimenticabile! Splendida ed emozionante la cerimonia e gli scambi delle promesse, l’emozione di uscire mano nella mano sapendo di essere sposati e venire avvolti da una cascata di candido riso e petali di rosa. Che si decida di sposarsi con il rito religioso, solenne oppure con un rito civile

più intimo e sobrio non bisogna dimenticare che il momento del sì è il cuore del matrimonio. Ma perché soffermarsi sull’emozione di un principio, dove si è felici e spensierati, travolti dall’amore. In quest’articolo abbiamo intervistato una coppia sposata da 29 anni che prova ancora le stesse emozioni di allora, lo stesso amore e la stessa complicità di un tempo. Come è possibile mantenere questa grande passione dopo tanti anni?

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Come vi siete conosciuti e da quanto tempo siete sposati? Ci siamo conosciuti/fidanzati nel 1987 sui banchi di scuola al terzo anno delle scuole superiori, Angela aveva 16 anni e io 17. Ci siamo sposati una domenica, precisamente il 23 maggio1993, rispettivamente a 22 e 24 anni, sono circa 29 anni di matrimonio, ma sono 35 anni che questa donna mi sta accanto…siamo cresciuti insieme! Perché avete scelto il matrimonio religioso a quello civile? Non ci abbiamo riflettuto più di tanto, era scontato. Tuttavia nel fare questa scelta, abbiamo, fin da subito, voluto che fosse una scelta coerente e, pertanto, ci siamo messi in cammino per formare una famiglia che avesse alla base una coppia unita, consapevoli di non essere mai soli. Quali emozioni emergono ripensando al vostro matrimonio e come mantenete vivo il vostro rapporto di coppia?

Giornata attesa da tantissimo tempo, sognata e desiderata ardentemente… Non vedevamo l’ora! Grandi emozioni, vissuta con preparazione e consapevolezza. Tanta gioia ed euforia… Dopo 35 anni che ci conosciamo, il nostro segreto per mantenere il nostro rapporto è quello di trovare sempre, dei momenti vissuti insieme da soli, ritagliati costantemente, ai quali non abbiamo mai rinunciato in ogni stagione della vita, abbiamo. Una costante fondamentale è anche la vita intima fatta di gesti, carezze, attenzioni reciproche, tenerezza e corteggiamento quotidiani, sempre presenti e ricercati!

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Ripensando alla strada che avete percorso insieme, da quando vi siete conosciuti fino ad oggi dopo diversi anni di matrimonio, in che modo le vostre emozioni sono cambiate nei confronti dell’altro?

G: le emozioni che inizialmente facevano parte del mio bagaglio esperienziale, sono andate via via modificandosi diventando più strutturate, organizzate, grazie soprattutto a quell’intesa che si è andata sempre più costruendo con amore l’uno verso l’altro. A: le emozioni sono andate via via cambiando in maniera piuttosto elaborata, sono passata dagli entusiasmi ricchi di spinta verso il futuro e la progettualità (emozioni di pancia, dirette, passionali e intense sia in positivo che in negativo) ad emozioni sicuramente più introspettive, riflessive, meno istintive; emozioni più “controllate”, gestite con la consapevolezza del “qui ed ora” ricco del vissuto insieme.


In un epoca in cui i divorzi sono aumentati a dismisura, dove la parola “per sempre” fa sempre più paura alle giovani coppie che preferiscono convivere piuttosto che sposarsi, qual è secondo voi la ricetta che ha permesso al vostro matrimonio di durare così a lungo?

La vita comporta una serie di problematiche da superare insieme, specialmente in famiglia e nei riguardi dei figli: come riuscite a prendere insieme decisioni importanti e come le emozioni influiscono in queste decisioni?

Il “per sempre” è una condizione che nella cultura generale è diventato sempre più difficile sostenere non solo nella scelta relazionale ma anche in tutti gli aspetti della vita (lavoro, vocazione, amicizie etc). Una vera e propria ricetta non c’è. Sicuramente è fondamentale la volontà, il coraggio, la decisione costante, quotidiana di risolvere le piccole e grandi discussioni. Importante essere persone umili e disposte a perdonarsi. Crescere e maturare abbandonando i comportamenti infantili/adolescenziali. Una buona armonia nella vita di intimità con la consapevolezza di potersi mostrare all’altro nelle proprie debolezze / fragilità.

L’approccio è solitamente di confronto, dialogo, onestà e trasparenza. Pur avendo ciascuno il suo modo di essere e di affrontare le difficoltà, cerchiamo di trovare una modalità che sia di incontro. Non sempre si riesce, la parola d’ordine è comunque il rispetto. Ci sono circostanze in cui ci si affida all’altro/a con fiducia. Siete ancora innamorati l’uno dell’altra? Sembra proprio di sì… (!)

Una costante fondamentale è anche la vita intima fatta di gesti, carezze, attenzioni reciproche, tenerezza e corteggiamento quotidiani, sempre presenti e ricercati!

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LA VITA tra emozioni, sensazioni, percezioni e sentimenti Ma cosa sono le emozioni? Perché ci emozioniamo? A cosa servono? Emozioni e sentimenti sono la stessa cosa? Per cercare di rispondere a queste domande dobbiamo andare a ritroso nella nostra storia inserendo le riflessioni in una prospettiva ontogenetica

Viviamo in un’epoca in cui si dà ampio risalto alle emozioni. Contrariamente al passato in cui la dimensione emotiva veniva nascosta per cultura, per pudore, per riservatezza, oggi invece si tende ad esibire, a mostrare ciò che la gente vive intimamente. Molti format televisivi hanno fatto la loro fortuna creando le condizioni perché le persone coinvolte in trasmissione vivessero “in diretta” le loro emozioni, mostrassero i loro sentimenti, come se ci fosse un elemento di morbosità da un lato e di interesse dall’altro nel vedere quello che una persona prova. Senza entrare nel merito della scelta televisiva, quello che si coglie però è l’evidente interesse del pubblico (e quindi di tutti noi) per tutto ciò che riguarda l’intimità, la dimensione emotiva, la questione dei sentimenti. Il motivo è facilmente intuibile: tutti noi viviamo di emozioni, la nostra realtà è fatta di sentimenti, anzi la qualità della nostra vita è principalmente definita dalla qualità nella nostra dimensione emotiva, per cui osservare le reazioni degli altri, “sbirciare” nell’animo degli altri ci incuriosisce e ci coinvolge perché sappiamo che è quello che dà sapore e colore alla vita. Infatti non sono tanto le cose che ci accadono, i fatti in sé, o gli eventi che si 78

inseriscono nella nostra vita a definire la qualità della nostra giornata, quanto le emozioni che questi fatti o eventi suscitano in noi, la reazione emotiva che provocano in noi. Stiamo bene o stiamo male a seconda delle emozioni che proviamo. Il Piacere ed il Dolore: per cercare di rispondere a queste domande dobbiamo andare a ritroso nella nostra storia inserendo le riflessioni in una prospettiva ontogenetica, che ha come assunto base il fatto che l’embrione umano dal concepimento in poi ha racchiuso in sé tutto il suo potenziale di sviluppo, come il seme comprende in sè l’albero che si svilupperà. La programmazione biologica, che ha come base quella che potremmo definire “l’intelligenza genetica”, prevede l’organizzazione sequenziale di strutture nervose che diverranno la base del funzionamento di strutture psichiche. La progressiva maturazione del sistema nervoso si accompagnerà alla progressiva organizzazione del sistema cognitivo (il Pensare) e del sistema emotivo-affettivo (il Sentire). Sappiamo che l’interazione con l’ambiente stimola il sistema nervoso a produrre connessioni fra aree la cui attivazione dà luogo a esperienze psichiche. Dal


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punto di vista psicologico possiamo dire che l’interazione con l’ambiente produce esperienza e l’esperienza interiorizzata diventa apprendimento e l’organizzazione degli apprendimenti diventa struttura psichica, cioè personalità. Le neuroscienze a partire dagli studi negli anni novanta di Jay Giedd, ricercatore del National Institute of Mental Health di Bethesda (USA), ci dicono che la maturazione cerebrale e quindi le connessioni fra le varie strutture cerebrali, richiede tempi lunghi. Sostengono infatti che nell’essere umano tale maturazione avviene nel corso dei primi vent’anni, mentre quella psichica sembra necessiti molto di più, forse tutta una vita. Il neonato avverte da subito sensazioni piacevoli e spiacevoli. Pur vivendo in un universo psichico indifferenziato il neonato reagisce istintivamente (reazione neurovegetativa) di fronte a ciò che vive come piacevole e a ciò che vive come

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spiacevole, cioè doloroso. Sigmund Freud stesso nella sua riflessione sull’organizzazione dell’apparato psichico postulò l’esistenza di un principio di piacere che pose alla base di tutto il funzionamento psichico. Ma quali sono gli aspetti del sistema emotivo e come si sviluppano? Osservando un neonato si coglie che il Sentire precede il Pensare. L’apparato biologico, che sottostà alla percezione delle sensazioni, matura prima di quello che supporta l’organizzazione del pensiero. La conoscenza del mondo che un neonato inizia a maturare, passa attraverso le sensazioni che precedono e probabilmente stimolano l’attivazione di quelle strutture con cui si producono e organizzano i pensieri. Per Freud la ricerca del piacere è il motore che dirige il flusso e il fluire dell’energia psichica. Sostiene


che la ricerca del piacere, intesa come la ricerca di esperienze gratificanti, è alla base non solo di tutta l’organizzazione psichica, ma anche della motivazione esistenziale. In altre parole, che ne siamo consapevoli o meno, secondo la visione freudiana (e non solo) il nostro agire nel mondo è motivato dalla ricerca di gratificazioni. Più “accumuliamo” gratificazioni durante la nostra giornata e più possiamo dire di sentirci soddisfatti e felici. Se questa prospettiva ci trova convinti assertori, è interessante, per il tema che stiamo trattando, prendere in considerazione non solo il piacere ma anche e soprattutto, il suo opposto cioè il dolore, che sicuramente, come il piacere, ha un risvolto emotivo. Il neonato infatti di fronte ad una sensazione piacevole, come dopo la poppata si rilassa, mentre di fronte ad una sensazione dolorosa, come nel caso dello stimolo della fame, si agita. Ora considerando il dolore, vediamo che l’esperienza dolorosa innesca, non solo nel neonato ma in ognuno di noi, una reazione, come se ci sentissimo in qualche modo feriti. La ferita, di qualsiasi natura essa sia (aggressione, frustrazione, offesa…) fa scattare automaticamente una reazione neurovegetativa, funzionale a mettere a disposizione dell’Organismo un quantum di energia necessario per far fronte all’evento. Il dolore è probabilmente la prima esperienza emotiva di tipo spiacevole che facciamo in quanto viene vissuto come reazione ad una sofferenza di tipo fisico. Il pianto di un neonato affamato è un pianto di dolore non qualificabile come nessun altra emozione. E’ difficile collocare il dolore nell’ambito delle emozioni pur avendo esso una dimensione emotiva, in quanto l’esperienza del dolore sembra essere così primitiva da precedere

quella emotiva. Se come vedremo le emozioni sono la sintesi di un vissuto corporeo (reazione neurovegetativa) e di una valutazione mentale, nel caso del dolore la valutazione mentale è assente, perché nel neonato non sono ancora funzionanti le strutture cerebrali atte a produrre esperienze mentali di valutazione. C’è la percezione dolorosa vissuta nel corpo

che assume rilevanza emotiva semplicemente perché viene interessato il funzionamento di strutture nervose che si attivano quando ricevono determinati imput percettivi. Probabilmente il dolore o l’esperienza dolorosa, è il precursore di tutte le emozioni spiacevoli. E’ partendo dal dolore che nel tempo, grazie alla progressiva maturazione del sistema cognitivo, si andranno a strutturare le emozioni cosiddette primarie. Secondo vari autori le ferite infantili lasciano un segno, una traccia, in quanto percepite come dolorose. Nella preadolescenza e nella adolescenza i vissuti infantili riemergono, dal segno si innesca un pensiero, una interpretazione, un interrogativo. Nasce la sofferenza interiore che con queste caratteristiche, è tipica dell’adolescenza in quanto per la prima volta nella vita si sperimentano sensazioni che coinvolgono contemporaneamente il corpo, il sentire e il pensare. Infatti durante l’adolescenza il sistema cognitivo si avvia a maturazione e si completa anche l’integrazione con il sistema emotivo che sul piano della percezione. 81


Come cambia la percezione di un dolore passato

Chiunque di noi nella vita ha passato un dolore, chi più o meno forte, chi più o meno volte, ma in ogni caso ci è sembrato un dolore impossibile da superare, troppo intenso o troppo grande, ma alla fine ha vinto il tempo e piano piano l’ha portato via con sé. Ma quante volte quel dolore sembra tornare? Quante volte, nei momenti più impensabili, bussa alla porta della nostra testa e invade la nostra mente del suo ricordo? Ma soprattutto, è sempre lo stesso dolore oppure ci lascia sensazioni diverse, cambiate? Una perdita in famiglia o di una persona cara, una malattia, un trauma più o meno recente. Sono tutte cose che lasciano un segno dentro di noi e che, in un modo o nell’altro, ci accompagneranno per sempre, ma con il tempo ci lasceranno sensazioni sempre diverse rispetto al momento in cui le abbiamo vissute. Cos’è che cambia? In fondo il tempo non può cambiare il passato, ma la differenza sta nella metabolizzazione di quel dolore, ed è proprio questo che cambia le cose. Una sofferenza, nell’attimo in cui la stiamo realmente vivendo, ci provoca sensazioni forti, a volte di paura, altre di ansia, oppure sentiamo il cuore quasi spezzarsi, colpito da un’emozione troppo forte che non riusciamo a sopportare, e che è talmente grande che il nostro intero corpo non è in grado di sostenerla. Da qui nascono le lacrime, come liberazione 82

di quel dolore che non riusciamo a contenere dentro di noi. Ovviamente ognuno di noi affronta le sofferenze in maniera diversa e soprattutto le gestisce in modo diverso: c’è chi piange, chi perde l’appetito, chi si sfoga con lo sport, chi urla, chi ha bisogno di prendersela con qualcuno, sperando che avere un’altra persona da poter incolpare sia la chiave per far diminuire il dolore. Qualsiasi sia la nostra reazione, è sempre un modo per cercare di far cessare quell’enorme vuoto nel petto, il più delle volte senza riuscirci. Il dolore infatti è strano, si attacca alle ossa, ai pensieri, ai muscoli, fino a invadere tutto il nostro


essere e a toglierci quasi il respiro. Ci sentiamo boccheggiare, affannati, mentre proviamo a risalire da quel mare che sembra inghiottirci e tornare a respirare. Poi, quando meno ce l’aspettiamo, ci rendiamo conto che lentamente l’aria è rientrata nei nostri polmoni, che l’appetito è tornato, che quel sacco su cui abbiamo tirato pugni tante volte non ci attira più così tanto. Arriva un momento in cui riusciamo a riprendere in mano la nostra vita, all’inizio con molta fatica, poi ogni giorno un po’ più facilmente. Piano piano guardiamo le vecchie foto solo una volta al giorno, poi tre volte a settimana, poi una, fino ad arrivare al giorno in cui le togliamo da sopra il comodino e le mettiamo in un cassetto, che apriremo solo in un attimo di forte nostalgia, quando ci sentiremo soli, quando avremo bisogno di sentire di nuovo accanto a noi la presenza di una persona che fisicamente non può più esserci. La nostra perdita sarà sempre viva in noi, ma lentamente quel dolore insostenibile lascerà

spazio ai ricordi felici che abbiamo con quella persona, ricordi che pensavamo di aver dimenticato e che invece torneranno all’improvviso più vivi che mai, e quella sofferenza si trasformerà in un velo di nostalgia che coprirà delicatamente quei ricordi. Ma allora che succede? Quella persona non ci manca più? Non pensiamo più a lei? L’abbiamo dimenticata? No, abbiamo solo smesso di farci invadere da quel dolore, l’abbiamo metabolizzato e siamo riusciti a trasformarlo in qualcos’altro. Quella persona ci mancherà sempre, ma piano piano non ci si fermerà più il respiro ogni volta che pensiamo a lei, anzi, faremo un sorriso e ci verrà in mente un bel ricordo di lei, una giornata al parco, un semplice pranzo insieme, o un suo abbraccio. Guarderemo verso il cielo e le manderemo un bacio nel vento. 83


È chiaro che ogni tipo di sofferenza si metabolizza in maniera diversa e quindi si trasforma in un’emozione differente, non sempre si può parlare di nostalgia o ricordo felice. Nel caso di un trauma passato la situazione è ben diversa: il dolore vissuto non potrà mai diventare nostalgia. Ma anche in questo caso la metabolizzazione avverrà, con tempi più o meno lunghi, e il dolore diventerà più lieve, anzi, magari si trasformerà in forza. Un trauma è qualcosa che non solo ci provoca sofferenza, ma che ci cambia nel profondo, perché va ad infiltrarsi in un punto remoto del nostro cervello e resta lì per sempre, pronto a rispuntare fuori non appena ci troviamo a vivere situazioni che ce lo possono ricordare. A volte basta rivedere un luogo o risentire un odore per far riemergere un vecchio trauma. È qualcosa difficile da superare, ma questo non deve spaventarci; non dobbiamo mai pensare che ci sia un tempo stabilito entro il quale dover necessariamente superare il dolore, ognuno di noi ha i suoi tempi, e ogni trauma vissuto ha bisogno di una metabolizzazione più o meno lunga. È tutto soggettivo, e i tempi lunghi non

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devono spaventare. Nella maggior parte dei casi un trauma importante porta poi alla nascita di una paura che non sappiamo spiegarci, ma che parte in maniera automatica, come uno strumento di autodifesa, una corazza che mettiamo per evitare di subire altri traumi. Ma lentamente anche la paura si affievolisce, magari non sparisce completamente, come neanche il dolore, ma si fa più lieve e fa spazio a qualcosa di molto più importante e molto più utile: la forza. Una persona che ha subito un trauma attraversa diverse fasi, in ognuna delle quali emerge un’emozione differente. Si passa dalla sofferenza alla paura, all’ansia, alla tristezza, fino ad arrivare a sensazioni più positive, come la speranza, la determinazione e infine la rinascita. Tutte queste fasi sono necessarie per la metabolizzazione completa del trauma, che, per poter essere superato, deve necessariamente essere affrontato, con tutti i tempi che il percorso richiede. Ma alla fine ne usciremo più forti, saremo in


grado di mettere da parte la paura e di tirare fuori gli artigli, pronti ad affrontare il mondo e ogni ostacolo che troveremo sulla nostra strada. Il trauma non ci abbandonerà mai, resterà sempre lì in attesa di uscire di nuovo fuori, e sicuramente ci troveremo a volte ad affrontare momenti di sconforto, ripenseremo a quello che abbiamo passato e per un attimo ci lasceremo prendere da un’antica paura, è tutto normale, ma la cosa più importante è che alla fine ci sarà

sempre un pensiero in grado di tirarci su, un unico pensiero che ci darà la forza di rialzarci: “È tutto passato. Ho superato tutto con le mie forze. Quello che mi è successo non potrà più ricapitarmi.” Ed ecco scomparire la paura e tornare la speranza. La forza è quello che rimane alla fine di un trauma che ci ha portato una grande sofferenza. 85


LA RELAZIONE TRA EMOZIONE E MEMORIA

S u l ve r s a n te b i o l o g i c o , l e te o r i e d e l l’ apprendimento sostengono che la traccia mnestica viene consolidata quando un comportamento o stimolo è seguito da rinforzo (Pavlov, 1927; Skinner, 1938; Thorndike, 1913; Watson, 1930). Gli studiosi dell’apprendimento ritengono che la capacità di uno stimolo di giocare il ruolo di rinforzo sia strettamente legata alle sue capacità “ego distoniche”, ovvero di suscitare piacere. In tal senso, le memorie dipendenti dai meccanismi di rinforzo possono ugualmente dipendere dall’attivazione (arousal) emozionale. D’altra parte, altre ricerche (svolte soprattutto in ambito psicoanalitico), suggeriscono che l’emozione possa avere effetti di “soppressione” sulla memoria. Sotto questo punto di vista, quindi, il ricordo di un determinato evento legato all’arousal emozionale produrrebbe ansia che, a sua volta, sarebbe prevenuta (controllata) col raggiungimento della consapevolezza e, successivamente della rievocazione, dello

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stesso evento traumatico. Quindi l’ emozione potrebbe essere descritta come una sorta di memoria se si considerano le sue possibilità di facilitare o inibire il ricordo di eventi e/o esperienze personalmente vissuti. Si può in tal senso fare una distinzione fra memoria “tout – court”, definita anche memoria dichiarativa o esplicita (ovvero la semplice rievocazione dell’evento) e memoria “emozionale”, ovvero il significato affettivo legato ad un determinato evento. Quest’ultimo tipo di memoria sembra giocare un ruolo determinante nella formazione delle flashbulb memories (FBM), o ricordi fotografici, definite da Brown e Kulik nel 1977 come ricordi vividi, dettagliati e persistenti, come delle istantanee, che preservano tutti i particolari, anche irrilevanti, di un episodio. La stessa distinzione fra i due tipi di memoria viene ulteriormente confermata dalle strutture cerebrali implicate: l’ippocampo sembra essere responsabile della prima mentre l’amigdala della seconda (Bellelli G., 1999, pp. 87-93).


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Vividezza dei ricordi ed emozione

L’esperienza emozionale comprende, dunque, due dimensioni: la valenza e l’intensità. Gli individui solitamente si fidano dei loro ricordi; essi sono convinti che il modo in cui ricordano un evento coincida con il modo con cui esso si è verificato, ma sono anche disposti ad ammettere che la memoria è fallibile e che spesso il loro ricordo potrebbe non essere il riflesso della realtà. Gli studi sui falsi ricordi e sui ricordi controversi hanno identificato diverse caratteristiche che influenzano la fiducia nel proprio ricordo. La letteratura sulle flashbulb memories ha suggerito che i ricordi molto intensi di eventi negativi sono mantenuti con più sicurezza rispetto ai ricordi di eventi neutri (Brown e Kulik, 1977). La vividezza, spesso definita come l’aumento di dettagli percettivi e sensoriali, è stata la proprietà della memoria autobiografica maggiormente studiata all’interno dei ricordi emozionali (Rubin, Talarico, 2003). E’ stata trovata una forte correlazione tra vividezza del ricordo ed emozionalità (Bekerian e Conway, 1988; Kozin e Rubin, 1984; Wagenaar, 1986; White, 1982). La coerenza narrativa è definita come il modo in cui il ricordo è rievocato come una storia coerente ed unitaria, sia in parole che in immagini piuttosto che come dettagli frammentari ed isolati. E’stato dimostrato che i ricordi di eventi traumatici erano rievocati con minore probabilità in una forma narrativa coerente (Berntsen, Rubin, Willert, 2003; Beckham, Feldman, Rubin, 2004; Rubin e Talarico, 2003). I ricordi di esperienze emozionali passate sono spesso usati per ricreare gli stati emozionali attuali (Conway, 1990).

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La relazione tra intensità, valenza e memoria autobiografica è incompleta e talvolta contraddittoria. Dai risultati degli studi emerge che l’intensità influenza la proprietà della memoria autobiografica molto di più rispetto alla valenza. Non solo eventi ad alta intensità tendono ad essere ricordati più a lungo ma tendono anche ad essere ricordati con più vividezza (Talarico et al., 2004). Anche l’attività dell’amigdala durante la codifica si riferisce non solo ad una maggiore probabilità di ricordare un elemento emotivo ma anche alla probabilità che si ricordi con maggiore vividezza (Dolcos et al., 2004).


Alcuni studi hanno dimostrato che la valenza di un evento può influenzare la vividezza di un ricordo. Sembra che la vividezza della memoria possa risultare dalla combinazione di generici elementi sensoriali, percettivi e semantici; oltretutto, essa non è necessariamente associata con dettagli specifici di un determinato episodio. Quindi un ricordo emozionale può essere vivido senza essere specifico. È stato inoltre dimostrato che i ricordi emozionali possono essere più vividi ma non più specifici rispetto ai ricordi neutri e che i ricordi emozionali negativi contengono un minor numero di dettagli sensoriali, spaziali e temporali rispetto ai ricordi positivi (Philippot e Schaefer, 2005). All’interno del laboratorio, gli eventi negativi vengono spesso ricordati con maggiore vividezza rispetto agli eventi positivi (Dewhurst e Parry, 2000; Ochsner, 2000). Gli stimoli positivi, al contrario, spesso si ricordano in termini generici (Bless e Schwarz, 2000; Ochsner, 2000). Oltretutto, lo stato d’animo positivo è associato anche a maggiori errori di ricostruzione rispetto allo stato d’animo negativo, probabilmente perché gli individui in uno stato d’animo felice contano su euristiche, mentre gli individui che si trovano in uno stato d’animo negativo sono più propensi a concentrarsi sui dettagli specifici delle informazioni (Benedici et al., 1996; Clore e Storbeck, 2005). Spesso, però, le ricerche sulla memoria autobiografica hanno prodotto anche risultati opposti alla ricerca in laboratorio: I RICORDI DI EVENTI POSITIVI SAREBBERO PIÙ VIVIDI RISPETTO AGLI EVENTI NEGATIVI Dunque, mentre alcuni studi suggeriscono uno scarso effetto della valenza sulla vividezza della memoria, altri hanno riscontrato che l’intensità è il fattore che principalmente predice le caratteristiche della memoria autobiografica (Talarico et al., 2004).

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“Passi echeggiano nella memoria, lungo il corridoio che mai prendemmo, verso la porta che mai aprimmo.”

Vi è una stretta relazione che si forma tra la memoria e le emozioni, e numerose ricerche in campo neuroscientifico lo dimostrano. Tra i vari tipi di memoria di cui l’uomo dispone vi è un tipo di memoria che viene chiamata “memoria emozionale” ed è anche la più duratura, un ricordo colmo di emozioni si radica all’interno della nostra memoria. Questo avviene perché per quanto il nostro cervello sia meraviglioso e

pieno di potenzialità è anche limitato ed ha uno spazio di archiviazione limitato che non sarebbe in grado di conservare il ricordo di tutto quello che vediamo e viviamo, per questo motivo preferisce immagazzinare ricordi emozionalmente pregni e significativi. Le emozioni, sia in positivo che in negativo, svolgono un ruolo fondamentale e aiutano il nostro cervello a dare un valore e un significato a ciò che viviamo facendogli così 91


capire ciò che vale la pena ricordare a lungo termine e ciò di cui può fare a meno. Le emozioni dunque da un lato ci aiutano a ricordare ma dall’altro, paradossalmente, possono scatenare la soppressione di un determinato ricordo perché associato ad emozioni negative come ad esempio un evento traumatico. Queste memorie diventano un campanello d’allarme per il nostro cervello il quale per proteggerci decide di nascondere un determinato ricordo negli angoli più remoti della nostra psiche, tuttavia li nasconde ma non li dimentica proprio perché associati ad emozioni. Questo è uno dei motivi per i quali non sempre la nostra memoria è affidabile e quasi mai è oggettiva, in quanto la risposta emotiva che un evento suscita è una cosa estremamente soggettiva. Due persone che affrontano la stessa identica situazione la ricorderanno in modo diverso, un chiaro esempio ci è fornito proprio dall’emergenza pandemica che stiamo affrontando in questi ultimi anni. Basta pensare ai mesi di lockdown che abbiamo affrontato nel 2020 indubbiamente sono stati dei momenti pesanti per tutti e in un modo e in un altro ci hanno segnato, tuttavia se confrontiamo due persone, che non hanno subito lutti di familiari o amici, potremmo trovare risposte diametralmente opposte. Da un lato troviamo persone che hanno trovato nel lockdown un momento per ritrovare se stessi, riflettere e riappropriarsi della propria vita dall’altro vi sono persone che sono cadute in depressione oppure ha sviluppato una forma di aggressività all’interno del nucleo familiare. Ovviamente queste singole risposte influenzeranno anche il ricordo personale che avremo di questo periodo tra diversi anni, indubbiamente però nessuno lo ricorderà come un periodo felice. Il fatto che la nostra memoria sia altamente influenzata dalle emozioni si spiega a livello fisiologico: quando il nostro corpo si trova in uno cosiddetto “stato impressionabile“, ossia mentre vive emozioni e sensazioni forti, l’amigdala — 92


parte primitiva e istintiva del nostro cervello che gestisce proprio le emozioni — rilascia ormoni che innescano la cosiddetta reazione “attacco o fuga” oltre a mobilitare automaticamente i centri neurali imputati al movimento e attivando il sistema cardiovascolare, i muscoli e l’intestino. Se nella Preistoria gli ormoni rilasciati dall’amigdala — adrenalina, dopamina e noradrenalina — sono stati utili ai nostri antenati per fuggire o meno da un pericolo e apprendere nozioni utili per la propria sopravvivenza, aiutandoci a stabilire quali stimoli fossero utili o dannosi, oggi consentono al nostro cervello di determinare la valenza emozionale delle esperienze che viviamo quotidianamente, informando l’ippocampo – corpo neurale che attivamente “ricorda” le nostre esperienze – quali ricordi conservare a lungo termine e quali no. In sintesi, l’amigdala giudica la valenza emozionale di ogni stimolo, l’ippocampo conserva il ricordo. La nostra tendenza a ricordare “emozionalmente” spiega perché in marketing e pubblicità si punti, praticamente da sempre, a suscitare una rilevante reazione emotiva per stimolare una maggiore memorabilità di un marchio, un prodotto o un messaggio. Un esempio particolarmente efficace è la campagna creata da Procter&Gamble in occasione delle Olimpiadi di Rio 2016. È importante ricordare però che puntare sulle emozioni non è una strategia vincente di per sé: è importante che brand e marketer individuino e sfruttino emozioni e sensazioni che si allineino o sottolineino i valori di cui un marchio si fa portavoce, affinché le associazioni implicite positive che tali input stimolano nei consumatori siano coerenti, con il risultato di ottenere un riscontro positivo anche su immagine e reputazione di brand. Oltre all’aderenza con i valori di brand, è inoltre essenziale valutare in che momento e in che contesto l’emozione viene veicolata e proposta agli spettatori.

uno stimolo ed evento sia “deformato” in modo molto soggettivo. Nel modo in cui lo ricordiamo entrano infatti in gioco diversi fattori: suoni, sentimenti, umore, preconcetti e associazioni implicite sono tutti elementi che possono alterare la “nostra versione dei fatti” e il modo in cui il cervello, quando ricorda, ricostruisce una determinata esperienza. Il cervello, inoltre, ricorda seguendo una gerarchia che va dal macro al micro: ciò significa che nel rimembrare qualcosa, parte dalla cosiddetta “big picture” — la situazione generale — per andare a concentrarsi man mano su dettagli sempre meno rilevanti. Per colmare eventuali lacune o omissioni, il cervello è abituato a lavorare di approssimazione per fornire un contorno di senso alla situazione che sta ricordando, ricorrendo a scorciatoie mentali — le cosiddette euristiche, di cui abbiamo parlato nel dettaglio qui — che gli consentono di completare “il quadro” del ricordo, non sempre in modo aderente e fedele alla realtà dei fatti. Questo comporta che molto spesso i nostri ricordi non siano totalmente affidabili e oggettivi, poiché il nostro sentire emozionale e sensoriale ci porta a deformarli senza che noi stessi ne siamo realmente consci.

Come detto, quindi, i nostri ricordi e la nostra memoria sono fortemente influenzati dalle emozioni che proviamo. Ciò determina che il ricordo di 93


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