ERCOLE MARTINA - La maturità

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ERCOLE MARTINA

LA MATURITÀ


Afghanistan‘61


Le spedizioni negli anni‘60 La sua professione è stata occasione anche di rimanere agganciato a un ambito universitario, quello di Milano, dove è stato molto 5 apprezzato da Ardito Desio, direttore dell’Istituto di Geologia della università di Milano: personaggio carismatico, vincitore del K2 nel 1954, esploratore, studioso. Così, sempre coniugando competenza e passione, ha potuto nei primi anni 60 fare le esperienze forse più memorabili per lui, quelle che ricordava sempre. Innanzitutto l’Afghanistan e il Pakistan, dove è stato nelle estati del 61 e del 62. Da lì ha portato il cappello tipico di lana con il rotolino e tanti altri oggetti curiosi. Dovevano esplorare zone sconosciute, di cui non c’erano le cartine, né le strade, al confine con la Cina. Girava a cavallo e dormiva dove capitava, in posti poverissimi e sperduti. Ma non frequentava solo povera gente: quello era il bello, aveva contatti sia con il capo più alto sia con il più povero dei suoi sudditi.


Faizabad - Afghanistan


Ricordava anche di essere stato a delle feste, dove si metteva lo smoking bianco, che era molto elegante. In Pakistan c’è poi una valle incantata, di cui mi ha parlato molte volte, la valle di Hunza: questa valle ha un capo religioso e civile, che si chiama Mir nella loro lingua. Ha conosciuto anche quello. In quella valle incantata il clima è molto buono. Crescono le albicocche, anche se si è in montagna. É tranquillo e pacifico. Abbiamo in casa una cartina geologica a colori, fatta proprio dopo quella spedizione. Intorno a quei luoghi ci sono le montagne più alte del mondo: l’Everest, il K2 e altre. E non si è fatto mancare, nei ritagli di tempo lasciati dal lavoro esplorativo, la prima salita in solitaria di due ‘5000’: il Koh-i-Kol in Afghanistan e il Theri Sar in Pakistan. Al suo ritorno e anche durante il viaggio ha redatto una serie di articoli sullo stile di ‘diario di viaggio’ per l’Eco di Bergamo e poi in due numeri dell’Annuario del CAI di Bergamo. Leggeteli, sono avvincenti.


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Un geologo della spedizione Desio in volo verso l’Afghanistan

Il primo documento giornalistico pubblicato – Facce poco raccomandabili a Beyrouth - Teheran città immensa - Il grande aeroporto di Mehrabad - I deserti della Persia dai caldi colori I 70 gradi di calore a Lut Nubi nere sul Registan Il Sher Darwazah con i resti dell’antica fortezza La squallida visita doganale a Kabul


Mercoledì 27 dicembre 1961

In esclusiva per “L’Eco di Bergamo” ERAVAMO partiti con un “Caravelle” dall’aeroporto di Fiumicino in un bel pomeriggio di sole con un forte vento che soffiava dal mare vicino, carico di saIsedine: I’aviogetto si era rapidamente innalzato sopra il Tirreno, poì aveva virato dirigendo il muso verso Oriente. Ad Atene avevamo già perduto un’ora di luce: vi facemmo infatti scalo al tramonto, in un turbinare di polvere rossastra; il mare Egeo, che rumoreggiava al margine dell’aeroporto, era già opaco e scuro. Ancora più tardi, prendemmo terra a Beyrouth: l’aria della sera era calda, umida, densa di profumi sconosciuti. Tutto intorno all’aeroporto una cerchia di colline sfavillanti di luci, di colorate insegne pubblicitarie, di fari di automobili in corsa. Un folto pubblico scamiciato e gesticolante assiste allo sbarco dei passeggeri, mentre noi ci accomodiamo nella sala d’aspetto, in una mescolanza indicibile di razze e colori. Sedute in un angolo, osservo un gruppo di ragazze accompagnate da alcuni uomini col fez rosso e dalle facce olivastre poco raccomandabili: mi rammento che qui è la porta dell’oriente, la mecca di traffici illeciti e poco puliti… Poi di nuovo in volo, l’aereo viaggia, nell’oscurità della notte. Ciascuno di noi insegue i propri pensieri tranquillamente: il nervosismo della partenza è ormai calmato.


Nella scorsa estate il nostro concittadino Ercole Martina ha preso parte, come geologo alla spedizione scientifica organizzata dal prof. Ardito Desio con il concorso del Consiglio Nazionale delle Ricerche, e che ha operato nel territorio dell’Afghanìstan durante circa tre mesi per ricerche geologiche, geografiche e geofisiche. Di tale spedizione facevano parte, come noto, oltre al dr. Martina ed al prof. Desio, capo spedizione, il geofisico prof. Antonio Marussi dell’Università di Trieste e un altro nostro concittadino il dr. Giorgio Pasquarè, assistente del prof. Desio presso l’Istituto di Geologia dell’Università di Milano. In questo articolo. ed in altri che seguiranno, il dr Martina illustrerà in esclusiva per i lettori de «L’Eco di Bergamo» alcuni aspetti dell’Afghanistan e le impressioni da lui riportate nel corso della spedizione in territorio asiatico.


Qualche ora più tardi la hostess annuncia che stiamo per atterrare a Teheran: mi sveglio, mi accosto al finestrino ed osservo passare, sotto di me, per un tempo che sembra non finire mai, tante tante luci, ed insegne luminose colorate, e poi ancora altre luci, più fioche, più sparse, quelle della periferia d’una immensa città. L’aereo si abbassa di più, ora distinguo fiocamente illuminate, basse casupole quadrate dal tetto a terrazza. E mi sento invadere da una strana sensazione, provo forse un certo senso di smarrimento: sono in Asia, infine. Mehrabad, nome fascinoso di un moderno e grande aeroporto: mentre sosto in dogana, sposto le lancette del mio orologio, che segnano le 0,50, sulle 3,l0 locali. Un taxi ci conduce all’albergo percorrendo all’impazzata un grande viale alberato e poi seguendo altre vie pure spaziose, moderne, facendo le curve su due ruote, passando i semafori col rosso. Ai lati della strada sui marciapiedi, stanno distesi degli uomini, uno qui, due là: dormono così per terra all’aperto, nell’aria calda della notte. Teheran è una grande città, vasta all’incirca come Roma, ed il suo aspetto è decisamente quello di una città europea. con larghi viali alberati, aiuole fiorite, fontane, monumenti, palazzi moderni, giardini.


Se non fosse per le insegne pubblicitarie e per le iscrizioni in caratteri arabi, se non fosse per il caldo violento, l’atmosfera giallastra, l’aria secca, non si direbbe di essere in Asia. La gente poi è vestita all’europea, niente turbanti, pochissime le donne velate. Il traffico, malgrado le vie siano ampie, spaziose, tracciate secondo un razionale piano regolatore che ha rispettato le zone di verde, è intenso e caotico: esso si svolge sotto lo sguardo, un po’ troppo comprensivo forse, dei vigili che, agli incroci, fischiano e gesticolano all’ombra di bianchi ombrelloni parasole. Le automobili sono quasi tutte ammaccate, portano i segni dei frequentissimi ed inevitabili scontri; i pedoni debbono attraversare in tutta fretta se non vogliono essere investiti dalle auto che svoltano improvvisamente a destra ed a sinistra, senza preavviso. Soltanto il grande bazar coperto, uno dei più importanti di tutto l’Oriente con il suo dedalo di chilometri di vie e viuzze e botteghe, e le tre moschee situate nelle sue vicinanze, rammentano al forestiero l’Oriente; oltre, naturalmente, alle basse casupole di fango della periferia della città, misere e giallastre, che fiancheggiano i viali che dal centro portano al quartiere residenziale estivo, situato alle pendici dell’Elburz, in una macchia di verde fresco e riposante.


Tra questa verzura, oltre che sulle rive del vicino Mar Caspio, le famiglie dei più facoltosi trascorrono la calda estate. Qui si trovano anche le residenze estive delle varie Ambasciate: l’Ambasciatore d’Italia a Teheran, Sua Ecc. Giardini, ci ricevette nel parco, in uno spiazzo erboso sistemato a salotto, con tavolini, seggiole, poltrone, e tappeti stesi sull’erba, sotto le fronde di grandi alberi. Un pechinese ed un piccolo bastardo scorrazzano fra i piedi degli invitati: si parlò dello scopo della nostra missione in Afghanistan ed in tal modo si accrebbe la mia curiosità, oltre che il mio interesse, per l’esperienza tutta nuova che mi attendeva. Il volo da Teheran a Kabul è lungo e suggestivo: si sorvolano dapprima, in direzione sud-est, i deserti della Persia, dai caldi colori bruni, gialli e rossastri. Il cielo sopra è azzurro, limpido, ma la linea dell’orizzonte è mascherata da una foschia gialla rossastra per cui lo sguardo può passare gradualmente dalla terra al cielo senza uno stacco sensibile. Il deserto di sabbia, talora a dune, è poco esteso; qui il deserto è prevalentemente argilloso con laghi e fiumi di fango secco. Rare oasi, piccolissime, sperdute: cespugli bassi che diventano più radi allontanandosi dal centro e che si spingono fino a qualche centinaio di metri intorno, a raggiera, crescendo sulle sponde di


aridi torrentelli. Qualche misera casupola, piste che si perdono nel nulla, qualche cammello in lento cammino. Poco più in là, di nuovo il deserto pieno, arido, mortale: il deserto di Lut è uno dei luoghi più caldi del mondo, dove la temperatura raggiunge anche i 70 gradi centigradi. Nessun segno di vita. Le varie zone pianeggianti sono separate da cortine di deserto roccioso, costituito da nude colline brune o grigiastre dove, per l’assenza di terreno superficiale d’alterazione, sono chiaramente visibili la stratificazione e le pieghe delle rocce. Quattro ore dopo il decollo da Teheran l’aereo si abbassa e sorvola, planando, un villaggio quadrato situato in una grande oasi: nelle vie dell’abitato distinguo dall’alto una decina di automobili. Atterriamo su di una pista in mezzo al deserto, siamo a Zâhedân, presso il confine fra l’Iran, il Pakistan e l’Afghanistan. L’aeroporto è fatto di pochi bassi edifici di mattoni color sabbia ed un’antenna. Alcuni poliziotti dalle variopinte divise ed un piccolo pubblico venuto dal villaggio: siamo in mezzo al deserto e l’arrivo dell’aereo è l’unico collegamento con il mondo... Una dozzina di cani dall’aria stanca, orecchie e code penzoloni, si avvicina alla scaletta in attesa dei rimasugli della colazione dei passeggeri. Poi si spostano sotto le ali del velivolo e si addormentano all’ombra.


Il sole picchia a perpendicolo sopra le nostre teste, e le ombre degli uomini non sono più lunghe di una spanna: è ridicolo persino, ma mi rammento poi che qui siamo presso la linea del Tropico. Il selvaggio panorama desertico, intorno, è uniformemente illuminato in ogni direzione, senza ombre, senza rilievo. L’aria è secca, brucia in gola, ed il vento che fa dondolare la manica a vento non arreca un gran ristoro. Vedo i primi uomini con il turbante in capo; alcuni cammelli pascolano ai margini della pista, in caccia di quelle secche erbe spinose delle quali sono golosi. Mi sembra di essere capitato nel bel mezzo di una scena da film western: l’avamposto degli uomini perduti, questo è Zahedan! Poi si riprende il volo, ora in direzione nord-est. Sopra un’altra zona desertica: è il deserto del Registan, che si estende su buona parte dell’Afghanistan meridionale. Il paesaggio è sempre lo stesso, i colori sempre uguali: solo il cielo qui è nuvoloso, nubi nere, e rossastre, formate dal monsone che soffia dall’Oceano Indiano. Sorvoliamo un enorme lago salato, il Gawd Zirreh, più grande del nostro Lago di Garda, con efflorescenze e croste saline biancheggianti e marginali piccole pozze rosse, probabilmente ricche di sali potassici: il suo colore è verde, verde chiaro, e rompe la monotonia del panorama desertico giallastro.


Poi, improvvisamente, senza un passaggio graduale, il deserto termina sulla sponda di un fiume: qui sabbia e argilla rossastra: di là la steppa. Il paesaggio ora muta e sarà così fino a Kabul, e così in gran parte dell’Afghanistan: monti e colline rocciose, brulle, steppa e valli giallastre. Solo presso i corsi d’acqua si vede un poco di verde, ed alcuni piccoli centri abitati, agricoli, uniti fra di loro da piste e tracce attraverso la steppa. Infine l’aereo comincia ad abbassarsi: la mia curiosità si acuisce. Vedo da lontano la periferia di Kabul, poi la collina a sud della città, il Sher Darwazah, con i resti del muraglione che cingeva l’antica fortezza e che corre lungo l’intera linea di cresta del monte. Poi ecco i polverosi quartieri vecchi di Kabul, un dedalo intricato di basse costruzioni giallastre, o grigie, tutte uguali, come un grande alveare, e la città moderna con strade simmetriche, viali alberati: poca la gente per le strade nel caldo meriggio estivo, il sole è cocente. Che desolazione... Due strette virate, un tuffo a sfiorare le alture che cingono da vicino l’aeroporto, poi l’aereo corre sulla pista, in un nuvolo di polvere, e va a fermarsi dinanzi all’aerostazione: tre basse, piccole costruzioni col solo pianoterra. Su di un tabellone in legno sta scritto a mano, in rosso: «Welcome to Kabul!».


Una staccionata di legno, pure dipinta in rosso, separa la pista dagli edifici. Si apre lo sportello ed un’aria calda e secca sbatte sul viso, scende a bruciare la gola; a dieci metri dal velivolo passa una carovana di cammelli. La visita doganale si compie in una spoglia stanza col pavimento di terra battuta e dove c’è soltanto un rustico tavolone di legno, polveroso e sudicio: il funzionario della dogana è in maniche di camicia e porta in testa il caratteristico copricapo afghano, una sorta di bustina di karakul, l’agnellino di Persia delle nostre signore. I suoi aiutanti, mezzi facchini e mezzi doganieri, attenti ficcanaso, vestono pesanti divise russe o cinesi, vecchie e logore, marroni o azzurre. Sbrigata questa formalità - la prima di una lunga serie di pratiche richieste dalla complicata burocrazia afghana per la nostra spedizione - ci avviamo verso la città, infilando con l’auto della nostra Ambasciata il lungo viale alberato costruito recentemente in occasione della visita di Krusciov a Mohammad Zahir Shah, Re dell’Afghanistan. Ercole Martina


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Nell’antica capitale dell’Afghanistan le donne non possono accedere ai bazar

Una steppa circondata da cime nevose sui quattromila metri Un cielo quasi sempre terso – Verso il Kafiristan le nubi del monsone - Attenti a non farsi scambiare per americani - Le mole dei venditori di sale - Una confusione indescrivibile, ma ognuno sa cosa fare - La città nuova - Il saluto con la mano destra sul cuore - Il Kabul Hotel esposizione dell’artigianato locale - Le nenie lamentose della radio - Seimila lire al giorno per i pasti senza una goccia d’olio - I ministri quasi tutti cugini del Re


Lunedì 8 gennaio 1962

In esclusiva per “L’Eco di Bergamo”

KABUL, capitale dell’Afghanistan, è una città grande come Bergamo, situata a 1866 metri su di un vasto altipiano stepposo circondato da catene montuose le cui cime brulle sorpassano anche i 4000 metri d’altezza. Ad occidente si profila azzurrina l’alta cresta del Paghman (metri 4699), solcata da numerosi canaloni nevosi: ai suoi piedi si trova Paghman, città giardino e luogo di villeggiatura, ricca di parchi, giardini, fontane e ville nascoste nel verde. Il cielo della capitale è praticamente sempre sereno: soltanto in lontananza verso oriente, verso il Kafiristan si possono talvolta scorgere formazioni cumuliformi di nubi - come quelle che si vedono in estate sopra le nostre Prealpi - addensatevi dal monsone. Il clima è caldo e arido come in tutto I’Afghanistan del resto, ed è caratterizzato da forti sbalzi della temperatura fra il giorno e la notte: la secchezza dell’aria rende comunque sopportabili le alte temperature diurne estive. La città vecchia sorge sulle pendici settentrionali del Sher Darwazah, a cavallo del fiume Kabul: è un agglomerato caotico e sporco di misere casupole ad uno o due piani, col tetto a terrazza, i muri fatti di fango, tanto non piove mai. Le strette viuzze sono polverose, dal fondo ineguale, senza fognature e sempre piene di uomini che vanno e che vengono,


a spasso o in giro per gli acquisti: le donne infatti non possono accedere ai bazar. Tutta la città è un bazar, tutte le vie, salvo le più strette e le più nascoste, sono una ininterrotta teoria variopinta dì botteghe, piccoli vani o semplici tende dove sempre qualcuno vende o compera qualcosa. I negozianti stanno accoccolati in un angolo, quasi invisibili, nascosti dietro la loro merce che è tutta esposta in un ordinato e colorito disordine di barattoli, pacchetti, ceste o ciotole di legno; la cassa è sotto il cuscino (non ci sono sedie, qui). E’ tutto un contrattare, un chiamare, un gesticolare per attirare l’attenzione dei passanti: i prezzi variano poco da una all’altra bottega (nel bazar i commercianti sono raggruppati per categoria, così c’è il bazar degli orefici, quello dei droghieri, il bazar dei tessuti, ecc.), c’è un livellamento dei prezzi proprio perché i concorrenti si trovano uscio ad uscio. Il forestiero deve soltanto stare attento a non farsi scambiare per un «americano»: tutto il mondo è paese... Se poi si parla in farsi (ed un mesetto è sufficiente per riuscire almeno a capire ed a farsi capire in questa lingua, che è semplice e facile) allora tutto va per il meglio, si dimostra di non essere del tutto nuovi al paese, ai prezzi correnti, alle cianfrusaglie che se inizialmente attirano l’occhio, si rivelano poi per quello che


realmente sono e cioè rozze, approssimative, inadatte ai nostri esigentissimi gusti europei. Poco infatti vi è che sia degno di essere acquistato: qualche vaso di rame o metallo lavorato a mano, qualche scialle di seta di Herat, antiche armi di foggia orientale, strumenti musicali caratteristici. Anche i tappeti non sono molto pregiati: i soli «mauri», grazie ai loro interessanti disegni ed alla buona lavorazione a nodi, possono risultare graditi a noi europei; ma il confronto con un classico «nahim» persiano è insostenibile. A meno che la fortuna aiuti a scovare un antico “samarqand”. Si vedono anche pelli di volpe e di leopardo, ma sono conciate molto male e mai una delle nostre signore si degnerebbe di indossarne una pelliccia. Anche le pelli di karakul, o agnellino di Persia, sono lavorate male e per di più è oltremodo difficile riuscire a trovare le 23 o 24 pelli tutte uguali necessarie per farne una pelliccia. I venditori di sale fanno girare a mano le loro mole di pietra per macinare i grossi blocchi di salgemma che arrivano dalle miniere del Kataghan, trasportati a dorso di cammello per oltre 400 chilometri: il sale è sempre rossastro o grigio per le impurezze argillose contenute. Agli angoli delle vie gli scrivani ascoltano attentamente le lunghe


dettature dei loro clienti analfabeti e per pochi afghanì ne trascrivono in lettere le confessioni più intime… Con pochi afghanì un portatore d’acqua innaffia il breve tratto di via dinnanzi a una bottega, poi torna alla fontana per riempire il suo otre dì pelle. In questo modo si evita che la polvere renda irriconoscibili i colori delle mercanzie esposte. A tutte le ore, dal sorgere del sole fino al tramonto, la scarsa acqua limacciosa e fetida del fiume Kabul ribolle di uomini e ragazzi che si tuffano, sì lavano (!), si rinfrescano: e la vita qui scorre così, povera e lenta, sempre uguale, come l’acqua del fiume. Fra la città vecchia e la nuova si trova la Dogana, una grossa vecchia costruzione quadrata e bassa, col tetto di lamiera a pagoda ed un grande cortile interno. Già fuori dell’edificio si nota un via vai insolito, si vedono portatori in attesa di lavoro, venditori di bibite fresche e di ogni colore, venditori ambulanti di the, ed anche qui caldo e polvere. Camion, carretti, portantine, portatori d’acqua che innaffiano i cortili per cercare di attenuare l’acre polverone


sollevato dal traffico incessante. Sul portone d’ingresso un militare sorveglia i passaggi: si entra e subito si è nel piazzale interno. Camion multicolori pitturati ed istoriati come i carrettini siciliani, facchini che procedono ricurvi sotto pesanti carichi di casse o pacchi sui quali si notano le scritte più varie in inglese, russo, cinese, tedesco, francese, arabo; funzionari che passano indaffarati con scartoffie alla mano, rincorsi da un codazzo di commercianti preoccupati ed ansimanti e fatti segno da profondi inchini di deferente saluto e rispetto. E caterve di materiali, casse, numeri, sigle, pacchi, cataste di tappeti poco pregiati, grandi e pesanti, con il classico disegno afghano «a piedi d’elefante» (ottagoni bianchì e neri sul fondo rosso cupo). Vi è una confusione indescrivibile almeno in apparenza, ma evidentemente ciascuno sa cosa deve fare, dove deve andare, qual è il suo fra i tanti uffici affollati sparsi dovunque in quel formicaio: qui si ha veramente la netta sensazione di essere capitati in un grande mercato d’oriente, al crocevia fra I’Asia, l’Europa e l’America. All’ombra del muro perimetrale della dogana c’è un parcheggio di carrozzelle con le quali sì può raggiungere la vicina città nuova: qui gli edifici sono quasi tutti moderni ed hanno una linea quadrata e massiccia, stile fascista per intenderci. In questa zona si trovano gli uffici governativi, la Banca d’Afghanistan, le sedi delle Ambasciate straniere, il Palazzo Reale, le caserme, gli alberghi. Le strade sono abbastanza ampie, asfaltate, alberate, ma lateralmente vi scorrono allegramente i ruscelletti delle fognature.


Pochi sono i semafori agli incroci (e di recentissima installazione) perché il traffico è piuttosto scarso: i vigili sono spesso intenti ad insegnare ai cittadini le prime norme della circolazione stradale. I taxi - quasi tutti macchine di media cilindrata di fabbricazione sovietica - sono indispensabili per spostarsi nella città, dislocati in un’area piuttosto estesa. Infatti anche a sud della collina del Sher Darwazah, nella piana di Ciordeh, sta sorgendo ora una Kabul nuova con l’Università, alcuni Ministeri, il Servizio geologico dell’Afghanistan, ville ed il Palazzo del Governo, magnifico e grandioso, situato a Dar ul Amman, in fondo ad un vialone lungo sei chilometri. Per le vie della città, magari sotto un semaforo o presso l’ingresso di qualche ufficio, non è raro vedere qualche afghano in preghiera, scalzo, inginocchiato sull’apposito tappetino e rivolto verso Occidente, verso la Mecca. A giudicare dall’atteggiamento che i taxisti assumono sempre non appena si possono trovare fermi sotto il rosso di un semaforo, si direbbe che il passatempo prediletto in questo Paese è di infilarsi le dita su per il naso: ma forse qui la si considera soltanto come una delle operazioni necessarie alla toelette personale, generalmente molto sommaria e sbrigativa. Un fatto che colpisce il visitatore straniero è il modo con il quale si


salutano questi afghani: oltre alle rituali parole di convenevole, pronunciate tenendo la mano destra sul cuore (“chubasti”, stai bene?), si stringono ambedue le mani, si inchinano, sì abbracciano e si baciano con una tenerezza che a noi urta - trattandosi di due uomini - e se ne stanno così, mani nelle mani, per lunghi minuti. E così può capitare di vedere due poliziotti, dall’aspetto che vorrebbe apparire marziale, con lo scudetto metallico sul petto, che camminano tenendosi per mano come due giovinette: e magari dal loro orecchio sinistro pende un orecchino... Camminando nel bazar della vecchia Kabul o anche percorrendo le strade della città nuova, possono trascorrere anche intere ore prima di incontrare un europeo, o un americano, un occidentale insomma; e non si trova nessuno che parli un’altra lingua che non sia la loro: questa è l’unica capitale asiatica in cui si possono ancora gustare le forti sensazioni che può dare un Paese orientale. Molto ancora qui conserva quel fascino esotico, integro ancora, di un paese tanto diverso dai nostri: la civiltà non ha ancora “contaminato” le abitudini ed il folclore locale. E siamo nella capitale, figuratevi com’è l’interno, in quei villaggi sperduti nella steppa, a centinaia e centinaia di chilometri lontano... Il Kabul Hotel è una grande costruzione a tre piani con ampi saloni


che sono un’esposizione permanente dei prodotti dell’artigianato afghano, a cominciare dai tappeti che, se di grandi dimensioni, sono di effetto piacevole. Numerosi i camerieri, immobili, silenziosi, che sembrano spiare le mosse dei clienti e ad ogni piano, in ogni sala, in ciascun corridoio, radio nascoste diffondono in continuazione, a partire dalle sette del mattino, le nenie lamentose trasmesse da Radio Kabul che vanno ad insinuarsi anche negli angoli più nascosti: fa molto folclore, dice il Direttore dell’albergo, ma a lungo andare è una cosa che fa diventare nevrastenici anche i clienti più... sordi. Al bar si può avere soltanto acqua, o succo di limone, the (la bevanda nazionale), caffè e succo di pomodoro (in scatola): i liquori sono banditi dalla religione maomettana. Si mangia su tavoli di formica come nel refettorio di un collegio qualsiasi (a seimila lire al giorno!) e non si riesce ad avere un goccio d’olio per condire l’insalata: l’unica è comperarselo al nuovo bazar, quello situato nel quartiere degli europei. Il Kabul è il miglior albergo della capitale ma per il fatto di essere dì proprietà e di gestione statali nessuno si preoccupa di migliorarne i «comfort» e di venire incontro ai gusti ed alle abitudini degli europei che lo frequentano. Qui sì svolgono i ricevimenti ufficiali e di rappresentanza del Governo, e per tali occasioni - abbastanza


frequenti - si sloggiano i clienti dai saloni del pianoterra e li si costringe a prendere i loro posti nei corridoi dei piani superiori. E’ interessante comunque partecipare (anche solo assistervi dalla hall d’ingresso) a questi ricevimenti: si vedono arrivare i Ministri, quasi tutti cugini del Re, impettiti e compresi delle loro alte mansioni (sembrano giocare a fare i Ministri); si possono ammirare le «toelettes» delle signore, la cui moda giunge qui con almeno tre anni dì ritardo rispetto a quella italiana. Ma soprattutto ci si rende conto dell’imbarazzo delle donne: mostrarsi in pubblico, specialmente con abiti scollati, quando soltanto due anni fa dovevano vivere rinchiuse ed appartate, o indossare il «ciadrì» che le copriva dalla testa ai piedi quando uscivano. Le feste sono allietate da concerti di musiche caratteristiche che si accostano di più alle lamentose nenie indiane che non alle belle melodie del Tagikistan afghano e russo. Non c’è ballo per gli invitati: è ancora presto per questo paese che solo ora comincia ad uscire da quel guscio impenetrabile rappresentato dalla religione maomettana, statica e passiva ad ogni forma di progresso. Ma mi dicevano dei giovanotti della buona società che nelle migliori famiglie di Kabul, nelle feste private, si comincia a praticare il ballo fra uomini e donne. Certo la civiltà cammina anche in Oriente e fra qualche anno le vecchie abitudini rimarranno retaggio dei più vecchi. Già oggi le bambine vanno a scuola senza il “ciadrì” che le veli, ma questo avviene soltanto a Kabul: per i paesi dell’interno saranno necessari, credo, ancora molti, molti anni. Ercole Martina



Afghanistan‘61


Nelle gole paurose dell’Hindu Kush dove le strade passano sopra i torrenti

Il fascino della steppa grande come un mare e sotto il perenne soffio del vento – Dove non c’è polvere non c’è vita – Il lento procedere dei cammelli e il galoppo sfrenato dei cavalli – Case quadrate di fango con i tetti a terrazza – I volti delle donne “kucì” - Il pericolo dell’acqua- Solo 70 km di asfalto da Kabul a Charikar - La silicosi degli autisti - Tremila metri di Passo Shibar e la piana di Kunduz Le venerate tombe dei santoni Entriamo nel Badakhshan


Giovedì 18 gennaio 1962

IN AFGHANISTAN CON LA SPEDIZIONE DESIO IL paesaggio afghano è di una monotonia incredibile: da sud a nord un’unica gialla distesa di steppa, collinare, o pianeggiante, o montagnosa, ma sempre steppa, con i rilievi brulli e le oasi di verde strettamente limitate ai fondivaIle od alle zone irrigate. Bisogna salire sopra i quattromila metri perché il paesaggio cominci a mutare, assumendo un aspetto di alta montagna. Oppure percorrere le gole che attraversano la catena dell’Hindu Kush, profonde e strettissime, dove la strada è fatta passare sopra i torrenti per mancanza di spazio: presso Bulola, per esempio, la forra non è più larga di sei sette metri! Ma oltre alla steppa, che affascina con le sue distese infinite ed uguali come un mare e che come il mare vive sotto il soffio perenne del vento sulle proprie ondulazioni, un altro è l’elemento insopprimibile del paesaggio afghano: la polvere, la polvere gialla e rossastra, la polvere che dappertutto penetra e si insinua. La polvere accompagna il lento procedere delle carovane di cammelli, sottolinea il galoppo sfrenato dei cavalli: la polvere avvolge e nasconde l’andare delle greggi come una nube dalla quale emergono come fantasmi le donne velate dal «ciadrì» ed i pastori dai lunghi bastoni; la polvere grava sui mercati, ristagna nei bazar. Dove non c’è polvere, in Afghanistan, si può dire che là non c’è vita…


Soltanto la notte, caduto il vento, la polvere si dilegua, distende un velo sugli uomini e le cose che dormono. Allora risalta nitida la nera volta del cielo punteggiata da una miriade di stelle, tante quante mai ne avevo potute contare, splendenti, e vicine quasi ad opprimerti; ed una luna enorme, luminosissima. Un grande silenzio, rotto di tanto in tanto dell’abbaiare lontano dei cani: è incantata la notte, sopra la steppa... La vita riprende col sorgere del nuovo sole, i mercati ed i bazar si rianimano, affollati in maniera inverosimile. Solo i villaggi sembrano sempre addormentati, o morti. Sono tutti uguali i villaggi in Afghanistan: piccole case quadrate, di fango, con i tetti a terrazza sui quali sono stesi a seccare i pani di sterco (l’unico combustibile di qui, oltre al petrolio per l’illuminazione). Le viuzze assolate sono deserte perché gli uomini sono nei campi, o nei bazar (che esiste solo però nei villaggi più importanti) mentre le donne e i bimbi se ne stanno nei cortiletti interni delle case. Con le prime luci del giorno si rimettono in movimento anche le carovane dei nomadi, per fermarsi poi verso la metà mattina al riparo delle loro nere tende di lana ed attendere lì l’alba successiva. I nomadi in Afghanistan sono circa due milioni (sui dodici milioni della popolazione totale) e rappresentano quindi, a parte lo


spettacolo suggestivo delle loro variopinte carovane di cammelli, un’importante unità etnica chiusa: non vengono celebrati matrimoni misti, ma soltanto fra nomadi. Infatti osservando ì volti delle donne «kucì», spesso veramente magnifici, si nota la sorprendente regolarità dei lineamenti e la loro somiglianza, dovute appunto alla purezza della razza. Anche le greggi sparse per la steppa o sulle pendici dei monti sostano nelle ore più calde della giornata e le pecore cercano riparo dai cocenti raggi del sole riunendosi in gruppi circolari e nascondendo le teste nell’intrico dei corpi addossati uno all’altro. E ricordo che effettivamente nelle prime ore del meriggio i nostri spostamenti, a piedi o a cavallo, erano allucinanti, per il caldo violento, la luce abbagliante diffusa dalla foschia polverosa, per la sete. In ogni valle, è vero, c’è un torrente, ma soltanto in montagna, alle sorgenti, si può bere quest’acqua che altrimenti porterebbe noiose infezioni intestinali. I locali possono bere dappertutto, in quanto sono già naturalmente selezionati, anzi bevono solo nei corsi d’acqua, perché pensano che a differenza delle fresche sorgenti, dove l’acqua è poca, la gran massa liquida favorisca il mescolamento e la purificazione dell’acqua stessa: l‘europeo invece può ingerire queste acque soltanto dopo averle fatte bollire.


La rete stradale in Afghanistan è poco sviluppata, limitata a poche direttrici principali e costituita da strade generalmente piuttosto strette, molto polverose e piene di buche. Il solo tratto asfaltato è quello di settanta chilometri che collega Kabul a Charikar ed è un sogno percorrerlo, dopo le centinaia di chilometri percorsi a venti chilometri orari, in un inferno di polvere, di caldo, con continue soste obbligate ad ogni incrocio con altri autoveicoli o con le carovane di cammelli. Spesso ci si deve fermare per attendere che si dissolvano le nubi di polvere che annullano la visibilità: e la polvere che scende nei polmoni riempie le narici. Infatti qui gli autisti sono tutti affetti da silicosi, proprio come i nostri minatori. Per percorrere i settecento chilometri da Kabul a Faizabad sono necessarie oltre trenta ore di viaggio, valicare l’Hindu Kush ai tremila metri del Passo Shibar, scendere poi alla piana di Kunduz coltivata a riso e cotone, calda, umida e malarica: “se vuoi morire vai a Kunduz” dice un vecchio proverbio afghano...


Di tanto in tanto ai lati della strada si vedono lunghi bastoni sui quali sventolano come bandiere multicolori drappi e strisce di stoffe colorate: sono le «ziarat», le venerate tombe dì santoni (saggi, guaritori). I cimiteri invece non si distinguono facilmente dai campi sassosi. Ogni tanto ci si ferma presso qualche solitario capanno di paglia per comprare dei meloni: il melone è il frutto nazionale afghano ed è veramente prezioso per la sua bontà e le sue proprietà dissetanti. Poi si riprende il viaggio, augurandosi dì non avere qualche guasto, considerato che le officine di riparazione sono pochissime e distanziate di circa duecento chilometri l’una dall’altra. E ci si stupisce nel vedere quei vecchi camion traballanti, sovraccarichi di materiale e di gente accatastata fin sul tetto, senza cofano e con stracci stesi sopra il motore per ripararlo un poco dal sole rovente. Quando sono fermati da qualche guasto, mentre gli autisti armeggiano distesi sotto il veicolo, i viaggiatori occasionali attendono senza fretta di poter riprendere la marcia. In Afghanistan il tempo non corre, il ritmo della vita è lento, segue quello della natura: la semina, il raccolto, l’inverno freddo con la neve. La popolazione infatti vive tutta con l’agricoltura e la pastorizia ed accudisce a queste attività con sistemi e mezzi arcaici. come gli aratri di legno, la mietitura a mano, la trebbiatura del grano con i buoi che fanno il girotondo sopra le spighe ammucchiate negli spiazzi e la successiva ventilazione per eliminare la sterile pula, la macinazione a mano o in antiquati mulini ad acqua.


Nei paesi dell‘interno il danaro circola ben poco, si va avanti a scambi di merci, non ci sono esigenze particolari e quindi dopo una giornata di lavoro nei campi l’afghano può tranquillamente riposarsi negli spacci da the, o «ciai-khonà», discorrendo con gli amici. Ognuno ha di che mangiare ed un tetto sotto cui dormire: la vita è povera, monotona forse per noi europei che ci affanniamo tutto il giorno per rincorrere qualcosa che oltre il benessere ed il progresso continuo, forse ci sfugge contìnuamente... Ma è certo una vita serena quella degli afghani, e questo lo si capisce ammirando i magnifici, sereni volti dei vecchi, dai lineamenti distesi e dalle lunghe barbe bianche. Certo il giovane deve ammucchiare quelle cinquanta - centomila lire - o una somma corrispondente in covoni di grano o sacchi da riso - che gli sono necessarie per comprarsi, dal suocero, una moglie: ed infatti in Afghanistan il benessere di un uomo è misurato col numero delle mogli che vengono poi trascurate verso i trent’anni, ormai sfruttate. Anche la nostra vita laggiù era regolata dal decorso del sole: in piedi all’alba, anche per sfruttare le ore di fresco prima della calura diurna, ed in tenda al primo buio anche per evitare le punture delle zanzare e dei moscerini. Quando entrammo nel Badakhshan, la provincia nordorientale,


fummo accolti a Kishem dal Luogotenente del Governatore di Faizabad e, mentre ci veniva offerto l’immancabile the, la banda dei musicanti locali - quattro tamburi ed un piffero – suonò festosamente in nostro onore dall’alto di una collina sovrastante il paese. Poi i suonatori vennero quindi ad ossequiarci ed a raccogliere i nostri meritatissimi applausi: le loro musiche vivaci ed allegre, si avvicinavano molto a quelle del Tagikistan russo. Seguendo poi la selvaggia ed assolata valle del Kokcia arrivammo infine a Faizabad, capoluogo del Governatorato, al centro della regione dove ci proponevamo di compiere le nostre ricerche. Faizabad è un grosso villaggio situato a milleduecento metri sulla riva destra dell’impetuoso Kokcia, nascosto in un’oasi verdeggiante e circondato dalla steppa di montagna. A differenza degli altri villaggi afghani il suo bazar è caratterizzato dal fatto che tutte le botteghe hanno dinanzi una piccola loggetta di legno, per cui nell’insieme il bazar è una specie di porticato continuo. E nel piccolo bazar della via che corre parallela a quella principale, la strada è coperta a tratti da tronchi e rami d’albero, a costituire riparo dalla neve che cade copiosa d’inverno. Dappertutto sì vedono rozze gabbie di legno con delle grosse coturnici che qui sono tenute in cattività per farle combattere in duelli mortali.


E sui monti intorno, oltre alle coturnici, si vedono numerose le pernici, i camosci, gli stambecchi, tutti animali che si lasciano avvicinare abbastanza facilmente dato che qui non si dà loro la caccia. Ed aquile, avvoltoi bianchì o grigi, grossi corvi, lucertoloni lunghi mezzo metro, volpi, lupi: rari gli sciacalli, le jene ed i leopardi. I numerosissimi cani da guardia, liberi e talvolta selvaggi, sono piuttosto fastidiosi a chi, come noi, deve girare per la steppa: ma basta far loro vedere che non si ha paura e tutto va liscio. Nel nostro errare per le steppe, o accompagnati da un soldato o da un ragazzo che accudisce anche al nostro cavallo, eravamo spesso ospiti dei locali: si risparmiava così la seccatura di piantare e smontare la tenda e si poteva mangiare cibo fresco, sempre preferibile a quello in scatola. I pranzi erano serviti su di un tappeto, con al centro un unico piatto di riso e montone dal quale ognuno si serviva con le mani. E pane, the, oppure uova, latte, «mosh» (una specie di yogurth altamente energetico). Dopo il pranzo si rimaneva accoccolati in circolo, al lume di una lampada a petrolio e si discorreva delI’Italia lontana, dell’Afghanistan, delle loro abitudini di vita. E sempre, da tutti i loro discorsi, affiorava la loro serenità, la loro tranquillità. Ed anche la loro cultura. Infatti - e questo mi ha profondamente colpito - vi è un livello medio culturale comune a tutti, laggiù, che anche


se molto basso è comunque superiore a quello della nostra povera gente dei monti e delle zone depresse. In ogni villaggio, infatti, anche in quello più sperduto e lontano, c’è la scuola ed anche se non tutti sanno leggere e scrivere, tutti hanno comunque delle nozioni di cultura. E tutti sono molto ospitali, ospitali in maniera commovente, ti offrono tutto ciò che hanno, anche se hanno poco; ed hanno una grande dignità. Così quando venne il momento di rientrare in Italia, salutai con affetto gli amici tagiki, uzbeki, turcomanni o hazara. Cercai di fissare negli occhi e nel mio cuore quelle steppe assolate percorse da turbini vorticosi di polvere, quelle valli che per la prima volta avevano visto un europeo, solitario, a percorrerle, l’impetuoso scorrere del Kokcia che avevo traghettato a bordo di una rudimentale zattera di tronchi e pelli gonfiate. E la miniera di sale di Astana Tepa dove i cavatori lavorano con picchi da antichi romani, la splendida valle di Bamyan con le sue enormi statue del Budda (la maggiore è alta cinquantatrè metri!) scavate nella roccia a picco oltre millecinquecento anni fa. In quelle lande desolate e lontane ho lasciato una parte dì me stesso, perché là ho sofferto e lavorato, perché là ho vissuto, perché là ho conosciuto un mondo nuovo. Così come su quella inviolata ed innominata vetta alta 5010 metri, in quella limpida giornata di settembre ho lasciato qualcosa: vi ho lasciato un nome, Koh-i-Kol («Montagna del Lago»), a ricordo di un lago azzurro che nessuno mai prima aveva visto, a ricordo di una cima salita in solitudine da un geologo venuto da tanto lontano. Ercole Martina



Afghanistan‘61


Il geologo alpinista lascia i suoi studi per vincere una montagna di cinquemila metri

Esplorati e studiati 5000 Kmq. di territorio fra i 500 e i 5000 metri - Mille campioni di rocce - Una carta geologica del paese - Il prof. Marussi indipendente e Pasquaré nel Badakhshan - Una indimenticabile esperienza umana Incontro con un gruppo di alpinisti tedeschi - Il Noshaq e i giapponesi - Graffiti rupestri con uomini e cervi - Impassibili i camosci e gli stambecchi - Una morfologia simile a quella delle Orobie - Sono andato in cima «per vedere le pietre» - Una catena che somiglia all’Alben


Domenica 28 Gennaio 1962

Dalla spedizione Desio in esclusiva per L’ECO DI BERGAMO Gli scopi della nostra spedizione in Afghanistan erano essenzialmente scientifici: si trattava cioè di compiere ricerche di carattere geografico, geologico e geofisico in una zona quasi del tutto inesplorata, almeno dal punto di vista scientifico. Dirò subito che, per quanto si siano appena iniziati gli studi interpretativi sui dati rilevati e sul materiale raccolto (circa mille campioni di rocce) il bilancio scientifico della missione è da ritenersi, senza alcuna riserva, positivo. Sono stati infatti esplorati circa 5000 kmq di territorio situato ad altezze comprese fra i 500 ed i 5000 metri di quota, raccogliendo interessanti informazioni sulla sua conformazione geografica e sulla sua costituzione geologica sia superficiale sia profonda (quest’ultima grazie soprattutto alle indagini geofisiche). I risultati conclusivi di queste nostre ricerche e dei nostri studi saranno noti soltanto fra un anno circa ed allora saranno pubblicati e messi a disposizione dei futuri ricercatori, che del resto hanno già iniziato l’esplorazione sistematica del Paese e che sono attualmente rappresentati da una missione geologica tedesca permanente. Inoltre il Ministero afghano delle Miniere ha già assicurato che i nostri studi serviranno anche per la compilazione della Carta Geologica dell’Afghanistan (in corso di rilevamento da parte del Servizio Geologico afghano): e questo è il più ambito


riconoscimento a cui potessimo aspirare per il nostro lavoro. Per il diverso ritmo con il quale nella stessa zona procede una indagine geofisica rispetto ad una ricerca geologica, il prof. Marussi, geofisico, operò indipendentemente dal resto della spedizione. Fummo insieme, infatti, soltanto alcuni giorni a Faizabad, dove era stato fissato un campo stabile per le ricerche nella regione. Quindi egli ci lasciò per risalire la valle di Jurm (dove sì trovano le famose miniere di lapislazzuli descritte da Marco Polo nel suo “Il Milione”) e compiere - primo fra gli europei - la traversata dell’Hindu Kush attraverso il Passo Weran (metri 4.600). Nello stesso mese di agosto i geologi (il prof. Desio, il dottor Pasquarè ed io) esploravano, separatamente, la regione circostante a Faizabad ed iniziavano quindi il loro viaggio di ritorno a Kabul, proseguendo le loro ricerche: ciascuno di noi aveva un proprio programma stabilito che si doveva concludere il 24 settembre con il ricongiungimento nella capitale. Pasquaré rimase invece, da solo, a completare il lavoro nel Badakhshan e rientrò a Kabul soltanto tre giorni prima del nostro rimpatrio. In tale periodo di tempo egli visse una indimenticabile esperienza umana, in stretto contatto con quelle ospitali popolazioni tagike e uzbeke. La nostra spedizione non aveva mire alpinistiche, ma fin dalla


partenza da Milano, Pasquarè ed io sapevamo che non ci saremmo lasciati sfuggire l’occasione per salire qualche cima, più alta possibile. Così durante la nostra permanenza al campo di Faizabad studiammo attentamente le carte topografiche a disposizione: io sapevo che alla fine di settembre avrei dovuto compiere delle ricerche nell’Afghanistan Centrale, fra le valli di Bamyan e dell’Helmand e quindi fissai come mio obiettivo una vetta alta 5087 metri situata in quella zona ed appartenente alla catena del Koh-i-Baba, diramazione occidentale dell’Hindu Kush. Nella zona in cui Pasquaré avrebbe condotto le sue ricerche solitarie, si elevavano alcuni “cinquemila” ed appunto su uno di quelli sperava di riuscire a salire. Certo che il tempo a nostra disposizione per le scalate era limitatissimo - uno o due giorni al massimo - essendo il nostro programma di ricerche geologiche piuttosto intenso: del resto eravamo partiti per l’Afghanistan come geologi, non come alpinisti… Così non fu senza una punta di invidia che incontrammo a Faizabad i cinque alpinisti tedeschi della spedizione berlinese al Koh-i Bandakor, un “seimila” dell’Hindu Kush: più tardi li rivedemmo a Kabul, entusiasti delle loro scalate su quelle alte montagne. Durante una traversata sui monti intorno a Faizadab un giorno vidi


finalmente delle montagne altissime, ghiacciate, laggiù al confine con il Pakistan: era il gruppo del Noshaq, alto circa 7507 metri, scalato nel 1960 da una spedizione giapponese. Il mio cuore dette un balzo, l’istinto dell’alpinista si risvegliò in me: da quel momento cominciai a pensare molto seriamente al mio progetto alpinistico, studiando dei programmi che ne rendessero possibile l’attuazione pur nel quadro delle ricerche affidatemi dal prof. Desio nella catena del Koh - i - Baba. C’era da attendere però ancora più di un mese e quindi dovevo saggiamente dosare le mie energie se volevo arrivare al momento opportuno ben caricato: fisicamente stavo bene ed il morale era alto, anche se la posta arrivava quando poteva, anche se eravamo completamente isolati dal mondo. La nostra piccola radio ricevente captava solamente emittenti asiatiche e, più raramente, Washington; la mattina, alle 6, mi svegliavo spesso al suono dell’inno nazionale sovietico che apriva le trasmissioni della stazione del Tagikistan russo. Un mattino di settembre però, a Kìshem, mi svegliai ascoltando una canzone italiana, dolce e triste: la canzone parlava proprio dell’estate, del suo sole che brucia con furore, del prossimo inverno che sarebbe venuto con le sue nebbie e la sua neve...


La mia tranquillità fu scossa, turbata da una profonda nostalgia, ed ancora disteso nel mio saccopiuma volai in Italia, in Lombardia. Fu un colpo al cuore, una cosa così imprevedibile ed improvvisa; il professor Desio aveva preso la emittente italiana che trasmette per gli emigrati. Un’ora più tardi, però, ero a cavallo in mezzo alla steppa. Le giornate trascorrevano tranquille nel lavoro. Un giorno, nella valle di Farkhar, vidi delle belle montagne ghiacciate che non figuravano sulle carte, ma che dovevano sorpassare i 5000 metri e che mi ricordarono il versante orientale del Monte Rosa con i loro alti pendii di ghiaccio e la corona di cime sommitale. Ma non potevo pensare di salirle, dato che avevo un appuntamento con il prof. Desio nei giorni seguenti, ed inoltre il Commissario governativo di Farkhar, un simpatico giovane omone di Kandahar, mi spiegò che per ragioni militari non era consentito di percorrere la valle che portava ai piedi delle montagne. Alcuni giorni più tardi, a Pul-i-Khurmi, mi capitò di percorrere una valletta dietro il villaggio dove è situato un macello all’aperto, a pochi metri da un cimitero. Centinaia di avvoltoi, corvi, falchi e cani randagi stazionavano in quella incisione soffocante, putrida e maleodorante, contendendosi gli scarti delle bestie macellate. Guaiti, gracchiare, stridere, lento sbattere d’ali tra una carogna e


l’altra, fra una e l’altra tomba: e li trascorsi tutta un’intera giornata... Nei giorni successivi, per ragioni di studio, salii due belle montagne d’aspetto dolomitico, una sopra Barfak e l’altra nella valle di Ghorban: la prima, soprattutto, mi impegnò con una arrampicata non del tutto semplice che mi servì d’allenamento e con la quale constatai il mio buon grado di forma. E giunsi a Kabul. Nella capitale mi fermai un giorno per riordinare i materiali, riposare e riorganizzarmi in vista della breve campagna di ricerche geologiche nella catena del Koh-i-Baba. Quindi ripresi la via dei monti, dirigendomi in jeep verso occidente per la valle dell’alto Kabul. Al Passo Unai (m. 3200) c’era un forte vento freddo che aveva spazzato dal cielo la gialla foschia polverosa e là in fondo, a 40 chilometri di distanza, vidi finalmente la catena del Koh-i-Baba con lo Shah Fuladi (m. 5143) ed un monte piramidale


che doveva essere quel 5087 che da tempo turbava i miei sonni. Dopo qualche ora, dal Passo di Hajigak (m. 3500) mi affacciai al settore orientale della catena: vi faceva spicco una ardita montagna granitica ma non vidi più il presunto 5087. La carta topografica era inesatta e la cosa mi innervosì perché avevo una sola possibilità da giocare e non dovevo fallire... La sera successiva, dopo una giornata di intenso lavoro, fredda e ventosa, rientrai al campo che avevo stabilito a 3100 metri nella valle di Kalu; al tramonto il vento cadde, ma l’aria rimase pur sempre fredda. La notte poi fu gelida e i ruscelletti ghiacciarono. All’alba ero in piedi e mi preparai la prima colazione attorniato dai contadini curiosi ed infreddoliti: mi dissero che il nome di quell’elegante cima granitica, già arrossata dal primo sole, era


Shahi Koh, “Montagna Reale”. Consideratane la snella arditezza decisi di tentarla e presi a risalire, a cavallo, la valle che adduceva ai suoi piedi, accompagnato da un afghano. Su alcuni massi della vecchia morena erano incisi dei graffiti rupestri raffiguranti uomini e cervi, la cui età doveva risalire a circa 2mila anni fa. Man mano salivo, lo Shahi appariva sempre più ardito, poi affacciandomi alla parte superiore della valle,vidi là in fondo due alte montagne ghiacciate, senza nome, e pensai subito che la più alta doveva essere il 5087. Un rotolare di sassi richiama la mia attenzione sul pendio di sinistra dove un branco di camosci, con uno stambecco, stanno pascolando tranquillamente senza curarsi di noi... Lasciato Ekbol - così si chiamava il mio accompagnatore - con il cavallo in una radura ai piedi degli ultimi ripidi pendii a circa 4000 metri, proseguo da solo: più su di qui nessun uomo è mai stato, nessuno ha mai visto cosa ci sia. Ci sono dei monti, solo dei monti... Ma c’è anche un lago, un lago


verde smeraldo circondato dai ghiacci, un lago quattro volte il Lago di Coca, a 4500 metri nella conca ai piedi del mio monte! Attacco la parete rocciosa in corrispondenza di un canale non difficile: salgo velocemente, dapprima, poi devo rallentare la mia foga e sostare sovente per riprendere fiato. Sbuco sulla cresta nord a 4870 metri e capisco che ormai ce la farò. Così, quasi dì corsa, spinto da un’euforia mai provata, procedo con una divertente arrampicata per la cresta affilata e seghettata e, dopo una selletta ed un ultimo tratto di pochi metri ripido, mi trovo a camminare su dei sassi scurì, accatastati, con poche roccette affioranti. E’ la vetta. Ho il respiro mozzo per la pazza corsa finale, mi balla la vista anche: ma non potevo andare più adagio, troppa era la mia ansia. Agito in alto la piccozza e le bandierine, quella italiana e quella dell’Afghanistan, sventolano al soffio della brezza fresca. Sono le 13.35 del 27 settembre: l’altimetro segna 5010 metri. Il panorama è immenso in questa limpida giornata tiepida e senza vento: da ogni parte vedo la steppa di montagna, gialla, bruna, sterminata.


Soltanto la catena del Koh-i - Baba presenta una morfologia alpina, simile a quella delle nostre Orobie, con vette piramidali, scure, con piccoli ghiacciai di circo nelle conche rivolte a Nord. Ma li di fronte ecco-lo Shahi, più alto, di poco ma più alto: è quello il 5087, se l’avessi saputo avrei potuto salirlo, ma la sua sagoma inconfondibile era nascosta dietro un’altra montagna. Giù sotto, fra l’accecante candore dei ghiacci, occhieggia il verde smeraldino del lago: Montagna del Lago sarà d’ora in poi il nome di questa cima, Koh–i–Kol in farsì. Scesi seguendo dapprima la facile cresta occidentale, quindi il ghiacciaio irto di “penitentes”, faticoso. Morene instabili, sassi che rotolavano, e dopo sole due ore mi incontravo di nuovo con Ekbol nella radura: mi aveva visto salire sulla vetta, mi guardava stupito, contento... ma non capiva il perché di quella mia salita. Come spiegargli? Gli dissi semplicemente che ero salito lassù “barai durbin sang” (per vedere la roccia) ed allora si ritenne soddisfatto, beato lui! Come spiegargli il perché di questa mia ansia di salire, di scoprire nuovi orizzonti?


Il giorno appresso, distribuiti gli ultimi medicinali a quegli ospitali valligiani di Kalu, rientrai a Kabul: dal Passo Unai mi volsi un’ultima volta a guardare le lontane azzurrine montagne del Koh-i-Baba. Nei giorni successivi, a completamento delle nostre ricerche, salii ai 3300 metri del Khurd Kabul, un grosso monte del tutto somigliante all’Alben visto dalla valle del Riso; ormai ero stanco, svuotato di ogni energia, ma per fortuna anche la nostra missione era conclusa. Arrivò anche Giorgio Pasquaré dal Badakhshan e mi raccontò del suo sfortunato tentativo a un «cinquemila» (la solita carta inesatta!) e della sua scalata solitaria a un bel monte ghiacciato alto 4700 metri, il Koh-i-Shuksì. Ed arrivò il giorno del ritorno. Quando a Fiumicino si aprì lo sportello del jet, respirai a pieni polmoni l’aria umida e fresca del temporale: l’aria secca e rovente della steppa, la polvere, il giallo accecante erano ormai tanto lontani. Ercole Martina




Giovedi 13 Febbraio 1964

NELL’AFFASCINANTE E MISTERIOSA TERRA AFGHANA

La parete dei Budda giganteschi dove la storia parla dalla roccia

Lo straniero che trovandosi a Kabul, per una qualsiasi ragione che l’abbia condotto nella capitale dell’Afghanistan, abbia a disposizione un paio di giornate libere, non dovrebbe mancare di compiere una visita alla magnifica valle di Bamian, situata nella montuosa provincia centrale di questo affascinante Paese asiatico. Io, ad esempio, ho avuto occasione di visitare questa regione dovendovi effettuare alcune ricerche geologiche nel quadro degli studi scientifici che costituivano lo scopo essenziale della Spedizione Desio 1961 all’Hindu Kush. Per compiere questo viaggio bisogna innanzitutto ottenere dalle Autorità di Polizia il regolare lasciapassare: in Afghanistan infatti è necessario un permesso per qualsiasi spostamento entro i confini del Regno, e non sempre lo si può avere rapidamente. Si deve quindi noleggiare un automezzo, preferibilmente una jeep, considerato lo stato pietoso delle rotabili afghane, ed ingaggiare un autista-meccanico; è sconsigliabile infatti condurre personalmente


l’automezzo, poiché nel malaugurato caso di un incidente stradale si andrebbe incontro a noiose ed interminabili inchieste, mentre un conducente locale (ce ne sono di ottimi e, soprattutto, essi sono avvezzi all’inconsueto e caotico traffico locale) se la sbriga meglio e prima di uno straniero, soprattutto grazie alla sua conoscenza della lingua. Inoltre un autista che sia anche un buon meccanico è indispensabile per poter riparare gli eventuali guasti dell’automezzo, dato che le officine meccaniche e le stazioni di servizio sono distanti fra di loro anche più di cento chilometri; a tale proposito è cosa saggia procurarsi preventivamente alcuni pezzi di ricambio ed una buona scorta di carburante (sessanta litri possono bastare). La spesa, per questo giro di circa seicento chilometri, non è affatto rilevante: fra noleggio dell’automezzo ed ingaggio dell’autista sono sufficienti quaranta dollari; la benzina, poi, costa quattro afghani al litro (circa sessanta lire). Ultimati i preparativi e riempita d’acqua una borraccia, ci si può mettere in viaggio, un mattino di buon’ora. La rotabile lascia Kabul e percorre per alcuni chilometri l’altipiano omonimo (Kabul è situata a 1800 metri di altitudine), in un ambiente di arida steppa giallastra nel quale si notano spesso alte colonne di polvere sollevate da turbinanti vortici d’aria, causati da locali


differenze della pressione a seguito dell’ineguale riscaldamento del terreno. Dopo pochi chilometri però il panorama cambia, all’ingresso della valle del Koh-daman, ricca di acque e verdeggiante di oasi e frutteti, una delle poche regioni ubertose dell’Afghanistan: la strada corre in direzione nord, fiancheggiata da grossi eucalypti, attraversando variopinti bazar, lasciando a sinistra la collina di Istalif, centro di un importante artigianato locale. Ad Istalif infatti, si fanno delle ceramiche verniciate in azzurro intenso, rozze ma originali nella loro raffigurazione di animali immaginari, e vengono lavorati ed incisi a mano caratteristici vasi di metallo. Dopo poche decine di chilometri la strada attraversa Aq Sarai, un grosso borgo in vista di alte montagne. Lassù, alla testata della valle di Sang-ao («acqua che sgorga dalla roccia»), in un’altra fascia calcarea si apre una caverna, meta del pellegrinaggio degli Indù: sembra si


tratti di quella che in antico divenne, per i Greci del luogo, la grotta di Prometeo incatenato sul Caucaso. Umida e buia, con una sola apertura circolare, attraverso la quale passava l’aquila a torturare l’eroe; una polla d’acqua, che vi sgorga in primavera, gli estingueva la sete. La valle del Koh-daman s’inaridisce progressivamente, finché la rotabile attraversa soltanto steppa: nel giallo polveroso e piatto spiccano le nere tende di lana di capra e di cammello degli accampamenti dei nomadi, in sosta, durante il loro interminabile vagabondaggio attraverso i paesi dell’Asia, che per essi non hanno confini politici. Sessantaquattro chilometri da Kabul, ecco Ciarikar, dove termina l’unico tronco asfaltato delle strade afghane; la città non presenta alcun interesse, se si eccettua l’antico quartiere di Hupian, coi suoi tumuli inesplorati d’epoca greca: secondo gli storici, Hupian sarebbe l’Alessandria del Caucaso fondata da Alessandro Magno nel 329 a. C. Poco oltre Ciarikar la strada, ora polverosa e sassosa, piena di buche, s’inoltra nella valle di Ghorband che è scavata ai piedi della catena dell’Hindu Kush. Il fondovalle è ricco di oasi verdeggianti e di suolo coltivabile; i fianchi delle montagne, invece, sono aridi, rocciosi, ricchi di colori. Ogni tanto, lungo la strada, si incontrano dei massi che recano incisioni rupestri raffiguranti uomini e cervi, la cui età risale a circa duemila anni addietro. II traffico non è molto intenso, ma è alquanto caotico: carovane di cammelli, lente ed ingombranti, frequenti greggi, muli, cavalli;


pesanti autocarri di fabbricazione sovietica che percorrono questa che è l’unica via di comunicazione con l’URSS; rare corriere, stracariche fino all’inverosimile, con stracci in luogo del cofano. Ed un polverone greve, cosi fitto che talvolta impedisce la visibilità e costringe ad arrestarsi; non per niente gli autisti, in Afghanistan, sono soggetti alla silicosi. Dopo Ghorband la strada prende a salire e con numerosi tornanti valica il Passo Shibar, altipiano ondulato, di pascoli, a 2950 metri sul livello del mare, il più basso ed importante valico aperto fra i due versanti dell’Hindu Kush. Il paesaggio qui ricorda assai da vicino la zona di Livigno ed il Passo del Foscagno in Valtellina. La successiva discesa immette nelle gole strettissime di Sciumbul e di Bulola, le prime delle famose gole dell’Hindu Kush che si incontrano nel viaggio da Kabul verso il nord. Le pareti calcaree della forra raggiungono anche i trecento metri di altezza ed alla base distano talora di pochi metri: in questi punti il fiume scorre sotto i detriti che ricoprono il fondo della valle, ricomparendo soltanto in corrispondenza degli slarghi. All’uscita dalle gole di Bulola si incontra un ciai-khonà (una “casa da the”), con uno spaccio rudimentale ed una fontana: qui gli autisti si fermano per ristorarsi e rifornire di acqua gli automezzi prima di iniziare la salita del Passo Shibar. Un analogo posto di ristoro si trova sul versante opposto del Passo, nella alta valle di Ghorband. Poco più avanti, al sassoso bivio di Shikari, un rudimentale cartello indicatore segnala la via per


Bamian: lasciata a destra la strada che percorre le gole dell’Hindu Kush in direzione di Doab, si infila a sinistra una valle laterale che gradatamente salendo si allarga. Dopo qualche chilometro si entra in una radura, alla confluenza della valle di Kalu con la valle di Bamian, dominata dalle rovine di Sciahr-i-Zohak, situate su di un ripiano che cade a picco sui greti dei due fiumi che qui confluiscono. La “Città di Zohak”, cinta di mura turrite fatte d’argilla rosso-violacea, in un paesaggio rosso-violaceo dall’aspetto irreale, si stendeva quasi mimetizzata sul breve pianoro pressoché inaccessibile. La città e la sua cittadella, che la vigilava e la proteggeva dall’alto della ripida montagna che si alza dietro il pianoro, furono distrutte da Gengis Khan nel 1221. La strada prosegue nella valle sempre più aperta e verdeggiante, ora punteggiata da numerosi alti pioppi, fino a che si entra nel rustico abitato di Bamian, a 250 chilometri da Kabul ed a 2500 metri di quota, in vista della catena del Koh-i-Baba (“Montagna del Vecchio Padre”), azzurrina e nevosa. Il luogo è veramente incantevole, col verdeggiare dei prati e dei pioppi che stormiscono alla brezza leggera, le rocce attorno bianche o giallastre, rosse talvolta, col profilo dolce segnato dai solchi dell’erosione, le acque che saltellano allegramente fra i sassi. Il clima, rigido d’inverno, vi è gradevole nei mesi che vanno da giugno ad ottobre. Così, non stupisce affatto sentire di quella leggenda che vuole sia stata questa, un tempo, la Valle dell’Eden… La fama e l’attrazione principale di Bamian è la “Parete dei Budda giganteschi”, una lunga ed alta


parete verticale di roccia giallastra che fiancheggia la valle sul lato settentrionale; sul lato meridionale si estende invece la vasta terrazza ove sono i resti dell’antica città ed un piccolo albergo per i rari turisti. Nella parete a picco, due enormi statue di Budda in piedi, scavate nella roccia ed ognuna entro una sua profonda nicchia: il “Grande Budda”, 53 metri d’altezza, ed il “Piccolo Budda”, di 35 metri. Le due statue distano 400 metri una dall’altra; la porzione inferiore della parete è punteggiata di grotte scavate in vari piani sovrapposti, grotte che furono celle di monaci buddisti o sale per le loro riunioni ed il culto. Scale e gallerie antiche interne permettono di visitare molte di queste grotte e di salire sulla testa delle due statue colossali. Una serie di Budda seduti, ora scomparsi, era situata in altre nicchie fra le due maggiori. Dallo studio dell’evoluzione della forma delle grotte di riunione e di culto e da quello del poco materiale rimasto della loro decorazione dipinta o a stucchi, si è ricavato che lo sviluppo del centro buddistico di Bamian coincise con lo slancio preso dal Buddismo all’epoca dei grandi Kusciana (II e III secolo dopo Cristo). Esso fu certamente favorito dal posto che Bamian occupava sulla grande carovaniera dall’India all’Asia Centrale e alla Cina, creata oltre duemila anni


fa. Le fonti cinesi fan conoscere che nel V-VIII secolo dopo Cristo Bamian era capitale di un regno forte ed indipendente, mentre le regioni circostanti (Kabul compresa) erano sotto la dominazione araba. La città, quando nel 630 dopo Cristo vi passò il pellegrino e scrittore cinese Hiuen-Tsiang, era ancora fiorente e la statua del Grande Budda era rivestita da piastre di lamiera di ottone, così come l’aveva voluta l’imperatore indo-afghano Kanichka nel II secolo dopo Cristo (attualmente nella pietra della statua sono ancora visibili alcuni dei bulloni di fissaggio delle piastre di ottone, ma la copertura è andata distrutta). Cinquecento metri più ad est del Piccolo Budda vi era un colossale «Budda giacente» lungo circa trecento metri, d’argilla ricoperta d’oro e di gioielli. Fu probabilmente Yaqub il Saffaride a conquistare Bamian, come pure Kabul, verso l’873, ed a farvi costruire per la sua guarnigione una fortezza, le cui rovine dominano Bamian dalla destra del fiume. Il Culto buddistico perdette il suo splendore ed andò scomparendo: in seguito, la città musulmana fu distrutta da Gengis Khan nel 1221. Per proseguire la visita alla valle di Bamian si deve percorrere la rotabile in direzione di Panjao. Otto chilometri dopo Bamian si trova una cresta rocciosa lunga qualche centinaio di metri che si protende quasi a sbarrare una valle laterale: la sua estremità settentrionale, incrostata da sali deposti da sorgenti minerali, è tagliata da una profonda spaccatura longitudinale larga qualche metro, originatasi in seguito al cedimento degli strati rocciosi. L’insieme si è presentato alla fantasia popolare per farvi vedere un immaginario dragone che era il terrore della valle e che venne


ucciso da Alì con un fendente della sua famosa scimitarra a due punte, detta «Zulfiqar». Ancora settanta chilometri lungo la stessa strada ad ovest di Bamian e, superati alcuni valichi, si giunge ai laghi di Band-i-Amir. Sono sei laghetti situati a 2700 metri d’altitudine lungo il declivio della valle, susseguentisi uno più basso dell’altro su di una distanza di 15 chilometri. Larghi al massimo duecento metri, questi laghetti sono dovuti a sbarramenti naturali del corso del fiume per incrostazione di sei banchi calcarei che sbarrano la valle (le acque, in questa zona, sono fortemente calcaree). I laghi prendono il loro nome da quello delle dighe (“band”) naturali che li hanno formati, per l’intervento di Alì secondo la leggenda. Egli infatti formò la prima diga (“Band-i-Zulfiqar”) facendo precipitare a valle massi rocciosi con un colpo della sua scimitarra, (la “Zulfiqar”); la seconda (“Band-i-Pudinah”) ammassando piante ed erbe (”pudinah”) strappate dalla montagna; la terza diga (“Band-i-paner”) venne eretta da Alì con del formaggio (“paner”) offertogli da donne del luogo; la quarta (“Band-i-Haibat”) con massi rocciosi accatastati con gran collera (“haibat”) perché l’acqua continuava a superare le dighe già costruite; infine Alì lascio erigere altre due dighe minori al suo scudiero Ghambar (“Band-i-Ghambar”) ed ai servi («Bandi-Ghulaman”). Il lago Zulfiqar è il più lungo (6 km), l’Haibat è il più bello ed il più profondo, lungo 4 km: le acque blu-indaco, le sponde rocciose bianche e rossastre, e cascatelle d’acqua alte 8-9 metri che scendono


dalla diga d’incrostazione. Uno splendido panorama in un ambiente selvaggio e riarso circondato da pareti rocciose rossastre, sotto un cielo sempre azzurro. Così si conclude la visita all’antica, suggestiva, leggendaria valle di Bamian, nel cuore dell’Afghanistan montagnoso. Evitando di percorrere ancora lo stessa strada, per il ritorno è consigliabile invece, lasciata Bamian e raggiunta la piana sottostante le rovine di Sciahr-i-Zohak, seguire la rotabile che risale la valle di Kalu. All’imbocco delle gole di Paimuri la strada attraversa la valle sopra un arco naturale formato da spessissime incrostazioni calcareo-ferruginose: anche il fiume, qui, s’infila per un centinaio di metri in questo tunnel naturale, per ricomparire più a valle. Usciti dalle gole il panorama si allarga fra i pascoli, in un ambiente tranquillo e solitario: si vedono poche rustiche abitazioni ed un paio di caravanserragli, piccoli fortini con un recinto quadrangolare, entro i quali si ritiravano le carovane fino a pochi anni addietro, per trascorrervi al sicuro la notte. Scavalcato il Passo Hajigak (3400 metri), da dove la vista spazia sulle vicine vette della catena del Koh-i-Baba, e successivamente il Passo Unai (3200 metri), la strada discende lungo l’alto corso del Fiume Kabul, indi risale per il Passo di Takht (2300 metri) fino all’altipiano e raggiunge infine Kabul, la meno civilizzata e quindi la più genuina delle capitali asiatiche. Ercole Martina



Afghanistan‘61








tratto di pochi metri ripido, poi la pendenza diminuisce, cammino su sassi scuri, accatastati. Poi vedo tre sassi aguzzi, e sopra non c’è più niente: sono in vetta. La salita è finita, finalmente! Ho il respiro mozzo per la pazza corsa finale, e mi balla la vista; ma non potevo andare più adagio, non potevo proprio. Libero le bandierine che erano arrotolate intorno al manico della piccozza: e le bandierine, quella italiana e quella dell’Afghanistan, sventolano alla brezza fresca, nella luce dei 5000 metri. Sono le 13,35. Il panorama è grande, con la steppa di montagna gialla, bruna, sterminata. Soltanto la linea di cresta della catena del Koh-i-Baba presenta una morfologia alpina, del tutto simile a quella delle Orobie: vette piramidali, scure, con piccoli ghiacciai di circo nelle conche settentrionali. 30 chilometri ad ovest si erge lo Shah Fuladi (5143 m.) e dalla parte opposta, a 10 chilometri, il Mehnagak (4909 m.). E lì, di fronte a me, lo Shahi, più alto, di alcune decine di metri soltanto, ma più alto di me: peccato, potevo salirlo se avessi saputo che era proprio il 5087!


È una bella montagna con alte pareti, lo spigolo nord verticale e le creste aeree, seghettate: visto da qui assomiglia al Pizzo di Scotes. In lontananza, verso nord, la valle di Kalu stretta e profonda e quella di Bamyan, ampia. Alle 14 comincio la discesa, seguendo la facile cresta ovest, fino ad una selletta a 4870; di qui scendo per un ripido breve canale di ghiaccio fin sulla vedretta occidentale: la superficie è completamente ghiacciata e tormentata dai « penitentes », costituiti da lame di ghiaccio di 50-60 centimetri, inclinate verso monte a formare tante “boites à lettres”. La marcia su tale terreno è faticosa, dovendo procedere infilando ad ogni passo le gambe nel profondo solco inclinato e poi toglierle per infilarle nel solco successivo, provvedendo nello stesso tempo a smussare i taglienti delle lame di ghiaccio, demolendoli a colpi di piccozza con la destra e col pugno guantato con la mano sinistra; perdippiù, sul fondo dei solchi c’è una spanna d’acqua gelida ... Questa ginnastica dura per circa un chilometro, poi proseguo la mia discesa sulle franose


morene, fra un rotolare di sassi in un polverone acre e ruzzolando spesso insieme ai massi spigolosi giù per la china, forse perché un po’ stanco. In meno di due ore giungo comunque in vista dello spiazzo dove avevo lasciato il mio cavallo; Ekbol mi viene incontro sulla morena, mi stringe la mano, mi fa i complimenti e poi, eccitatissimo, impugna la mia piccozza e l’agita sopra il capo in una danza festosa ... Questa spontanea manifestazione di gioia mi scuote un poco, mi fa dimenticare la mia delusione: solo ora, finalmente, provo la soddisfazione per la mia salita. Ed allora, col mio approssimativo persiano, gli racconto che lassù, sotto la vetta del monte, c’è un lago: quello che ho salito io è giusto quindi si chiami, d’ora in poi, Koh-i-Kol, Monte del Lago.. . Vero, Ekbol? Tre ore più tardi, giunto al campo, bevo avidamente tre, quattro tazze di latte caldo che mi offrono i contadini, mentre Ekbol narra concitatamente ai suoi compagni la mia impresa, insistendo sul


fatto, quasi incomprensibile per tutti loro, ch ‘io sia salito proprio sulla punta del monte: poi mi butto, distrutto, nella mia tendina, e mi addormento subito. Sono le 18 e fuori c’è freddo, e buio. Il giorno appresso, distribuiti medicinali e doni ai contadini della zona, riprendo la via per Kabul. Dal Passo Unai guardo per l’ultima volta la lontana catena del Koh-i-Baba, riconosco il mio monte e rivedo lo Shahi, che da qui sembra proprio un monte piramidale, dato che l’estrema punta occhieggia da dietro una montagna la cui cresta settentrionale nasconde il suo verticale, inconfondibile spigolo nord: ecco allora perché non avevo riconosciuto più da vicino, nello Shahi, il 5087! La giornata è serena, limpida, e tira un forte vento freddo; guardo ancora e non riesco a distaccare lo sguardo da quelle montagne lontane, che solo pochi giorni or sono mi erano sconosciute. Poi la jeep riparte, sollevando un turbinìo di polvere che nasconde ai miei occhi quei monti azzurrini: ed ora so che non li rivedrò mai più ... Ercole Martina




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Da Rawalpindi dov’era con Desio ci scrive il concittadino Martina

Il gruppo si sta avvicinando al Baltoro, caro ai ricordi italiani

Rawalpindi, 25-7-62 Mando qualche notizia ed impressione “volante”. Partito da Linate il 21-7 alle 8.50, da Roma sul “DC8” alle 14. A Teheran alle 21.30 locali, c’erano 32° e aria secca (la stessa dello scorso anno, che ti brucia la gola). Teheran splendida, enorme, vista di notte dall‘aereo. Alle 2 locali ero a Karachi, 40°, vento umido (il monsone che soffia dull’Oceano Indiano), rospi e lucertole che circolano per l’aeroporto. Le solite formalità doganali, la disinfezione per la febbre gialla. Karachi è una città enorme (2,5 milioni d’abitanti), sporca, col fango nelle strade, e bufali e ragazzi che vi sguazzano allegramente. I cammelli girano anche in centro, adibiti ai trasporti. Lo stesso giorno, il lunedi 23-7, alle 6 sono


Venerdì 3 Agosto 1962

LA SPEDIZIONE GEOLOGICA NEL KARAKORUM partito in volo e dopo 3 ore sono giunto qui a Rawalpindì (in totale 20 ore fra aereo e scali, da Milano a qui: una bella tirata!). Ho sorvolato tutto il Pakistan da sud (dall’Oceano) a nord (ai piedi del Karakoum): nebbia e nubi gialle dappertutto, risaie, fiumi gonfi di fango, l’Indo enorme, lento e limaccioso. Poi a Rawalpìndi finalmente ho rivisto il sole: qui il monsone arriva molto attenuato, ma c‘è molto umido (45-50% di umidità nell’aria) e caldo, 40°. Per fortuna l’albergo Flashman’s ha l’aria condizionata: e quindi si sta bene. Il caldo poi si sente alla sera (quando c’è buio ma la temperatura scende pochi gradi). Rawalpindi è l’ex-comando inglese per la difesa della frontiera NO dell’India: palazzine, viali alberati, prati verdi: non è giallo e secco come a Kabul! Certo che qui si sente poco l‘Oriente, solo lo si vede nel bazar vecchio, dove vivono i locali, molto simili d’aspetto e di vestiti agli indiani. Le donne non sono completamente velate dal “ciadri” come in Afghanistan, e le giovani sono anche belle. A Karachi ho visto i bagagli della spedizione giapponese al Karakorum, che forse al Baltoro incontreremo. Le difficoltà burocratiche sono state superate (grazie alle conoscenze


Un campo sul medio Baltoro; sullo sfondo i colossi del Karakorum. In questa zona stanno per operare Martina e Desio.


ed al “nome” del prof. Desio) abbastanza velocemente: domattina infatti partirà in volo per Gilgit il nostro bagaglio (35 colli per complessivi 600 kg.); noi domani andremo a Murree per essere ricevuti dal Presidente della Repubblica del Pakistan e venerdì 27 partiremo in volo per Gilgit: là inizierà il lavoro, la marcia... Qui a Rawalpindi il professor Desio è conosciuto da tutti per l’impresa vittoriosa del 1954 al K2: anche alcuni vecchi camerieri del nostro Flashman’s Hotel lo hanno riconosciuto. Siamo stati intervistati e fotografati numerose volte dai cronisti dei giornali del Pakistan. Forse da Gilgit potrò scrivere ancora e dare notizie: esplorata la valle di Hunza torneremo infatti a Gilgit, poi andremo a Skardu ed al Baltoro. Infatti non ci hanno dato il permesso di separarci (non è detta però l’ultima parola. Si vedrà a Gilgit). Ercole Martina


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Un paesaggio pennellato dai monsoni si presenta a chi lascia Karachi per volare verso Rawalpindi

A Gilgit e a Skardu si è in un altro mondo - Il caratteristico aspetto delle contrade dell’Asia Centrale - Una vita misera resa ancora più dura dalle condizioni ambientali – Gli Hunza e i Baltì dediti all’agricoltura con mezzi primitivi Gente semplice, onesta e ospitale


Mercoledì 2 gennaio 1963

NEL KARAKORUM CON LA SPEDlZIONE DESIO SOLTANTO nel mese di giugno, a poco più di un mese dalla partenza, mi fu comunicata la decisione del prof. Desio che mi voleva ancora con sé per questa nuova spedizione asiatica: la notizia, tanto inattesa quanto gradita, suscitò in me un profondo senso di riconoscenza, soddisfazione ed emozione. Riconoscenza per il prof. Desio che mi aveva scelto ancora una volta come collaboratore, soddisfazione per tale scelta (queste cose fanno sempre piacere!), emozione perché era arrivato finalmente il momento di avvicinare i colossi montuosi del Karakorum. In quei giorni non soffrii di impazienza, dato che il tempo a disposizione per i preparativi era limitato e la mia normale attività professionale mi assorbiva notevolmente: grazie alla esperienza dell’anno precedente, utilizzando i sabati e le giornate festive, in poco tempo preparammo i trentacinque colli per la nostra spedizione leggera (due mesi per tre persone). Ai primi di luglio il materiale fu imbarcato a Genova sulla motonave “Asia” diretta a Karachi. Alcuni giorni dopo partì Galimberti, che doveva occuparsi dello sbarco, dello sdoganamento e del trasporto del materiale a Rawalpindi, ai piedi della catena montuosa. Poi anche il professor Desio lasciò l’Italia – diretto a Quetta, nel Belucistan, dove doveva


Nella scorsa estate il nostro concittadino dottor Ercole Martina ha preso parte, come geologo, alla spedizione scientifica organizzata e diretta dal Prof. Ardito Desio e patrocinata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e che ha operato nella catena montuosa del Karakorum pakistano durante un periodo di due mesi per ricerche geologiche. Di tale spedizione facevano parte, come noto, il Prof. Desio, capo spedizione, il dottor Martina ed il dottor Roberto Galimberti, assistente del Prof. Desio presso l’Istituto di Geologia dell’Università di Milano. In questo articolo e in altri che seguiranno, il dottor Martina illustrerà, in esclusiva ai lettori de L’Eco di Bergamo, alcuni aspetti del Pakistan e le impressioni da lui riportate nel corso della spedizione in territorio asiatico.


contattare i responsabili del Geological Survey of Pakistan per definire i rapporti di collaborazione scientifica reciproca con la nostra spedizione. Nella seconda metà del mese di luglio venne infine il mio turno: con un volo da 20 ore dovevo raggiungere i miei compagni a Rawalpindi. Quella domenica mattina, all’aeroporto di Linate, mi sembrava quasi un fatto normale il mio ritorno in Asia e nemmeno mi spaventava la prospettiva di un lungo viaggio solitario: soltanto mi spiaceva un po’ lasciare l’Italia ancora una volta d’estate, rinunciare alle vacanze sulle spiagge sassose della Liguria, rimandare i progetti di scalate al Monte Bianco e al Rosa. Teheran dall’alto mi appare immensa, illuminata, nella notte serena sembra una grande spilla di diamanti con qualche rubino e pietre verdi. Riconosco dall’alto, in quel lungo vialone con luci gialle, Takthè Jamshid, la strada principale della città. Quando scendo dall’aereo mi sento investire dall’aria secca e rovente: sono le 22 locali, ed il termometro segna 32”. Qui all’aeroporto di Mehrabad mi sento ormai di casa: è la quinta volta ormai che lo vedo, e l’ultima non più di dieci mesi or sono; per ingannare l’attesa vado al bar a bere il mio primo the caldo di quest’anno (il the è la più sicura ed igienica bevanda qui in Asia), sfoderando le mie conoscenze di


Uno scorcio panoramico di Karachi. Sorta in una zona paludosa all’estremità occidentale del delta dell’Indo la città ha ora un’importanza commerciale primaria.


“farsi” (la lingua che si parla in Persia e in Afghanistan). Poi si riprende il volo notturno: tutti i passeggeri dormono. Alle 2 locali atterriamo a Karachi, capitale del Pakistan; scendendo dall’aereo mi sento investire dall’aria calda e umida che fa scottare i vestiti indosso. Sul piazzale di cemento saltellano numerosi rospi e corrono lucertole piatte, i gechi. Sbrigate le solite formalità doganali e compilati numerosi questionari per la polizia, cerco di far passare il tempo gironzolando per l’aerostazione, scrivendo cartoline, circondato da facce nere, assonnate, sudate. In un angolo vedo una parte del bagaglio della spedizione giapponese al Karakorum, che incontrerò dopo un mese a Skardu. Il caldo è opprimente, si cerca di stare sotto qualche ventilatore. Poi comincia a schiarire e finalmente alle 6 parto per Rawalpindi, su di un aereo della PIA, la Compagnia aerea pakistana: la hostess indossa pantaloni bianchi rimboccati alla caviglia, una lunga camicia verde ed un divertente cappellino verde. Il paesaggio è offuscato dalle nebbie e dalle nubi monsoniche: si vedono campi, risaie, paludi, corsi d’acqua melmosa, l’Indo giallo, limaccioso. Dopo tre ore sono a Rawalpindi, dove incontro i miei due compagni. Nei due giorni successivi sbrighiamo le formalità burocratiche, provvediamo agli ultimi acquisti necessari e spediamo il bagaglio a Gilgit. Il bazar di Rawalpindi non è pittoresco come quello di Kabul:


Una veduta della valle del Gilgit nella Provincia di Frontiera nel Pakistan Occidentale.


qui ci sona già le scritte pubblicitarie, numerose e variopinte, ì negozi sono come i nostri e non buchi dove le mercanzie sono tutte esposte in un ordinato e colorito disordine di barattoli, pacchetti, ciotole di legno. I negozianti sono seduti dietro il banco, mentre a Kabul essi se ne stanno accoccolati in un angolo, quasi invisibili. E, soprattutto, qui al bazar si incontrano numerose donne. La città è un susseguirsi di strade ampie, viali alberati moderni, vetrine eleganti, ville e bungalow; taluni alberghì ed uffici hanno l’impianto per l’aria condizionata. La civiltà, insomma, ha già fatto molti passi. Del resto basta pensare che prima della «partizione» del 1947, quando il Pakistan divenne uno Stato indipendente, Rawalpindi era il centro militare inglese più importante di tutta la frontiera nord – occidentale indiana: numerosissime infatti, ed estese, sono le installazioni militari e le caserme. Tutta la parte pianeggiante del Pakistan, dall’oceano Indiano a Rawalpindi e Peshawar, ai piedi delle altissime catene montuose dell’Himalaìa e del Karakorum, è ricca di risorse agricole, bestiame, e verdeggiante. Buona la rete stradale, con strade asfaltate e ben segnalate, estesa la rete ferroviaria, funzionanti i servizi postelegrafonici. Karachi, la capitale, è una grande città con oltre due milioni di abitanti, un porto importante, un aeroporto intercontinentale con un grande traffico aereo di transito sulle rotte dall’Europa per l’Oriente e l’Australia. Le poche industrie pakistane sorgono nei dintorni


dì Karachi, spesso sulle rive delI’lndo, grande fiume navigabile. Certo, soltanto la parte moderna della città ha un aspetto civile, con larghi viali alberati e fioriti, alberghi importanti, illuminazione stradale: il resto, ed è la maggior parte, è un agglomerato caotico e sporco di piccoli e puzzolenti tuguri, dove la gente vive miseramente, con le strade che sono fiumi di fango, con i ragazzi che sguazzano nelle pozze limacciose contendendo lo spazio ai grossi bufali. Anche a Karachi è in atto il fenomeno dell’urbanesimo: la popolazione è aumentata vertiginosamente negli ultimi anni, richiamata dalle industrie, dal porto, ma non tutti hanno trovato lavoro dato che le autorità non si sono preoccupate di regolare l’afflusso disordinato, lusingate forse nel vedere accrescere la loro capitale. Il Pakistan è divenuto uno Stato indipendente, gli inglesi se ne sono andati lasciando qualcosa di buono (le strade, le ferrovie, le poste organizzatissime, meglio funzionanti che non da noi): ora i nuovi funzionari pakistani girano con il casco coloniale, gli ufficiali dell’esercito portano orgogliosamente il frustino, sì gioca un po’ a comandare, a dirigere. Ma per la gente povera non è cambiato nulla, la vita è sempre misera, i bambini chiedono adesso, come allora, il “bukshis” (la mancia, la carità). Se invece da Rawalpindi, con un’ora di volo, si valica la prima


barriera montuosa e ci si porta a Gilgit o a Skardu, allora si entra in un altro mondo. Innanzitutto qui non giungono le piogge monsoniche ed allora il paesaggio assume il caratteristico aspetto delle contrade dell’Asia Centrale: aride, gialle, dove la vegetazione cresce soltanto nelle oasi irrigate artificialmente. Poi, vi sono le altissime montagne dell’Himalaia e del Karakorum, a perdita d’occhio. Infine, la gente. Mentre nel basso Pakistan e soprattutto a Karachi si nota una grande mescolanza di razze, fra le quali spiccano l’olivastro tipo indiano ed i negri goani, qui fra le montagne vivono solo gli hunza ed i baltì, abbronzati eternamente ma più chiari di pelle. Anche qui la vita è misera, resa più dura anche dalle difficili condizioni ambientali, ma tutti hanno una propria dignità, sono onesti, ospitali; e nessuno chiede la carità. Certo, qui non si sono spinti gli inglesi e, soprattutto, qui sono tutti uguali dinanzi al problema della sopravvivenza, nessuno ha mai visto, o sa, cosa sia la ricchezza, il benessere anche. Non c’è l’invidia per il vicino che ha il televisore o la macchina più bella, anche perché qui televisori e macchine non esistono. Non ci sono ambizioni possibili. Come nel vicino Afghanistan, il ritmo della vita è lento e segue quello delle stagioni, della natura: la semina, il raccolto, l’inverno freddo con la neve (invero pochi centimetri, mentre abbondanti e frequenti sono le precipitazioni nevose sulle alte montagne). Gli hunza ed i baltì sono dediti esclusivamente all’agricoltura ed, in misura minore, alla pastorizia, ed accudiscono a queste loro attività con sistemi ed attrezzi la cui origine si perde nella notte dei tempi: aratri di legno, spesso trainati dall’uomo, la


la mietitura a mano con coltelli, la trebbiatura fatta battendo le spighe con lunghi bastoni oppure con asini o buoi che fanno un interminabile girotondo sopra le spighe ammucchiate sugli spiazzi, seguita dalla ventilazione naturale ottenuta scagliando nell’aria palate di grano affinché il vento separi la sterile pula. E ancora la macinazione a mano, e la cottura del pane, “ciopatis”, sul fuoco di legna o su sassi arroventati. La gente vive cibandosi di pane, poco riso, poche verdure, mele e soprattutto albicocche d’estate, albicocche secche d’inverno, qualche brodo di grasso di montone; carne poca, soltanto nelle grandi occasioni, e solo montone. E the. Sempre the, «ciae», in abbondanza, in ogni occasione e specialmente dopo il lavoro, quando gli uomini si riuniscono a discorrere amichevolmente, fumando da un’unica pipa ad acqua. In questi paesi di montagna il danaro circola ben poco e si va avanti con scambi di merce: del resto, se si escludono Gilgit, Baltit, Skardu, Shigar e pochi altri centri abitati, in tutti gli altri paesetti non esiste nemmeno il bazar. In queste contrade non esistono mendicanti: anche il più povero ha di che mangiare ed un tetto per riposare, tanto è forte il senso di ospitalità, forse anche perché dettato dalla religione musulmana. La vita è povera, monotona forse per noi che ci affanniamo tutto il giorno per rincorrere qualcosa che oltre il benessere ed il progresso continuo, forse ci sfugge continuamente... Ma è una vita serena, senza scosse questa, e lo si intuisce osservando i volti,


invariabilmente sereni dei vecchi, dai lineamenti distesi e dalle lunghe barbe bianche. Credo che veramente qui gli uomini mai siano stroncati da un infarto. Questo vivere secondo natura, regolato oltretutto da più di un millennio dalla religione maomettana, la religione dell’obbedienza, ha radicato negli uomini un profondo senso di rassegnazione di fronte alle avversità della vita, di fronte alla morte che colpisce i più deboli, indifesi per la mancanza assoluta di medici e medicinali. La dura regola della selezione naturale miete qui ogni anno numerose vittime ed è questa la ragione principale per cui si vedono pochi bambini. Una rassegnazione filosofica alimentata anche dalla più completa sottomissione al volere di Allah: “himsh’Allah”, se Allah lo vorrà... Così gli hunza ed i baltì sono gente semplice, onesta, ospitale: e vivendo a contatto con loro, dividendo le loro fatiche, cominciano a sfiorare alcuni dubbi su questa nostra vita. E ritornando alla vita civile di tutti i giorni portiamo con noi qualche utile insegnamento, pronti ad affrontare le avversità con più filosofia e, soprattutto, con la mente fresca, sgombra dalle comuni e fastidiose preoccupazioni. In definitiva, da queste esperienze si ritorna rinnovati, riposati nella mente e nel cuore, anche se il fisico ha dovuto invece sopportare notevoli disagi. Ercole Martina


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Pakistan ‘62


Sono tabù per tutti gli esploratori nel Pakistan le zone confinanti con Afghanistan, Cina e India

Un permesso straordinario concesso agli italiani dal Presidente della Repubblica - Le sette disposizioni da rispettare - Un colloquio a Murree con Ayub Khan - La difficile situazione interna del Paese - Tendenze separatiste - Non piace alla gente del settore orientale il progetto di una capitale costruita ex-novo


Venerdì 4 Gennaio 1963

NEL KARAKORUM CON LA SPEDlZIONE DESIO COME la penisola italiana è sbarrata verso nord dall’arcuata catena delle Alpi, così la penisola indo-pakistana è separata dal resto del continente asiatico da alte catene montuose. Più precisamente, in corrispondenza dell’arco delle Alpi Occidentali, in Asia si trova la catena delI’Hindu Kush; la catena del Karakorum occupa la stessa posizione geografica dei settori centrali ed orientali delle nostre Alpi; infine, mentre in Italia vi sono le Prealpi, che terminano ad ovest nella vetta del Monte Legnone, sopra Colico, nella corrispondente posizione, in Asia, parallelamente al Karakorum si stende la catena dell’Himalaia che termina ad ovest nella vetta del Nanga Parbat. Proseguendo in questo paragone, possiamo osservare che mentre le Alpi rinserrano a nord la pianura del Po, Hindu Kush, Karakorum e Himalaia sbarrano a nord le grandi pianure percorse dall’Indo e dal Gange. Se però la rassomiglianza geografica di queste catene montuose, in Europa ed in Asia, è molto evidente, e significativa è pure la loro quasi identica struttura e storia geologica, le proporzioni sono invece molto diverse. La penisola italiana infatti ha una superficie che è circa un decimo di quella della penisola indiana (che misura circa 4 milioni di chilometri quadrati); le Alpi misurano circa mille chilometri di lunghezza, mentre l’arco dell’Hindu Kush-Karakorum-Himalaia supera i 2500 chilometri;


infine, le Alpi culminano a 4810 metri (al Monte Bianco), mentre la vetta più elevata dell’Himalaia, l’Everest, raggiunge gli 8840 metri. Fin dal lontano 1909, anno in cui si svolse la spedizione del Duca degli Abruzzi, la catena del Karakorum attirò l’attenzione degli alpinisti e degli scienziati italiani. Da allora, alcuni fra i più forti alpinisti italiani si sono cimentati su quelle formidabili montagne, conquistando il K2 ed il Gasherbrum IV; e scienziati come De Filippi, Dainelli e Desio hanno intrapreso una serie di ricerche geografiche di grande importanza, tanto che attualmente gli italiani sono considerati, in tutto il mondo, i migliori conoscitori del Karakorum. Appunto nel quadro di tali ricerche si è svolta la spedizione diretta dal prof. Desio ed alla quale ho preso parte in qualità di geologo. Nostro compito era quello di completare le ricerche geologiche nella regione di Skardu (e più precisamente negli alti bacini ghiacciati del Chogo Lungma e del Sosbun, fra il Baltoro e la Valle di Hunza) e di eseguire ricerche geologiche nell’alto bacino di Hunza, per completare il rilevamento geologico dì questa importante valle del Karakorum occidentale, già iniziato nel 1954 da una spedizione tedesca limitatamente alla bassa e media valle.


Sebbene queste nostre ricerche scientifiche dovessero svolgersi in stretta collaborazione con il Geological Survey of Pakistan, molto difficile era l’ottenimento dei permessi per recarsi nelle zone prescelte: per la zona della valle di Hunza si dovevano superare le difficoltà poste dalle autorità militari, trattandosi di zona situata al confine con la Cina e con l’Afghanistan (Paesi con i quali il Pakistan non è attualmente in buoni rapporti); per il permesso relativo alla regione di Skardu si doveva dimostrare alle autorità governative che la zona prescelta non era la stessa nella quale dovevano operare una spedizione giapponese e due spedizioni tedesche. Le autorità governative e militari pakistane, infatti, subordinano il rilascio di permessi per lo svolgimento di spedizioni scientifiche ed alpinistiche straniere all’osservanza di talune disposizioni, fra cui in particolare: 1) che la zona prescelta non sia situata al confine con Afghanistan, Cina e India, soprattutto per evitare la responsabilità di incidenti determinati da eventuali infiltrazioni di pattuglie; 2) che troppe spedizioni non operino contemporaneamente, per non dover distaccare dai reparti dell’esercito troppi ufficiali di collegamento; 3) che due spedizioni non operino contemporaneamente nella stessa zona, per il problema del reclutamento dei portatori, che in una zona non sono più dì tanti; 4) che ciascuna spedizione si impegni a fornire i portatori d’alta quota (e l’ufficiale di collegamento) degli indumenti e dell’attrezzatura alpinistica necessaria; 5) che la richiesta per il rilascio del permesso venga inoltrata alle competenti autorità, per via diplomatica, l’anno prima; 6) che i nominativi dei partecipanti alla spedizione vengano resi noti per tempo, corredati


da particolareggiati curriculum vitae; 7) che il Capo spedizione sottoscriva complicati disciplinari. A tutto questo va aggiunto che i funzionari pakistani generalmente sono contrari alla concessione di permessi per evitare grattacapi e lavoro straordinario, in contrasto con il parere dei vari Ministri che invece vedono di buon occhio le spedizioni straniere che, oltre a contribuire alla esplorazione del Paese, portano anche molta valuta pregiata. Per nostra fortuna però il prof. Desio, grazie alle sue numerose benemerenze in campo scientifico ed inoltre per essere stato il Capo della spedizione vittoriosa al K2, è considerato con molta simpatia negli ambienti pakistani: in forza di questo suo prestigio gli fu possibile conferire, nella scorsa primavera, con il Presidente della Repubblica del Pakistan. In tale occasione, il Presidente stesso gli concesse personalmente il permesso per la nostra spedizione. Non solo, ma ci fu anche consentito di spingerci fino a Misgar, nell’alta valle di Hunza, un paesetto dove i pakistani stessi non si possono recare, essendo situato a pochi chilometri dal confine con la Cina. Durante il nostro breve soggiorno a Rawalpindi, il Presidente Ayub Khan concesse al prof. Desio un’altra udienza. Accompagnai il professore a Murree, un grazioso centro di villeggiatura posto a duemila metri sulle propaggini dell’Himalaia, dove abitualmente risiedono, durante i caldi mesi estivi, le più alte autorità dello Stato. Nei cento chilometri di strada asfaltata attraversammo verdi pianure coltivate, con mandrie di bufali che sguazzavano nelle pozze fangose, le prime colline con la caratteristica «macchia» dove vivono i leopardi, ed infine ci inerpicammo fra magnifici


boschi di conifere fino a raggiungere la cittadina immersa nelle nubi monsoniche : la temperatura era fresca e sembrava di essere giunti in un lindo paesetto svizzero, con le ville dai tetti rossi spioventi nascoste nel verde. Superati due sbarramenti di polizia, dove esibimmo il nostro lasciapassare, entrammo in un giardino ben curato, dove silenziosi servitori in livrea prestavano le loro cure ai prati di erba all’inglese. Accolti dal Segretario particolare e dall’Aiutante di Campo, fummo infine introdotti nello studio del Presidente della Repubblica, una stanza arredata semplicemente, con un mazzo di rose rosse sulla scrivania verde ed ampia; alle pareti, carte topografiche del Pakistan e delle zone di frontiera. Il Presidente Ayub ci accolse cordialmente, poi si interessò agli scopi della nostra spedizione consultando attentamente una carta topografica. Nel ringraziarlo per la concessione del permesso, il prof. Desio offri al Presidente un album di fotografie relative al versante settentrionale della cresta montuosa del K2 (cioè del territorio attualmente conteso fra Cina e Pakistan), unitamente ad una carta geografica della regione, da noi compilata, sulla scorta di osservazioni dirette e corretta dagli errori che compaiono nella cartografia ufficiale pakistana. Il Presidente gradì molto l’omaggio, chiedendo numerose e dettagliate informazioni sulla topografia della regione al prof. Desio che è l’unica persona, non cinese, che abbia messo piede nella zona; infine ci congedò, augurandoci buona fortuna per la nostra missione. Il Presidente Ayub è un ex generale dell’Esercito e come tale conserva dei modi autoritari; cresciuto ed istruito all’inglese, ha la


mentalità di un vero gentleman. Forte, asciutto, intelligente, preparato, con un paio di baffi all’inglese sopra le spalle quadrate, Ayub Khan è l’uomo che sta cercando di dare al proprio Paese, da soli quindici anni indipendente dopo la «partition» dall’India inglese, una base di democrazia. Il suo compito è arduo: basta tenere presente l’arretratezza e l’ignoranza delle popolazioni, e le resistenze opposte ad ogni innovazione dalle caste privilegiate e dai capi religiosi islamici, che vedono diminuire il proprio prestigio e la propria autorità. Inoltre c’è l’invidia e l’opposizione di altri uomini politici e generali: gli inglesi, andandosene dal Pakistan, hanno lasciato vacanti molte cariche direttive, e la sete del potere è ancor più forte in coloro che sono stati assoggettati per lungo tempo. Oltre a questi delicati problemi, un’altra grave preoccupazione di politica interna travaglia attualmente il Pakistan: il problema dei rapporti e dell’unità fra Pakistan occidentale e Pakistan orientale. Infatti, il territorio della Repubblica è geograficamente separato in due regioni fra loro distanti circa duemila chilometri, e con in mezzo l’India, Paese ostile. Nel Pakistan orientale, situato nelle pianure dove il Gange ed il Brahmaputra terminano il loro corso gettandosi nel Golfo del Bengala, vi è la grande produzione


di cotone, juta e legname, cui si dedica una popolazione sana ed attiva. Viceversa, nel Pakistan occidentale le attività produttive sono molto ridotte, limitate al solo porto ed alla zona industriale di Karachi; in compenso Karachi è la capitale della Repubblica, nel Pakistan occidentale si trovano i Ministeri e vi risiedono abitualmente i governanti. Da Dacca, insomma, si accusa il Pakistan occidentale di vivere alle spalle del lavoro della regione orientale, di sperperare il pubblico danaro (accumulato con il sudore deIla sola popolazione pakistana orientale) usandolo per mantenere le posizioni di comando arbitrariamente acquisite. Ultimamente poi, il progetto di costruire, ex-novo, una nuova capitale presso Rawalpindi, Islamabad, ha scatenato l’opposizione della gente del Pakistan orientale: «Non contenti di avere già la capitale nel proprio territorio, a Karachi, quelli ora se ne vogliono costruire una nuova, in una zona climaticamente più felice, e dovremmo pagargliela noi!...» I rapporti non sono facili: il dissidio si acuisce sempre più, il Pakistan orientale vuole staccarsi e costituire uno Stato indipendente. La separazione geografica dei due tronconi poi alimenta le aspirazioni separatiste e minaccia di divenire una separazione



definitiva. Recentemente, per acquietare un poco le popolazioni separatiste, il “bengali” (la lingua parlata ne! Pakistan orientale) è stato dichiarato lingua ufficiale della Repubblica, accanto all’inglese ed all’«urdù» (parlato nel Pakistan occidentale). Rientrammo il giorno stesso a Rawalpindi, nella soffocante calura delle pianure verdeggianti, dove il termometro segna sempre intorno ai 35°, sia di giorno che di notte, e dove l’umidità supera spesso il 60 per cento. Verso sera mi recai all’Ufficio di Polizia per notificare la nostra partenza per Gilgit: in Pakistan, infatti, si è tenuti ad informare la Polizia circa gli spostamenti, nelle ventiquattr’ore che precedono ogni partenza o che seguono immediatamente l’arrivo in qualsiasi località sede di un ufficio dì Polizia. L’aria era ferma, calda; il sole illuminava uniformemente ogni cosa attraverso la lente delle nebbie monsoniche; nel giardino dell’ufficio di Polizia, dove alcuni grossi eucalyptus nascondevano il basso edificio di mattoni gialli e polverosi, una mangusta giocava correndo sull’erba. Ercole Martina


Pakistan ‘62


Pakistan ‘62


Nella casa del Mir di Hunza dopo pranzo bisogna lavarsi le mani con acqua di rose

Ricambiata con una esibizione di “twist” la signorile ospitalità offerta nella sua residenza di Baltit - Come il gioco del lotto il volo da Rawalpindi a Gilgit - Cordiale incontro con Mahdi, capo dei portatori degli italiani sul K2 Una valle dove si beve alcool (nonostante Maometto) e dove le donne non portano il «ciadrì» Costretti a danzare il “murrani”


Lunedì 7 Gennaio 1963

NEL KARAKORUM CON LA SPEDlZIONE DESIO QUELLA notte a Rawalpindi si scatenò un violento temporale. Svegliati di soprassalto dal sibilare del vento e dallo scrosciare impetuoso della pioggia, restammo a lungo a chiacchierare dei nostri timori circa il volo per Gilgit: questo volo, come del resto quello da Rawalpindi a Skardu, è infatti possibile soltanto nelle giornate di bel tempo, dato che si deve scavalcare un passo (il Babusar) alto 4.600 metri e l’aereo, un “DC 3”, non riesce a salire molto più in alto. Inoltre si deve volare lungo la valle dell’Indo, in mezzo a montagne alte 6.000-7.000 metri: quindi il volo è a vista, impossibile perciò col maltempo. Per di più, non essendo collegati via radio gli aeroporti di Rawalpindi, Gilgit e Skardu, può anche verificarsi il caso (non infrequente) che un aereo partito da Rawalpindi non possa atterrare a Gilgit (o Skardu) perchè la pista è impraticabile (a causa del maltempo) o perché l’atterraggio è impossibile per i banchi di nubi stagnanti nelle valli; ed allora l’aereo deve fare dietro-front, con il pericolo di trovare magari il maltempo al Babusar Pass... Il mattino successivo, attraversata Rawalpindi semiallagata, ci portammo all’aeroporto di Chaklala: la pista era costellata di pozze d’acqua. Ma dopo tre ore, un po’ per la benefica azione del sole


ed un po’ per l’opera di alcuni indigeni che scopavano la pista con una lentezza esasperante e con lunghissime soste per riposare, decollammo su di un «DC 3». L’aereo risaliva lentamente verso il Babusar Pass, sorvolando verdi praterie, boschi, laghetti, pinete: nella cabina non pressurizzata, cominciava a fare piuttosto freddo. Passando sopra Murree, ci si avvicinava alle prime montagne e più tardi ecco monti alti, ghiacciati. Poi quei grandi ghiacciai, coperti da immensi cumuli di nubi monsoniche e là in alto, sopra le nubi più alte, due punte nevose. Le due bianche punte scintillanti del superbo Nanga Parbat separate dalla «sella d’argento»: il primo “ottomila” che vedo, forse il più bello, nella sua splendida isolazione, nel suo superbo e improvviso innalzarsi dalla vicina pianura. La vista di questa terribile montagna mi eccita, mi commuove: il mio pensiero si rivolge, deferente, alla memoria di Hermann Buhl, il forte solitario che per primo conquistò quella vetta dopo una lotta nella quale tutte le sue forze, fisiche e psichiche, oltrepassarono ogni umano limite sconfinando, dalla dura realtà, nel regno della leggenda. L’aereo supera il Babusar sorvolando le rocce di poche decine di metri e si tuffa verso la valle dell’Indo. Il paesaggio muta improvvisamente: rocce brune, pietraie, un deserto montagnoso


giallo e sassoso, uniforme, che ormai mi è familiare. Sono le montagne dell’Asia queste che rivedo, assolate, aride (anche qui, infatti, il monsone non giunge con le sue intense piogge, arrestato sul versante opposto dalla cresta del Babusar e dal baluardo del Nanga Parbat). Dopo circa un’ora di volo, sfiorando le rocciose pareti della valle, l’aereo si posa sulla pista di Gilgit: aria secca, calda, ventilata, si sta bene insomma. Percorrendo in jeep una strada tracciata nel verde dell’oasi e ben alberata, entriamo in paese. Attraversiamo il bazar, caratteristico ed affollato, semplice ma affascinante. Per la strada non si vedono donne. Eccoci di nuovo, veramente, nell’interno dell’Asia, lontani dal mondo civile, anche se qui siamo giunti in aeroplano. Verso sera, mentre siamo occupati allo smistamento dei nostri materiali per la preparazione del bagaglio da portare in valle di Hunza, arriva un uomo alto, asciutto, dall’aspetto simpatico e dallo sguardo malinconico: è Mahdi, l’hunza che la notte precedente la vittoriosa salita alla vetta del K2 bivaccò con Bonatti a 5.000 metri, appena sotto il IX Campo dove erano Compagnoni e Lacedelli, in attesa del rifornimento di bombole d’ossigeno. Mahdi aveva saputo dell’arrivo a Gilgit del Prof. Desio ed aveva voluto rivederlo, salutarlo: l’incontro, l’abbraccio di questi due uomini, rivelò per la


prima volta a me, alpinista appassionato, il vero significato di quell’impresa, mettendo in giusta luce l’importanza determinante dei sacrifici sopportati da alcuni uomini per una conquista, grande, soprattutto moralmente. Ora Mahdi lavora all’Ospedale di Gilgit, lo stesso Ospedale dove, al suo ritorno da quella memorabile spedizione, gli furono amputate le dita dei piedi; infine, salutandoci, ci pregò di salutargli Compagnoni e Bonatti. (Al nostro ritorno in Italia abbiamo esaudito questo suo desiderio, confortati perché anche questa volta abbiamo potuto constatare la riaffermata validità di taluni sentimenti umani che, come l’amicizia, la solidarietà, la dedizione, il sacrificio, illuminano la vita degli uomini, troppo spesso dominata invece dall’ambizione, dall’egoismo e dagli interessi). E’ sera a Gilgit, c’è buio: un suono lontano di pifferi e tamburi, una musica, ci raggiunge distogliendoci dai nostri discorsi. Guidati da un ragazzo, percorrendo strette viuzze e sentieri bui giungiamo in uno spiazzo fra basse casupole di sassi: un centinaio di persone fanno cerchio a tre suonatori (due tamburi ed un piffero) accovacciati presso un fuoco di sterpi. Assistiamo ad alcune danze locali, ballate a turno da due o tre uomini: sono danze spontanee, ma il loro significato ci sfugge purtroppo. Di tanto in tanto, approfittando di una pausa, i tamburi vengono posti vicino al fuoco per asciugare le pelli dal sudore delle mani che freneticamente li hanno percossi, e per ottenerne nuovamente quel suono secco, crepitante che dà il ritmo alla musica. Dopo un po’, qualcuno ci chiede di ballare e noi, cortesemente, rifiutiamo. Ancora insistono, e noi a schermirci


rispondendo che non conosciamo le loro danze. Alla fine per non apparire sgarbato a questa gente semplice, cedo alle loro insistenze e ballo cercando di imitare le strane movenze di uno di loro che danza il «murrani»: un putiferio di urla, battimani, fischi sottolinea la mia esibizione in questa specie di ballo dell’orso... Secondo il nostro programma dovevamo raggiungere Baltit in un solo giorno percorrendo i cento chilometri di distanza in jeep, per poi organizzare una carovana e risalire la valle di Hunza fino alla sua testata, ai confini con I’Afghanistan e la Cina. Così lasciammo Gilgit in un mattino piovoso, grigio e freddo, e ci infilammo nella valle di Hunza, una valle lunga oltre duecento chilometri, dominata da montagne altissime ghiacciate; il fiume Hunza, impetuoso e limaccioso (perché le sue acque sono sporche di limo glaciale), corre fra pareti rocciose, pendii morenici e detritici, banchi sabbiosi o di ciottoli alluvionali, in un paesaggio completamente arido: solo, ogni dieci o venti chilometri, si allarga un’oasi verdeggiante, dove la vegetazione è cresciuta per le opere irrigue create dagli abitanti stessi, che vivono nei poveri paesi nascosti nel verde dell’oasi, dediti all’agricoltura e alla pastorizia, uniche loro risorse di vita. Dopo una ventina di chilometri, però, dovemmo abbandonare i nostri automezzi a causa di una frana che aveva interrotto la rotabile. Questa strada, come le altre poche strade della zona montuosa, è fatta di sassi accatastati a secco sopra pendii, talvolta ripidissimi, spesso costituiti da materiale morenico o di rocce friabili ed allora, alla prima pioggia, le infiltrazioni d’acqua o la caduta di massi (un pericolo costante, anche col bel tempo) provocano inevitabilmente


delle frane. Attrezzata con corde e chiodi la parete rocciosa determinata dalla frana, accompagnai un portatore col suo carico nella traversata dopo averlo assicurato con un cordino. L’esperimento, ben riuscito del resto, non convinse gli altri uomini, che non avevano fiducia nei chiodi di assicurazione. Provvedemmo allora al trasporto dei bagagli mediante una teleferica montata con le corde e dopo molte ore, e molti sforzi, potemmo riprendere il cammino con una carovana di asini, procedendo a piedi, lentamente, passo passo, sulla strada che avremmo dovuto fare in jeep. A notte fonda ci arrestammo a Gwach e bivaccammo sotto un ponte in costruzione, in quegli unici metri quadrati pianeggianti, in una confusione indescrivibile di uomini, animali e cose, sotto la fredda e nera volta del cielo, punteggiata da una miriade di stelle, vicinissime. Dopo sole quattro ore di sosta, all’alba riprendemmo la marcia.


All’oasi di Chalt ci apparve la splendida piramide ghiacciata del Rakaposhi: lasciata a destra la strada per Nagar (“di qui - pensai - è passata la spedizione italiana che nel 1959 scalò il Kanjut Sar”), continuammo a risalire la valle dell’Hunza ed a sera, stanchi morti, giungemmo infine a Baltit. A Baltit (o Hunza, Karimabad attualmente, dopo la visita del nuovo Aga Khan, Principe Karim) fummo ospiti del Mir di Hunza nella sua nuova signorile residenza, ricca di preziosi tappeti orientali e di porcellane cinesi antiche, con le pareti tappezzate di fotografie dell’Aga Khan, della Begun, di Karim. Si respirava in quella casa un’atmosfera strana, esotica, sottilmente eccitante. Alla fine di ogni pranzo, camerieri in livrea con il dorato leone rampante sul petto, portavano ai commensali, per sciacquare le mani, vassoi d’argento con acqua e petali di rosa... Mohammed Jamal Khan, Mir di Hunxa, è il capo spirituale della valle di Hunza, essendo il fiduciario, nella regione, dell’Aga Khan. Questa setta religiosa, ismailitica, propugna l’adeguamento della religione musulmana al progresso della vita odierna: ad esempio, le donne non sono obbligate ad indossare il “ciadrì” (il lungo velo a campana che ne nasconde completamente la figura ed il volto) ed infatti in valle di Hunza esse portano un grazioso cappellino


ricamato ed un piccolo velo sul capo. Inoltre sì comincia a tollerare l’uso dell’alcool, proibito da Maometto ai suoi seguaci soprattutto a causa del clima caldo e secco dei paesi arabi: cosi, a Baltit, le viti che crescono nell’oasi forniscono “I’Hunza pani”, o acqua di Hunza, un vino bianco secco. Del resto, col freddo che fa di notte e durante tutto l’inverno in questa valle, un po’ di vino non può far male... Anche noi ne bevevamo, come aperitivo, quando nella grande veranda vetrata attendevamo l’ora di pranzo: il Mir ed i suoi familiari ci intrattenevano piacevolmente, si parlava molto di viaggi, del mondo civile occidentale. Il Mir è una persona colta, molto intelligente, che viaggia molto: allevato all’inglese, questo simpatico personaggio sembra un gentlemen in vacanza nella valle di Hunza. Ci faceva ascoltare dischi acquistati in Europa o in America ed io, per contraccambiare la sua squisita ospitalità, lo divertii ballando il twist, prima da solo e poi insegnandolo al Principe ereditario, fra la curiosità divertita delle figlie e della moglie, vestite nel caratteristico e magnifico costume della valle, pantaloni lunghi rimboccati alla caviglia, di seta colorata, vestito di broccato e candidi veli ricamati a mano in argento e oro. Nel Mir i sudditi riconoscono la più alta autorità terrena, dopo I’Aga Khan.


Del resto egli ha anche poteri civili (pur restando nell’ambito della Repubblica del Pakistan): una volta all’anno si reca in tutti i centri abitati della valle ed in pubbliche riunioni ascolta i problemi dei suoi sudditi e prende gli adeguati provvedimenti. Poi se ne va per le montagne, con i propri accompagnatori, a caccia di stambecchi, orsi, aquile. Allestita con l’aiuto del Mir una carovana dì cavalli, partimmo infine da Baltit per l’alta valle: sei giorni di carovana per percorrere cento chilometri, sei giorni per raggiungere Misgar. Lo stretto sentiero a continui ripidi saliscendi, cadute di sassi, frane. Il sassoso fondovalle, le distese di sabbia accecanti al sole, dove faticoso è il procedere con i piedi che sprofondano ad ogni passo nell’instabile terreno. Andavamo verso la Cina, lontani dal mondo, soli con noi stessi, intenti solo all’osservazione delle rocce: spesso, quando nelle ore più calde procedevo faticosamente lungo quegli estesi banchi di sabbia nel greto del fiume, pensavo a spiagge lontane, animate di gente chiassosa, felice di divertirsi. Allora mi chinavo a raccogliere un pugno di quella sabbia calda, fine, cantando malinconicamente le parole di quella canzone che dice di onde del mare, di un granello di sabbia: mi rispondeva solo lo scrosciare dell’Hunza. Poi le bufere di vento e sabbia. Notti trascorse in luride stanzette puzzolenti; notti in tenda. Albe gelide, in marcia sul greto grigio ed umido del fiume, col sole che sfiora le vette. Vette sempre più alte, sempre più bianche. Ercole Martina


Desio con il Mir di Hunza


Ercole nel giardino della casa del Mir di Hunza


Pakistan ‘62


Pakistan ‘62


“Da solo in tre ore di drammatica scalata conquistai la bianca piramide del Tehri Sar”

“Con i nervi a pezzi, senza la forza di pensare, svuotato di ogni energia raggiunsi la vetta” - Realizzata così la segreta speranza di vincere un «cinquemila» - L’arrivo a Misgar nel giorno della festa del raccolto - Una partita a polo giocata al suono di pifferi e tamburi - Le ultime ricerche nell’alta valle di Hunza e il rientro a Gilgit


Mercoledì 9 gennaio 1963

NEL KARAKORUM CON LA SPEDlZIONE DESIO MISGAR è un piccolo centro abitato situato a 3100 metri nell’alto bacino dell’Hunza là dove il fiume Kilik, che scende in territorio pakistano dall’omonimo Passo sul confine cinese, riceve da sinistra un affluente che percorre la valle di Barah. Pochi chilometri a monte del paese c’è l’ultimo posto militare, situato alla confluenza di due vallette che in pochi chilometri portano ai confini con l’Afganistan e la Cina: più avanti di qui non è possibile spingersi, si potrebbe incontrare qualche pattuglia... Avvicinandoci all’oasi di Misgar, quel pomeriggio, sentiamo della musica: poi, giunti al villaggio, vediamo un insolito movimento dì gente, donne in costumi variopinti, bambini che corrono per le stradette sassose. Si celebra la festa del raccolto, come ogni anno la prima settimana di agosto. Nel meriggio incerto e freddo, dal palco delle autorità (quante presentazioni, strette di mano, sorrisi, “salam”!) assistiamo ad una partita di polo a cavallo, in una cornice di pubblico festante: tutto intorno, alte montagne incappucciate da nubi minacciose. Cavalli magnifici, scatti improvvisi, cavalieri dalle casacche colorate, galoppi sfrenati sul terreno ineguale, urla. Ad ogni punto segnato da una squadra, scritto su di una lavagna ben visibile, i tamburi ed il piffero attaccano a suonare. Il gioco è avvincente, non per niente i pakistani, da cinque anni,


sono i campioni del mondo in questo sport. Frustate, froge frementi. Scontri violenti ma corretti, mazze che si spezzano... Un violento acquazzone interrompe lo spettacolo. Il mattino del 9 agosto, quando con il Prof, Desio lasciai Misgar alle 6, avevo un progetto preciso e cioè di salire quella vetta ghiacciata situata sul versante sinistro della valle di Barah, 500 metri più a nord del roccioso Tehri Sar, quotato 16503 piedi (5033 metri) sulla carta del Survey of Pakistan. Già il giorno precedente ero salito fino a 4300 metri in quella valle deserta e vi avevo individuato alcune belle cime, ma ero ritornato deluso essendomi reso conto che, per vincere un «seimila» (ero partito dall’Italia con questa segreta speranza) occorrevano non meno di tre giorni, mentre io non potevo rubare tanto tempo alle nostre ricerche. A quota 4000 ci separammo: mentre il Prof. Desio doveva risalire fino alla testata della valle, io presi a salire, da solo, per morene, verso la mia montagna, una piramide bianca con un roccioso corno sotto la vetta. A quota 4170 raggiunsi la fronte del ghiacciaio che occupa la vasta conca sotto la montagna: ghiaccio vivo, scoperto, qualche crepaccio. Tenendomi sul suo margine meridionale raggiunsi quota 4350: erano le 10. Sopra di me stava l’alto versante nord-ovest del monte: al centro e a sinistra tre seraccate sospese,


a destra una serie di canali nevosi e costole di roccia e neve che scendevano dalla cresta occidentale, orlata di cornici. Risalito faticosamente un pendio di fini detriti, mi infilai in un canalone, ma un po’ per l’ora tarda, un po’ per la stagione avanzata e un po’ per le nevicate dei giorni precedenti, la neve era alta e marcia, il ghiaccio troppo duro, nero. Piegai allora a destra pochi metri e cominciai a rimontare uno sperone su rocce poco sicure e infidi tratti nevosi: salivo con fatica, fermandomi ogni dieci metri per riprendere fiato, cominciavo a ‘sentire la quota’. Due salti rocciosi di pochi metri, leggermente strapiombanti, mi impegnarono alquanto: era difficile attaccare la roccia partendo da un pendio di neve marcia, poi la roccia era liscia, bagnata, fredda, non potevo tener su i guanti se volevo sentire bene gli appigli più minuti. Poi la roccia finiva in un altro pendio nevoso ed era coperta di vetrato. Così sbucai sotto un ultimo ripido bianco pendio, alto 30 metri, che metteva in cresta: poche dita di neve marcia sopra il ghiaccio vivo, senza una sola roccia affiorante. A sinistra vedevo la vetta, circondata da nubi nere. Metro per metro, un po’ piccozzando, un po’ aiutandomi coi ramponi, trattenendo il respiro nel timore di compromettere il mio equilibrio così precario, raggiunsi la cresta


La piramide ghiacciata della punta settentrionale (m 5.050) del Tehri Sar, scalata per la prima volta da Ercole Martina.


Avevo i nervi a pezzi, il mio pensiero era fisso a quegli ultimi 50 metri: ero preoccupato seriamente per la discesa. Ed ero stanco. Ero però quasi a 5000 metri e la cresta si presentava facile, di roccette con tratti nevosi e cornici. Il tempo però si stava guastando, il sole era ormai scomparso e tirava un forte vento da sud: freddo e umido. Un passo dietro l’altro, fermandomi ogni cinque passi per riprendere fiato appoggiandomi alla piccozza (ed ogni inspirazione era un dolore fitto qui ai polmoni), sulle rocce facili, fra i sassi scuri, sprofondando nella neve, svuotato di ogni energia, senza la forza di pensare, raggiunsi improvvisamente la vetta. Erano le 13,15. Ormai nevicava, le alte montagne, intorno, erano grigie, il cielo minaccioso: solo verso sud c’era uno squarcio d’azzurro, là dove splendevano i ghiacci del Batura. Tirai fuori dal sacco le bandierine d’Italia e del Pakistan, scattai qualche foto, presi degli appunti di geologia. Terminato lo sforzo della salita cominciavo a sentir freddo: mi coprii con tutti gli indumenti che avevo con me, diedi un’occhiata ancora al panorama, maestoso anche per le nuvole che minacciose gravavano nel cielo grigio. Il Tehri Sar era più basso di qualche decina di metri, questa punta che avevo scalato doveva superare 5050 metri, ma non potevo fare assegnamento sull’indicazione dell’altimetro a causa del maltempo (e quindi con la pressione in variazione). Ora nevicava fitto, le nebbie invadevano la cresta da me percorsa: rinunciando a scattare delle foto a colori (avrei dovuto prima cambiare il rotolo che avevo nella Leica), preferii iniziare subito la discesa per


portarmi il più presto possibile più in basso. Sentii di andare molto meglio che non in salita, riacquistai lucidità dopo il torpore che mi aveva annebbiato le idee e i riflessi: aggirati quei brutti 50 metri con una traversata più a sinistra, mi portai rapidamente sotto le difficoltà. Tranquillizzato, continuai la discesa per lo sperone di roccia e neve; qui giù pioveva e le montagne erano tutte scomparse nella nuvolaglia. In quella grigia solitudine, con lunghe scivolate sulla neve, correndo sui fini detriti, inciampando per la morena, raggiunsi il fondovalle a quota 4800. Sotto l’acqua scrosciante il Prof. Desio mi attendeva all’appuntamento, un poco preoccupato per il maltempo e per il mio ritardo: la sua stretta di mano, là sotto la pioggia battente, fu per me il più ambito riconoscimento alla mia impresa. La sera stessa eravamo di ritorno a Misgar. Il maltempo continuò per alcuni giorni: l’aria fresca mi facilitò il recupero delle energie spese in quella giornata di scalata. E ci ricongiungemmo, a Mor Khun, con Galimbertì che era rimasto in zona per alcune ricerche stratigrafiche. Quindi ci separammo nuovamente, lo avremmo raggiunto a Baltìt per il ritorno, mentre noi ci dirigemmo nella valle di Chapursan, verso il confine con l’Afghanistan. Il giorno di Ferragosto, lasciata la mia tenda presso uno spiazzo coltivato a papaveri, turgidi come tulipani e dalle


grosse bacche colme di oppio, da Raminj iniziai a risalire la Valle di Lupghar, appena a nord del gruppo del Batura. Una valle selvaggia, circondata da ardite vette dolomitiche gialle, grigie e rosse; la marcia, dapprima comoda, sul bordo pianeggiante di un canale per irrigazione, si fece particolarmente faticosa. Il mio portatore mi precedeva ed io seguivo intento nel mio lavoro: detriti franosi, morene instabili, tratti rocciosi, pendii coperti da pini mughi. Oppure si doveva risalire nel greto del fiume, guadarne qualche tratto incassato fra alte pareti rocciose nell’acqua gelida e limacciosa. E avanti, ogni passo si saliva 20 centimetri, in quella valle aspra ma comunque pittoresca: il sole bruciava, ed io sentivo che era Ferragosto, ma non per me, solo in un mondo lontano. Più in alto seguimmo una traccia che traversava in continui interminabili saliscendi alcuni ripidissimi e instabili pendii morenici: bisognava procedere velocemente, danzando quasi, con piccoli rapidi passi, poggiando i piedi sui sassi sporgenti dal limo glaciale. Sotto, cinquanta metri sotto, rombava il fiume minaccioso, nella forra larga appena pochi metri, come in una condotta forzata. L’occhio fisso due metri innanzi, le gambe elastiche, i riflessi pronti: guai ad esercitare col piede una pressione troppo forte, guai a non toglierlo prontamente dal sasso che si muove e scattare innanzi! Dietro, si sentiva un rotolare continuo, ovattato nel limo polveroso, ed i tonfi sordi nell’acqua. Superati i 4000 metri, giungemmo in una specie di altipiano che costituisce la testata della valle: quella notte bivaccammo a


Lupghar, in un ricovero per pastori, una bassa costruzione di sassi circolare, con un focolare di pietre squadrate. Freddo intenso, aria ferma, luce di plenilunio sulle montagne nitide, splendenti di neve. Silenzio intorno: era Ferragosto... Avevamo così ultimato le nostre ricerche nella alta valle di Hunza, ed iniziammo il viaggio dì ritorno a marce forzate, due tappe al giorno. Ci si metteva in cammino alle sei del mattino e si giungeva a destinazione alle sei di sera, con una breve sosta di un’ora per la colazione nostra e dei cavalli. Presso Gulmit, al guado del corso d’acqua che esce dal ghiacciaio di Ghulkin, raggiungemmo Galimberti che procedeva con la sua carovana verso Baltit. Quella sera, giungendo a Saret, vidi il punto dove nel 1954 perse la vita Heckler, topografo della spedizione tedesca al Batura: il sentiero qui tagliava una parete rocciosa a picco sulle acque del Fiume Hunza... Il giorno successivo, a bordo di due jeep, ci mettemmo in strada per Gilgit: il viaggio, su quella strada tracciata arditamente sui fianchi dirupati della valle, fu alquanto emozionante. Comodamente seduti, vedemmo passare quelle località che, un mese prima, avevamo attraversato procedendo faticosamente a piedi. A Nomal vedemmo le tombe, ancora fresche, dei quattro uomini precipitati


nel fiume con una jeep pochi giorni prima. Transitammo poi nel punto in cui la frana, nel viaggio di andata, ci aveva arrestato: la strada era stata ripristinata, scavandone trenta metri nella roccia a picco. Così, dopo solo 7 ore, entravamo in Gilgit. L’indomani mattina, all’aeroporto, assistemmo all’arrivo del nuovo Political Agent del Distretto di Gilgit (una importante carica paragonabile a quella di un nostro Prefetto): fu accolto con tutti gli onori dalle Autorità politiche e militari della zona, mentre una banda suonava un inno di netta derivazione scozzese. Quindi prendemmo il volo per Rawalpindi, dove giungemmo verso le tredici: abituati al clima secco, caldo e freddo delle alte contrade di Hunza, sentimmo ancora di più il caldo umido della piana. Trascorso il pomeriggio nell’acquisto dei soliti oggetti-ricordo (i tappeti pakistani, però, non sono così belli e pregiati come quelli afghani e, soprattutto, quelli persiani), cenammo la sera insieme all’ambasciatore del Cile, in amabile conversazione. Così, dopo questa breve parentesi cittadina, il mattino successivo, salutato Galimberti che terminata la propria missione doveva rientrare in Italia, alle prime luci dell’alba mi recai nuovamente all’aeroporto con il Prof. Desio: iniziava ora la seconda fase della nostra spedizione in Pakistan. Ercole Martina


Ercole stremato dopo la salita del Tehri Sar


Pakistan ‘62


Mercoledì 29 Agosto 1962


“L’Eco di Bergamo”

Sabato 8 Settembre 1962

Sabato 11 Settembre 1962


L’anno prossimo i pakistani tenteranno di ripetere l’impresa italiana sul K2

Ma sarà praticamente impossibile per essi raggiungere la meta Mancano di alpinisti di punta, di equipaggiamenti e di mezzi - A Skardu la scalata di Compagnoni, Bonatti e compagni sfuma ormai nella leggenda - Scampato per miracolo alle sabbie mobili - L’arrivo a Linate dopo una settimana di viaggio


Venerdì 11 gennaio 1963

NEL KARAKORUM CON LA SPEDlZIONE DESIO SUL cargo in volo verso Skardu erano stati sistemati solo due sedili, uno per il prof. Desio ed uno per me. Era un mattino limpidissimo, con una visibilità eccezionale secondo gli stessi piloti dell’aereo, e il sole nascente illuminava montagne, solo montagne, montagne a perdita d’occhio, montagne dell’Himalaia e del Karakorum. Passammo sotto il versante orientale del Nanga Parbat, una altissima muraglia ghiacciata sfolgorante di luce, con paurose seraccate, crestine affilate, canaloni vertiginosi: e la vetta lassù nell’azzurro, altissima. Dalla cabina di pilotaggio vedemmo altre montagne dinanzi a noi: là in fondo ecco una grande piramide isolata, superba, il K2, e più a destra una duplice gobba e un’altra piramide slanciata, il Broad Peak ed il Gasherbrum IV…. Sollevando una densa nuvola di polvere giallastra, l’aereo posa le ruote sulla pista naturale di fango secco (un vecchio fondo di lago): siamo a Skardu. Qui all’aeroporto incontriamo i tedeschi reduci da una spedizione scientifica al Ghiacciaio del Biajo ed i giapponesi che hanno vinto il Saltoro Kangri; parlo con Hirai, lo stesso che nel 1958 scalò il Chogolisa (la montagna del Baltoro dove scomparve Hermann Buhl, travolto dal crollo di una cornice), ed egli mi chiede le mie impressioni sul Batura…


A bordo di un camion, raggiungiamo l’abitato, situato su di un grande terrazzo dominante la confluenza dell’lndo con il fiume Shigar, a 2300 metri di quota. A Skardu si sente nell’aria l’atmosfera delle grandi spedizioni, si vedono cassette per i materiali salite chissà fin dove su per le montagne dopo essere arrivate qui da qualche parte del mondo, poi abbandonate ed ora utilizzate dagli indigeni per le loro mercanzie. Copricapi di ogni foggia che contrastano con il “tòpi” e la “coppola” di Shigar, berretti di lana caratteristici del Baltistan, simili ai nostri passamontagna; giacche a vento, scarponi d’alta montagna, distintivi, occhiali da ghiaccio, basti in alluminio per il trasporto a spalle dei carichi. Portatori d’alta quota si presentano per essere ingaggiati esibendo certificati di buona condotta rilasciati, in lingue diverse, dai vari capi spedizione. La gente qui vive nel ricordo di queste spedizioni, in attesa di nuove: per Skardu, per la sua gente, è lavoro, moneta, avventura... Ma sopra tutte, aleggia il ricordo della vittoriosa spedizione italiana al K2. Me ne sono reso conto vedendo le accoglienze amichevoli riservate qui al prof. Desio, la spontaneità degli incontri con i vecchi portatori e collaboratori. Parlando con quelli che presero parte all’impresa, si sente nelle loro parole un legittimo senso d’orgoglio, affiorano nomi di amici: Bonatti, Compagnoni,


Rey, Mahdi… Il K2 è la seconda montagna del mondo, la più alta cima del Pakistan, la sua conquista è divenuta ormai quasi una leggenda: i balti sono figli della montagna e sentono tutto questo, ti dicono anche che il K2 “è più difficile dell’Everest”. E non mi ha stupito quindi la notizia che nel 1964 ne tenteranno la scalata, anche se scarse mi sembrano le loro possibilità di riuscita: i pakistani infatti mancano di fortissimi alpinisti che possano costituire gli uomini di punta, inoltre mancano degli adeguati mezzi finanziari (occorrono circa cento milioni di lire per una spedizione del genere) e anche dei necessari materiali di equipaggiamento (per procurarsi i quali dovranno rivolgersi ai giapponesi, ai tedeschi, francesi, inglesi, svizzeri, italiani e americani). Con l’aiuto del Political Agent di Skardu e di Sadiq che fu capo carovana durante la spedizione italiana del 1954, fu predisposta ogni cosa per il nostro viaggio: così ci incamminammo in un mattino luminoso per la strada polverosa, incontrando bambini che si recavano a scuola. A tracolla portavano una piccola lavagna, quaderno di pietra che si tramanda nelle famiglie da tempi abbastanza remoti. Scendemmo sulla riva dell’Indo, che traghettammo servendoci del vecchio barcone piatto guidato da una specie di Caronte barbuto e lacero, dallo sguardo metallico. Di là del fiume, la marcia su di una distesa di sassi roventi, e poi la marcia faticosa attraverso un deserto di sabbia di alcuni chilometri, in un paesaggio inaspettato per chi, come me, si vedeva già fra le grandissime montagne. Ci accompagnava un simpatico capitano dei Northern Scouts, come ufficiale di collegamento.


Karachi - Due bambine si recano con le idrie alla fontana per approvvigionarsi d’acqua.


Camminando, ci parlò di una curiosa usanza locale, basata sulla comune credenza che sulle montagne esistano ghiacciai maschi e ghiacciai femmina: così i contadini di Skardu, per favorire la crescita delle proprie colture, dopo la semina si recano su di un ghiacciaio ritenuto di sesso maschile, ne prelevano alcuni blocchi che poi portano su di un ghiacciaio femmina per gettarli nei crepacci. Compiuto questo atto di fecondazione, i contadini irrigano i propri campi con le acque provenienti dalla fusione del ghiacciaio femmina fecondato, convinti di poter ottenere raccolti migliori... Nel pomeriggio giungemmo a Shigar, in una delle più belle oasi di tutto il Baltistan, ricchissima di vegetazione, in una valle ampia e soleggiata, dominata dalla cupola ghiacciata del Koser Gunge (5400 metri), con la bella moschea ricca di legni nobilmente lavorati, forse una antica pagoda di tipo tibetano, adattata a tempio per i maomettani. Riprendemmo la marcia il mattino successivo attraversando numerose oasi che si susseguono, ravvicinate sui due fianchi della valle, separate dallo scorrere maestoso del fiume Shigar. A Koshumal ci separammo: il professor Desio, con il capitano e una parte della carovana, traghettarono il fiume per portarsi nella valle del Basha e risalirla fino al ghiacciaio Arandu. lo invece proseguii con i miei sette uomini (sei portatori ed un capo carovana) per portarmi nella valle del Baltoro. Quella notte pernottai ad Yuno, in una caratteristica costruzione di legno con pareti di rami intrecciati e il mattino successivo, traghettato il fiume Shigar su di uno « zak », presi ad attraversare con la mia


Uno « zak », caratteristica zattera per il traghetto e la navigazione sui fiumi del Baltistan.


carovana un lungo tratto sassoso, sabbioso, con radure di erbe alte come un uomo, piccoli corsi d’acqua, incontrando povere capanne di pastori, fino a raggiungere uno sperone roccioso alla confluenza del Basha con il Braldu: una faticosissima marcia di parecchie ore per percorrere pochi chilometri, necessaria per l’impossibilità di traghettare più a monte il fiume. Raggiunto il roccioso fianco della valle, si dovette percorrere un tratto di sentiero piuttosto difficile, con veri e propri tratti di arrampicata, in traversate a picco sulle acque minacciose del fiume. Quel mattino proprio le ore trascorrevano velocemente senza un apprezzabile progredire del nostro cammino. Dopo circa due ore di pericolosa ginnastica sulle rocce, scendemmo sul greto del Braldu, in uno dei pochi tratti percorribili. Distese di sabbia succedevano a campi sassosi. Ad un certo punto, mentre procedevo su di un banco di sabbia bagnata costeggiante il fiume, mi sentii sprofondare fino al ginocchio in una melma inconsistente: Puchtum Ali, il capo carovana che mi seguiva a poca distanza, fu lesto ad aiutarmi a trarmi dal pericolo. Ero capitato in un banco di sabbie mobili, roba che mi ricordavo d’aver letto, ragazzo, nei libri di Salgari! Quella sera, dopo una giornata interminabile ed abbastanza ricca di emozioni, giungemmo a Dassu una delle tappe fisse per i portatori locali sulla strada per il Baltoro. I portatori infatti vengono pagati a “parao”, cioè a tappe di circa 20-25 chilometri, che terminano ogni volta in un villaggio che possa dare loro asilo e cibo. Tramite il ”lambardar” (capo villaggio) di Dassu, esprimendomi col mio rudimentale “urdù” e a gesti, inviai al “lambardar” di Yuno un uomo con questo


messaggio verbale: “Il mattino del quinto giorno lo zak (zattera) deve trovarsi a Marecha (dove finiscono le rapide e dove quindi il fiume Shigar diventa navigabile per queste caratteristiche zattere)”. Intendevo in tal modo recuperare, nel viaggio di ritorno, due giorni di marcia per raggiungere Skardu in tempo utile per prendere l’aereo che il 2 settembre ci avrebbe portato a Rawalpindi (tempo permettendo). Finalmente, dopo quattro giornate di cammino, giunsi a Chapkò, un povero villaggio situato a 2800 metri nella valle del Braldu: la solita oasi con le piante di albicocche, le solite case sporche e puzzolenti, la gente malata, generalmente con gozzo, forse la più squallida località che io abbia mai visitato. Dopo una notte di pioggia, durante la quale la neve era caduta fino a 4000 metri, il mattino appresso abbandonai la valle principale per risalire la valle di Hoh Lumba, con soli cinque uomini, i più forti. Con mia grande sorpresa, a differenza del solito paesaggio riarso, questa valle dopo la forra iniziale divenne verdeggiante, né più né meno come una delle nostre vallate alpine: si vedevano anche camosci, stambecchi e le tracce del passaggio di qualche orso. Soltanto la presenza del bue muschiato (lo yak) e dei miei uomini che parlavano solo urdù, mi ricordavano di essere invece nel Karakorum.


Ed anche la temperatura rigidissima, che di notte scendeva molti gradi sotto lo zero. A 4100 metri raggiunsi la confluenza di cinque grandi ghiacciai: il Chongananmuno, l’Hoh Lungma, lo Tsitbu ed il Tongo si gettavano nel ghiacciaio principale, il Sosbun. Intorno alte montagne, tutte superiori ai 5000 metri, tre delle quali, il Ghur, il Ganchen ed il Sosbun Brakk, splendide ed inviolate. Compiuti i miei studi in questo alto bacino ghiacciato sconosciuto, ripresi la via del ritorno: ero in ritardo di due giorni sul programma stabilito in precedenza col prof. Desio e l’unica possibilità per ricuperare era legata al messaggio che avevo inviato a Yuno per predisporre lo zak... Quel mattino piovoso, quando arrivando a Marecha vidi sopraggiungere da Yuno gli uomini con lo “zak”, tirai un sospiro di sollievo: ero riuscito a farmi capire e, quel che più contava. l’ordine era stato eseguito. Così, puntualmente, il 2 settembre, favoriti dal bel tempo, partimmo dall’aeroporto di Skardu: salutai per l’ultima volta la piana desertica, l’Indo, l’Haramosh, il Nanga Parbat, e tornammo a Rawalpindi, nella pianura afosa fuori dalla vista dei monti. Il mattino successivo partii col “Tezgam” diretto a Karachi, per portarvi il materiale della spedizione: un viaggio di 25 ore attraverso il Pakistan, dai piedi delle montagne fino al mare. Una rapida corsa attraverso 1500 chilometri di paesaggi diversi, di pianura. Dapprima un verde intenso, con lievi ondulazioni collinari dal fondo argilloso rossastro, buoi gobbuti al pascolo, magre vacche lungo la massicciata ferroviaria, bufali sguazzanti nelle pozze


melmose. Rare stazioni ferroviarie, fiumi rossi straripanti di gente al bagno, pescatori con la bilancia nei bassi fondali. Man mano si scende verso il mare, la vegetazione si fa più ricca, gli alberi più alti, magnolie gigantesche, banani, fichi d’India; gli uomini ora sono vestiti con lunghe sottane, a torso nudo, uno straccio in testa: costumi di tipo indiano. Si passa per Lahore, la vecchia capitale, ricca di monumenti e giardini lussureggianti. Sotto la pensilina della stazione c’è una confusione indescrivibile: gente che va e che viene, che si saluta con grande effusione, occhiate significative, cenni della mano. I facchini accucciati in tante file, vestiti nel caratteristico costume costituito da una camicia rossa sopra i pantaloni bianchi. Chioschi di frutta magnifica, banane, ananas, mango, papaia, colori vivi e sani. A Lahore, nel mio scompartimento entra un deputato diretto alla capitale: ci facciamo compagnia parlando dell’Italia, del Pakistan. La sua preoccupazione maggiore sembra quella di mostrarmi tutte le opere recenti, parlarmi delle industrie che ora stanno nascendo, dei grandi progressi che certamente compirà il Pakistan nei prossimi anni. Più innanzi il paesaggio è perfettamente piatto ma più secco, un monotono susseguirsi di magre steppe con bassi cespugli, rare case di fango, nubi di cavallette. Ad Hyderabad il secondo centro industriale del paese dopo la capitale, si attraversa l’lndo, enorme, rosso, percorso da giunche e battelli. Intorno, ora, c’è solo deserto, deserto stepposo, disabitato. Poi comincia la periferia industriale,


un forte contrasto di palazzine e capannoni moderni fianco a fianco con misere casupole di fango e paglia. Entra nello scompartimento un controllore delle Ferrovie, resta con noi a chiacchierare. Quindi pesa ad occhio il mio bagaglio personale (due valigie), mi fa pagare l’eccedenza di 14 chili, e se ne va dopo aver ossequiato l’onorevole pakistano e senza degnare d’uno sguardo il suo bagaglio. A Karachi mi debbo occupare delle pratiche doganali per la spedizione del bagaglio in Italia, appoggiandomi alla nostra Ambasciata ed al Lloyd Triestino, far recapitare il tutto allo spedizioniere, fare in modo che l’imbarco avvenga regolarmente e puntualmente sulla motonave “Asia” diretta a Genova. Per fortuna arriva il prof. Desio, che grazie alle sue conoscenze personali riesce ad accelerare il corso delle numerose pratiche: così termina la mia missione, sono libero di rientrare in Italia. A Karachi, libero di partire, di scegliermi la rotta del viaggio. Parto di notte, su di un jet diretto al Cairo: il Nilo, le piramidi, la Sfinge, le moschee della città vecchia. Poi Atene, i suoi monumenti ellenici, l’Acropoli. il mare del Pireo nella tiepida notte mediterranea. Poi, ad una settimana dalla mia partenza da Skardu, ai confini del mondo civile, l’aereo mi scarica sulla pista assolata e deserta di Linate: solo, come quando partii. E come il giorno, vicino e pure lontano, di quella mia partenza per l’Asia, anche oggi è domenica, una bella domenica di sole, malinconica e dolce. Ercole Martina






Mappa geologica del K2 regalata da Ardito Desio a “Dr. E. Martina compagno di spedizioni”




Nel 64, sempre con l’Università di Milano, ha la possibilità di partecipare a una spedizione scientifica invernale nelle sue amate montagne: al Lago del Barbellino. Anche questa ‘fa rumore’ per la sua novità e viene ripresa dai giornali, in particolare l’Eco di Bergamo è tra gli sponsor. Ancora dopo 30 anni, a firma del suo amico Franco Rho, compare sul giornale un articolo sintetico sulla spedizione. Era l’occasione di mettere in campo la sua competenza geologica, ma anche di godere di un’altra prima salita invernale, oltre che di quelle compagnie uniche che si stringono quando si compartecipa in un’impresa e in condizioni difficili. Per esempio ricordava sempre le risate che si erano fatti quando uno di loro camminando sul ghiaccio è improvvisamente sprofondato nel lago (a meno 15°…). Poi si sono precipitati a salvarlo, ovvio, e tutto è finito bene….










SPEDIZIONI/ OLTRE 30 ANNI FA, IN PIENO INVERNO, CON «L’ECO Dl BERGAMO» UNA CAMPAGNA Dl RICERCHE NEI LAGHETTI DELL’ALTO SERIO

Sotto il ghiaccio del Barbellino

Neve e gelo, ma anche a -2Ogradi le acque del bacino artificiale erano risultate piene di vita


Barbellino 1996 - 14 luglio 1996 Il 1° febbraio 1964, una spedizione scientifica raggiunse la zona del Barbellino, nell’alto Serio, per una campagna di ricerche nelle acque del bacino artificiale, in quelle dei laghetti dei Corni Neri e in uno dei laghi della Val Cerviera. Era la seconda spedizione di tal genere (la prima, nell’inverno 1963, era stata una prova generale) organizzata da “L’Eco di Bergamo”, dall’Istituto di Zoologia dell’Università di Milano, dal Club Alpino di Lovere. Numerosi sponsor, pubblici e privati, avevano reso possibile l’iniziativa con la loro partecipazione, mentre il CAI di Bergamo aveva concesso l’uso del Rifugio Barbellino, intitolato ad Antonio Curò, 1915 di quota. Quel giorno di febbraio, alte pressioni, temperatura sui 20 sotto lo zero, il sole splendeva sulle nevi e i ghiacci delle Alpi Bergamasche, ma il vento forte da Nord, mentre da una parte annunciava condizioni meteorologiche favorevoli per qualche tempo, dall’altra disturbava non poco il trasporto di 30 casse con apparecchiature scientifiche, equipaggiamento, viveri, medicinali; l’attrezzatura scientifica, tra cui microscopi, termometri, igrometri, contenitori speciali di vetro destinati al prelievo del plancton, delle acque e delle nevi, esigeva la massima delicatezza su un terreno che l’inverno rendeva alquanto aspro.




Ostacoli presentava in particolare l’alto strato di neve ventata su tutti i passaggi e su tutte le pareti che fanno da corona alla splendida conca: dal Redorta al Coca, dal Diavolo di Malgina alle Cime di Caronella, dal Torena al Recastello. La neve dunque non «teneva» e si faticava alquanto, sebbene un aiuto notevole fosse volontariamente portato, alla spedizione, dal personale dell’Enel Orobia e dalla stessa società che aveva concesso l’uso del piano inclinato dei Dossi per le casse degli strumenti più delicati. Gli uomini delle dighe si trasformavano per un giorno in autentici sherpa. *** La sera dello stesso 1° febbraio il campo-base era installato nel rifugio. Sistemato e controllato l’equipaggiamento (era tutto a posto, niente di rotto), la minestra fumava davanti ai membri della spedizione e cioè: prof. Antonio Valle direttore del Civico Museo di Bergamo e il suo assistente signor Riccardo Bianchi, il geologo dottor Ercole Martina, le dottoresse Emma Pajetta e Clara Samuelli dell’Istituto di Geologia milanese diretto dal prof. Silvio Ranzi, il glaciologo dottor Dino Cantù di Applied Research Laboratories Inc. Spectrochemical Equipement di Los Angeles e il geom. Marcello Frattini dell’Istituto idrografico del Po. Il sottoscritto, responsabile della spedizione, aveva chiamato a operare, per la sicurezza dei ricercatori, il forte scalatore Battista Pezzini del CAI Lovere e due guide alpine di elevata esperienza: Placido Piantoni e Carlo Nembrini. Una precauzione necessaria, quella delle guide, poiché il terreno del Barbellino è particolarmente


esposto alle slavine, tutt’altro che elementare come lo è invece d’estate. Lo stesso Martina, scalatore dall’ottimo carnet, avrebbe dato una mano per assicurare i meno esperti che infatti operarono in perfetta tranquillità durante i dieci giorni della spedizione, con un solo modesto incidente: un bagno fuori stagione del signor Bianchi alla confluenza del Serio nel lago artificiale. *** Dato il gelo intenso (le temperature, durante il giorno, oscillavano fra i meno 15 e i meno 30) data appunto la neve ventata, le ricerche si svolgevano in un ambiente non del tutto cordiale, ma l’amor di scienza induceva anche chi non aveva mai fatto montagna ad accettare con animo leggero e spesso con allegria ogni disagio. Il sottoscritto aveva spedito le due guide e il Pezzini a “tagliare” le slavine sotto le propaggini del Recastello e un cataclisma si era infatti scatenato rotolando, fra la polvere di neve che si sollevava, enormi blocchi di ghiaccio fino alle rive del lago Barbellino; questo lavoro di pulizia durò una mezza giornata, ma eliminò ogni pericolo: dunque ci si poteva muovere senza timori di cattive sorprese. Era adesso possibile bucare, con una lancia di bronzo, lo strato glaciale sugli 80 centimetri che copriva l’acqua; attraverso il foro,


Valle e compagnia calavano specie di nasse in tela, ritirandole colme d’acqua immediatamente travasata nei contenitori speciali. Erano acque vive di plancton sulle quali, la sera in rifugio, veniva compiuto un primo esame: cladoceri, ostracodi, copecodi, ditteri, coleotteri e altro. Il professor Valle, già operante nella spedizione dell’anno precedente, ritrovava i suoi microscopici «amici» e gongolava contandone più di quanti ne avesse visto nel 1963. Valle diceva: “Il Barbellino pullula di vita e, pensate, annuncia già certi segnali della primavera”. Con 20 gradi sotto lo zero e nel pieno inverno delle montagne credevo a Valle perché credere agli scienziati è un dovere: loro sanno, noi non sappiamo. Le due assistenti frattanto occhieggiavano nei microscopi, felici di vedere tutto quel fervore di vita ittiologica, creature di varia foggia che si agitavano in acqua. L’esame definitivo all’Istituto di zoologia, avrebbe compiuto lo studio, accertando pure la presenza di un copecodo sconosciuto al quale, nella pubblicazione seguita agli esami, l’Istituto affibbiò il nome in latino del sottoscritto. Un onore che il prof. Ranzi mi concedeva; ed era una specie di onorificenza. Anche se, vedendo quel copecodo con il mio nome, vedendolo


così brutto ebbi qualche esitazione nel montarmi la testa. Si raccoglievano anche terriccio, ghiaccio e neve richiesti dall’Università di Parma e il geom. Frattini procedeva alla bisogna insieme al geologo Martina; lo stesso Frattini era sempre chino su un quaderno a trascrivere temperature, pressione barometrica, velocità del vento e quant’altro ho dimenticato. Ogni sera, Valle, il più entusiasta, più volte trattenuto dalla corda delle guide mentre scivolava tra le risa di tutti (lassù l’allegria non mancò mai data la piena fraternizzazione dei convenuti), aveva la sua gioia particolare; la più grande fu quando, alla fine, contò 30 acari contro i soli 8 dell’anno precedente. «La microfauna acquatica è ovunque ricchissima - diceva senza staccare gli occhi dai vetrini - e Ranzi ne sarà contento». Due campi con una tendina avevo fatto installare al colletto del Gleno (m. 2852) per la raccolta di neve e di ghiacci sulla sottostante vedretta del Trobio; un’altra tenda servì per i sondaggi ai laghetti dei Corni Neri (m. 2122); una terza, infine, l’avevo piantata presso tre laghetti della Val Cerviera (m. 2321) sull’opposto versante meridionale del Recastello.




Microscopio, termometri, igrometri e la grande lancia di bronzo funzionavano a pieno ritmo, mentre il vento sembrava non cessare mai, portandosi in giro nubi di neve che, depositandosi, rendevano impossibile non affondare spesso fino alle cosce; per cui gli spostamenti affaticavano non poco, sebbene gli scienziati, presi dalla loro febbre degli acari, resistevano quasi «eroicamente» fino a sera, quando, dopo cena, ricominciavano a lavorare sugli strumenti. *** Nonostante le condizioni delle montagne impastate di neve dal vento, la spedizione riportò anche due prime alpinistiche: Martina e Nembrini la prima invernale della cresta Nord-Ovest dell’anticima orientale del Recastello; Pezzini e Piantoni la prima invernale alla parete Est del Recastello, aperta nell’estate del 1911 da Fasana e Mariani e probabilmente mai più da allora percorsa da arrampicatori. Tutto al meglio, dunque: buoni risultati per la conoscenza delle acque alpine, nessuno strumento guastato, nessun incidente, programma scientifico completato, soddisfazione delle signorine e dei signori di scienza; e il più effervescente, come al solito,


era Antonio Valle che si esprimeva con tutto il proprio carattere parmense; anche la notte in cui dovemmo dormire in quattro, ai laghetti di Val Cerviera, in una tendina da due persone: Valle non dormì e noi nemmeno; noi imprecammo e lui rideva, contento anche di questo inconveniente che ci vide con le ossa rotte al mattino. Ercole Martina scese un giorno prima degli altri a Valbondione dove esaminò i massi pericolanti sopra la frazione Torre; ne preparò una relazione che in seguito offrì al Comune. Dieci giorni erano trascorsi, al dire dei componenti del gruppo, anche troppo presto: nonostante il gelo e il vento, non una sola nube s’era affacciata al cielo del Barbellino e le splendide giornate determinarono una generale amarezza nell’abbandono del Barbellino. Gli scienziati avevano condotto un lavoro nobile; Pezzini, Nembrini, Piantoni e il sottoscritto s’erano dati da fare con piccozze e corde, sci per tagliare slavine, la cucina di sera, le casse prima disfatte e quindi rifatte con delicatezza; in fondo, anche noi ci eravamo guadagnati uno scampolo di gloria: la stessa che spettava un tempo ai muli degli alpini. Franco Rho



IL MONDO Ercole era bravo nel suo lavoro, che l’ha portato in giro per il mondo. E’ stato un po’ dappertutto. Non nelle grandi città, perché non è certo lì che si vanno a cercare i minerali o l’acqua. Ma nei posti selvaggi o dove c’era la povera gente. Lui amava proprio quello. Sentite cosa scriveva lui stesso dei suoi viaggi: “Il suo lavoro l’ha portato sulle Ande, nella selva amazzonica, nel Maghreb, sulla costa occidentale africana del Sahara spagnolo, in Liberia, Congo, Uganda, nel Kalahari sudafricano, sull’altopiano anatolico, nelle foreste tailandesi di bambù”. Prendete un mappamondo e vedrete come sono lontani questi posti….



Già nelle vacanze invernali del 1966-67 è stato in America del Sud: in Ecuador, e poi in una zona mineraria del Perù, con un passaggio rapido a Rio de Janeiro al ritorno. Da lì ha fatto delle esplorazioni nella foresta amazzonica, la più grande nel mondo, una enorme distesa di alberi, cespugli di ogni tipo e di acqua. (E quanti insetti ci sono… E anche ragni grossi e pericolosi….). Anche lì, incontri non solo di paesaggi, ma anche di umanità. Abbiamo anche di questo un diario di viaggio.









Sempre in Asia, è stato in Thailandia. Se in Afghanistan è tutto secco, in Thailandia è tutto bagnato, con tanti fiumi: nella città più grande della Thailandia, a Bangkok, la gente vive sul fiume, con delle barche-case, fanno il mercato sulle barche, tutto. Lì mangiano i serpenti, che sembra che abbiano una carne molto buona…. Le foreste sono fatte di bambù, proprio quelli di cui i panda mangiano i germogli. Da lì Ercole mi ha portato delle stoffe molto belle, perché lì le donne sono vestite con vestiti lunghi di seta e con degli scialli bellissimi finemente ricamati.



Ercole è stato anche più volte in Africa: in Sud Africa (il posto dove estraggono i diamanti), in Uganda, in Sierra Leone. Ogni posto era pieno di meraviglie della natura, ma anche di tanta povertà della gente: al mercato vendevano i vermi, perché non avevano altra carne da mangiare….il cartello diceva “proteine”…. Inoltre non erano e non sono posti pacifici: era anche piuttosto pericoloso stare là… Anche in Europa è stato dappertutto: Spagna, Francia (sapete che Ercole parlava benissimo il francese? e che è stato a fare ricerche in Francia?), Inghilterra, Olanda, Germania… Il suo lavoro l’ha portato a incontrare tanti popoli e tante terre diverse. Amava il suo lavoro e poter essere cittadino del mondo…



L’INCIDENTE Un discorso a parte lo merita la Turchia: anche lì è stato parecchie volte.



Ma un brutto giorno ha avuto un incidente in jeep, perché spesso in questi posti sperduti le persone guidano come pazzi, e si scontrano facilmente, e così è successo anche al suo autista… Così si è rotto il braccio destro, proprio all’altezza del gomito. In Turchia gli ospedali non erano come qui, non l’hanno curato bene. Lui, per fortuna, ha trovato aiuto da un collega (nella foto, con la moglie del collega, che l’ha ospitato) ha deciso di scapparsene via dopo due giorni e di tornare in Italia. Ma proprio in quei giorni c’era stato un terremoto in Turchia. Non ha trovato subito l’aereo, e intanto la sua frattura peggiorava. Così quando è arrivato a Milano, per quanto l’abbiano curato e gli abbiano salvato la vita (aveva la febbre alta ormai), una rarissima intolleranza al vanadio – contenuto nel chiodo che gli era stato inserito nel braccio per saldare l’osso - gli ha comportato una osteomielite che è rimasta fino alla rimozione del chiodo un anno dopo. Il callo osseo sovrabbondante ha bloccato il gomito, lasciandogli un’importante riduzione della flessione e della prono-supinazione. Per quanto l’handicap nella vita quotidiana non fosse invalidante più di tanto, non ha più potuto arrampicare in montagna, specie nelle imprese difficili verso cui era ormai avviato.



E’ stato terribile per lui. Ma forse gli ha salvato la vita, come spesso rifletteva: non sapersi fermare in tempo è cosa che accade quando imbocchi l’escalation delle tue aspirazioni. Tanti suoi amici erano già morti proprio arrampicando in montagna e altri ne sarebbero seguiti. Ma, fedele a quel principio per cui scrivere di montagna ti fa sentire ‘della montagna’, nella convalescenza di quella iattura ha messo mano alla sua opera più completa: un libro sulla storia dell’alpinismo invernale. E anche dopo non ha mai smesso di godere della montagna come poteva e tutte le volte che poteva, arrivando sulle cime anche senza arrampicare o affrontando imprese più modeste di un tempo (1° e 2° grado). E non ha mai smesso di scriverne. Il suo quaderno antico dalla copertina nera, interrotto nel 1967, riprende nel 1970.



così raccontava di se’











Un incarico di lavoro lo porta a più riprese nel 1970 anche nelle Alpi Apuane, dove si apre un orizzonte nuovo di cui subito approfitta con numerose salite (8).. Poi riprende portando i figli e nipoti, ancora bambini, sulle ‘sue’ montagne. Tutti noi, moglie e figli, siamo citati in puntuali resoconti di queste salite, fino al 2004: le più impegnative con Simone. Ma l’amore per la montagna trova anche espressioni diverse: in aggiornamenti alpinistici, nuovi o relativi a quanto scritto già nel 68; in indicazioni per camminate inedite, con articoli e con due piccole guide, di cui l’ultima uscita postuma; in indicazioni per una politica ambientale della montagna.









Università di Camerino correlatore a una tesi di laurea





LA FAMIGLIA Un anno dopo quel terribile incidente che sembrava avergli spezzato la vita, ci siamo incontrati. E’ stato un caso: io avevo dato un esame in Università e un giovane professore, amico di Ercole dai tempi di Clusone e della guerra, aveva organizzato la serata per divertirsi. Siamo andati a ballare e lì ci siamo conosciuti. Prima, aveva pensato di non sposarsi per poter continuare a fare la sua vita avventurosa, specie di alpinista sempre più ‘hard’, che non deve avere legami e responsabilità familiari perché sa di mettere continuamente a rischio la sua vita. Ma il destino aveva deciso diversamente. Così è cominciata, a 38 anni, la seconda parte della sua vita.





Sono nati Elisabetta, Maddalena e Simone. A loro, e a me, ha insegnato anche ad amare la montagna. Li ha portati, ancora piccoli, a fare camminate difficili, con brevi arrampicate. Con Simone ha fatto salite più importanti, dormendo nei rifugi. Ci stupiva sempre la sua capacità straordinaria di riconoscere le montagne, a cui con sicurezza dava il loro nome, mentre noi facciamo fatica a distinguerle una dall’altra; e la sua capacità di orientarsi sulla terra, come se avesse nella mente la mappa. Era il risultato della sua passione e anche degli strumenti imparati nel suo lavoro (diceva sempre che il suo ‘talento’ erano “geografia, geologia, geometria, meteorologia”….). Quando Simone ha avuto 8 anni ha cominciato a giocare a calcio con una società di nome L’Arca: Ercole l’ha molto seguito, negli allenamenti e nelle partite e per un certo periodo è diventato segretario della società. Come vedete, niente va perduto… in un modo o nell’altro con la famiglia ha recuperato le sue passioni di sempre. Prima che nascesse Simone, abbiamo anche accolto in casa nostra come un’altra figlia una ragazza, anche lei di nome Maddalena,









che veniva da una famiglia complicata e pericolosa e che non poteva più vivere con i suoi genitori. Maddalena, che chiamavamo “Maddalona” per distinguerla dalla nostra figlia Maddi, molto più piccola di lei, faceva molta fatica a fidarsi di chiunque, dopo quello che aveva passato. Non è stato facile, ma va detto che proprio Ercole aveva conquistato la fiducia di quella ragazza, che ha perfino scritto una poesia su di lui, dicendo “è buono, protegge la moglie e i figli…”.



IL LAVORO SI RINNOVA Le miniere in montagna che lo avevano tanto appassionato a poco a poco hanno esaurito il minerale e sono state chiuse. Così Ercole ha cominciato a interessarsi a un altro minerale, a cui noi non facciamo tanto caso: il sale, che invece è importantissimo. Le miniere di sale non erano più in montagna, erano al mare in Calabria, proprio in fondo all’Italia: così era spesso lontano da casa. Il mare gli piaceva molto meno, e non ha mai imparato a nuotare bene (quel poco che sapeva fare, gliel’ho insegnato io, che invece nuotavo bene da quando avevo 5 anni…). Però è diventato un grande esperto di sale, continuava a viaggiare e partecipava a convegni importanti in cui tutti gli esperti del mondo si trovavano a scambiarsi le loro conoscenze. Ha cominciato anche un altro lavoro importante: le dighe, sia per uso agricolo che per generare energia elettrica. Una cosa essenziale, quando si fanno le dighe, è capire bene a quali pareti della montagna si appoggiano perché non ci sia il rischio che cadano giù: se cadessero le dighe sarebbe un disastro enorme per la gente dei paesi che abitano sotto, che verrebbero spazzati via dalla gran massa di acqua che cadrebbe.


Diga sul torrente Ravasanella. Bonifica della Baraggia vercellese


Sono successe a volte delle grandi disgrazie proprio perché alcune dighe si sono rotte e molti sono morti. Decidere dove appoggiare una nuova diga alla montagna è un lavoro di grande responsabilità: era proprio quello che faceva lui, che studiava la roccia di cui erano fatte le montagne per capire se era abbastanza solida per reggere il peso della diga. Ce ne sono alcune, in Piemonte, per cui ha lavorato e che aveva promesso di farci vedere, ma per una ragione o per l’altra non ci siamo mai potuti andare… Un’altra attività l’ha molto coinvolto, nel campo del rischio idrogeologico e dell’impatto ambientale. Ci sono state esperienze all’estero, ma anche molto vicino a noi, in Lombardia, con il lungo lavoro per le discariche di rifiuti di Gerenzano e di Fagnano Olona. Del suo lavoro ha lasciato anche molti altri scritti tecnici, che conservo ancora.



CL Cos’è CL? E’ quel gruppo di persone che per esempio ha fatto la scuola che hanno frequentato tutti i nostri figli e nipoti, “La Zolla”. Che cosa tiene insieme questo gruppo? il fatto che credono a Gesù e vogliono aiutarsi a ricordarselo in ogni cosa che fanno. Facevo parte di questo gruppo già prima di conoscere Ercole, così, quando ci siamo sposati, ho fatto conoscere quel gruppo anche a lui. Ercole non faceva ‘discorsoni’ ma nei fatti tutti sapevano che potevano fidarsi completamente di lui. Così, insieme ad altri di questo gruppo, ha avuto avventure importanti. Una volta era successo un terremoto in Calabria: è stato chiamato ad andare ad aiutare quella povera gente ed è subito partito insieme ad altri amici. Il paese dove hanno dato il loro aiuto si chiama Fabrizia, in provincia di Vibo Valenzia. A lato una foto di lui per le strade con due amici (Antonio Carè e Luigi Frigerio).





Un’altra volta occorreva aiutare altri cristiani che abitavano in Polonia, dove il regime comunista di allora non lasciava libertà di culto religioso. Eravamo nel 76, molto prima della caduta del muro di Berlino e del crollo dei regimi comunisti nell’89. Ercole e i suoi amici avevano nascosto nelle loro valigie alcune copie della Bibbia, che in quel paese era proibito vendere: se i poliziotti di quel paese li avessero scoperti sarebbero stati guai…. Fortunatamente è andato tutto bene. In Polonia si è fatto degli amici, che ci scrivevano a Natale: noi continuavamo ad aiutarli mandando pacchi di cose da mangiare e medicinali.



Per molto tempo ha anche scritto per solidarietà, nei primi anni 80, a persone che erano imprigionate in Russia proprio soltanto per la loro fede religiosa: molto prima che lo suggerisse Amnesty International…. Bisognava stare molto attenti ad attenersi a uno scambio apparentemente neutro e formale, tipo scambio di auguri, per non destare sospetti: eppure queste piccole ‘gocce nel mare’ servivano per alleviare un po’ di quella solitudine.





Con gli amici di CL si è occupato anche di capire meglio la terra in cui viviamo, come non inquinarla con le attività che facciamo, come avere l’acqua e l’aria pulita. Con loro ha scritto un libro in cui spiegano i rischi che corriamo se non stiamo attenti alle risorse della natura che usiamo per generare l’energia (IL RISCHIO NUCLEARE - Anche scienza e tecnica devono prendere la parola, 1979). L’amore alla natura e a come meglio conservarla e usarla gli ha sempre dato uno sguardo attento e responsabile sul mondo che Dio ci ha dato.



UN PENSIERO FINALE Come avete potuto capire, la vita di Ercole è stata davvero piena di cose importanti e straordinarie. Ma solo chi lo conosceva bene sapeva di tutte queste avventure. Qualche mese prima di morire, era in ospedale (a Niguarda) per una infezione al braccio; tutti eravamo convinti che sarebbe guarito ma qualcosa dentro di lui lo avvertiva che i suoi giorni stavano per finire (in effetti è morto due mesi dopo). Una volta andandolo a trovare l’ho visto sereno e lui, che non parlava molto, mi ha detto che aveva riflettuto e poteva concludere che aveva avuto una vita straordinaria, in cui aveva fatto cose eccezionali, proprio quelle che voleva: e non capita a tutti. E aveva anche una bella famiglia. Le stesse cose le ripeteva alla signora Maria, quando tornato a casa dall’ospedale passava varie ore a casa con lei, mentre io e Simone eravamo fuori per i nostri impegni. Questo lo ha aiutato a prepararsi a lasciare questa vita, che era stata così piena. La cosa più straordinaria è che nonostante tante imprese ed esperienze uniche, o forse proprio per questo, Ercole era rimasto buono, semplice e modesto. Soprattutto per questo gli vogliamo bene.






Genogramma


Note 1 Una lunga conversazione registrata con sua sorella Liliana dà maggiori dettagli. 2 Atti Parlamentari — 2 — Senato della Repubblica — 898 LEGISLATURA Vili — DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI DOCUMENTI …Veniva poi stabilito che gli ufficiali ... dell’Aeronautica dei ruoli naviganti non potevano ottenere il regio assentimento prima del 28° anno di età, Il regio decreto-legge del 14 marzo 1938, n. 882, aggiornava le disposizioni vigenti sul matrimonio degli ufficiali delle Forze armate dello Stato e, nelle norme applicative emanate con regio decreto 3 giugno 1938, n. 1562, veniva fissata la disposizione del deferimento al tribunale supremo militare per gli ufficiali che contraevano matrimonio senza il regio assentimento… La proposta di legge per abolire tutti i vincoli che vietavano di contrarre matrimonio a personale delle forze armate e similari è del 1980. Non so se e quando è stata approvata. Prima un ginepraio di norme continuamente corrette, ma mai abolite… 3 Napoli, durante la seconda guerra mondiale si trovò ad essere un obiettivo strategico importantissimo durante la guerra navale nel Mediterraneo e ancora di più nel 1943, durante la Campagna d’Italia. Il porto di Napoli era infatti il principale porto italiano per le rotte verso l’Africa, oltre a costituire uno dei principali centri


industriali del paese e di vie di comunicazione del paese. Importante anche la presenza della flotta militare, che nel porto di Napoli trovava ulteriori spazi che le mancavano a Taranto e La Spezia. Tale ruolo strategico crebbe ulteriormente nel 1943, quando Napoli si trovò ad essere la prima grande città di fronte agli Angloamericani nella loro risalita lungo la penisola, prima e durante lo sbarco di Salerno. La data del 4 dicembre 1942 fu cruciale: fu il primo bombardamento a cui parteciparono anche gli americani e fu anche il primo bombardamento a tappeto sulla città. Gli aerei americani erano 20 B24 “Liberator” della 9th Air Force di base in Africa (in seguito sarebbero partiti anche dalla Sicilia). Furono colpiti tre incrociatori nel porto (il Muzio Attendolo, l’Eugenio di Savoia e il Raimondo Montecuccoli), ma anche e soprattutto furono colpiti case, chiese, ospedali, uffici; tra gli altri fu colpito il palazzo delle poste, via Monteoliveto e la zona di Porta Nolana. Pochi giorni dopo, in un nuovo attacco fu completamente distrutto l’ospedale Loreto. Secondo fonti americane, solo in questo attacco ci furono circa 900 morti. Cominciava quello che può essere definito uno dei periodi più cupi della storia napoletana e che si sarebbe concluso solo dopo la fine


delle cosiddette Quattro giornate di Napoli. Il 7 dicembre vennero chiuse tutte le scuole della città, mentre cominciava un vero e proprio esodo per fuggire da Napoli. Il problema degli sfollati, dopo una prima parvenza di regolamentazione burocratica, divenne rapidamente ingestibile. In breve la città cominciò a riempirsi di rifugi antiaerei che, per la particolare conformazione del suolo della città di Napoli, vennero ricavati in gran parte nelle profonde cavità sotterranee della città: un moderno studio ne ha censiti oltre 300. Divennero inoltre rifugi antiaerei anche i tunnel cittadini, nonché le gallerie e le stazioni delle funicolari e della metropolitana. Nel frattempo le incursioni diventavano sempre più frequenti e, a partire dall’11 gennaio del 1943 divennero addirittura giornaliere: tale frequenza cominciò lentamente a diradarsi solo a partire dal 30 maggio, 5 mesi dopo. In genere poi, dopo il bombardamento, gli aerei scendevano a bassa quota per mitragliare la popolazione inerme che fuggiva nelle strade. Il 21 febbraio, con un’incursione ricordata come la strage di via Duomo, venne devastata tutta la zona del decumano maggiore, mentre nel mese di marzo vennero colpite le zone del Carmine, di via Pignasecca, Piazza Cavour, e Capodimonte; nello stesso periodo, il 28 marzo si ebbe l’esplosione della motonave Caterina


Costa, che da sola provocò oltre 600 morti e 3000 feriti. Nel mese di aprile vennero colpite le zone di Corso Garibaldi, via Depretis, via Medina, Piazza Amedeo, Parco Margherita, via Morghen. Ancora, si riporta, tra gli altri, che il 4 aprile ci furono 221 morti accertati e 387 feriti, il 15 aprile altri 100, il 24 aprile 50. Particolarmente pesante fu il bombardamento del 4 agosto, effettuato da oltre 400 “Fortezze Volanti” B17 e nel quale venne distrutta la trecentesca basilica di Santa Chiara, mentre il 6 settembre, ad armistizio già firmato, si ebbe paradossalmente l’incursione più lunga in assoluto sulla città di Napoli. L’ultimo bombardamento alleato si ebbe tuttavia nella prima mattina dell’8 settembre, a pochissime ore dall’annuncio dello stesso. Il nuovo periodo che ora però si apriva sarebbe stato comunque ancora particolarmente cruento per la città di Napoli, con l’occupazione nazista che si sarebbe conclusa solo circa 20 giorni dopo, con l’insurrezione popolare delle “Quattro giornate di Napoli”. L’insurrezione tuttavia non segnò per Napoli la fine definitiva dei bombardamenti: la città era infatti ora diventata retroguardia della linea Gustav e dovette quindi subire nuovi bombardamenti, anche se meno frequenti, da parte dell’aviazione tedesca. Tra queste, la più pesante fu quella della notte tra il 14 e il 15 marzo del 1944, che provocò circa 300 morti.


4 FERRUCCIO TAGLIAVINI -- MALINCONIA D’AMORE; di D’Anzi; 1942; dal film “La donna è mobile”. TESTO: Malinconia, malinconia d’un cuore senza pace. Malinconia di chi non ha fortuna, che canta mentre tutto intorno tace, e canta per le stelle e per la luna. Malinconia d’amor! L’amavo tanto, l’amavo di un amore casto e puro. Io l’adoravo come un fiore raro, ma il primo bacio suo non fu sincero ed or sulle mie labbra c’è l’amaro. Amore caro! Colei che mi beffò con un sorriso, un giorno, forse, ancor ricorderà il primo amor, il primo palpito


d’un’anima che tutto le donò. Malinconia! Malinconia d’un cuore senza pace! Malinconia d’un cuore senza amor! 5 Ardito Desio nasce a Palmanova, in provincia di Udine, il 18 aprile 1897. Frequentò le scuole elementari a Palmanova, le medie inferiori a Udine, quelle superiori a Cividale del Friuli e il Liceo allo Jacopo Stellini di Udine. Coltivò diversi sports: podismo, calcio, scherma, ciclismo e canottaggio. 1915 - Partecipò alla prima guerra mondiale, come volontario ciclista. Per il suo servizio di portaordini è costretto a percorrere lunghi tragitti a piedi, con la bicicletta a mano, spesso di notte e sottola pioggia. 1916 - Dopo alcuni mesi di licenza, riprende gli studi liceali. Consegue la licenza liceale. Si iscrive alla Facoltà di Scienze Naturali di Firenze. Ben presto riparte per Caserta dove frequenta un corso per allievi ufficiali e infine riesce a farsi assegnare a una compagnia di Mitraglieri Alpini.


1917 - La sua famiglia lascia l’azienda commerciale a Palmanova per rifugiarsi a Napoli. Viene fatto prigioniero e portato prima nel campo di Wegscheid in Austria e poi in quello di Plan in Boemia, dove studia il tedesco. 1918 - Terminata la guerra riprende i suoi studi a Firenze. Rivede Italo Balbo, conosciuto a Udine durante il servizio militare. 1920 - Consegue la laurea in Scienze Naturali all’Università di Firenze con il massimo dei voti e la lode. Pubblica i risultati delle sue esplorazioni sulle montagne delle Alpi Giulie. Da qui inizia la sua proficua attività come geologo, geografo, paleontologo ed esploratore. Tante sono le sue monografie in cui pubblicò i risultati delle sue ricerche. Eseguì rilievi topografici in vaste aree inesplorate e lo studio geologico e geografico dei territori che esplorava. 1942 - Desio avvia il corso di laurea in Geologia all’Università di Milano, nella sede di via Botticelli. Si divide tra quella sede e il Politecnico dove insegna Geologia applicata all’Ingegneria. E’ lui il primo direttore della Facoltà di Geologia e terrà quell’incarico fino al 1972 quando andrà in pensione per raggiunti limiti di età. Durante il periodo della seconda guerra mondiale continua i suoi studi soprattutto nel Bergamasco dove era sfollato con la famiglia. 1952 - Effettua una ispezione geologica mineraria in Giordania per accertare la consistenza dei giacimenti fosfatiferi ed effettuò


un viaggio preliminare in Pakistan e in India per predisporre una spedizione himalayana. A quel momento chiese il permesso al Governo del Pakistan per tentare la scalata del K2, seconda cima per altezza dopo l’Everest. Permesso che ottenne dal Governo Pakistano nel 1954. Così organizza e dirige la spedizione italiana che scalò per la prima volta quella montagna effettuando nel contempo una serie di indagini geologiche e geografiche su quella catena e visitando fra l’altro i ghiacciai Biafo e Hispar, due fra i maggiori del Karakorum. Su invito della National Science Foundation degli U.S.A. visitò le principali stazioni del settore nord-americano dell’Antartide e raggiunse anche il Polo Sud. 1967/68 - Effettuò una missione nella Birmania centrale per esaminare dal punto di vista geologico la fattibilità di un progetto di irrigazione, patrocinato dall’ONU, sul fiume Mu (affluente dell’Irrawaddy), missione completata nell’anno successivo. 1987 - Organizza una spedizione in Asia per misurare l’altezza dell’Everest e del K2 usando speciali apparecchiature per quel tempo: il GPS. Risulta che l’Everest è sempre più alto del K2. Progettò e realizzò un laboratorio scientifico in una piramide di acciaio, alluminio e vetro, in grado di funzionare come laboratorio di ricerca multidisciplinare ad alta quota (Ev-K2-CNR), che nel 1990 fu installato a 5050 metri d’altezza, sotto la cima dell’Everest. Morì serenamente a Roma il 12 dicembre 2001 all’età di 104 anni. Lascia un immenso patrimonio costituito dal suo archivio.


Tenerife 1969



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