PORTAVOCE 18 luglio 2016
Commemorazione delle vittime di Nizza Gori: “Ogni atto terroristico è un attacco per sgretolare l’Unione Europea. L’accoglienza deve cambiare intorno a impegni precisi.”
“Siamo qui, di nuovo, a commemorare le vittime di una strage e a manifestare la nostra condanna verso un atto terroristico rivendicato dal cosiddetto Stato Islamico. Solo una settimana fa dedicavamo il nostro cordoglio agli italiani uccisi a Dacca e abbracciavamo i parenti di Maria Riboli. Oggi lo rivolgiamo alle 84 persone falciate sul lungomare di Nizza, in una serata di festa, ai bambini che sono rimasti uccisi, ai dispersi, ai feriti che ancora lottano tra la vita e la morte. C’è il rischio, certo, che questa nostra mobilitazione possa apparire rituale, anzi, un rituale: ogni volta meno spontaneo e più disilluso. Così evidentemente la pensano alcuni gruppi politici che normalmente siedono in quest’aula, che ritenendo questa una “manifestazione di facciata”, di “falsa solidarietà”, hanno deciso di disertarla. Rispettiamo le opinioni di tutti. Ma valutate, voi che invece ci siete, se è falso il dolore che avete provato, se è falsa la preoccupazione per quello che sta accadendo nel nostro mondo, se è falso il bisogno di capire e di cercare insieme risposte adeguate. Sappiamo che succederà ancora, in guerra ci sono caduti innocenti e questa guerra non finirà domani, ma non per questo rinunceremo a piangere i morti, a condannare gli assassini, a ragionare insieme su come superare tutto questo. Nei giorni scorsi abbiamo ascoltato diverse analisi dei fatti. Molti hanno sottolineato il valore simbolico di un atto terroristico realizzato il 14 luglio, in Francia. Il 14 luglio è il compleanno della libertà, non solo per i francesi. Nessuna data più di questa sintetizza infatti i valori costitutivi della nostra civiltà. Al tempo stesso nessuna strage era andata fin qui così a fondo nel nostro modo di vivere: le famiglie, i bambini, la passeggiata sul lungomare, i fuochi d’artificio. Ecco perché lascia un segno più profondo. Perché non ci saranno più luoghi, da qui in poi, in cui potremo con certezza sentirci al sicuro. Riguardo all’attentatore, è stato rimarcato che non si trattava di un miliziano addestrato in Siria o in Iraq, inserito in un’organizzazione, ma di un uomo debole, solitario e depresso, distante dalla comunità religiosa, probabilmente arrabbiato col mondo.
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PORTAVOCE Senonché, attraverso la Rete, un giorno la rabbia diventa una causa per cui combattere. Il contatto con il verbo jihadista, in pochi giorni, trasforma una vita fallimentare in una vita votata al martirio, i problemi personali in moventi politici perfettamente in sintonia con l’ideologia dell’ISIS. Cosa pesa, cosa incide di più, un’esistenza disadattata in una periferia che è di fatto un ghetto, in cui la maggioranza della popolazione ha origini straniere, dove la disoccupazione è altissima e si vive un totale senso di marginalità e di esclusione, o la forza seduttiva di un’ideologia islamista che arma i jihadisti prendendo spunto dai passaggi più violenti del Corano? La miscela esplosiva deriva probabilmente dalla combinazione delle due cose, ma certo la seconda esiste, e sarebbe un grave errore non sottolinearlo. Per alcuni è anzi la questione principale. Una questione religiosa o più genericamente culturale, connessa – si sostiene - alla natura geneticamente violenta della fede islamica, a partire dal suo Libro Sacro. Questa visione tende a demonizzare tutti i musulmani. Senonché l’Islam esiste da 1.500 anni, e i musulmani nel mondo sono un miliardo e 600 milioni, in crescita, tanto che nel 2.050 saranno più dei cristiani. La stragrande maggioranza di loro vive in pace, con la propria fede e con le fedi degli altri. E’ vero che alcuni passaggi del Corano contengono un’esaltazione della violenza. Ma una visione in cui qualunque musulmano – magari anche non praticante – è un terrorista potenziale o effettivo non porta con evidenza a nulla. Non parliamo dell’equivalenza “profugo uguale potenziale terrorista”, che niente ha di vero, come recentemente confermato dal procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, uno dei più stimati investigatori d’Europa, e che il Santo Padre ha più volte inteso contrastare con forza. Piuttosto, anche nella nuova dimensione di reclutamento dei “cani sciolti”, dei radicalizzati dell’ultim’ora, è difficile non leggere il terrorismo come un fenomeno politico, che ha mandanti e obiettivi. Sempre il procuratore Roberti, all’East Forum 2016, pochi giorni fa, ha detto cose chiare: ”Sappiamo che i soldi per finanziare l’estremismo e il terrorismo islamico arrivano dai Paesi del Golfo Persico; vi sono evidenze del fatto che in quei Paesi ci sono anche strutture di supporto del terrorismo”. Sappiamo che la corte saudita si atteggia a nostra alleata e nel frattempo finanzia le cellule del terrore. Con quali obiettivi? Secondo l’analisi che mi è parsa più convincente, il fine è quello di alimentare la paura e l’odio verso l’Islam, radicalizzare lo scontro, rafforzare i movimenti xenofobi, portarli al potere e creare le condizioni per una guerra di civiltà. Questo spiega anche perché la Francia sia stata ripetutamente colpita. Non si tratta solo di spargere il terrore, di reprimere lo stile di vita di un Paese libero. Nella primavera 2017 in Francia si voterà per le Presidenziali. Ogni nuovo attentato è vento nelle vele dei movimenti xenofobi, che già oggi sfiorano il 30% nei sondaggi e che non nascondono l’intenzione di voler ritirare la Francia dal processo europeo. Ogni PALAZZO FRIZZONI - P.ZZA MATTEOTTI, 27 24122 BERGAMO
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PORTAVOCE attacco del terrorismo islamista è dunque un attacco contro l’Unione europea, a sgretolare un pilastro dell’Occidente e del suo modello democratico. Un disegno politico, che passa dalla Francia ma che riguarda ognuno di noi. Se però conosciamo i mandanti, e possiamo intuirne i fini, che altro ci serve per fare scelte conseguenti? Con i Paesi che finanziano l’ISIS continuiamo a fare affari come se nulla fosse. La lotta al terrorismo non è solo un problema di intelligence e di sicurezza nazionale. E’ anche, forse soprattutto, un problema di politica estera, con le conseguenze anche economiche del caso. Quella di alzare la tensione, di promuovere una radicalizzazione delle posizioni per suscitare lo scontro è del resto una strategia già vista, utilizzata dai fanatici di ogni epoca. Negli anni Settanta il terrorismo di sinistra insanguinò l’Italia con altri metodi ma con lo stesso fine: provocare la reazione, indurre lo scontro sociale, creare le condizioni per la rivoluzione. Fallì, come sappiamo, e non solo per merito delle forze dedicate alla sicurezza e all’intelligence. Fallì perché quelli che i terroristi pensavano alleati, gli operai comunisti, voltarono le spalle ai violenti. Fallì perché autorevoli esponenti di quell’area seppero dire basta, e chi aveva in precedenza tollerato smise di girarsi dall’altra parte, smise di chiamarli “compagni che sbagliano” e prese a chiamarli col loro nome – terroristi -, iniziò a denunciarli e a combatterli con coraggio. E’ quello che ci aspettiamo dai musulmani non integralisti, come ha scritto qualche giorno fa Massimo Gramellini sulla Stampa e come ho cercato di dire già lunedì scorso, commemorando le vittime di Dacca. E’ ora che i musulmani sani, che amano la pace quanto noi, si impegnino nel contrasto dei terroristi. Questo va oltre la solidarietà. Nell’epoca dei jihadisti online, come l’assassino di Nizza, solo i familiari, gli amici, i vicini di casa, i colleghi, possono battere il terrore. Come accadde per i terroristi rossi 40 anni fa in Italia. Occorre che le società musulmane che vivono nelle nostre città denuncino e combattano i potenziali terroristi che sono in mezzo a loro. Noi però dobbiamo fare la nostra parte. Noi dobbiamo lavorare per prevenire, per controllare e per proteggere. Significa realizzare politiche di sicurezza e di intelligence, ma anche di educazione e di inclusione. Perché le piante cattive attecchiscono dove trovano terreno più fertile. I nostri quartieri non sono i ghetti delle banlieue francesi, ma bisogna evitare che ci assomiglino anche lontanamente. Bisogna abbattere i livelli troppo alti della dispersione scolastica. Bisogna lavorare sulla scuola e sulla cittadinanza, sulla legalità, compresa quella che deve caratterizzare il culto religioso: si prega nelle chiese e nelle moschee, non nei garage o per la strada. Bisogna cambiare le politiche di accoglienza e di integrazione degli stranieri, non però nella direzione auspicata da chi ha voluto disertare questa manifestazione, per cui cambiare significa respingere, ma
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PORTAVOCE operando perché l’accoglienza sia solida e ancorata a impegni precisi: studio dell’italiano, rispetto delle nostre leggi, formazione professionale, attività lavorative. Questo dobbiamo fare, da oggi in avanti, per onorare le vittime di Nizza, e quelle che verranno, oltre a difendere con ostinazione i nostri spazi, il nostro stile di vita, i nostri valori di apertura e condivisione, di libertà e rispetto degli altri.” Giorgio Gori
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