RICERCA STORICA | ARCHITETTURA ALPINA
La Montagna Attraverso lo Sguardo
Arch. Francesco Carraro carraro.francesco@icloud.com
SOMMARIO
• Parte 1 - Ricerca Storica
L’ ARCHITETTURA ALPINA - Introduzione - La visione della montagna - Rapporto natura ed artificio - Rapporto locale ed universale - Rapporto tradizione ed innovazione - L’importanza dell’immaginazione - Esempi di architettura alpina
IL RIFUGIO - Nascita e sviluppo - Esempi contemporanei
IL BIVACCO - L’esperienza del bivacco - Ieri e oggi - Esempi
• Parte 2 - Bibliografia
L’ARCHITETTURA ALPINA
EVOLUZIONE DELL’ARCHITETTURA ALPINA INTRODUZIONE Al fine di eseguire un buon esercizio di progettazione ho deciso di fare una ricerca storica sull’evoluzione dell’architettura alpina, partendo da alcuni temi generali ricorrenti per arrivare all’architettura del bivacco passando attraverso la nascita e l’evoluzione dei rifugi di montagna.
LUOGO E PAESAGGIO L’architettura contemporanea alpina si caratterizza per una rinnovata attenzione nei confronti del luogo e per un profondo interesse dei modelli architettonici del passato e delle tipologie tradizionali. L’architettura “without architects” permane come riferimento per la sua semplicità ed essenzialità, ma anche per il sostanziale rifiuto di ogni moda e concezione stilistica. Il confronto con le tipologie locali non avviene in modo diretto o mimetico, ma attraverso una re-interpretazione contemporanea e una rilettura dei diversi caratteri tradizionali, che si sono conservati nel tempo. La definizione di paesaggio non si limita alla natura fisica, geografica o topologica del luogo, con i suoi caratteri culturali e storici ma si estende a tutto ciò che entra in rapporto con il progetto di architettura. Il paesaggio alpino si contraddistingue perciò come “scoperta” o “invenzione” frutto di una nuova sensibilità, di una mutata visione della natura, che modifica profondamente il modo di pensare e costruire la montagna. I progetti dialogano con il paesaggio attivando un processo più o meno evidente di fusione tra ambiente e costruito, e quasi sempre esprimono la volontà di definire attraverso l’architettura nuovi “paesaggi”, dominando ed inquadrando la natura circostante, per renderla parte del disegno architettonico. TRADIZIONE Processo dinamico di “trasmissione”, come continuo e attivo fluire di forme, che contempla anche l’alterazione, la re-invenzione o la reinterpretazione dei contenuti passati, per rispondere alle esigenze della realtà presente, al luogo, al paesaggio, alla cultura e alle tecniche costruttive attuali. Si vuole perciò evitare l’interpretazione della tradizione come un repertorio di immagini fisse e immutabili nel tempo, intendendola invece, in accordo con la definizione di Carlo Mollino del 1954, come “continuo e vivente fluire di nuove forme”, come “fiume armonioso e differente in ogni ansa e non acqua stagnante o ritorno”. IMMAGINAZIONE Il confluire libero di ricordi ed emozioni che caratterizza il processo progettuale: un procedere non sempre lineare, nel quale si fondono immagini, sensazioni e atmosfere differenti. Il processo creativo si configura perciò come lungo percorso, fatto di parole, di sensazioni, di immagini e domande, nel quale la sfera emotiva e irrazionale è coinvolta quanto il pensiero razionale.
Caspar David Friedrich, Wanderer above the sea of fog (Il viaggiatore sopra il mare di nebbia), 1818.
LA VISIONE DELLA MONTAGNA Il paesaggio alpino si contraddistingue come “scoperta” o “invenzione” frutto di una nuova sensibilità, di una mutata visione della natura, che modifica profondamente il modo di pensare e costruire la montagna. Per Vitruvio, la montagna è uno dei “topoi” dai quali si sviluppa l’architettura, in quanto “luogo benevolo”, che offre rifugio e riparo all’uomo, una natura che “offre protezione dalle ostilità del mondo”, e le sue architetture si ispirano spesso, nella loro formazione, agli elementi naturali. Questa visione della montagna sarà destinata a mutare notevolmente nel corso dei secoli, arrivando ad essere definita luogo “maledetto” - “Mount Maudit” era il nome che identificava il “Monte Bianco” prima del Settecento – per essere in seguito riscoperta come luogo del “sublime” nel XVIII sec. Possiamo trovare una giustificazione alla tardiva “riscopreta” della montagna nelle nuove esigenze della scienza illuminista, che aveva individuato nella catena alpina un fecondo terreno di sperimentazione, e anche nel cambiamento di mentalità romantica contestuale all’affermazione di un nuovo gusto estetico, promosso in particolare dagli scritti di Jean-Jacques Rousseau. Il quale, nel suo romanzo epistolare “La nuova Eloisa” (1761), considerato il manifesto del nuovo gusto per la “natura selvaggia”, si pone in polemica con i modi di vedere del secolo passato, e valorizza gli aspetti, in precedenza trascurati, della natura “non colonizzata” dall’uomo, eleggendola come “nuovo ideale di bellezza”. Si tratta perciò di un vero e proprio mutamento del canone estetico che consente il passaggio dall’ “orrido” al “sublime”. Nonostante questo la montagna non perde quella caratteristica di “paura” e di “terrore” che la cultura tradizionale le aveva da sempre associato. Enrico Capanni nel suo libro recente “La nuova vita sulle Alpi” sottolinea come la natura alpina fosse diventata, tra il XVIII e XIX secolo, importante oggetto delle indagini illuministiche e rifugio della spiritualità romantica: “...da un lato gli scienziati iniziano una capillare opera di esplorazione del territorio alpino per fare luce sull’origine dei fossili, sulla nascita dei fiumi e sulle teorie leggendarie dei ghiacciai, risolvendo contemporaneamente molti problemi cartografici; dall’altro lato gli uomini d’arte e di lettere influenzati da Haller e da Rousseau cominciano a rovesciare la visione seicentesca delle Alpi, scoprendo nei luoghi malfamati del passato il segno del bello e del sublime...” Tra il XVIII e il XIX secolo le Alpi, oltre a divenire soggetto privilegiato di letterati, artisti scienziati, si affermano attraverso la considerazione di alcuni importanti architetti, tra i quali Karl Friedrich Schinkel (1781-1841), Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-79), John Ruskin (1819-1900) e Bruno Taut (1880-1938). Durante il suo viaggio attraverso la catena alpina, l’architetto berlinese Karl Friedrich Schinkel, descrive minuziosamente, grazie ai suoi dipinti e appunti, la bellezza e l’asprezza che caratterizza la natura delle montagne e quella degli edifici alpini. Più tardi, anche Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc, rimasto profondamente affascinato dal massiccio del Monte Bianco, osserva che le formazioni montuose dipendono dagli stessi principi geometrici degli ordini architettonici. Secondo Viollet-le-Duc, infatti, le forme geometriche sono forme prime, che precedono e generano ogni altro tipo di forma, sia naturale che artistica.
“Tutte le linee belle sono adattamenti di quelle che sono più comuni nel mondo esterno (…) la somiglianza all’opera della natura, come modello e come aiuto, deve essere più da vicino perseguita e più chiaramente osservata (…) l’uomo non può avanzare nell’invenzione della bellezza senza imitare direttamente le forme della natura”. Bruno Taut, Alpine Architecture n.17, 1917
John Ruskin
L’architetto inglese John Ruskin, che nei suoi scritti teorici parte sempre dall’osservazione della natura, nella prima metà del XIX secolo dedica un intero volume del suo Modern Painters alla bellezza delle montagne (“beauty of the mountains”). L’intento di Ruskin è quello di rivelare, attraverso il disegno, le relazioni tra le forme naturali della regione alpina e quelle delle sue architetture. Il concetto di bellezza architettonica ruskinana si fonda sulle forme della natura, e romanticamente si ispira a questa: “la somiglianza all’opera della natura, come modello e come aiuto, deve essere più da vicino perseguita e più chiaramente osservata (…) l’uomo non può avanzare nell’invenzione della bellezza senza imitare direttamente le forme della natura”. Tra il 1917 e il 1918, l’architetto Bruno Taut, influenzato dalle teorie di Ruskin, del quale era avido lettore, scrive Alpine Architektur. Questa famosa opera non rappresenta solo un viaggio visivo tra i paesaggi della regione alpina, ma anche un universo di suggestioni e architetture immaginarie di vetro. Sulla cima delle montagne vengono immaginati nuovi radar ottici, segni di una presa di possesso della terra da parte dell’uomo, forme pure a cristallo, che tentano di imitare gli elementi organici della natura. Taut reinterpreta in modo fantastico il paesaggio alpino, attraverso super-strutture di cristallo, che “per empatia” riflettono le proprietà delle forme naturali. Dagli inizi del XX secolo, il mito delle Alpi come luogo idilliaco, deve confrontarsi con l’urbanizzazione moderna e con lo sfruttamento turistico: il paesaggio alpino viene progressivamente colonizzato sia in termini di spazio (progressiva ascensione verso le cime), che in termini di tempo (allargamento del periodo di uso e consumo della montagna). Grazie alla diffusione del turismo e degli sport invernali, l’architettura moderna è penetrata progressivamente tra le Alpi, determinando un punto di rottura del modo di pensare e costruire la montagna tradizionali. Ne derivano sperimentazioni nuove rispetto al rapporto tra architettura e paesaggio, e nasce una nuova attenzione al rapporto tra architettura e natura alpina, che rimane un tema centrale nelle elaborazioni portate dalle teorie architettoniche contemporanee.
“l’architettura che nasce condivide l’integrità della natura, esalta il luogo, ci svela l’anima del luogo, diventa parte integrante del luogo. L’architettura diventa natura per effetto della forza creativa dell’uomo” Zaha Hadid, Messner Mountain Museum Corones, 2015
Le Courbusier
RAPPORTO NATURA ED ARTIFICIO Nella produzione architettonica alpina, natura ed artificio si intrecciano nella costruzione secolare del territorio. La natura non rappresenta solo una condizione fisica, ma anche una condizione culturale, non è intesa solo come contesto, ma anche come entità non separabile dall’uomo. L’architettura alpina è da sempre sottoposta ad una lenta e faticosa lotta con la natura, dalla quale esce vincitrice grazie ad un profondo “rispetto” verso la montagna che la sovrasta. Il rapporto tra “architettura, sito e natura” diventa determinante nella visione degli architetti moderni. Come scrivono Luigi Figini e Gino Pollini, l’architettura alpina deve essere determinata “in funzione dei fattori naturali: oroidrografici, metereologici, panoramici, con particolare riguardo alla collocazione e armonizzazione dei complessi edilizi con le linee e gli aspetti dell’ambiente naturale”. L’architettura alpina contemporanea deriva da una sensibilità nuova e recente verso il territorio alpino e la natura. Da una parte è proiettata nella sfida costante per il superamento dei vincoli imposti dalle condizioni naturali, dall’altra, è strettamente consapevole e rispettosa dei limiti all’interno dei quali agire, spinta dalla volontà di intessere un rapporto vero con l’ambiente e la natura. Alcune sperimentazioni architettoniche contemporanee sviluppate nell’area alpina, tendono progressivamente a dissolvere i limiti tra artificio e natura, tra architettura e paesaggio. La natura e il paesaggio non sono più un contesto statico, come veniva interpretato dalla tradizione modernista, ma, al contrario, un sistema con il quale interagire. La centralità del rapporto tra natura e artificio in tale architettura si manifesta attraverso due approcci principali. Ad una ricerca di sintesi tra natura e artificio, si contrappone una visione che intende l’architettura come presa di distanza dalla natura e come costruzione del paesaggio attraverso l’artificio. Da un lato la natura vista come sistema in cui dissolvere e “mimetizzare” l’architettura; dall’altro la natura come oggetto progettuale, che viene trasformata in artificio dall’opera architettonica. Questi due differenti approcci al rapporto tra natura e artificio si confrontano nelle posizioni teoriche degli architetti alpini contemporanei. Nelle esperienze di Gabetti & Isola, di Bruna & Mellano e di Gion Caminada, l’architettura si caratterizza per la ricerca di armonia, di assimilazione e, in qualche caso, di mimetismo nella natura. Gabetti e Isola concepiscono l’architettura stessa come paesaggio, in un interessante tentativo di rimuovere i confini tra edificio e città. L’architettura può perciò nascere dai movimenti del suolo, da un suo incresparsi, dall’incisione, dalla spaccatura. Nel caso dell’edificio residenziale di Ivrea progettato da Gabetti & Isola, la scelta di nascondere, di immergere l’architettura nel sottosuolo, di integrarla con le curve di livello esistenti, è un modo per “entrare in simbiosi” con la natura. L’approccio di Peter Zumthor o di Herzog & de Meuron persegue la trasformazione della natura in artificio e l’inserimento nel paesaggio con una presa di distanza da questo.
“l’architettura può sostenersi quale discplina critica solo se assume un ruolo di retroguardia - Capacità per sviluppare una cultura forte e con identità, mantenendo tuttavia aperti i contatti con la tecnica universale -, cioè se si distanzia in egual misura sia dal mito del progresso dell’illuminismo, che dall’impulso reazionario e irrealistico di un ritorno a forme architettoniche di un passato pre-industriale” Gion Caminada, Gruppo di edifici per l’agricoltura, Vrin, 2000
Kenneth Frampton
RAPPORTO LOCALE ED UNIVERSALE l’architettura moderna non si interessa del carattere “regionale”; la necessità prioritaria di stabilire principi generali, la astraggono dalle condizioni particolari dei luoghi e la rendono “internazionale”. La prima architettura moderna è perciò “oggettiva” e slegata dal luogo, in accordo con la “comunicazione e tecnologia industriale”. Dopo la seconda guerra mondiale, gli stessi architetti moderni (ad esempio Gropius e Le Corbusier), rifiutano il concetto di stile internazionale, e ricercano una nuova strada regionale. Negli anni ‘80 compare il concetto di “regionalismo critico” definito non come uno “stile”, ma piuttosto come un “modo di pensare l’architettura”: esso rappresenta la tendenza a sintetizzare gli aspetti tradizionali di una regione, incluse le caratteristiche fisiche e culturali, con le tecnologie contemporanee appropriate. Successivamente Kenneth Frampton riflette su questo concetto e lo sintetizza in sette punti: 1. la critica alla modernizzazione senza tuttavia rifiutarne gli aspetti emancipatori e progressisti; 2. l’enfasi posta al luogo e ai confini geografici nei quali si opera, piuttosto che all’oggetto architettonico in sé; 3. l’architettura come fatto tettonico; 4. l’adeguamento dell’architettura al sito, al clima e alla luce, per accentuarne i fattori specifici e le caratteristiche positive; 5. l’attenzione alle percezioni tattili e sensoriali dell’architettura, dalla temperatura all’illuminazione, ai suoni ecc., sottolineando l’importanza dell’architettura come esperienza fisica; 6. la creazione di una cultura “mondiale” su basi regionali, che si opponga al sentimentalismo del vernacolo locale, ma accetta l’inserimento occasionale di vernacoli locali re-interpretati come episodi all’interno del tutto; 7. la maggiore diffusione del regionalismo critico in quegli “interstizi culturali” che resistono maggiormente alle tensioni della civiltà universale. Nella contemporaneità questo concetto è stato superato poichè parlare di regioni è molto riduttivo per un luogo ed inoltre è molto difficile trovare dei confini fisici e geografici. Nella situazione contemporanea il progetto d’architettura si trova spesso a doversi confrontare con contesti fisici e culturali che non hanno limiti geografici ben definiti e certi. Molti interessanti progetti contemporanei fanno uso di materiali, tipologie e morfologie locali, senza tuttavia esprimere l’esistenza di una regione particolare; elementi locali vengono utilizzati come motivi all’interno di un processo compositivo, così da produrre idee architettoniche originali, uniche e contestualmente rilevanti. L’architettura alpina contemporanea si caratterizza per un forte radicamento al sito ed un’attenzione al luogo specifico, che viene però arricchita attraverso apporti esterni, attraverso un dialogo costante con il “mondo”, e con le tecniche universali. I progetti contemporanei più interessanti e di maggior successo sono quelli che sono riusciti a sintetizzare in modo esemplare tradizione e innovazione, a far dialogare il luogo specifico con la realtà internazionale.
Se vuoi creare qualcosa di nuovo, cerca quel che è antico. Carlo Mollino, rilievo delle case rurali tipiche delle valli Gressoney e Valtournenche, valle di Gressoney, disegno n.13
Aulis Blomstedt
RAPPORTO TRADIZIONE ED INNOVAZIONE Tra le diverse posizioni che si sono affermate nell’architettura alpina già dagli anni del “movimento moderno”, si evidenzia costantemente una contrapposizione tra progressisti e conservatori, tra modernità e tradizione (“Heimatschutz”). Da un lato, la visione “progressista” della cultura e della mitologia delle Alpi, evolutasi dagli entusiasmi modernisti di inizio secolo, attraverso la moda delle escursioni, della villeggiatura alpina, le nuove infrastrutture viabilistiche e l’invenzione dello sci di massa. Dall’altro, la posizione “tradizionalista”, che ha portato spesso all’affermazione di una architettura “folkloristica”, ad una vuota imitazione di un presunto “stile montano” autentico, con la falsa illusione che ciò potesse assicurare una continuità estetica con il passato. Queste posizioni opposte sono risultate entrambe inadeguate, ed hanno consentito l’emergere di un approccio alternativo, che guarda alla tradizione non come repertorio fisso ed immutabile di forme, ma, al contrario, come continuo divenire. Ciò ha portato allo sviluppo di un concetto di modernità “debole”, strettamente legata al contesto fisico e culturale dei luoghi, in grado di guardare alla tradizione senza “congelarla”, di conciliare natura e cultura, storia e innovazione, identità e immaginazione. Se dal dopoguerra il dibattito architettonico ha fatto leva sulla contrapposizione tra tradizione e innovazione, tra regionalismo e internazionalismo, emerge oggi la volontà di abbandonare una opposizione strettamente ideologica, ricercando invece una “sintesi” capace di ricomporre in unità gli opposti, rendendo l’architettura espressione reale del proprio tempo. Molto importante è lo studio dell’architettura minore che si sviluppa con l’avvento del movimento “art and craft” in cui edifici molto piccoli e modesti, fabbricati rurali e capanne vengono assunti come modelli architettonici. L’architettura comune è presa come modello in quanto mostra un notevole talento nell’adattarsi al contesto naturale. Diversi teorici contemporanei, hanno ripreso questa capacità dell’architettura vernacolare di visualizzare e completare le proprietà spaziali dei luoghi naturali: l’impronta del luogo influenza il linguaggio generale della forma architettonica. Importantissime sono le ricerche e gli approfondamenti di Jakob Hunziker il quale studiò come attraverso un processo di divisione, addizione, e variazione delle parti costitutive della casa originaria dell’Engadina (che corrisponde ad una conformazione primitiva, come un unico ceppo linguistico), potevano essere spiegate tutte le abitazioni tradizionali esistenti, giustificandone le differenze attraverso le peculiarità regionali. Successivamente la ricerca di Aldo Rossi, Consolascio e Bosshard consolida la tesi di Hunziker nella quale la tipologia viene vista come “invariante formale”, “matrice”, “struttura profonda” che organizza l’architettura e che si lega al territorio, agli usi e alle culture, ai modi di abitare e alle denominazioni della lingua. Il territorio ed il contesto rappresentano perciò il “quadro” e la “matrice” dell’architettura, “un patrimonio concreto di forme che si vengono arricchendo e approfondendo nel tempo”. Dagli anni Ottanta si sviluppa nell’area alpina una rinnovata attenzione progettuale alla tradizione, che si esplica sia attraverso la rielaborazione di tecniche e materiali tradizionali, sia attraverso una riproposizione in termini nuovi del linguaggio del passato. Nell’area alpina italiana, in cui l’attenzione al paesaggio e alla tradizione è un atteggiamento consolidato, vengono prodotte in quegli anni diverse esperienze progettuali attente alla tradizione e alla storia dei luoghi.
misteriosa facoltà questa regina delle facoltà! Essa manovra e dirige tutte le altre; le eccita e le avvia al combattimento… essa è analisi e sintesi … crea un mondo nuovo… ha creato il mondo ed è giusto che lo governi.” Baudelaire Peter Zumthor, Terme di Vals, 1996
L’IMPORTANZA DELL’IMMAGINAZIONE Se nell’atteggiamento progettuale contemporaneo in area alpina emerge un’adesione forte al paesaggio, al luogo ed alla tradizione, al contempo si evidenzia una presa di distanza critica dal passato e dal contesto specifico, una volontà di contaminazione del reale con altre esperienze racchiuse nell’“immaginazione” dell’architetto. Il processo progettuale si caratterizza per il coinvolgimento di ricordi ed emozioni, immagini e sensazioni che confluiscono liberamente ed in modo non lineare. Il processo creativo si configura perciò come lungo percorso, fatto di parole, di sensazioni, immagini e domande, nel quale la sfera emotiva ed irrazionale è coinvolta quanto il pensiero razionale. Oltre a radicarsi al luogo ed alla storia, il progetto sembra volersi radicare saldamente allo “spazio emotivo”, ricercando una sintesi tra tradizione ed immaginazione. Attraverso l’immaginazione, ovvero attraverso la capacità di produrre immagini, visioni, atmosfere, l’architetto prefigura un ambiente, un paesaggio, delle esperienze, legando il suo progetto ad un preciso contesto. Secondo Nathan Rogers l’architetto deve considerare la storia, “assimilarla” alla sua esperienza ed alla sua interiorità, “consumarla interamente”, per poter porsi in modo critico e creativo nei confronti della tradizione, attraverso una “profonda e diretta partecipazione logica e sentimentale”. Ragione ed emozione sono entrambe coinvolte nell’analisi delle esperienze passate e nella loro rielaborazione creativa. In una recente pubblicazione dal titolo “The Environmental Imagination: Technics and Poetics of the Architectural Environment” (2007) Dean Hawakes introduce il concetto di “immaginazione ambientale”, definendola come la capacità di dar forma all’architettura, in relazione all’ambiente in cui si trova. Il professore di Cardiff sottolinea come l’“esperienza ambientale” di una architettura sia fondamentale, e come questa sia difficilmente trasmissibile attraverso l’immagine, ma possa essere compresa solo attraverso l’esperienza diretta, la sola che permette di cogliere gli aspetti luminosi e climatici, la temperatura, gli odori, i suoni, l’atmosfera dell’ambiente. L’immaginazione ambientale non può avvalersi solo di immagini, ma deve coinvolgere sensazioni, ricordi, esperienze personali, deve promuovere un “approccio integrato” e multisensoriale, al fine di accogliere l’esistenza umana in tutte le sue espressioni.
ESEMPI di ARCHITETTURA ALPINA Di seguito cercherò di approfondire alcuni esempi di come l’architettura alpina contemporanea dialoghi con i vari temi indagati in precedenza: il rapporto con il paesaggio e con il luogo, il rapporto con la tradizione ed il rapporto con l’immaginazione. L’architettura contemporanea alpina si caratterizza per una rinnovata attenzione nei confronti del luogo e per un profondo interesse nei confronti dei modelli architettonici del passato e delle tipologie tradizionali. L’architettura “without architects” permane come riferimento per la sua semplicità ed essenzialità, ma anche per il sostanziale rifiuto di ogni moda e concezione stilistica. Il confronto con le tipologie locali non avviene in modo diretto o mimetico, ma attraverso una re-interpretazione contemporanea e una rilettura dei diversi caratteri tradizionali, che si sono conservati nel tempo. La definizione di paesaggio non si limita alla natura fisica, geografica o topologica del luogo, che comprende i suoi caratteri culturali e storici, estendendosi a tutto ciò che entra in rapporto con il progetto di architettura. Il paesaggio alpino si contraddistingue perciò come “scoperta” o “invenzione” frutto di una nuova sensibilità, di una mutata visione della natura, che modifica profondamente il modo di pensare e costruire la montagna. I progetti dialogano con il paesaggio attivando un processo più o meno evidente di fusione tra ambiente e costruito, e quasi sempre esprimono la volontà di definire attraverso l’architettura nuovi “paesaggi”, dominando ed inquadrando la natura circostante, per renderla parte del disegno architettonico.
Esempi: - Casa Holler - Holler & Klotzner Architekten - Unità residenziale al servizio dell’albergo diffuso di Paluzza - Ceschia & Mentil Associati - Casa di caccia Tamers - EM2 Architetti - Snefjord Road Stop - Pushak - Tip-Box - Chistophe Benichou - Timmelsjoch Experience - Werner Tscholl Architects
CASA HOLLER
Holler & Klotzner Architekten
Una casa come punto fermo, come affermazione dell’architettura, che come un modello esemplare dimostra l’interazione riuscita tra funzionalita, materiali, precisione ed estetica. Un’elogio della perfezione: anche questa casa avrebbe la propria giustificazione. Un manufatto nero lucido che sembra librarsi sui vigneti; lo sporto del tetto e le lamelle girevoli proteggono le vetrate perimetrali a tutta altezza del piano d’abitazione. Sotto questo piano si trova, quasi senza punti di contatto, il parallelepipedo del garage; il sottile cilindro di una scala a chiocciola collega i livelli dal giardino alla terrazza sul tetto. Gli ambienti interni, tranne uno studio, sono dominati dal vuoto estetico e dal rigore razionale della casa d’un architetto, come se nulla dovesse distrarre dalla vista mozzafiato.
UNITÀ RESIDENZIALE AL SERVIZIO DELL’ALBERGO DIFFUSO DI PALUZZA Ceschia e Mentil Architetti Associati Tra le nostre bellissime montagne si “aggirano” architetture senza memoria, edifici che hanno interrotto qualsiasi dialogo con gli elementi salienti del paesaggio e che, nella maggior parte dei casi, sono privi di quei contenuti che consentano di leggere le reali peculiarità del costruire in montagna o in città, in collina o al mare. La nostra piccola costruzione sfugge alle regole della norma, realizzando di fatto un edificio linguisticamente “abusivo”. Sfugge al volere dell’abaco dei materiali. Sfugge per la semplicità e la schiettezza del volume edilizio, privo di qualsiasi sovrastruttura ornamentale finto-chalet. Sfugge per l’uso dei materiali di rivestimento e per la realizzazioni di alcuni elementi formali quali la grande finestra che si configura, dall’interno, come grande quadro astratto rivolto al paesaggio alpino la cui minima variazione della luce, determina condizioni estremamente dinamiche ed emozionali. I materiali esterni non sono trattati. Il rivestimento è risolto con dettagli non certamente raffinati ma legati a un modo di costruire che si ritrova nell’architettura rurale tradizionale sotto forma di pattern. Al tavolato di larice semplicemente avvitato a un doppio ordito in legno, è concesso di mutare il proprio aspetto, torcersi per la forza latente che il legno nasconde fino al momento della costrizione, sbiancarsi sotto il sole e la pioggia fino a diventare grigio e poi ancora nero. È l’accettazione dell’irregolarità, frutto del tempo e del clima che inevitabilmente modificano le cose in modo apparentemente casuale, fuori dal controllo della matita dell’architetto. La casa al suo interno offre una geografia domestica intimamente legata alla morfologia del sito. Uno spazio nero con una piccola finestra diventa il luogo per cucinare e mangiare, la grande vetrata senza telaio caratterizza il luogo in cui conversare, mentre una bassa finestra da cui è possibile continuare a osservare uno scorcio del paesaggio scolpisce una piccola alcova di legno, scrigno intimo in cui dormire. Il nostro progetto trasforma gli elementi costituenti uno stavolo esistente: il basamento murario, adibito alla stalla e luogo di riparo dei pastori, diventa il “sostegno” per una nuova e leggera struttura in legno a sostituzione di quella ammalorata che un tempo formava lo spazio del fienile. La parte basamentale in pietra, priva di fondazioni, è stata incamiciata da una doppia lastra armata in cemento armato, con lo scopo di rendere la struttura consona alla vigente normativa antisismica e idonea a sostenere la nuova struttura di legno. La struttura è costituita da aste sottili di legno e pannelli controventanti in agglomerato di legno. L’ imposta del piano che ospita la zona giorno (zona pranzo, cucina e piccolo soggiorno con vista sui monti) è rialzata un metro e venti sul piano di campagna. Questo dislivello di protezione dalla neve si supera mediante un blocco di cemento armato che porta all’ingresso, caratterizzato da una nicchia protetta prima di entrare in casa. Nel piano seminterrato si trova la zona notte e il piccolo bagno. La camera di questo piano è a prevalente utilizzo estivo. Infatti, per la stagione invernale, è previsto che il soppalco sopra la zona pranzo - accessibile da una botola con una scala a pioli - diventi un comodo e intimo giaciglio sotto le ampie falde del tetto. (testo di Federico Mentil)
CASA DI CACCIA TAMERS EM2 Architetti La realizzazione di questo piccolo insieme a circa 1400m di quota nel Parco naturale Fanes-Sennes-Braies (Dolomiti settentrionali) è stato possibile poichè esso ha sostituito casini di caccia preesistenti sul medesimo territorio. Nell’ambiente caratterizzato dai pini che si slanciano verso il cielo esaltando la loro verticalità, sono stati eretti due corpi nella tecnica a travi sovrapposte. Come in molti dei modelli svizzeri, le massiccie masse della struttura a blockbau poggiano su un basamento cementizio, ma questo elemento architettonico è stato qui utilizzato anche prolungandone una sezione fuori dal perimetro, a formare una sorta di muro di protezione della panca. Il muro contraddistingue l’edificio più grande, con soggiorno / cucina sotto e zona notte al piano superiore. La seconda costruzione ha la funzione di ambiente relax e la sua facciata può essere totalmente aperta per offrire ai suoi utilizzatori la natura nella sua genuicità, ad integrazione della semplice esperienza abitativa.
SNEFJORD ROAD STOP Pushak
Il progetto pervede la creazione di un’infrastruttura a livello nazionale, mirata non solo a dare riparo e offrire servizi di base ai viaggiatori ma anche a vivacizzare punti privilegiati facilitando l’interazione del turista con il paesaggio. Uno degli scopi del progetto è “democratizzare” il rapporto fra l’uomo e la natura, consentendo a chiunque di fruire del paesaggio norvegese. L’interazione fra architettura e natura diventa così parte della fruizione, oltre che parte della natura, rendendo il manufatto uno strumento importante per comunicare sia l’architettura nazionale sia il paesaggio norvegese al resto del mondo. Il sito in cui si trova questo belvedere a fianco della strada è un paradosso: dal mare spirano i venti più gelidi che si possono immaginare ma la vista sul fiordo è imperdibile. La risposta più ovvia, ma poco accettabile, per offrire riparo dal vento sarebbe stata quella di costruire un muro, che però avrebbe interrotto il panorama. Invece, si è scelto di punteggiare la zona tre “scatole-panca” prefabbricate che, con il loro diverso orientamento, permettono ai turisti di scegliere il sedile più adatto in base alle condizioni del vento e del sole. Le scatole sono utilizzabili in configurazioni flessibili che consentono di ottenere anche un creto grado di privacy. L’esterno è rivestito in lamiere di rame.
TIP - BOX
Christophe Benichou
Il meraviglioso panorama che si gode dal picco Sain Loup, Montpelier, ha ispirato l’architetto per il suo Tip-Box: un luogo di sosta e contemplazione per tutti gli escursionisti che raggiungono la vetta del picco. La struttura, poeticamente definita “un elogio al vuoto e inno alla vertigine”, ha la funzione di incanalare il disagio e la paura dell’ignoto in un’unica esperienza spaziale. Dopo aver salito sentieri boscosi, ed essere arrivati alla vetta della montagna, gli escursionisti potranno sperimentare un’improvvisa sensazione di smarrimento, se non si paura, nel trovarsi proprio sul bordo del precipizio, solo per poi rendersi conto di essere completamente al sicuro. La struttura volutamente inclinata del cubo proietta lo spettatore in avanti, per aumentare il senso di vuoto e la sensazione di sospensione nello spazio, evidenziando al tempo stesso la bellezza della regione.
TIMMELSJOCH EXPERIENCE Werner Tscholl Architects
Il progetto di riqualificazione della strada alpina del passo Rombo tra Austria ed Italia, avviato nel 2007-08, in previsione del cinquantesimo anniversario della realizzazione della strada del passo (1959), si basa su un virtuoso intreccio tra un’azione di recupero e sistemazione di opere stradali ed ambientali e la realizzazione di interventi di natura più propriamente architettonica ideati al fine di valorizzare la vocazione turistica della strada. Compreso tra il Passo Resia e il passo del Brennero, l’antico sentiero di valico che attraversa la dorsale alpina ha assolto un ruolo importante, in senso sia storico-culturale sia socio-economico, costituendo il collegamento più diretto tra l’alta valle dell’Inn e Merano. La sua trasformazione da impervia mulattiera a vera e propria strada carrozzabile si compie tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Il collegamento nord-sud attraverso le Alpi è chiaramente finalizzato all’incremento degli scambi economi e soprattutto dei flussi turistici tra i due versanti del Tirolo: esso avrebbe permesso, infatti, secondo uno slogan allora in voga, di “sciare al mattino sui ghiacciai della Otztal e nel pomeriggio andare a rilassarsi all’ombra delle palme di Merano”. Il primo tratto dell’intervento a trovare realizzazione è la salita al passo dalla parte austriaca: dodici chilometri di strada predisposti in diciassette mesi effettivi di lavoro, distribuiti in un’arco di tempo di quattro anni, causa la limitata agibilità del passo, aperto solo nei mesi tra maggio e novembre. Altri nove anni richiederà il comletamento del collegamento sul versante italiano, con il recupero del tracciato di una strada militare aperta negli anni Trenta. Le immagini dell’epoca restituiscono il faticoso lavoro di realizzazione della massicciata, eseguita da squadre di operai armati di piccozze e badili, solo in parte coadiuvati da mezzi meccanici per lo scavo e il trasporto dei materiali. Al tempo stesso, però, è proprio l’impiego della pietra naturale, cavata dal luogo, per i muri di conteniento e protezione della strada, per i paracarri e altri manufatti tecnici, a consentire la piena integrazione dell’opera nel paesaggio, conferendole un carattere unitario destinato ad essere offuscato dai sucessivi - e non semrpe coordinati - interventi di manutenzione. Il ritorno alla competenza delle amministrazioni locali delle strade di valico ha ispirtao un progetto di recupero e riqualificazione complessiva della strada del passo Rombo - al cui finanziamento contribuirà l’imposizione di un pedaggio - concepito come una sorta di piano regolatore. Obbiettivo del piano è stabilire una normativa generale e coerente per un’ampia serie di interventi quali la ristrutturazione dei muri di contenimento e la sistemazione delle gallerie, il consolidamento e ampliamento dei tornanti, il miglioramento del manto stradale, la realizzazione di aree parcheggio. Su questo quadro di opere strutturali, i cui effetti sono destinati a dispiegarsi progressivamente nel corso del tempo, si “fonda” l’operazione che ha portato alla costruzione dei quattro padiglioni lungo la strada e del Museo del Passo: “contenitori” di informazioni - sull’ambiente naturale, la storia e la cultura, gli aspetti sociali ed economici della regione - sicuramente più efficaci dei malinconici e spesso sbiaditi cartelli disseminati nei luoghi panoramici del Belpaese. I padiglioni disclocati nella parte austriaca sono il “ponticello” e il “contrabbandiere” e, sul lato italiano, il “telescopio” e “granati”. Il primo, ubicato in corrispondenza della stazione di pedaggio di Hochgurgl, offre informazioni sugli insediamenti umani nella regione alpina e coniuga il racconto degli elementi naturali - i boschi di Cimbri e i ghiacciai - con la possibilità di ammirarli direttamente, grazie ad un ponte a sbalzosulla valle dell’Otztal.
nella pagina precedente: “Ponticello”, “contrabbandiere”, “granati”, “telescopio” qui sopra: il Museo del Passo -Werner Tscholl Architects - 2011
Il secondo padiglione, collocato in corrispondenza dell’incrocio fra la strada carrabile e il sentiero che collegava Zwieselstein e Moso, ospita al proprio interno pannelli che raccontano i secolari traffici leciti e non - che si svolgevano tra i due versanti del passo. Sul versante italiano l’installazione “granati” è composta da due strutture sfaccettate, ispirate dalla forma geometrica dei cristalli; una contiene una piccola mostra permanente e l’altra una piattaforma panoramica affacciata sulla Val Passiria. Sempre sul versante italiano troviamo il “telescopio” che sorge in una posizione strategica, sotto la cima Scheibkopf, avvalendosi di un panorama straordinario, aperto a 180° sul gruppo del Tessa, e con la possibilità di focalizzare, grazie appunto ad un telescopio, il Monte Principe e il Monte dei Granati. La serie di interventi culmina nel piccolo museo eretto in cima al passo. La costruzione, allestita interamente con le riproduzioni di fotografie d’epoca che restituiscono la storia della realizzazione della strada del passo, appare esternamente come una sorta di masso erratico, ancorato attraverso le strutture di fondazione al suolo austriaco ma proteso per sedici metri sul territorio italiano. Pur non presentando l’edificio complessità particolari dal punto di vista strutturale, la realizzazione delle casseformi delle pareti ha richiesto la predisposizione di numerosi e accurati disegni esecutivi, con l’indicazione delle dimensioni e soprattutto di tutti gli angoli di rotazione delle superfici, mai ortogonali tra loro. Il risultato di questa reiterata irregolarità geometrica è una percezione continuamente diversa, in relazione al punto di vista dell’osservatore, del volume che si staglia sullo sfondo costituito dalle montagne innevate. Ricchi di rimandi alla topografia dei luoghi, i padiglioni e il museo si configurano infine come un sistema di piccole architetture “parlanti”, capaci di evocare - e trascendere - il paesaggio che le accoglie.
IL RIFUGIO
NASCITA DEL RIFUGIO In una società in rapida trasformazione, niente può essere ricondotto a modelli di immutabilità a carattere definitivo. Ciò vale anche per i rifugi alpini. L’idea del rifugio sorge, infatti, nella fase di nascita e diffusione del turismo alpinistico, allorquando gli appassionati di montagna si organizzano in forma associativa ed avvertono il bisogno di costruire strutture finalizzate a dare ricovero a cittadini-turisti fisicamente lontani dalle terre alte. Gli abitanti delle montagne avevano, infatti, i loro ricoveri destinati a garantire la presenza in quota nei periodi di stagionalità agro-pastorale. Erano ricoveri legati al territorio ed alle sue vocazioni originarie, costruiti per esigenze di lunga durata e adattati alle mutevoli ragioni della sopravvivenza. Ma quando l’invenzione turistica delle montagne genererà nuovi bisogni nasceranno strutture che, con le attività tradizionali, non avranno più nulla da condividere. La montagna si arricchirà di nuove costruzioni separate dal contesto rurale e finalizzate a destinazioni d’uso fino a quel momento impensabili. Luoghi della fatica contadina si affiancheranno, così, a luoghi reinventati dalla fatica alpinistica. I “signori” aristocratici e borghesi arrivati dalle città di pianura, spinti da un prorompente immaginario romantico, contribuiranno ad alimentare il nuovo spirito del rifugio in una direzione specificatamente protettiva. Le soluzioni architettoniche seguiranno l’evoluzione del gusto estetico nel tentativo di riprodurre il senso ed il significato della montagna secondo gli stilemi rappresentativi dello specifico momento storico. Il legame con il territorio e con il genius loci che lo rappresenta è perciò mediato da una visione esterna “ideal-tipica”, anche se rispettosa dei materiali presenti in loco, rigorosamente funzionale ad un’economia ecologica irrinunciabile. Dall’alberghetto di fondo valle o di mezza costa, la salita al rifugio assumerà il significato di una peregrinazione catartica, liberatoria, quasi “religiosa” in senso etimologico, capace di istituire un legame fra il basso e l’alto, fra la quotidianità prosaica e l’innalzamento selettivo. La frequentazione alpinistica delle montagne innesca, pertanto, nuove forme di comportamento improntate ad un nomadismo verticale a tappe che, con gli usi pastorali, condivide ancora i percorsi di salita ai rifugi attraverso il reticolo dei sentieri di transumanza. I mezzi meccanici non hanno fatto ancora la loro comparsa ed i dislivelli devono essere superati a piedi, con le sole forze fisiche. Il rifugio diventa, allora, un punto di sosta intermedia di breve durata, in attesa del balzo finale verso la vetta. Viene a costituire una tappa, su piccola scala, della tradizionale pratica rurale della monticazione intermedia, in attesa dell’inalpamento finale. Si va definendo, in tal modo, una “cultura del rifugio” che, nelle sue diverse articolazioni regionali, alimenta una potente mitologia affidata al racconto rievocativo proprio di un’epopea al tramonto.
Oggi la situazione non si presenta più in queste forme. La viabilità stradale di arroccamento, gli impianti di risalita meccanici, rendono il rifugio – soprattutto quello di media montagna – non più automaticamente funzionale alla domanda alpinistica delle origini. La crisi dell’alpinismo classico, la crescita quantitativa dell’escursionismo in tutte le sue declinazioni, fanno del rifugio un qualcosa di progressivamente diverso rispetto al passato. Il turismo di massa, a partire dagli anni sessanta/ settanta del secolo scorso, ha modificato radicalmente il sistema dei bisogni creandone di nuovi e soppiantando i vecchi. Molte strutture, in alcuni settori delle Alpi, erano incustodite, prive di gestore, affidate al solo volontariato associativo ed all’animo spartano dei frequentatori, le cui esigenze non andavano oltre l’essenziale. Quelli custoditi, ubicati nelle aree turisticamente più richieste ed ambite, venivano e vengono affidati alle guide alpine che, fino a non molti anni fa, erano quasi interamente valligiani, uomini del territorio, portatori di interesse locali. I tempi e le situazioni cambiano, però, con una velocità che talvolta diventa impossibile inseguire. Eppure, ragioni pragmatiche di offerta legate alle nuove forme di turismo dovrebbero, in qualche modo, anticipare le tendenze legate a bisogni sempre più diversificati nella domanda. La sfida postmoderna della complessità si gioca anche su questo terreno. Durante i mesi estivi, molti turisti vedono nel rifugio una meta appetibile da raggiungere. Il sogno di avvicinarsi alle grandi montagne, senza rischiare troppo, trasforma il raggiungimento del rifugio in una meta desiderata, a portata di quasi tutte le età. Un luogo dove ritrovare una sociabilità perduta nella frenesia della vita urbana e sperimentare quell’atmosfera incantata che il nome stesso di “rifugio” suscita ancora nella nostra società del disincanto. La magia del guscio protettivo costituisce, infatti, un potente fattore di seduzione che sarebbe ingiusto negare. In questa rappresentazione dell’incantamento, contrastante con le attuali visioni del mondo proiettate verso l’annientamento dello stupore e della meraviglia, l’atmosfera del rifugio è tutt’altro che perduta. Può essere ancora la molla capace di tenere vivo l’interesse, sia di chi si avvicina per la prima volta alla montagna, sia chi si appaga ciclicamente di un déja vu affascinante. Sembra quasi ripetersi la contrapposizione che, a fine Ottocento, opponeva i fautori della conquista delle vette, soci dell’Alpine Club di Londra, a quei personaggi come John Ruskin che sostenevano la visione a distanza delle montagne, “cattedrali della Terra” da contemplare senza conquistare. Anche se le motivazioni alla base dei nuovi frequentatori della montagna non sono sempre riconducibili a queste sublimi e raffinate riflessioni eticoestetiche, resta il dato inoppugnabile dell’emergere di un modo diverso di frequentare i rifugi, che richiede coraggiosi ripensamenti sul loro ruolo al servizio della montagna. Tradizione ed innovazione sono concetti e pratiche che non possono venire disgiunti in quanto è in gioco un’identità in movimento, quella dei rifugi appunto, che non può rinnegare una tradizione consolidata ma che, al tempo stesso, deve porre mano a forme di rivisitazione progettuale e gestionale imposte dalla rapida evoluzione dei tempi. Il rifugio, per sua stessa definizione e poiché le parole dovrebbero essere lo specchio delle cose (basti pensare al valore della toponomastica storica nelle Alpi), non può e non deve essere confuso con la struttura alberghiera. Ma ciò non giustifica l’atteggiamento purista di restare ancorati ad una falsa immutabilità che, in nome di una discutibile autenticità, si carica di repertori retorici disancorati dalla realtà sociale ed economica. Innovare in maniera sobria e rispettosa significa governare le spinte al cambiamento, gestirle in modo da evitare che le voglie di nuovismo ad ogni costo possano generare sradicamenti territoriali o spaesamenti mentali. Sarebbe un porsi fuori dalla storia la quale, nel suo incessante dinamismo, travolge tutto ciò che le resiste.
Rifugio Vallont, Monte Bianco, 1909
L’EVOLUZIONE DEL RIFUGIO Nell’ottica della problematica tradizione–innovazione, ho tentato di stabilire una tipologia basata su sei tipi di rifugi che, a mio modo di vedere, riflettono la particolarità e la diversità di queste costruzioni in chiave architettonica e funzionale. - Il rifugio primitivo, di fortuna, rudimentale - Il rifugio derivato da costruzioni agro-pastorali, militari e di cantiere - Il rifugio tradizionale fatto con il materiale del luogo - Il rifugio ampliato, ristrutturato, modernizzato - Il rifugio moderno, Hi-Tech, futurista
IL RIFUGIO PRIMITIVO, DI FORTUNA Nel corso del 19° secolo, le ascensioni più frequenti verso le cime di 3’000 – 4’000 metri trasformarono le escursioni alpine in spedizioni sempre più lunghe e faticose. Si dovette dunque creare degli alloggi d’altitudine che permisero agli alpinisti di effettuare le ascensioni in due o più giorni. Nacquero così i primi rifugi rudimentali costruiti perlopiù con il materiale del luogo, la pietra innanzi tutto. Il primo rifugio del Club Alpino Svizzero, per esempio, fu la Grünhornhütte (2’448 m.) nel massiccio del Tödi, costruita nel 1863 con la pietra del luogo e rammodernata diversi anni dopo. Il locale unico serviva da cucina-soggiorno e dormitorio; se esistevano due vani, il dormitorio si situava generalmente al 1° piano. Il primo rifugio dei Pirenei fu pure costruito nella stessa epoca e, fuori Europa, si riscontrano ancora alcuni rifugi di fortuna come per esempio oltre oceano quello della Soufrière nella Guadalupa. Grazie alla flessibilità del materiale, verso la fine del 19° secolo, le costruzioni di legno rimpiazzarono le semplici capanne in pietra come ad esempio la Finsteraarornhütte, 3’048 m., la Weisshornhütte, 2’900 m. e la Blüemlisalphütte, 2’800 m. tutte situate nella Svizzera tedesca. Dal punto di vista economico, questi rifugi primitivi non costi- tuivano un apporto decisivo a parte una qualche ricaduta presso i commercianti, gli agricoltori, le prime guide di montagna e i portatori delle valli e dei villaggi vicini. In quei tempi non si parlava ancora di ambiente e di ecologia; nei rifugi mancava l’acqua, la luce, le latrine. Come i pastori del luogo, per tutti i bisogni naturali si andava dietro una roccia. Per lavarsi si usava l’acqua del ruscello o si scioglieva la neve. Per cucinare si cercava la legna sul posto o la si portava dal basso. Per rischiarare l’unico locale bastava la candela o la lampada a petrolio. Per quel che riguarda la dinamica sociale e culturale i primi pionieri della montagna, inglesi in buona parte, si ritrovavano dopo ore di marcia e di arrampicata in un esiguo locale per discutere e fraternizzare. In questo contesto mancavano forse gli abitanti del luogo, occupati più nei lavori agricoli e artigianali che nell’andare per le cime. Alcuni contatti sporadici avevano luogo con pastori e casari impiegati nelle malghe di alta quota all’occasione dell’acquisto di prodotti lattiero-casearii.
Malga Romeno, Monte Roen
IL RIFUGIO DA COSTRUZIONI AGRO-PASTORALI Un secondo tipo di rifugio è quello che fa capo a delle costruzioni preesistenti come i maggenghi (abitato intermedio, generalmente di tipo privato e legato alla transumanza del bes- tiame), gli alpeggi o malghe (abitato superiore della transumanza estiva, generalmente di tipo cooperativo), opere militari in particolare nelle zone di confine e vecchie baracche di cantiere costruite all’occasione di lavori idro-elettrici o impianti di linee dell’alta tensione in particolare. Il rifugio Cuney, per esempio - Valle d’Aosta, comune di Nus –2’652 m. è ricavato da un antico ricovero che serviva (e serve ancora) ad accogliere i pellegrini che si recano al Santuario di Cuney. Si tratta della processione religiosa all’oratorio più alto di Europa. Il rifugio della Tsissette - VS (2’005 m.), del Piano delle Creste – TI (2’108 m. ) e Alzasca – TI (1’734 m.) sono dei vecchi alpeggi parzialmente trasformati per ricevere alpinisti ed escursionisti. Il primo accoglie ancora del bestiame durante la stagione estiva, i proprietari praticano dunque una forma di agriturismo d’alta quota. Le strutture seguenti sono in parte alpeggi e vecchi maggenghi appartenenti a corporazioni di diritto pubblico che possiedono dei beni comuni come pascoli, boschi e malghe (patriziati, vicinie, comproprietari) o a piccole associazioni alpinistiche ed escursionistiche locali come la Società Escursionistica Verzaschese (cantone Ticino). Per quel che riguarda i vecchi cantieri, troviamo per esempio la capanna Ganna Rossa - TI (2’256 m.), donata da una società elettrica a un’associazione alpinistica locale (UTOE, sezione di Faido) dopo la fine dei lavori d’impianto di una linea d’alta tensione e il rifugio del Vieux Emosson – VS (2’205 m.), vecchia baracca usata per la creazione della diga del lago artificiale che porta lo stesso nome. I due esempi di rifugi derivati da costruzioni militari si situano non molto lontano dalla frontiera italo - svizzera; il Monte Tamaro - TI (1’867 m.) e il rifugio Monte Leone – VS (2’848 m.). Queste vecchie costruzioni che non servivano più all’esercito svizzero sono state donate a due società alpinistiche.
Capanna Piano delle Creste
CAPANNA PIANO DELLE CRESTE, VALMAGGESE La Capanna Piano delle Creste è suddivisa in due stabili indipendenti e ciascuno è dotato di cucina e dormitori. In quella che per tutti è ‘la capanna vecchia’ (la prima ad essere costruita) abbiamo al piano inferiore la cucina ed un dormitorio per 14 persone, mentre al piano superiore troviamo ancora un dormitorio per 7-8 persone ed in più un ricovero per altre quattro persone che viene utilizzato solo in caso di necessità e solo durante i periodi di presenza del guardiano. Il dormitorio del piano superiore è accessibile anche durante i mesi invernali, quando la porta principale della Capanna è chiusa per evitare danni causati dalle forti nevicate, dalla finestra sul lato est, apribile anche dall’esterno e raggiungibile con una scala con gradini fissati sul muro esterno. (La possibilità di utilizzare la Capanna anche durante i mesi invernali non deve essere motivo per escursioni in questi mesi, in quanto il sentiero, in caso di presenza di neve diventa pericoloso per la caduta di valanghe ed inoltre occorre ricordare che per lunghi mesi il sole non raggiunge la zona della Capanna e la temperatura quindi rimane per lunghi periodi ferma a parecchi gradi sotto lo zero.) In ‘Capanna nuova’ abbiamo invece un’ampia sala da pranzo con cucina al piano inferiore, mentre al piano superiore troviamo un dormitorio con 16 posti letto e la camera privata dei guardiani. Al piano inferiore sono ubicati anche un locale magazzino e i servizi (WC, lavello e doccia). Un altro servizio è posto all’esterno, proprio dietro alla capanna vecchia.
Capanna Alzasca, Val Sodalino, 1956
CAPANNA ALZASCA, VAL SOLADINO La capanna è stata realizzata in due vecchi cascinali dell’alpe Alzasca, i quali sono stati sistemati per rispondere alle esigenze degli ospiti. Essa è completamente arredata e dispone di una cucina con una stufa a legna e una a gas, forno, stoviglie e posate per trenta persone. Acqua corrente e servizi igenici si trovano all’interno; l’illuminazione viene fornita da una turbina idroelettica accoppiata a celle fotovoltaiche. I posti letto, 29 in tutto, dotati di piumoni, sono ripartiti tra due stabili (13 + 7 + 9 + 7 emergenza). Telefono di soccorso nell’edificio principale. La capanna è aperta tutto l’anno (ma in inverno i posti letto sono ridotti a 13). Durante il periodo estivo viene gestita da volontari ed è possibile usufruire della mezza pensione.
Rifugio Tosa, Gruppo del Brenta, 1881
IL RIFUGIO TRADIZIONALE FATTO CON MATERIALI DEL LUOGO Si tratta del tipico rifugio in pietra, costruzione massiccia a più piani, che si ritrova ancora sovente sulle nostre montagne. Le sommarie capanne di legno dell’inizio del XX secolo sono, infatti, rimpiazzate da questo tipo di rifugi. In questa categoria esistono pure dei rifugi di legno ma ben più recenti delle costruzioni d’inizio secolo. Nei Pirenei ritroviamo anche delle costruzioni più basse con il tetto arrotondato e non a due falde come nella catena delle Alpi. I nostri esempi si riferiscono a quattro rifugi in pietra del Trentino (come il Rifugio Carè Alto, foto 4), a uno della Valle Formazza / Piemonte, a quattro esempi svizzeri di stile detto patriottico “Heimatstil” riconosciuti dall’associazione del patrimonio svizzero e tipici di quell’epoca. Un altro esempio riguarda il rifugio del lago Miserin (Valle d’Aosta), ex ospizio per i viandanti che si recavano al vicino Santuario della Madonna delle Nevi costruito nel 1’630. Il santuario è ancora oggi meta di pellegrinaggi e contiene una serie di ex-voto molto interessanti. Terminiamo con un rifugio valdostano, quello di Arbolle, che si trova sulla via del Monte Emilius. Per quel che riguarda i rifugi di legno, troviamo quello di Campana di Cloutou nei Pirenei, Il rifugio Bozano della valle Gesso nei pressi di Valdieri, il rifugio Plan des Gouilles in Savoia, il rifugio Tighettu sulla Grande Randonnée no 20 in Corsica (1783 m.). La loro vocazione economica è generalmente buona poiché la capienza è importante e il numero degli utenti in aumento. Si tratta perlopiù di strutture custodite con vitto e pernottamento compreso. La clientela di tipo famigliare e gli escursionisti occasionali sono sempre più numerosi grazie anche all’accessibilità agevolata; molti di loro salgono solo per una scampagnata e per il pranzo. Gli introiti finanziari sono anche in questo caso interessanti. Pure l’economia locale trae vantaggio dall’affluenza a questi rifugi: commerci, ristoranti, aziende di trasporti pubblici. Dal punto di vista ecologico, questo tipo di rifugio presenta spesso degli aspetti positivi soprattutto per quel che riguarda il settore dell’energia. I pannelli fotovoltaici per la produzione di acqua calda e per la corrente elettrica sono sempre più di attualità, gli impianti igienici (WC, lavabi, docce) sono più confortevoli ma l’assenza di epurazione delle acque luride resta il problema principale. Si procede spesso alla raccolta e alla separazione dei rifiuti soprattutto per quel che riguarda lattine e rifiuti organici. L’integrazione di questi rifugi al paesaggio è buona soprattutto grazie all’impiego di materiali locali. Per quel che riguarda l’aspetto sociale e culturale, possiamo notare una certa implica- zione e partecipazione della collettività locale; il rifugio diventa una meta per il fine setti- mana delle popolazioni dei villaggi vicini; ci si sposta in famiglia e si resta generalmente per il pranzo. Esiste pure una certa forma di lavoro volontario che implica la comunità locale all’occasione dell’apertura e della chiusura del rifugio e sovente, in quelle occasioni, vengono organizzate delle feste. Le relazioni, gli scambi e le amicizie tra i diversi attori della montagna, che siano escursionisti, gestori o abitanti del luogo restano ottime.
Capanna del Corno Gries, Canton Ticino, 1927, ampliamento 2008
IL RIFUGIO AMPLIATO, RISTRUTTURATO, MODERNIZZATO Quando un rifugio diventa troppo piccolo e non può più far fronte alla domanda, è generalmente ampliato alfine di aumentarne la capacità. In questo frangente si approfitta pure per ristrutturarlo e modernizzarlo alfine di migliorare la qualità dei servizi offerti. Ci si ritrova dunque con una nuova struttura che presenta una parte vecchia completata con un’altra più recente, di tipo diverso e fatta generalmente con materiali differenti. Il nostro primo esempio, la capanna Bertol nel cantone Vallese non corrisponde totalmente al tipo di rifugio qui descritto perché la vecchia struttura è stata completamente rimpiazzata da una nuova e la sua accessibilità migliorata con scalinate di ferro. La presentiamo ugualmente perché ci sembra interessante di mostrare la sua localizzazione par- ticolare. I lavori eseguiti alla capanna Barone sono interessanti per il motivo che hanno rispettato la sua tipologia di origine (forma e materiale). A nostro avviso, la nuova struttura s’integra bene nel paesaggio. Il caso della capanna Corno – Gries (2338 m.) Ticino è diverso; della vecchia struttura restano i muri, la nuova ha una forma di piramide di legno capovolta e mozza che riposa sullo zoccolo della vecchia costruzione. Riportiamo qui il punto di vista di un utente: “Il piano superiore dà una sensazione di protezione. Sembra lo scafo di un’arca arenata. Nei dormitori famigliari con la finestra a oblò dormiamo sotto piumoni avvolgenti accanto a fiori essiccati disposti in vasi moderni e sistemiamo torcia frontale, spazzolino da denti e telefonino con la sveglia nei cestini realizzati in telo da vela”. Allo scopo di ampliare la capanna della Täschütte (VS) si è realizzata una costruzione di legno a forma di parallelepipedo che si è voluto affiancare alla vecchia costruzione. Essa permette di ospitare 78 persone in dormitori e camerette con doccia. Come per la stragrande maggioranza di questi interventi, si è dunque voluto creare delle camere soprattutto per le famiglie che desiderano pernottare sul posto e dei servizi igienici più confortevoli. Il caso del rifugio Vittorio Sella nella Valle d’Aosta è diverso. Questa vecchia malga che si trova poco lontano dall’ex casa di caccia del Re Vittorio Emanuele è stata ristrutturata in modo da rispettare la tipologia iniziale. Infine, al rifugio del Trient (VS/ foto 6), tipica costruzione degli anni trenta del Club Alpino Svizzero, è stato affiancato nel 2006 un cubo di cemento e metallo. La messa a disposizione di nuove strutture e l’offerta di posti supplementari permette un’affluenza maggiore di ospiti, l’attrattività del rifugio è certamente migliorata grazie alla qualità dei nuovi servizi offerti (camerette, docce, ristorazione, locali più ampi e luminosi). L’economia del rifugio ha dunque tutto da guadagnare con questo tipo di ristrutturazioni. Grazie alla venuta di numerosi utenti, l’economia locale si ritrova pure avvantaggiata anche per il fatto che questo tipo di costruzioni contribuisce alla promozione turistica del territorio. Con questo tipo di ristrutturazioni, gli aspetti ecologici del rifugio si ritrovano senz’altro avvantaggiati in particolare dal punto di vista della produzione e del consumo di energia, della gestione delle acque e dei rifiuti. Questo rifugio si contraddistingue dal fatto di essere una via di mezzo tra il tradizionale e il moderno. La struttura può essere dunque percepita positivamente o in maniera negativa soprattutto per rapporto alla sua integrazione nel paesaggio. L’aspetto sociale e culturale, l’implicazione e la partecipazione degli ospiti e della popolazione locale varia dunque secondo il tipo di percezione che si ha della struttura.
rifugio dei Grands Mulets, 1853, con intervento attuale 1959
RIFUGIO DEI GRANDS MULETS AL MONTE BIANCO Scalato per la prima volta nel 1786, solo da metà Ottocento diventano frequenti le salite al tetto delle Alpi. Così, oltre all’accompagnamento, le guide di Chamonix offrono ai clienti anche l’ospitalità per la notte circa a metà percorso. Ai Grands Mulets, presso la costola di roccia che emerge dai ghiacciai, il 21 settembre 1853 s’inaugura un ricovero in legno (2,15 x 4,3 m), ampliato nel 1866-67 con tre nuove camere (una cucina-soggiorno e due per gli alpinisti) e nel 1897. In seguito al primo ampliamento, con grande anticipo sui tempi, s’insedia un gestore. Per sei anni consecutivi assolverà al compito la guida Sylvain Couttet. In proposito, Joseph Vallot scriverà: «L’installazione divenne lussuosa: si portarono delle brande, dei veri letti con le lenzuola. Infine, una cuoca fu assegnata al rifugio e vi soggiornava da luglio a settembre. La cosa non avvenne senza difficoltà; durante i sei anni, Couttet fu costretto a cambiare cuoca quasi ogni anno; tutte trovavano il clima troppo rude e non potevano sopportarlo. Solo nel 1878 si troverà “una donna assai valorosa (...) Marie Tairraz, il cui buon umore e le attenzioni non venivano mai meno malgrado le fatiche eccessive di un servizio che esige che si stia in piedi giorno e notte durante la settimana dopo essere stata molti giorni in assoluta solitudine, a una temperatura polare in mezzo a tempeste spaventose”». Più volte trasformato nel Novecento, il rifugio verrà definitivamente sostituito su progetto dello studio Lederlin e Kaminsky nel 1958-59 da uno molto più grande, in pannelli di alluminio prefabbricati, posati direttamente in opera dall’elicottero.
Capanna Margherita sul Monte Rosa, 1893, stato attuale, 1980
RIFUGIO-OSSERVATORIO REGINA MARGHERITA SUL MONTE ROSA Nel 1892 si sbancano quasi 50 metri cubi di roccia sulla Punta Gnifetti, quarta vetta del Monte Rosa, al fine di costruirvi un rifugio destinato ad alpinisti (come punto d’arrivo) e scienziati. A lavori quasi ultimati, il 18 agosto 1893 vi pernotta la regina Margherita di Savoia, salita a piedi con il seguito. Il progetto è del falegname bavarese Benedikt Pfetterich, al servizio del barone Luigi de Peccoz cui, insieme ai figli e nipoti di Quintino Sella, si deve l’impresa conclusa il 4 settembre 1893 e costata 18.000 lire. Il manufatto (3,60 x 9,68 m con tre stanze: cucina, dormitorio e osservatorio) è realizzato in tavole di larice d’America tagliate in falegnameria a Biella e montate a Gressoney Saint Jean. La capanna (115 quintali, arredi esclusi), è quindi smontata e trasportata a spalle in vetta in meno di tre mesi. Sull’intelaiatura di travi e pilastri, solidarizzati da piastre metalliche, è montato un rivestimento di 26 cm composto da tre strati separati da intercapedini d’aria. Su disegno dell’ingegner Alberto Girola la capanna sarà ampliata nel 1897 (con l’inserimento a nord-est dei due locali sovrapposti della torre-osservatorio, sormontati dal terrazzo) e nel 1902. Nel 1980 sarà demolita per far posto a un megarifugio da 70 posti letto. Dal 1913 è la costruzione più alta d’Europa, dopo lo smantellamento del coevo osservatorio Janssen in vetta al Monte Bianco (4810 m).
Capanna Michela, Alpe Motterscio, 1967, ampliamento 2006
CAPANNA MICHELA, ALPE MOTTERASCIO La Capanna Michela è situata a 2172 metri slm sull’Alpe Motterascio, nell’altopiano della Grenia, una regione protetta inserita nill’Inventario federale dei paesaggi, dei luoghi e dei monumenti naturali d’importanza nazionale. L’edificio è costrutio con pannelli intelaiati di legno ed isolati, completamente prefabbricati e montati nell’arco di una giornata con l’ausilio dell’elicottero. Lo spesore dell’isolamento è di 20 cm , all’interno gli ambienti sono rivestiti in abete, mentre l’esterno è in rame a garantire lunga durata e ottime capacità di assorbimento calorico per irraggiamento. L’edificio, al fine di evitare una grande estensione di fondazioni in cemento, presenta una superficie a contatto con il suolo molto ridotta e si sviluppa prevalentemente in altezza, ottenendo il duplice risultato di innescare un contrasto con l’orizzontalità del rifugio esistente e di creare un segno forte del paesaggio. La grande apertura ad angolo dell’area comune e i pannelli fotovoltaici, veri e proprio elementi architettonici autonomi, caratterizzano l’edificio, che con la sua superficie metallica dall’ossidazione scura ben si adatta alle montagne detritiche quasi nere che incorniciano l’alto altipiano brullo. Dal punto di vista impiantistico la semplificazione è assoluta: il rifugio esistente è scaldato a legna, mentre l’ampliamento non ha nessun sistema di riscaldamento. Poichè viene usato solo durante l’estate, le grandi vetrate orientate a sud-ovest lasciano filtrare i raggi solari e la coibentazione elevata della sctola fa si che il calore, anche generato dai frequentatori, venga rilasciato con lentezza. Il prospetto nord, inoltre, non presenta aperture. I pannelli fotovoltaici sulla facciata sud sono sufficienti a garantire l’approvvigionamento elettrico, mentre le acque raccolte dallo scioglimento della neve vengono accumulate in serbatoi e poi utilizzate per l’acqua di scarico e dei servizi. Il tetto piano presenta numerosi vantaggi, innanzitutto il carico della neve è sempre simmetrico, non c’è il rischio di cadute improvvise, inoltre il solaio è dimensionato per sopportare fno a 7m di neve bagnata, ma in realtà il vento libera la copertura dal manto nevoso, che raramente quindi supera il metro. Progettazione dettagliata, attenzione ai materiali, supervisione continua dei costi delle diverse soluzioni tecnologiche e cantiere molto rapido, sembrano dunque essere i requisiti necessari per costruire in quota: la montagna infatti non perdona, neanche in architettura.
Rifugio Gouter, Monte Bianco, 2012
IL RIFUGIO MODERNO, HI-TECH, FUTURSITA Quando l’architettura si confronta direttamente alla natura senza alcuna relazione con un ambiente costruito, non è sempre facile realizzare una nuova struttura. La realizzazione di questa dipende ancora una volta dalla nostra percezione del paesaggio e dal rapporto che abbiamo con la natura. Esercitando la loro professione in un ambiente di alta montagna (ultimo paesaggio veramente naturale) gli architetti indossano con i loro progetti una responsabilità particolare. Per gli abitanti del piano, le relazioni con la montagna sono sovente emotive e influenzate da una serie di miti e di stereotipi e le innovazioni in materia di architettura non sono spesso giudicate in modo positivo. L’universo rassicurante dello “chalet” e dell’architettura vernacolare in generale resta pur sempre radicato nelle coscienze di buona parte degli utenti della montagna anche se essa, da luogo della memoria, si trasforma sempre più in un terreno sportivo e le Alpi in uno spazio economico importante. I rifugi di montagna sono oggi ben più voluminosi, meglio equipaggiati e più confortevoli. L’elicottero e le moderne tecnologie del legno contribuiscono a ridurre il tempo di esecuzione e a ottimizzare il costo della costruzione. Malgrado diversi tentativi (vedi tipo precedente) oggi è difficile adattare i rifugi esistenti alle esigenze attuali; si assiste di conseguenza alla realizzazione di trasformazioni integrali o alla ricostruzione di nuove capanne sul medesimo sito. L’aumento considerevole degli ospiti ha come corollario un potenziamento del confort: si abbandonano i dormitori a favore delle camerette, s’installano i lavabi interni, l’acqua calda e le docce. La domanda in materia culinaria cambia; dal piatto unico si passa al menù alla carta. Gli escursionisti e gli alpinisti si comportano ormai come dei clienti, pagano e vogliono essere serviti. I rifugi sono stati per lungo tempo sinonimi di vita comune, di volontariato e di vita associativa ma la tendenza attuale è piuttosto quella dell’individualismo e della mancanza di rispetto; i comportamenti sociali della pianura sono esportati in montagna come per esempio il fenomeno del vandalismo. Tutti questi aspetti sociali e altri ancora, di tipo economico o ecologico, esigono delle risposte architettoniche che si materializzano nei nuovi rifugi di montagna. Per quel che riguarda i nostri esempi, possiamo notare la predominanza del legno, del metallo e del vetro. La capanna metallica del Velan si evidenzia per la sua forma cilindrica; il rifugio Cristallina ha rimpiazzato il vecchio rifugio spazzato da una valanga. La mitica capanna Margherita a quota 4554 m. sul Monte Rosa oltre che a svolgere la funzione di rifugio, è ancora oggi un osservatorio meteorologico della Regione Piemonte e un laboratorio scientifico convenzionato con l’Università di Torino. Nello 2002 la Capanna Regina Margherita ha ottenuto la Certificazione UNI EN ISO 14001 che comprova il suo minimo impatto sull’ambiente circostante. Il rifugio Schiestlhaus-Hochschwab (Austria) è un modello di ecologia totale: costruzione di legno secondo gli standard della casa passiva, autosufficienza energetica grazie all’uso di energia solare, depurazione biologica delle acque luride e utilizzo dell’acqua piovana. Esso è inoltre pensato come progetto pilota e dimostrativo, nel quale sono testati una tecnologia sostenibile ed ecologica e una progettazione intelligente dello spazio. Il rifugio Vittorio Emanuele (AO) e il rifugio Piero Garelli (Alpi liguri) si distinguono pure per le loro forme futuriste. A 2883 metri d’altitudine, fra i ghiacciai e le imponenti vette vallesane, la nuova capanna del Monte Rosa brilla come un cristallo nella roccia.
Capanna del monte Rosa, 2009
Inaugurata nel settembre del 2009, l’edificio futuristico è subito diventato un’attrazione turistica. Unico nel suo genere, esso abbina architettura all’avanguardia, alta tecnologia e sviluppo sostenibile. Essa produce in autarchia il 90% dell’elettricità necessaria per il suo funzionamento nel pieno rispetto dell’ambiente. Ciò è possibile grazie a dei pannelli fotovoltaici integrati nella facciata sud. Anche per l’acqua è stato studiato uno speciale sistema d’immagazzinamento: il prezioso liquido è reperito in estate attraverso lo scioglimento della neve dei ghiacciai e successivamente conservato in un grande serbatoio sotterraneo in modo da poterne disporre anche nei mesi invernali. Tutti gli impianti idraulici sono stati progettati nel rispetto dell’ambiente. Ad esempio, le acque grigie – come quelle usate in cucina o per fare la doccia – sono filtrate e riciclate per gli sciacquoni dei servizi igienici. Il rifugio rimane un importante strumento di ricerca negli ambiti dell’efficienza energetica e delle tecnologie edilizie. Gli esperti del Politecnico zurighese ne hanno fatta una sorta di laboratorio nelle Alpi, dotandolo di un sofisticato sistema informatico che permette di raccogliere costantemente informazioni di diversa natura sul clima e sui parametri dell’edificio (ad esempio sull’acqua o sull’energia accumulata). Per terminare, presentiamo due progetti di rifugi Hig-Tech: il rifugio Verde previsto a quota 3’800 m. nella regione del Monte Bianco e un progetto di uno studente d’architettura dell’Athenaeum Europe di Losanna, Ludovic Beau. Come per il tipo precedente, dal punto di vista economico, questo rifugio presenta degli aspetti interessanti. Grazie ai servizi offerti, al suo confort e alla sua attrattività turistica, l’affluenza degli utenti è importante. Come per l’esempio precedente, questo tipo di rifugio interessa pure da vicino lo sviluppo economico del territorio che approfitta della sua presenza per ampliare e migliorare la sua offerta turistica. Come abbiamo potuto già vedere, dal punto di vista ecologico questo rifugio risponde alle esigenze più elevate dal punto di vista della produzione e del consumo di energia, della gestione delle acque e dei rifiuti. Alcune di queste strutture-pilota sono diventate dei modelli e dei centri di ricerca in campo ecologico sull’esempio della nuova capanna Monte Rosa e del rifugio Schiestlhaus-Hochschwab che si sono trasformati in veri laboratori nelle Alpi. Dal punto di vista della sua inserzione nel paesaggio (e questo vale anche per l’esempio precedente), le opinioni possono essere estremamente positive o assolutamente negative. La percezione che si ha della costruzione può condizionare tutta una serie di elementi sociali e culturali degli utenti e degli abitanti del luogo come la loro identificazione al rifugio, la loro implicazione e partecipazione alla vita stessa della struttura, il suo legame al territorio.
Rifugio Ice-Q, Solden, 2013
RIFUGIO ICE-Q, SOLDEN Si inaugura nel dicembre 2013 a Sölden, in Tirolo, ICE–Q, un nuovo rifugio alpino di design con ristorante gourmet e cantina esclusiva, direttamente sulla cima del Gaislachkogl. Il progetto, realizzato dallo studio tirolese Obermoser è unico per l’architettura all’avanguardia e per lo scenografico ponte sospeso che collega il punto più alto della montagna. La costruzione in vetro e acciaio del nuovo ICE-Q, posto a quota 3.048 metri, è stata realizzata su un terreno estremamente aspro, caratterizzato da temperature estreme. Per questo sono state costruite fondamenta mobili, che permettono al fabbricato di adattarsi nel modo migliore ai cambi di temperatura. All’interno del fabbricato, dislocato su 4 piani, si trova oltre al ristorante e alla cantina anche una Top-Lounge, uno spazio di 80 m2 dotato di apparecchiature multimediali per poter accogliere presentazioni, meeting e altri eventi. Infine, l’ultimo elemento spettacolare: dalla terrazza dell’ultimo piano, dove la vista spazia a 360 gradi sulle montagne circostanti, si raggiunge la cima del Gaislachkogl attraverso un ponte sospeso. Tutto l’edificio è accessibile anche con passeggini e ai diversamente abili. A disposizione dei visitatori 132 posti a sedere al coperto e 80 posti sulle terrazze panoramiche.
Rifugio Mollino, Gressoney Saint Jean, 2014
RIFUGIO MOLLINO, GRESSONEY SAINT JEAN Il rifugio Carlo Mollino è stato inaugurato nel comprensorio sciistico Weissmatten, in Valle d’Aosta, ad oltre 2mila metri. L’architettura alpina è stata dedicata al maestro Mollino, importante architetto, designer e fotografo, docente della Facoltà di Architettura di Torino, e costruita sul modello del suo progetto per la «Casa Capriata», una struttura sospesa, che reinterpreta la tradizione walser dell’alta Valle di Gressoney. Il Rifugio sorge lungo il Walserweg - il grande sentiero dei Walser - all’arrivo della seggiovia del comprensorio sciistico di Weissmatten nel comune di Gressoney Saint Jean (AO), in prossimità del padiglione da tè della Regina Margherita di Savoia, una storica architettura in legno originariamente ubicata presso il Castello Savoia e trasferita in quota negli anni ‘50 come capanno di caccia prima e più recentemente come punto di ristoro per gli sciatori. ll rifugio alpino ha sviluppato un’opera incompiuta di Mollino (rimasta sulla carta per sessant’anni) una delle case ideali da lui progettata e presentata nell’ambito del Concorso Vetroflex Domus (1951) e della X Triennale di Milano (1954). Si tratta di un progetto che ancora oggi soprende, e che negli anni Cinquanta rappresentò un manifesto della sperimentazione di materiali e tecniche costruttive innovative. L’architettura è stata realizzata per mezzo di una iniziativa fortemente voluta dal Comune di Gressoney Saint Jean, sviluppata in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Design del Politecnico, con l’intento di evidenziare il valore e l’attualità del progetto originario come manifesto sull’innovazione tecnologica e la prefabbricazione edilizia. Riproporre un progetto consegnato alla storia da uno dei protagonisti della cultura architettonica ha comportato per i ricercatori del Politecnico l’analisi di diverse varianti all’idea progettuale e la necessità di pensare nuove soluzioni tecniche. L’architettura-manifesto si concretizza quindi in un edificio sperimentale nel quale gli aspetti architettonici, strutturali, tecnologici e impiantistici sono stati ripensati in coerenza con i criteri progettuali indicati da Carlo Mollino. Nasce così un edificio a basso consumo energetico, che sperimenta tecniche innovative a livello impiantistico ed in grado di eliminare il fabbisogno di combustibile fossile.
IL BIVACCO
IL BIVACCO
L’opposizione complementare fra lo spazio chiuso e protetto (il bivacco) e lo spazio aperto e mobile del circostante (il paesaggio alpino) permette di affrontare il tema dell’abitare nei suoi aspetti fondativi. Abitare è habitus, un modo d’essere che nasce da una disposizione, uno stare al mondo che prevede un luogo di cui appropriarsi e da coltivare, di cui prendersi cura riconoscendosi in esso. L’abitare è, con Heidegger, un “sentirsi-a-casa-propria”. Ma la condizione dell’uomo contemporaneo è sempre più quella dell’errante estraniato dal soggiornare che, avendo colonizzato territori sempre più vasti, non si riconosce più in essi. Se il “sentirsi-a-casa-propria” presuppone il riconoscimento del domestico e del privato, il bivacco, in quanto riparo provvisorio e condiviso, non può essere luogo dell’abitare in senso compiuto, ma solo essenziale e provvidenziale dimora: custodia del corpo e della vita in esso racchiusa. Per questo diventa metafora di un certo abitare contemporaneo e al tempo stesso dell’abitare instabile dell’origine. Il suo interno è complementare al paesaggio esterno, cellula nell’aperto della natura alpina. Il bivacco è generalmente una struttura elementare trasformata in luogo vivibile dalla presenza stessa dell’escursionista con la sua attrezzatura. E’ luogo di riparo in cui avvertire, fugacemente, il senso dell’abitare temporaneo, ma che al tempo stesso cela spaesamento: nulla è veramente famigliare, tutto evoca sensazioni di provvisorietà e incompiutezza. Proprio per questo è luogo autentico privo di falsi consolatori; è un luogo esistenziale che lascia spogli di fronte alla sussistenza, esperienza che le generazioni passate hanno ben conosciuto, anche nel Novecento. La capacità di spaesamento è la facoltà di vivere autenticamente l’esperienza. Il bivacco è originariamente extraterritoriale, non pensato per un luogo specifico e concepito per essere ovunque; la baracca in legno o in lamiera facilmente montabile ne è la perfetta interpretazione. Il bivacco è un concetto, l’archetipo di una struttura da collocare in ambito estraneo, un sito che non può essere abitato. E’ pro-gettato, pensato ‘prima’ per essere collocato, ‘gettato’ forzatamente in un sito. Se il carattere specifico del progetto è il suo pensare anticipatamente, il bivacco ne è il paradigma; un riparo fisso localizzato mediante una forzatura impositiva, per ragioni di visibilità, di uso e accesso, in una situazione esposta dove non esistono ripari naturali. E’ avamposto, segna un limite e permette di oltrepassarlo, è straniero alla montagna, è a-topos, manufatto per definizione senza luogo perchè adattabile ad ogni luogo, ai versanti, ai passi, alle insidie degli agenti atmosferici. Prendendo atto che ogni possibile conquista della montagna è già avvenuta e che una presenza stagionale turistica è ormai imprescindibile, solo le ‘forme del camminare’ lo possono giustificare. Se di fronte alla dimensione liminare dell’alta quota l’uomo si raccoglie attorno al suo agire minimo, riducendo i comportamenti alle soglie della povertò d’azione - indotta dalla grandiosità alpina - allora una ragione ne sostiene l’esistenza. La sua ragione implicita è quella del transito, dell’abitare per il breve tempo della permanenza. Metafora della nostra epoca nomadica, del ‘non-trovarsi-a-casa-propria’, è anche paradigma di un pensiero di povertà, evidenza formale di una necessità pratica economica.
“La montagna è fatta per tutti, non solo per gli alpinisti: per coloro che desiderano il riposo nella quiete come per coloro he cercano nella fatica un riposo ancora più forte” Guido Rey
L’IMPORTANZA DEL TRANSITARE
L’erranza, fattore originario di presenza dell’uomo in montagna, genera i percorsi intervallivi costruendo una geografia visiva, flessibile e mutante, con riferiementi ambientali in continuo divenire. “Il camminare è un’arte che porta in grembo il menhir, la scultura, l’architettura e il paesaggio. Da questa semplice azione si sono sviluppate le più importanti relazioni che l’uomo intesse con il territorio”. (Careri) L’Alpe è una frontiera mobile, con pochi confini precisabili e molti limiti, caratterizzata da una continua incidenza del fattore altimetrico. Per comprendere il paesaggio verticale bisogna considerarne i caratteri costitutivi di altitudine ed altezza, percepibili in vallate, discontinuità ed orizzonti delimitati, profondità. Il camminare in montagna è caratterizzato da continue variazioni che, se orientano costantemente lo spostamento per chi ne ha attitudine o famigliarità, determinano uno spaesamento in chi non riconosce segni e riferimenti, ambientali e meteorologici. L’uomo contemporaneo urbanizzato ha sostanzialemte perso la capacità multisensoriale di vivere il paesaggio alpestre, e generalemte ricerca la pratica sportiva finalizzata alla mera performance. All’opposto, le percorrenze esperienziali del paesaggio compiute da artisti che fondano la propria ricerca sulla pratica del camminare confermano quanto sia importante ritrovare il senso del rapporto elementare e autentico con la montagna. Il bivacco immerso nella vastità e nell’altitudine, è forma-limite che vive la marginalità nella collocazione oltre la fascia altimetrica di presenza umana, lontano da ogni dimensione sociale o di sicurezza collettiva. Per giungervi bisogna camminare salendo, compiere l’ascesa ad una terra inabitata che fa sentire l’uomo straniero e lo pone, positivamente, di fronte ai propri limiti. Salendo, si allontana dai territori antropizzati e avverte un senso di perdita; immergendosi nella solitudine del camminare si abitua alla condizione di straniamento ed è indotto a riorientare il sistema percettivo di riferimento fondandolo sul prorpio passo.
“La solitudine è indispensabile per l’uomo, perchè acutizza la sensibilità ed amplifica le emozioni” Walter Bonatti
L’IMPORTANZA DEL RACCOGLIERSI
“Sei fermo. sei stanco, scende il buio. Chiuso nel bivacco - appena in tempo - comincia a piovere, nevicare, senti i tuoni intrappolati nelle gole. E adesso c’è anche questo maledetto vento che si è messo a sbattere la porta. Per opporsi al vento ci si puntella, ci si ancora, ci si rannicchia e rintana ma la pressione è sempre fortissima e si rimane con la paura di essere strappati dalla terra, di soffocare, di perdere la strada e la vita”. Carlo Grande trasmette la sensazione di trovarsi entro la forza della natura, in braccio alla physis che può accogliere ma anche travolgere, suscitando la necessità di autoprotezione. Riparo è luogo in cui ci si raccoglie, si custodisce se stessi, nel gesto prenatale di racchiudersi: “rannicchiarsi appartiene alla fenomenologia del verbo abitare. Soltanto chi ha saputo rannicchiarsi sa abitare con intensità” (Bachelard). Mettere al sicuro il proprio corpo è istinto naturale e primario del vivere sulla terra: la chiusura dell’esterno è il primo atto di difesa, bisogno vitale di riparare e preservare il corpo dalle intemperie. Il bivacco offre giaciglio dove raccogliersi, un provvisorio involucro tecnico che consente all’uomo un equilibrio momentaneo tra interno ed esterno, tra il suo bisogno di sicurezza e l’apertura alla vastità del teatro montano che lo attende. Se il corpo è il primo luogo dell’abitare, il raccogliersi è anche un atto di introspezione e meditazione, all’interno e all’esterno del sè. Chi ha trascorso una notte nel bivacco, anche per questo, non potrà non amare la montagna per sempre.
IL PROGETTO DEL BIVACCO
Nel bivacco sta l’essenza dell’abitare minimo. Il bivacco, rifugio nella forma minima, è riparo e protezione da un esterno inospitale, ma anche avamposto della tecnica architettonica. La montagna, minaccioso universo ctonio e lontana da un’idea di bellezza come equilibrio, è la rappresentazione del perturbante, di fronte a cui il bivacco è un cristallo. Il bivacco non è efefttivamente un costruito, ma una struttura dislocata in un sito. Poggiato senza fondazioni dichiara la sua natura leggera, temporanea e reversibile e questo senso di provvisorietà gli conferisce identità; messo in opera in un luogo visibile e raggiungibile presenta le caratteristiche di un’installazione. Il bivacco è luogo di povertà, anche in senso esistenziale, intesa come rinuncia e limite prossimo alla sussistenza. E’ metafora del ritiro, “l’essere-povero non è una mera qualità, bensì il modo e la maniera in cui l’uomo si pone e si mantiene” (Heidegger); e per questo merita una riflessione prgettuale profonda e ‘umanistica’. E’ necessariamente da pensare, in quanto concettualmente frontiera tra l’indispensabile e l’utile, equilibrio tra le funzionalità essenziali ed il comfort installabile. Nel pensarlo, il tema della medietas, della giusta misura tra gli spazi tecnici, le qualità architettoniche e l’ambito esistenziale, è un compito non rinviabile: l’armonia tra il fare pratico e il fare concettuale, nel nome e nell’unità perduta dell’antico concetto di techne, appare come un urgente e destinale obiettivo. L’equilibrio tra il ‘progrettare razionalmente’ e il comporre come ‘donare senso’ mediante la costruzione di luoghi appare la sola via praticabile.
“Queste montagne suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime” Giovanni Paolo II
L’ESPERIENZA DEL BIVACCO Il bivacco rappresenta, nell’immaginario degli appassionati di montagna, il legame con l’alpinismo eroico e classico che ci riporta a due secoli scorsi quando, sulle Alpi, si esploravano nuovi limiti ambientali ed umani. L’attuale pratica dell’alpinismo è esse stessa condizionata dai ritmi accelerati della vita ed in questo è rinforzata dalle tecniche e dai materiali moderni che consentono di percorrere assai velocemente vie ed itinerari che precedentemente richiedevano molto più tempo e quindi maggior utilizzo dei bivacchi. Oggi i bivacchi sono utilizzati, oltre che dagli alpinisti, anche dagli escurionisti, dai naturalisti, e da soggetti che non sono necessariamente frequentatori assidui della montagna ma che si concedono un’esperienza fuori dall’ordinario ambito antropicizzato. La funzione del bivacco non viene quindi meno a seguito della riduzione dell’attività alpinistica sulle Alpi, ma rappresenta anzi un’occasione per vivere in un contesto ambientale, purtroppo, sempre più inconsueto ma che è stato normale per millenni. Nel bivacco sono ripristinate le antiche proporzioni tra uomo e gli elementi naturali, sono possibili ataviche esperienze sensoriali dove notte, silenzio, vento, bufera, scorrere del tempo ed isolamento possono diventare situazioni pericolose, dove l’uso dei superlativi non è fuori luogo. Passare ogni tanto una notte in bivacco, da soli o in compagnia, è un’esperienza che può rivelarsi affascinante, anche se si trova brutto tempo. Perchè lì il grande è davvero grande, il forte è davvero forte, le stelle brillano a milioni nella notte più nera e noi ci percepiamo ridimensionati in questo confronto, mentre si amplificano le caratteristiche di autenticità nelle relazioni umane, più essenziali e dirette anch’esse. Liberi da gerarchie e distanze difensive proprie della vita urbana, lasciamo cogliere e riusciamo a cogliere distillati di noi e degli altri. Esperienza estrema anch’essa, quasi una via alpinistica, non per tutti.
Bivacco tipo Ravelli
NASCITA ED EVOLUZIONE DEL BIVACCO A Torino, durante una riunione del Club Alpino Accademico nel 1923, Lorenzo Borelli propone di collocare minuscole strutture incustodite laddove la limitata frequentazione delle montagne non richieda o l’orografia non consenta di erigere veri e propri rifugi. Gli accademici Mario Borelli, Francesco Ravelli e Adolfo Hess prefigurano una «cassa stagna» foderata di zinco o lamiera in grado di accogliere 4/5 persone, prendendo spunto dalle «scatole in lamiera ondulata che avevano reso ottimi servizi durante la prima guerra mondiale» (come il cosiddetto modello Damioli, assai utilizzato in quota). I vantaggi sono evidenti: struttura interamente prefabbricata, facilità e rapidità di trasporto e montaggio (in situ il lavoro si riduce alla preparazione dello spiazzo), buona resistenza agli agenti atmosferici (grazie anche all’aerodinamico profilo a semibotte) e, dunque, limitata manutenzione e generale abbattimento dei costi. Grazie a una sottoscrizione di 18.905,30 lire, il CAAI delibera la realizzazione e collocazione delle prime strutture. Nel gruppo del Monte Bianco, il 27 e il 30 agosto 1925 s’inaugurano il bivacco al Col d’Estellette (dedicato ad Adolfo Hess) e quello al Frébouze: i manufatti provengono dall’officina dei fratelli Ravelli, specializzata nella lavorazione in lastra dei metalli. La nota famiglia di alpinisti torinesi si occupa anche del montaggio delle strutture, il cui costo si aggira sulle 6.000 lire, trasporto compreso. «Si progettò una costruzione avente la base costituita da due solidi telai di legno, uniti fra loro con bulloni passanti e ancorati al terreno, sui quali venivano fissate le due fiancate di legno, di forma semicircolare, i cui archi venivano riuniti con solidi longheroni formanti l’intelaiatura del tetto, rinforzata con lame di ferro. Per coprire il tetto si pensò alla perlinatura ricoperta di lamiere di zinco, mentre per il pavimento si proponevano delle tavole, coperte di cartone catramato, sul quale si prevedeva l’apertura di una porta, di una finestrella e di un foro per il passaggio del tubo di tiraggio della cucinetta ad alcool. Un parafulmine, con cavo di scarico, completava la costruzione, nel cui interno l’alpinista trovava cinque pesanti coperte, il bidone per l’acqua, la pentola, la scopa, l’accetta, la pala, il mastello, la lanterna e qualche altro arnese per la pulizia e per la cucina. Le dimensioni di questi primi bivacchi furono di metri 2,25 in larghezza, metri 2 in profondità, metri 1,25 di altezza al colmo, portata poi a metri 1,50 e a metri 1,75; il tutto smontabile in una ventina di colli del peso di 25 chilogrammi ciascuno». (Silvio Saglio, Rifugi e bivacchi, in 1863-1963. I cento anni del Club Alpino Italiano, Milano 1964).
Sopra: Bivacco tipo Apollonio; sotto: Bivacco tipo Perriand
La realizzazione, che registrerà grande eco, viene perfezionata dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’ingegner Giulio Apollonio (all’epoca presidente della SAT) mette a punto il tipo a 8/9 posti che, pur nell’economia di spazio, migliora l’abitabilità e il comfort aumentando le dimensioni (2,29 metri di altezza interna al centro, 2,10 di larghezza interna e 2,63 di profondità, per un volume esterno totale di 15,15 metri cubi) e abbandonando la semibotte a favore di un parallelepipedo culminante con una copertura sempre archivoltata e dotato di un sistema di ventilazione (con presa d’aria praticata in basso sulla porta e fuoriuscita da un comignolo in copertura). In assetto diurno, le reti delle sei cuccette disposte su tre livelli lungo i due lati lunghi si ribaltano, lasciando posto a piccoli tavoli piegati sotto di esse. Il montaggio è stimato in circa 360 ore lavorative, mentre il peso è di 20,66 quintali (16,64 di struttura e 4,02 di arredi). Brevettato (e diffuso dai tecnici della Fondazione Berti con alcune variazioni, come l’inserimento di uno strato isolante di lana di roccia tra la lamiera e il perlinato interno), il bivacco Apollonio godrà di una fortuna durata fin quasi a oggi. Non mancano, tuttavia, alcuni tentativi ancor più sperimentali. Nella seconda metà degli anni Trenta la francese Charlotte Perriand, architetto di talento dalla straordinaria umanità e grande appassionata di montagna, insieme all’ingegner André Tournon mette a punto il refuge bivouac, basato su una struttura a telaio in tubi di alluminio leggeri e pannelli di compensato dalle dimensioni standard. La costruzione, sollevata su «trampoli» costituiti dai tubolari direttamente conficcati nel terreno, si allestisce in quattro giorni con maestranze non specializzate: in 8 metri quadri (4x2) ospita 6 persone grazie a tavoli e brande ribaltabili. Restano invece sulla carta i piani per il refuge tonneau, anticipatori delle soluzioni «futuribili» che vedranno la luce in seguito. Infatti, dalla fine degli anni Sessanta e soprattutto in Svizzera, i bivacchi paiono la più diretta materializzazione di concetti, tecnologie e immaginari legati al mondo dell’aerospazio, che riproduce artificialmente le condizioni di vita all’interno di microcapsule o bolle-membrana. Diventa cioè quasi automatico il parallelismo che s’istituisce tra i bivacchi (unità minime di sopravvivenza in ambienti estremi) e i moduli che vorrebbero colonizzare i territori «alieni», caratteristici della coeva corsa alla conquista del cosmo. Le realizzazioni assomigliano così a vere e proprie navicelle spaziali, trasportate in loco ready made con l’elicottero: dal bivacco Grassen a St. Niklaus a quello del Dolent, con scocca sperimentale in poliestere, dal bivacco dello Stockhorn al Ferrario in cima alla Grignetta. Il resto, diretta conseguenza di questi precedenti, è storia dei giorni nostri. A partire dal caso del bivacco Gervasutti, assurto a fama planetaria (al punto da essere stato commissionato in una versione «moltiplicata» come rifugio alle falde dell’Elbrus). Si tratta di una fusoliera costituita da quattro anelli modulari prefabbricati, poggiata su “zampe” e proiettata con uno sbalzo pari alla metà della lunghezza verso il paesaggio ttraverso una vetrata a cannocchiale che chiude la sezione ellittica del guscio. In copertura 24 moduli fotovoltaici con celle cristalline ad alta efficienza alimentano l’impianto di illuminazione, le prese elettriche, la piastra da cucina e un computer connesso al web. Nessun tentativo di mimesi, bensì una voluta estraneità rispetto al contesto per un progetto che ambisce a porsi come modello replicabile.
Bivacco Luca Vuerich
BIVACCO LUCA VUERICH, GRUPPO DEL MONTASIO (2531m) La struttura, con 9 posti letto, è posizionata a quota 2531 metri nelle Alpi Giulie , sulla cresta del Foronon del Buinz nel gruppo del Montasio lungo il sentiero attrezzato Ceria-Merlone, che parte da forcella Lavinal dell’Orso per un percorso mozzafiato in quota sul Gigante di pietra. Vuole essere una nicchia e rifugio per alpinisti ed escursionisti, per amanti della montagna; costruito in questo luogo per ricordare Luca Vuerich: guida alpina, considerato un alpinista di punta nel panorama internazionale, scomparso nel gennaio 2010 a soli 34 anni perché travolto da una valanga mentre scalava una cascata di ghiaccio nelle montagne vicino alla sua Tarvisio. Il bivacco, voluto e commissionato dalla famiglia di Luca insieme al Soccorso Alpino e Speleologico della sez. di Cave del Predil (Ud), non solo ricorda per forma una cappella, ma è appositamente studiato per supportare i grossi carichi di neve che vi si possono depositare durante l’inverno infatti ne risulta quasi completamente sommerso nei tre lati meno esposti al sole, mentre lascia scorgere l’accesso rivolto a sud grazie all’opera quotidiana del sole. La struttura con superficie di 16 mq è realizzata in legno, ed è rialzata dalle rocce facendola poggiare su 6 pilastri in calcestruzzo. Pensata e realizzata con il sistema costruttivo a pannelli x-lam di abete rosso locale. Terminata la fase di progettazione e produzione della struttura - composta da 30 pannelli x-lam , 3 capriate principali e basamento in legno di larice - è iniziata la fase organizzativa per consentire il trasporto in quota delle pareti e dei vari pezzi (tutti numerati e pronti per il montaggio) nonché coordinare la forza lavoro: addetti e tecnici Diemmelegno, uomini del soccorso alpino e volontari amici di Luca, in totale 12 uomini tutti pronti a “dare una mano” per costruire questo bivacco. Il materiale, una volta giunto sull’Altopiano del Montasio è stato trasportato in quota con 18 viaggi di elicottero ; ad attenderlo, sulla cima, gli addetti ai lavori che in condizioni difficili e con poco spazio a disposizione hanno dapprima sganciato i pacchi dal velivolo sospeso in volo e poi montato la struttura in totale sicurezza , il tutto nell’arco di una sola giornata. Dopo una nottata trascorsa all’interno del bivacco, il giorno successivo sono state fatte le opere di finitura e rivestimento. Dal giorno dell’inaugurazione è diventato meta di appassionati della montagna sia durante il rigido inverno che in estate, in quanto luogo sicuro e di protezione con un panorama mozzafiato fra rocce e stambecchi immerso nel silenzio della natura, essenziale come essa.
Bivacco F.lli Fanton
BIVACCO F.LLI FANTON, MARMAROLE (2661m) Nel caso particolare della Forcella Marmarole, il bivacco deve confrontarsi con un versante scosceso e con un consistente accumulo nevoso presente in gran parte dei mesi dell’anno. Dal punto di vista compositivo la soluzione proposta si sviluppa longitudinalmente lungo l’asse visivo che collega l’area di installazione con l’insediamento di Auronzo di Cadore. Il progetto si identifica già dall’esterno come un cannocchiale puntato verso la valle, inquadrando la porzione più suggestiva del panorama circostante. Tale relazione viene ulteriormente enfatizzata attraverso l’organizzazione interna degli spazi che segue l’andamento fortemente inclinato del pendio, mettendo in collegamento la vista verso valle con il suo controcampo verso le vette retrostanti. Lo sviluppo del progetto lungo il pendio viene sfruttato per ripensare la convivenza degli ospiti al suo interno: i diversi livelli dell’ambiente creano un’immediata gerarchia spaziale in base al proprio diverso grado di privacy. Il livello inferiore, più aperto, si affaccia direttamente sulla valle e si connota come ambiente di ritrovo e discussione. Lo spazio comune continua longitudinalmente in direzione opposta, indirizzandosi verso le cime retrostanti, attraverso diversi livelli che portano alle aree più intime, le nicchie che fungono da zona di riposo. Il problema dell’accumulo nevoso viene risolto attraverso la sopraelevazione dell’intera opera rispetto al livello del suolo: questa soluzione permette, oltre a rendere facilmente accessibile il bivacco anche con la presenza di 2mt di neve, di generare un punto di vista sopraelevato rispetto al comune livello di calpestio, dando la sensazione al visitatore di trovarsi “sospeso” sul crinale della montagna. L’edificio rifiuta volontariamente una mimesi materica con il contesto, rendendosi un elemento facilmente individuabile, per essere avvistato anche in condizioni critiche di scarsa visibilità. Il rivestimento metallico, con finitura naturale, muta con il variare delle condizioni atmosferiche, in base all’esposizione alla luce e al susseguirsi delle stagioni: questo lo rende un elemento vivo, contaminato dal panorama circostante e dal suo cambiamento. Nei mesi invernali, con una forte presenza di neve, instaura un rapporto di differenza cromatica con il paesaggio circostante, diventando riconoscibile anche a grandi distanze. Durante l’estate diventa punto di riferimento grazie alla superficie che riflette sia la luce, rendendolo immediatamente individuabile lungo il percorso, sia le formazioni rocciose circostanti.
Bivacco Giannantonj
BIVACCO GIANNANTONJ, PARCO ADAMELLO-BRENTA (3167m) “Il progetto ha voluto rispondere alla neccessità di ridurre all’essenza la forma dell’abitare interrogandosi sulle specifiche possibilità del vivere in ambienti estremi montani. Si è scelto, per questa ragione, una forma triangolare (forma geometricamente staticamente stabile) reinterpretando il tema della capanna alpina; la struttura è pensata interamente in lamellare di abete, per consentire un facile pre-assemblaggio in cantiere e la possibilità dell’elitrasporto in quota. Il bivacco, all’interno, è estremamento sobrio ed essenziale (40m3) e consente la permanenza di sei persone, con la possibilità di ulteriori due posti letti aggiuntivi; l’ambiente cucina-dispensa è dotato di una piastra ad induzione e di un punto d’acqua collegato ad una cisterna di accumulo delle acque meteoriche. La finitura esterna del bivacco è invece pensata in scaglie di zinco-titanio, con intercapedine ventilata e coibentazione in fibre di legno, così da consentire un’adeguata protezione dagli agenti atmosferici e incrementare la durabilità all’uso e al tempo. Infine per proseguire l’autosufficienza energetica si è ricorso ad un differenziato utilizzo di fonti energetiche rinnovabili: microeolico e fotovoltaico.” Così descivono il loro progetto gli architetti di Lama+ vincitori del concorso “Abitare Minimo nelle Alpi”
Bivacco Gervasutti, 2011
BIVACCO GERVASUTTI, GRANDES JORASSES (2661m) Il progetto è sfacciatamente antimimetico, sebbene abbia superato il lungo elenco di autorizzazioni e vincoli previsti in un contesto così sensibile. Il progetto nasce sostanzialmente in pianta: uno spazio minimo per dodici posti letto che non richieda trasporti eccezionali. Tale vincolo dimensionale ha dato un ingombro massimo (8 x 2,40 metri) risolto su basi strettamente ergonomiche. L’involucro, dopo una prima ipotesi (non praticabile) di riutilizzo di un trancio di fusoliera di aeroplano, sorta di readymade la cui sezione avrebbe fornito tutto l’occorrente, ha preso corpo in un guscio strutturale in materiale composito, resistente per forma, in grado di risolvere tutte le prestazioni (meccaniche, coibenti e di peso) in un’unica soluzione. Ottenuto incrociando il mondo della nautica e le competenze della filiera legno-arredo brianzola, la sua sezione tubolare è il punto di equilibrio tra resistenza e abitabilità, risultante di un compromesso funzionale: una cuspide più pronunciata avrebbe lavorato meglio da un punto di vista strutturale, ma anche sacrificato spazio nelle corsie laterali. Dovendo ridurre al minimo le operazioni in quota, da subito il progetto è stato pensato in moduli, realizzati a valle e trasportati da un elicottero ‘standard’ (il peso di ognuno è di 600 kg, allestimento interno compreso), infine agganciati a una trave-binario trapezoidale, anch’essa in composito, fissata alla roccia in sei punti distribuiti su metà della lunghezza. Il resto è a sbalzo, una posizione scomoda e davvero estrema, dovuta non solo al piacere della sublime vertigine, ma anche a dettagliate analisi nivologiche, per sottrarsi alla spinta inesorabile di eventuali valanghe o frane, nonché offrire una superficie ridotta ad accumuli di neve sui pannelli fotovoltaici integrati nel tetto. L’aspetto impiantistico, peraltro, è particolarmente complesso, dovendo garantire un funzionamento senza manutentore. Ma l’aspetto forse più interessante di LEAP è che, fin da subito, si propone come modello replicabile al di là dell’occasione specifica. Di conseguenza, la sua modularità è stata affrontata in modo combinatorio: il modulo di base, lungo 2 metri, è un anello strutturale nudo; sottomoduli da 1 metro accolgono gli eventuali accessori (oblò, porte laterali); gli elementi terminali, la ‘palpebra’ vetrata in aggetto sul vuoto e il ‘tappo’ di chiusura contro la parete rocciosa, sono di fatto intercambiabili. Ma in realtà ogni componente è opzionale. Tale flessibilità permette un prototipo adattabile, potenzialmente, a qualsiasi contesto naturalisticamente sensibile, il cui approccio ecologico risiede (anche) in una notevole reversibilità, non certo in una mimesi naturalistica. Anzi, erede di una certa utopia tecnologica, LEAP irrompe nella natura in modo dichiarato e in punta di piedi a un tempo, come una Walking City (volante) e, allo stesso modo, ‘discreta’ e impermanente.
Bivacco Grintovec, 2009
BIVACCO GRINTOVEC, ALPI DI KAMNIK (2080m) Il bivacco è situato nella Alpi di Kamnik 30 km a nord di Lubiana. Il sito è un altopiano a 2080m vicino al sentiero che conduce dalla valle verso monte Skuta ( 2400 m) ed è accessibile solo a piedi; esso sostituisce il vecchio bivacco che era stato costruito nel 1972. Il bivacco è aperto tutto il tempo per tutti i visitatori, l’utilizzo è gratuito, lo scopo principale è quello di consentire un riparo per gli alpinisti. Capacità del rifugio è 6-8 persone. Esso si pone come un punto di riferimento in un largo altopiano sotto la montagna Grintovec. Con il suo volume verticale scuro il bivacco è sempre ben visibile sia nel bianco paesaggio invernale che nel grigio roccioso dell’estate. L’interno è uno spazio unico verticale a tre ilivelli con uso flessibile. Tutti e tre i livelli sono collegati con un vuoto verticale nel quale è collocata una scala per consentire l’accesso ai piani superiori. Il piano terra con panche ed un piccolo tavolo è sala e spazio conviviale nel corso della giornata e posto per dormire durante la notte. La dimensione è di 2 x 3 m e l’altezza è di 4,5 m . Le finestre verticali sono poste accanto all’angolo e consentono di migliore la vista sulle montagne che dominano il paesaggio alpino. L’interno è quindi molto leggero e aperto. I posti letto nei livelli superiori sono galleggianti. Il rifugio non è riscaldato, la sua pelle esterna è costituita da pannelli in alluminio con isolamento. Il rivestimento interno è in pannelli forati in legno che consentono all’umidità interna di penetrare nella struttura e quindi avere un ambiente interno sempre caldo ed asciutto. Il bivacco sorge su un basamento minimo di cemento che è ancorato ad un solido terreno roccioso. L?intervento a terra è minimo in modo che il paesaggio rimanga inalterato. Per limitare il peso dell’edificio si è scelta una struttura in alluminio arrivando ad ottenere un peso complessivo di 2300 kg (il peso di trasporto in elicottero massimo consentito è 3 tonnellate).
Bivacco di Ofis, 2009
BIVACCO di OFIS, MONTE SKUTA Monte Skuta, Slovenia: la sfida è quella storica dettata dalle condizioni climatiche estreme del contesto alpino. Da un laboratorio di progettazione architettonica presso la Harvard Graduate School of Design, diretto da Rok Oman e Spela Videcnik di OFIS, nasce un nuovo bivacco modulare, che si ispira all’architettura vernacolare del luogo. Composto da materiali, forme e dettagli costruttivi tradizionali dell’architettura alpina, il progetto selezionato per la realizzazione è stato sviluppato dagli studenti Frederick Kim, Katie MacDonald e Erin Pellegrino. Dopo la conclusione del semestre accademico, OFIS architects e gli ingegneri strutturali di AKT II hanno poi realizzato il modulo adattandolo al sito. Il rifugio si compone di tre moduli: il primo è dedicato all’ingresso, allo stoccaggio e ad una piccola cucina; il secondo offre spazio per dormire e socializzare, mentre il terzo offre una zona cuccette. Le aperture su entrambi i lati offrono una splendida vista panoramica sulla valle e sul monte Skuta. La forma del bivacco e i materiali sono stati scelti per rispondere alle condizioni estreme della montagna e per valorizzare la vista panoramica. L’involucro esterno doveva essere realizzato con un materiale molto resistente e, in collaborazione con l’azienda Rieder, sono stati adoperati elementi in sottile fibra di vetro öko e calcestruzzo, in grado di soddisfare tutte le esigenze di estetica, qualità del materiale e resistenza in condizioni estreme. Il design degli interni è stato guidato quasi unicamente dalla funzione di offrire un alloggio ad otto alpinisti al massimo. Spiegano gli architetti di studio Ofis: “Anche se la scala del bivacco è piccola, il progetto ha richiesto un grande sforzo di pianificazione e la partecipazione di oltre sessanta persone, tra volontari e sponsor, per mantenere la memoria, lo spirito e la cultura della montagna, luogo speciale per gli sloveni. La speranza è che il bivacco servirà da rifugio per tutti gli alpinisti che ne hanno bisogno, e che, con la loro cura e attenzione, continuerà a farlo per molti anni”.
LA MONTAGNA ATTRAVERSO LO SGUARDO
Bibilografia:
Libri:
Riviste:
- L’architettura montana, Oliviero Tronconi, Maggioli editore, 2008 - Architettura in Alto Adige, Raetia editore, 2013 - Architettura del Sud Tirol dal 2006 al 2012, editore Springer, 2012 - Abitare minimo sulle Alpi, Giorgio Azzoni e Paolo Mestriner, editore LetteraVentidue, 2013 - Rifugi tra innovazione e tradizione, Accademia della montagna del Trentino, 2011 - Abitare, n. 227, 1984 - Abitare, n. 268, 2003 - Casabella, n. 772, 2009 - Casabella, n. 784, 2009 - Casabella, n. 801, 2011 - Domus, n. 952, 2011 - ofArch, n. 107, 2012 - Montagne360, Aprile 2015 - IAM, ArchAlp, n.3, Luglio 2012 - IAM, ArchApl, n.2, Novembre 2011
Riviste on-line:
- Cantieri d’alta quota, n.1, Ottobre 2013 - Cantieri d’alta quota, n.3, Giugno 2014 - Cantieri d’alta quota, n.4, Novembre 2014 - Siti Web
Pubblicazioni:
- Architettura contemporanea nell’area alpina, tesi di dottorato, Silvia Ombrellini
Contatti: Francesco Carraro email: carraro.francesco@icloud.com
CV
FRANCESCO CARRARO 23/09/1991
carraro.francesco@icloud.com
CURRICULUM VITAE
Via B. Parentino 14, Padova, PD, IT Via Regole 8, Ronzone, TN, IT
ISTRUZIONE 2017
Archviz 6Days Full Immertion Corso di Rendering & Post Produzione - Tutor Angelo Ferretti Attestato Ufficiale LucyDreams di Primo Livello
2013 -2016
Corso di laurea Magistrale
2010 - 2013
Corso di laurea Triennale
Architettura per il Nuovo e l’Antico presso l’Istituto Universitario IUAV di Venezia Laurea di Secondo Livello Tesi: La montagna attraverso lo sguardo - Relatori: Pietro Valle, Federico Mentil, Martino Doimo
Scienze dell’architettura presso l’Istituto Universitario IUAV di Venezia Laurea di Primo Livello
2005 - 2010
Diploma di Geometra Istituto Tecnico Statale “G.B. Belzoni”, Padova, IT
ESPERIENZE FORMATIVE 2015
Grecia Classica
Viaggio studio nella Grecia classica, alla scoperta della culla della cultura e dell’architettura IUAV Università di Venezia, Associazione ProViaggi Architettura
2013
Svizzera Contemporanea Viaggio studio alla scoperta dell’architettura contemporanea della Svizzera IUAV Università di Venezia, Associazione ProViaggi Architettura
ESPERIENZE LAVORATIVE Settembre 2016 - oggi
Collaborazione presso lo studio di architettura arch. Luigi e Marco Cellini Via S. Maria in Vanzo 42, Padova, IT
Maggio - Luglio 2015
Tirocinio Formativo CatrumLab - Un Albergo diffuso per la città di Bale, Croazia Workshop interateneo, Tutor prof. Francesco Guerra
Settembre - Dicembre 2013
Tirocinio Formativo
presso lo studio di architettura dell’arch. Luigi Cellini Via S. Maria in Vanzo 42, Padova, IT
COMPETENZE INFORMATICHE OS Software Skills
- Microsoft Windows - Apple OSX - Autodesk AutoCad 4/5 - Graphisoft ArchiCad 5/5 - Adobe Photoshop 5/5 - Adobe Illustrator 5/5 - Adobe inDesign 5/5 - Adobe Lightroom 4/5 - Adobe After Effect 3/5 - Adobe Premiere Pro 4/5 - Abvent Artlantis 4/5 - Google SketchUp 3/5 - Maxon Cinema 4D 4/5 - Vray for C4D 4/5 - Final Cut Pro 4/5 - Microsoft Office 4/5 - OSX iWork 5/5
COMPETENZE LINGUISTICHE Italiano Inglese
Madrelingua B1
CLA, Cà Foscari, Venezia, IT
Per qualsiasi chiarimento, informazioni e/o materiali aggiuntivi, non esitate a contattarmi: carraro.francesco@icloud.com