01 26 Maggio 2014 Circolo degli Artisti · Roma
“I think the digital recording platform can be a real feminist space” Erika M. Anderson
THE •
EMA • ISSUE
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Se essere chic è diventato pop essere pop è davvero radical. (Oak Park) Radical Pop è una rassegna di musica dal vivo, arte ed editoria liberatoria. a Radical Pop piace un’arte fresca, innovativa, indipendente. Radical Pop è una serata. Ci puoi venire ogni mese. a Radical Pop piace la potenza comunicativa di tutto ciò che è pop a Panda piace Radical Pop Radical Pop è una fanzine. Ed è DIY.
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la fanzine Radical Pop è un’idea di Francesco Stefanini e Emanuele Binelli Mantelli.
Hanno scritto su Radical Pop#1, The Ema Issue:
Direttore: Francesco Stefanini Redazione, coordinamento, editing: Emanuele Binelli Mantelli Coordinamento organizzativo evento: Paolo Cobianchi Ufficio Stampa: Emanuele Chiti
Emanuele Binelli Mantelli
Impaginazione e grafica: Francesco Stefanini Stampato a: Rotostampa Group srl - Roma
Valerio Minelli
Enrico Calligari Emanuele Rauco Emanuele Chiti Francesco Papadia
Dalle riot grrrl al cyberpunk, dalle chitarre del grunge alle manipolazioni digitali, ecco svelato il mondo di Erika M. Anderson, in arte EMA. – intervista di Emanuele Binelli Mantelli –
Ciao Erika. Molti di noi sono stati adolescenti negli anni ’90… Il tuo stile musicale e il tuo approccio sono molto moderni, ma di cuore sembri legata all’ondata dell’alternative anni Novanta, come spiegheresti questo mix peculiare? Penso di essere attratta dalla ruvida schiettezza e dall’atteggiamento “non-corporate” che sembrava ancora prevalere in quegli anni. Il che è anche
ironico, dato che quegli artisti furono gli “alternativi” di maggior successo commerciale della storia! Gli anni Novanta hanno anche visto un reale apporto di donne forti che non avevano timore di essere grottesche, controverse e intense. Mi manca molto la forza e la varietà di emozioni che riuscivano a esprimere con la loro musica.
Parlami della tua infanzia in South Dakota, c’è stata una figura familiare che ti ha spinta a incominciare a suonare? Che dischi ascoltavi in quel periodo? I miei genitori ascoltavano musica ma non suonavano. Il South Dakota era una specie di deserto culturale, ma fortunatamente c’erano i concerti auto-gestiti “all-ages” [dato il divieto americano di servire alcolici nei locali ai minori di
21 anni NdR] che quand’ero ragazzina hanno prosperato per un breve periodo. Quello era l’unico spiraglio per l’espressione individuale e artistica, e così mi ci sono gettata. In qualche modo tutti gli strambi e gli scoppiati che frequentavano quella scena avevano delle meravigliose collezioni di dischi e dei gusti musicali molto sviluppati. Non ho idea di come sia arrivata ad ascoltare le Bikini Kill o le Babes In Toyland, ma le ho scoperte davvero molto presto. Insomma, quando ho lasciato il South Dakota avevo molta più competenza musicale di tante altre persone che magari erano cresciute in città ben più grandi... Credo che non avessimo nient’altro da fare, e così le nostre vite giravano attorno alla musica. Poi hai incominciato a suonare, le prime formazioni… Quali elementi di quel periodo porti ancora con te come artista e musicista? È buffo, perché fondamentalmente mi sembra ancora di fare la stessa musica che facevo quando avevo 15 anni. Quand’ero ragazzina avevo questa specie di punk-band un po’ performance art, nella quale iniziavo i set con una specie di invettiva recitata, poi c’erano quei brani che si dissolvevano nel rumore e nel caos, e cose del genere. Non so da dove
abbia preso questi elementi, ma sono cose che faccio tuttora. Sento ancora fortissimo lo spirito di quella teenage-Erika dentro di me. In effetti ogni qual volta mi sento mancare la fiducia in me stessa dovrei chiedermi “che cosa farebbe la giovane Erika in questo momento?”. Se guardi la lineup di quest’anno del Primavera Sound trovi Neutral Milk Hotel, Shellac, Pixies, Slowdive, Mogwai, Superchunk, Nine Inch Nails, Slint... Come spiegheresti questo crescente rinnovato interesse per i suoni alternativi dei Novanta? È semplicemente l’ennesimo fenomeno di revival? C’è sempre quel momento di rievocazione nostalgica che colpisce dopo i vent’anni. Succede nella moda, nella musica, nel cinema ecc. Forse è il nostro modo di fare i conti con il passato. Comunque ho l’impressione che quel periodo sia stato anche l’ultimo nel quale ci sia stato un vero e proprio definitivo movimento sociale nell’ambito della musica rock-mainstream. Forse mi sfugge qual-
cosa, ma in questo momento non mi viene in mente nessun movimento degli anni 2000 che sia stato super-influente per quanto riguarda la musica chitarristica. Trovo che la tua cover di Endless, Nameless dei Nirvana sia una delle più arrabbiate e impressionanti che mi sia capitato di ascoltare. Secondo te qual è l’ingrediente speciale che rende band come Pavement, Sparklehorse, Nirvana, Neutral Milk Hotel, Dinosaur Jr. e altre ancora così interessanti e fresche anche a distanza di vent’anni e più? Da un lato direi che è normale che il meglio di ogni genere solitamente resista alla prova del tempo. Per ognuna di quelle grandi band ce ne saranno sicuramente altre 10 che non ci suonano più così bene oggi! Ma d’altra parte direi che gli anni Novanta hanno cambiato tutto, nel senso che il cosiddetto underground è diventato per la prima volta commercialmente di successo. Le grandi band di quell’epoca sono riuscite a mantene-
“I think the digital recording platform can be a real feminist space” re l’autenticità pur raggiungendo un pubblico di massa. Qualcosa di irripetibile. Hai visto Sound City di Dave Grohl? In un’epoca in cui la musica è duplicata o messa in streaming su internet e ascoltata attraverso le casse dei nostri computer pensi sia ancora attuale investire cura, tempo e denaro nel realizzare un disco che suoni ancora dannatamente BENE? Ho dei sentimenti contrastanti sull’argomento.
Una delle cose che per me emerge chiaramente dalla visione di Sound City è di come l’atmosfera fosse generalmente molto “macho”. Voglio dire, ci mancava poco che non ammettessero Stevie Nicks nei Fleetwood Mac, e c’erano poster di donne nude dappertutto sulle pareti dello studio. Penso che invece la piattaforma di registrazione digitale possa essere davvero uno spazio femminista. Imparare a padroneggiare quella tecnologia mi ha permesso di mettere in gioco le mie particolari idee, anche se non suonano “bene” come i dischi di classic rock.
— The Future’s Void — Il tuo nuovo disco ha un feeling più elettronico, oscuro e industriale, e mostra alcuni temi ricorrenti: ci sono riferimenti a William Gibson, così come la rappresentazione di una società nella quale tutto è cablato e connesso attraverso la rete globale. Tutto questo ha avuto origine da una tua personale riflessione sull’hype generato dal tuo album precedente? In effetti sì. È buffo come la maggior parte delle persone
l’abbia interpretato come una polemica/invettiva totalmente a-personale sul modo in cui viviamo oggi. E non che non lo sia. Ma alla base, nel profondo, è completamente personale. Wow! Sei il primo ad averlo scritto in questo modo, e hai del tutto ragione. Non ero nemmeno riuscita a confrontarmi con questo fatto fino ad ora. Hai paura della tecnologia? Diresti di essere una Luddista dell’era digitale?
No, affatto. Mi pace la tecnologia. Imparare ad assemblare i miei dischi e a mettere su traccia la mia musica con l’ausilio del computer mi ha permesso di assumere il completo controllo sul risultato finale. SATELLITES è un’apertura magniloquente, piuttosto elettronica e industrial, ma anche “cinematica”: una specie di colonna sonora. Il tema funziona molto bene in relazione al testo. Qual è il
concept sottostante e perché l’hai scelta come opener del disco? L’idea musicale di Satellites è stata una delle prime cose che ho realizzato per il disco. Penso che dal punto di vista sonoro prepari la scena per quello che verrà dopo e per l’argomento centrale dell’album. C’è un suono stridente di codice binario e un basso profondo, come fossero gli 0 e gli 1 del linguaggio macchina; poi fa il suo ingresso l’elemento umano, sotto forma di handclapping, ma anche quello è palesemente finto e simulato al computer, come gli altri elementi del resto. SO BLONDE riprende un po’ quella specie di stile “grungy” del disco precedente. C’è un sentore di primi Smashing Pumpkins, così come quel graffio stile riot grrrl nella parte vocale, specie quando urli “she’s so blonde”. Il testo parla di un ragazzo e di una ragazza. È ispirato alle tue esperienze a L.A.? Sembra anche un tantino sarcastico… Quel brano ha talmente tanti significati e protagonisti… Ha un’atmosfera alla Kurt e Courtney, parla di me, parla delle attricette che cercano di diventare delle star, parla di altre rocker al femminile e anche del ragazzo più fico del mondo che frequentava la mia scuola media. Certo c’è un sacco di sarcasmo e di pre-
sa di distanza, ma parla anche ovviamente di come quel tipo di attitudine grunge-cool mi abbia influenzato. Il video di So Blonde è davvero geniale, mette insieme uno scenario realistico stile Los Angeles con icone dell’era digitale, dagli avatar sexy stile Second Life fino all’estetica a 8-bit. Dove è venuta l’idea per il video, e chi è il tizio che l’ha realizzato? Beh, penso di potermi prendere il merito di essere “il tizio” che l’ha realizzato, dato che l’idea è stata mia! Ma Vice Cooler l’ha diretto e ha fatto un gran lavoro. In effetti è stata una cosa dell’ultimo minuto. Avevamo bisogno di un video e avevamo perso troppo tempo nel tentativo di sviluppare dei concept complicati. Un giorno me ne stavo mezza addormentata durante un sonnellino e mi sono detta “Basta cazzo, facciamo semplicemente che io me ne vado in giro per Venice Beach con delle gif animate di Molly Soda tutte attorno a me”. E così è stato! È buffo perché
nel video indossavo la stessa maglietta di Jim Morrison che avevo indosso quando sono stata a mixare il disco da “Icio” a Santana de la Rosa [intende Sant’Anna di Rosà, in provincia di Vicenza] e continuavo a fare la stessa battuta: “Oh, credevo che sarei dovuta andare in quell’altra VENICE”, ma penso che nessuno l’abbia capita. 3JANE è il nome di un personaggio di Neuromancer di William Gibson. È una canzone molto sentita. Il testo sembra riflettere il tema della sovraesposizione nell’era di YouTube e Facebook. C’è un verso che fa “There should be a law about it/ when they can take videos of you” (“dovrebbero farci sopra una legge:/ quando gli altri ti possono riprendere in video”). Mi viene in mente un aneddoto: Mark Kozelek ha suonato di recente da queste parti, redarguendo pesantemente un fotografo, tanto che anche chi voleva fare un video con lo smartphone tra il pubblico per una volta si è sentito intimidito... Questa tendenza a voler immortalare tutto in ogni momento sta diventando un problema? Sì, semplicemente non reggo tanto il fatto di dover vedere la mia immagine presa e messa fuori contesto, decontestualizzata. Non sopporto nemmeno tanto il fatto di dovermi
sentire obbligata a sembrare una pop star in ogni momento. Io scrivo canzoni e dedico molto tempo a registrarle e a mixarle. Non mi resta tempo per andare in palestra o per pensare in ogni circostanza ad avere un bell’aspetto. Gran parte del disco è stata realizzata partendo da improvvisazioni, e spesso le take definitive venivano registrate ancor prima di aver buttato giù i testi. È sorprendente per un risultato così ben pensato e assemblato. So che hai registrato a casa con l’ausilio di Leif Shackleford… come si svolgeva una sessione-tipo? Funziona così: di solito io registro la base strumentale principale e la parte vocale, tanto per buttare giù l’idea, e poi con Leif ci mettiamo d’impegno per fare in modo che tutto suoni esattamente come vogliamo che suoni. Nel caso di questo disco le influenze esterne sono state decisamente più importanti che in passato. Per la parte elettronica abbiamo utilizzato un mix di strumenti reali e di strumenti sintetici. È un disco veramente ibrido. NEUROMANCER. Di nuovo un riferimento a Gibson, per un testo che si confronta ancora con il tema del narcisismo, dell’individualità e dell’esporre se stessi al continuo scrutinio degli altri. È così?
No. Penso che in molti abbiano mal interpretato quel brano, ritenendolo più giudicatorio o moralista di quello che è. In realtà se lo leggi con attenzione contiene un elemento di critica capitalista: questa generazione ha molte meno opportunità economiche delle generazioni precedenti. Le generazioni più vecchie guardano a noi e ci criticano, ritenendoci frivoli e narcisisti, perché facciamo cose che non hanno peso specifico, cose che esistono solamente online. Ma il fatto è che non abbiamo le possibilità di realizzare cose con le nostre mani, è tutto molto fuori controllo. E poi cavolo, forse nemmeno vogliamo farlo! I creatori di contenuti, come i giornalisti e i musicisti sentono parecchio questo problema, dato che tutto oggi è atteso come gratis. SOLACE è una canzone con vibrazioni techno condita di visioni di autostrade e di paesaggi metropolitani. Sembri affascinata dalla qualità poetica della modernità e della tecnologia, un atteggiamento ambivalente… Come dicevo la questione non è quella di avere una visione negativa del mondo moderno. È di averne una realistica. C’è questa grande tendenza nel rock americano attuale a travestirsi come all’epoca della Guerra Civile o giù di lì. Questo disco vuole rispecchiare che cosa si prova a vivere in questo momento.
DEAD CELEBRITY. Una versione electro-minimale del Silenzio. Potrebbe sembrare una riflessione sulla natura effimera del clamore che circonda la morte di una celebrità, magari sulla moda imperversante dei “coccodrilli” su Facebook e Twitter? Niente che riguarda questo disco ha a che fare con l’idea di giudicare o di puntare il dito contro qualcuno. Nel testo utilizzo spesso la parola “noi”. Intendo semplicemente esprimere quello che facciamo oggi come società.
Alla consolle:
Intervista a Maurizio “Icio” Baggio – di Emanuele Binelli Mantelli –
Ciao Maurizio, tu hai curato il mixing di the future’s void di EMA? Raccontaci di come ti è arrivato il contatto e come tutto è iniziato. Tutto è iniziato nel luglio 2013, quando mi è stato chiesto di fare un mix di prova di 2 pezzi che successivamente avrebbero fatto parte del nuovo disco the future’s void, rispettivamente Satellites e Cthulu. Il fatto che EMA fosse arrivata in Italia è sicuramente singolare, ma il motivo di questo incontro lo devo principalmente a Krista Schmidt e Marco Rapisarda. Per chi non lo sapesse, sono due manager e produttori musicali nonché coppia, lavorano rispettivamente per label come City Slang, Souterrain Transmissions, Hell Yes! Avevo già lavorato su mix e mastering di molti dei loro artisti come Crocodiles, Love Inks, Boyfriend, Soft Moon, perciò dopo una prima prova hanno deciso assieme ad Erika di affidarmi questo lavoro. Com’è stato lavorare al suo fianco? È stato molto divertente. È sempre un piacere lavorare in diretto contatto con l’artista, specie quando è lei ad aver prodotto e registrato il disco (con l’importante ausilio del suo ragazzo Leif). Allo
Un bel ricordo che conserverai della lavorazione del disco o delle serate passate insieme?
stesso tempo a volte può risultare più complesso mixare questo tipo di lavori perché portano un’impronta molto forte di chi li ha creati. Perciò bisogna sempre agire in maniera delicata senza compromettere ciò che c’è di buono. Che tipa è? Raccontaci qualcosa sulla sua personalità e sul suo carattere. Erika è una ragazza solare e allo stesso tempo molto puntigliosa. Si vede subito che ci tiene molto e che non vuole lasciare niente al caso. Essendo un’artista giovane continua a sperimentare nuove soluzioni finché non trova quella che più la soddisfa: a volte ci sono dei vicoli ciechi e si torna indietro, a volte si possono trovare nuovi orizzonti. Appena si stacca dal lavoro però è una persona che sa divertirsi, abbiamo passato delle belle serate assieme.
Beh, vedere lei che canta un pezzo dei Pitura Freska è già di per sé un bel ricordo… potrei aggiungere anche quando abbiamo provato a mettere delle cornamuse su Dead Celebrity ed eravamo gasatissimi, anche se il giorno dopo le abbiamo scartate… anche la caprese che lei mi ha lasciato in frigo ha lasciato un indelebile ricordo. Parlaci dell’Hate Studio, cosa fate, quali servizi offrite e dove eventuali musicisti interessati vi possono contattare? Come studio siamo attivi dal dicembre 2002, mixiamo, registriamo, produciamo, masterizziamo qualsiasi genere di musica, anche se sicuramente la nostra specializzazione è il rock e l’elettronica. Lavoriamo con grandi artisti come lavoriamo con i principianti e abbiamo a disposizione sicuramente degli ottimi strumenti per farlo, oltre alle nostre orecchie. Per contattarci trovate tutto sul nostro sito www.hatestudio. it …che non aggiorno da qualche anno perché sono troppo impegnato nel mio lavoro e pigro per quanto riguarda questo tipo di cose…
– illustrazione di Giulia Sagramola –
– a cura di Emanuele Rauco –
Siamo invasi dall’alta tecnologia. Connessi quasi 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Come se ci fossimo estesi nei dispositivi che utilizziamo. Abbiamo realizzato l’epica e la poetica del cyberpunk, la corrente letteraria e poi artistica che dai primi anni ‘80 ha raccontato la fusione tra macchina e umano, la connettività come nuovo tessuto organico. Temi a cui EMA è sensibilissima, specie dopo i turbamenti che lo sovraesposizione del secondo disco solista Past Life Martyred Saints le ha procurato e che non ha mancato di riversare in brani come 3Jane e Neuromancer, titolo direttamente ispirato al romanzo di Gibson manifesto del cyberpunk. Ma se c’è un ambito in cui il cyberpunk, che anche nei suoni informa la musica di EMA, si è evoluto in modo assolutamente originale è nel cinema. Ecco allora una rapida panoramica in ordine cronologico sui 5 film cardine del cyberpunk cinematografico.
TRON (1982, Steven Lisberger) Film seminale se ce n’è uno: computer grafica, realtà virtuale, il videogioco, ma soprattutto un mondo visivo e narrativo in cui non esistono confini tra uomo e macchina, tra programma e programmatore, software e hardware. In definitiva tra reale e immaginato, creando i presupposti del cinema contemporaneo anche più delle Guerre stellari di George Lucas. Di buon livello anche il seguito (2010, Joseph Kosinski), ma più tarato sul design e la grafica, meno sul meccanismo.
VIDEODROME (1983, David Cronenberg) La creazione della nuova carne, in cui nervi e cavi elettrici sono la stessa cosa, si compie in questo film nel quale il segnale pirata di alcune videoregistrazioni causa tumori al cervello, allucinazioni, distorsioni della realtà. Videodrome è un catalogo di tutto ciò che è accaduto nei 30 anni successivi, e di come persino la linea tra la vita e la morte abbia preso un senso molto diverso. Tanto più attuale quanto più la sua messa in scena appare d’epoca. All Hail the New Flesh.
AKIRA (1988, Katsuhiro Otomo) Tra i terreni su cui far attecchire il cyberpunk, quello dell’animazione giapponese è uno dei più fertili. Padre di quella generazione fu senza dubbio Akira, storia post-apocalittica in cui le motociclette sfrecciano tra architetture che paiono i tentacoli di un’enorme piovra e un governo fantoccio starebbe per distruggere il mondo con la pretesa di salvarlo. Una riflessione durissima sulla costruzione del Messia e uno dei più grandi film d’animazione mai prodotti.
TETSUO
(1989, Tsukamoto Shinya)
La nuova carne alle estreme conseguenze: un uomo che si innesta oggetti metallici per puro piacere, un altro che lo investe e comincia a trasformarsi in macchina. Scontro finale, debitore dei mecha della tradizione manga, in cui i due si fondono creando un pene meccanico. Astratto, delirante, senza scampo eppure preciso nel raccontare il cuore stesso del movimento cyberpunk e dei suoi risvolti sessuali. Epocale, tanto da aver dato vita a una trilogia (1992 e 2009, stesso regista).
HARDWARE (1990, Richard Stanley) Uno dei punti d’arrivo del cinema cyberpunk: bassissimo budget che gioca con i propri limiti, un robot militare che risorge e si ripara con scarti trovati ovunque, un pianeta Terra ormai tossico. La rivolta e l’Apocalisse assumono connotati esplicitamente politici; tra satira e splatter, ma anche saggio di cinema indipendente capace, come il robot al centro del film, di costruirsi con mezzi di fortuna e non fare prigionieri. Geniale talento sudafricano, Stanley non si è più ripetuto.
retrogaming
Ciò che ricordi... quella è l’illusione, ovvero Final Fantasy 7 Correva l’anno 1997, avevo 15 anni e la mia vita era pervasa da un’assoluta e completa devozione alla Playstation. Quando, un freddo giorno di novembre, il mio spacciatore ufficiale di videogiochi si presentò da me con una copia di Final Fantasy 7, il mio pensiero fu subito: ma perché scusa, l’artri sei ‘ndo stanno? – a cura di Francesco Papadia – Non avendo mai posseduto una console fino ad allora, ero totalmente ignaro del fatto che ogni precedente episodio di questa saga fosse un piccolo (enorme) capolavoro. FF7 segue le avventure di Cloud, biondo mercenario di poche parole assoldato da una banda di ecoterroristi chiamata Avalanche al fine di salvare il pianeta dal collasso causato dall’eccessivo sfruttamento di energia perpetrato dalla Shinra (i cattivi, per intenderci). La faccenda si complica quando nella storia fa la sua apparizione uno dei migliori villain videoludici di sempre: Sephirot,
soldato della Shinra andato fuori di testa e con velleità da angelo della morte. Niente sarà più come prima. Sephirot e Cloud sono legati da un misterioso e confuso passato. Ci assale
all’improvviso la sensazione che la vita che stiamo vivendo potrebbe non essere la nostra, che i nostri ricordi potrebbero essere stati manipolati, che potremmo non star ricordando affatto. Inizierà un viaggio dentro noi stessi, per rivendicare la nostra identità e, già che ci siamo, salvare il mondo da un’immane catastrofe. Giocarci oggi sicuramente può ridurre un po’ il coinvolgimento a causa
di una veste grafica che ormai sente il peso del tempo, ma FF7 è questo: un viaggio, un’odissea, un’avventura che vi strapperà il cuore dal petto e vi farà entusiasmare e commuovere per un ammasso di pixel sullo schermo. Chiunque ami i GdR giapponesi, i videogiochi o più semplicemente le storie belle, ha l’obbligo di giocare almeno una volta nella vita a Final Fantasy 7, perché niente ha cambiato il modo di vedere i videogames (non più come un passatempo per ragazzini) come quest’opera che, se non posso definire letteratura, allora la letteratura non è mai esistita.
Oggi vivi a Portland. Nella serie “Portlandia” la città viene descritta ironicamente come bloccata negli anni Novanta. È davvero così? È un po’ come negli anni Novanta, ma tutto è un po’ più rifinito e “carino”. Il costo della vita è relativamente basso, così la gente spende un sacco di tempo e denaro nel bere e nel cibo. Manca la rabbia dei ’90, però.
© Simon Garnier
Se venissimo a Portland cosa ci porteresti a mangiare? Gli abitanti di Portland amano molto la pork belly (un tipo di pancetta di maiale) e la mettono dappertutto. Probabilmente la pancetta è stata inventata in Italia, quindi non credo sarebbe una novità per voi! Poi c’è l’insalata di cavolo riccio, è ovunque. La cosa che varrebbe la pena di farvi assaggiare sono le assurde birre ad alta gradazione che producono qui a Portland, birre artigianali. Lasciate perdere i vini, sono molto buoni ma anche troppo cari se paragonati all’Italia.
The Rust and the Fury Emanuele Binelli Mantelli
intervista ai di
Ciao Francesca, tributare i Nirvana è oggi più che mai impresa ardua. L’effetto nostalgia è dietro l’angolo, così come il rischio di precipitare nel baratro dello scimmiottamento e del ridicolo. Parlaci di come avete approcciato il vostro brano. Coverizzare i Nirvana è una bella impresa. Qui non si parla solo di musica, ma di spirito, di attitudine. Una rabbia anni ‘90 covata in una città di provincia. Se avessimo avuto la possibilità di fare questa cosa 20 anni fa sicuramente ci avremmo buttato dentro tutto quello spirito, avremmo sentito Perugia come Aberdeen o Seattle (caso vuole che siano pure gemellate). Affrontare i Nirvana da “cresciuti” è stato diverso. Abbiamo scelto Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle perché abbiamo ritenuto che fosse il brano più adatto a una rivisitazione nel nostro stile. Ci sono anche altre ragioni: la storia di Frances Farmer ad esempio, e il suo nome. Nel nostro primo album c’è un pezzo intitolato Francis with God. Insomma… questo nome ci porta fortuna! Che cosa hanno significato i Nirvana nella vostra “formazione”?
Francesca: Li ho ascoltati molto tra amici, mai a casa da sola. Il primissimo ricordo va all’estate del ’94. Kurt era morto da pochi mesi, ne avevo sentito parlare ma non sapevo bene di che cosa si trattasse esattamente. Ero in colonia, e durante una gita in autobus una mia compagna ha messo nello stereo una cassetta rubata al fratello maggiore. Era nevermind. All’età di 10 anni. Ci sentivamo gasatissime!! Daniele (voce, chitarra): Se nel 1992 non avessi ascoltato Smells Like Teen Spirit oggi la mia vita sarebbe migliore! Un buon posto di lavoro e una famiglia a cui volere bene. Ma fortunatamente non è stato così! Avevo 14 anni ed il mondo mi faceva schifo. Solo che allora esistevano i Nirvana ed era un buon motivo per continuare a credere che anche io, con la musica, sarei potuto riuscire. Stava succedendo qualcosa. L’ultima rivoluzione Culturale VERA! Sono fiero di averne fatto parte. Il disco che preferisco è in utero. Ancora oggi cerco quel suono... scarica la compilation gratis su www.inconsapevolerecords.com/ freedownloads/
Un altro tributo? Sì e no. Vi sfidiamo a non farvi conquistare da questa compilation realizzata dalla Inconsapevole Records per celebrare “tra amici” il ventennale della morte di Kurt Cobain. 31 band e artisti della scena italiana che rileggono gli originali con personalità, acume e ironia, mantenendo intatto l’elemento fondamentale: l’autenticità. Ne abbiamo parlato con Francesca Lisetto, tastierista e voce dei perugini The Rust And The Fury. In particolare Scentless Apprentice. Il ricordo: la panda del mio amico Mafu con tutti gli sportelli aperti ed i cazzotti sul parabrezza, i miei capelli platino e le sbronze colossali! Ora però non riesco più ad ascoltarli. Francesco (chitarra e voce): Era il ‘93. La prima band. In scaletta c’era Smells Like Teen Spirit. Sono sempre stato più dalla parte dei Pearl Jam che dei Nirvana, ma nevermind mi ha aperto la testa. Pomeriggi passati a leggere i testi e ritrovare i riff di Lithium, e Territorial Pissing. Serate nevose sulla moto di Gianluca a cantare In Bloom per illuderci di sentire meno freddo. Il nastro della cassetta si stirava sempre di più, ma non si è ancora spezzato. Gratitudine. I The Rust And The Fury stanno per pubblicare il loro secondo album, dopo l’ottimo may the sun hit your eyes… lo presenteremo il 20 settembre alla Darsena, Castiglion del Lago (PG). Uscirà con Woodworm, una delle etichette più influenti del momento, persone eccezionali. C’è gran parte della nostra vita là dentro. E’ un lavoro più maturo e ci ha tolto molte energie. Ma siamo orgogliosissimi! Non vediamo l’ora…
A Cleveland, Ohio, c’è una piramide di vetro. “Quindi?”, direte voi: “Ce n’è una anche al Louvre di Parigi, e poi a Cleveland non c’è La Gioconda”. L’architetto è lo stesso, Ieoh Ming Pei, ma sotto la piramide di Cleveland c’è un tesoro che per un amante della musica non ha eguali. Avete presente la giacca indossata da Lennon sulla copertina di Sgt. Pepper? O il pianoforte con cui Springsteen ha scritto “Thunder Road”? Non il rinascimento della pittura italiana ma la nascita della musica che amiamo: benvenuti al Rock’N’Roll Hall of Fame Museum. Benvenuti ai Nirvana, dal 2014, ufficialmente, nella storia del rock. Potrebbe far sorridere l’ingresso nello zoo dei dinosauri rock della cometa grunge che quei dinosauri ha contribuito a far estinguere. Ma così è. Le regole d’ammissione parlano chiaro: devono essere trascorsi 25 anni dalla prima registrazione (fin qui ci siamo) e l’artista deve aver lasciato una traccia indelebile nella storia del rock. Bingo. Anche il secondo criterio è rispettato. Lo sappiamo bene noi, i nati nel ‘79 che, come cantano I Cani: “Suonano in almeno due tre band e fanno musica datata”, ma che soprattutto hanno vissuto da adolescenti la parabola musicale dei Nirvana. Noi che abbiamo fatto i capricci per assistere al concerto al Palaghiaccio, noi che una mattina del ‘94 siamo entrati in classe con il vocabolario di latino sotto il braccio e la notizia della morte di Cobain nella testa. Ma bando alla tristezza, questi sono giorni di festa, e una festa è stato il concerto per l’iscrizione dei Nirvana nel giro della musica che conta, il 10 aprile a
Brooklyn. Quattro le canzoni suonate da Grohl, Novoselic e Smear: “Smells Like Teen Spirit” con Joan Jett, “Aneurysm” con la voce di Kim Gordon, “Lithium” in compagnia di St. Vincent e “All Apologies” cantata da Lorde. “Non è stato facile” ha confessato Dave, “Suonavo quei pezzi quando avevo 25 anni, ora ne ho 45, provateci voi”. E dopo il concerto di iscrizione anche un aferparty, protagonisti altri due performer oltre ai quattro già citati, J Mascis dei Dinosaur Jr e John McCauley, Deer Tick. Ogni festa che si rispetti ha bisogno di regali, come l’uscita della “20th Anniversary Edition” di In Utero.
le si notano sin dal primo ascolto, un mix più garbato, asciutto. In “Heart Shaped Box” riemerge un coro prima sepolto, in “All Apologies” fa capolino addirittura una seconda chitarra totalmente dimenticata nella versione originale. Operazione riuscita, come riuscita era stata la “20th Anniversary Edition” di nevermind del 2011, arricchita dal mix originale di Butch Vig. Ma vorremmo concludere citando una scena tratta dall’ottimo documentario “Sound City” (scritto e diretto da Dave Grohl). Paul McCartney riascolta in sala la registrazione appena terminata, poi si rivolge a Novoselic e Grohl e chiede: “Qualcuno di voi sa cantare?”. Perché tra dinosauri si può anche scherzare.
Diverse le versioni disponibili ma la più interessante è ovviamente la più costosa, un “Super Deluxe box set” da tre cd più un dvd. Ci sono demo, outtake, un live dall’ultima tournée del ’93 e un interessante remix dell’album, supervisionato da Steve Albini. Le differenze rispetto all’origina-
Smells Like Hall of Fame – a cura di Valerio Minelli –
a cura di
Enrico Calligari
A giudicare dai voti dati dalla critica musicale the future’s void sembra un classico caso di album acclamato. Basta dare un’occhiata a siti come Metacritic o AnyDecentMusic: 80 su 100 è un risultato notevole. Poche le eccezioni. Le cartacee più autorevoli NME, Spin, Mojo, Uncut e Rolling Stone si assestano sull’ 8 pieno. Appena appena più schizzinose le webzine trendy che oscillano tra il 7,4 di Pitchfork e la B di AV Club. Allmusic.com e The Guardian vanno sul 4/5 ed è Disco del Mese per l’autorevole blog Stereogum. Voce abbastanza isolata il modesto C+ di Pretty Much Amazing. Entusiasmo che arriva anche in Italia, ma con qualche altalena in più. Si va dall’8 per Rumore (Francesco Vignani) e Il Mucchio (Giuseppe Zevolli) e si precipita al 5 di Blow Up (Beppe Recchia). Online il disco riceve più di un’ok (4,5/5) sia del portale più noto, Rockol sia dalle webzine come IndieForBunnies (Sara Marzullo). Ma c’è anche qualche voce più tiepida, anche se positiva, come SentireAscoltare (6,5 di Stefano Pifferi) o fortemente critica come Eddy Cilìa sul suo blog Venerato Maestro Oppure. Le testate anglofone si sono concentrate molto sui testi. Un’analisi delle liriche e degli argomenti toccati, in tema di attualità dell’era digitale. Dalla privacy ai social network, dai selfie all’autenticità delle emozioni condivise. In Italia l’approccio rimane invece molto più legato alle scelte stilistiche, chiaramente individuate in una reminiscenza anni ‘90, e la conseguente lettura diametrale: niente di nuovo o geniale riutilizzo dei canoni? Eddy Cilìa per affondare il suo colpo cita il lungo e approfondito articolo dedicato al disco su TinyMixTapes (di Ed Comentale, 8/10), quando sostiene che Future’s Void è 20 anni in ritardo, essendo a tutti gli effetti un disco del1994, inimmaginabile prima di quella data e per di più, aggiunge Cilìa, un mediocre disco del 1994. Recchia su Blow Up liquida
Il meglio di quello che è stato detto sui dischi più discussi dal resto della stampa specializzata. Con ironia e sarcasmo.
il disco come fermo al 1996 (ma almeno suona più giovane di 2 anni). L’articolo di Ed Comentale però va oltre. Ammette candidamente che lui stesso, se lo avesse ascoltato senza sapere, lo avrebbe collocato in quegli anni. Eppure cita la stessa EMA che parla di “meta-grunge” come ultima forma di linguaggio tradizionale, non mediato, autentico, invitando a riscoprirne la potenza come cortocircuito, allo stesso modo in cui sembra oggi fuori luogo parlare ancora dei pericoli di internet (davvero lo è?). Un disco “di attualità pre-attuale o forse post-attuale”. Viene in aiuto in questo senso Evan Rytlewski di Av Club che titola il suo pezzo “Ema spinge all’indietro contro la corsa frenetica di Internet”. Qui troviamo una definizione interessante: le canzoni di TFV sono “meditazioni sull’impossibilità della privacy nell’era moderna”. Secondo Rytlewski, infatti, questo sguardo ai ‘90 non può che avere come nume il buon Kurt Cobain. L’occhio giudicante da cui si è sentito assediato il Principe del Grunge, oggi si è moltiplicato, Erika M. Anderson sente i riflettori
addosso, come artista e come persona, e questo implica una reazione. Appare evidente quando in 3Jane si spinge al rifiuto anacronistico del “vendersi” e del diventare un “refrain”, una frase sottolineata da più di una recensione. Anzi, Pretty Much Amazing sostanzia i propri dubbi sull’opera proprio a partire da quella frase, per l’atteggiamento troppo rigido e poco comunicativo di tutto il disco. E’ NME a recuperare una dichiarazione della stessa EMA relativo al suo “estraniarsi dal mondo esterno” per questo disco e al paradosso di come invece rappresenti il suo sguardo più esteso sul mondo e sulla contemporaneità. Ed ecco un altro degli snodi interpretativi del disco, ovvero la sua distanza dal predecessore e il suo essere, rispetto ad esso, meno personale e viscerale. È il punto di partenza di Pitchfork, ma anche di altre analisi: nel 2011 il computer era connesso al vomito (in Coda), nel disco c’erano sangue, droga, abbandono. AV Club ricorda le “storie dietro ogni cicatrice dei suoi polsi” e anche a Stefano Pifferi su SA, parla di “dolore
che colava a fiotti”. Laddove Past Life Martyred Saints era un disco autobiografico, intenso e sofferto, the future’s void sembra voler salire in cattedra e parlare di data-mining, di privacy, di social media, anche di politica, una sorta di “saggio”. Il risultato sarebbe un disco più “freddo”. TinyMixTapes però segue un suo filo. Freddo, ovvero “cool”. Il fatto che Ema sia “cool” in questo modo ‘90ies introduce una distanza temporale e stilistica. Pur trattandosi di un album meno personale rispetto a PLMS, la vera differenza tra i due album riguarda “il rapporto del musicista con il tempo e con il luogo”. Future’s Void parla di un mondo alla deriva visto da lontano, in un certo senso anche qui abbiamo uno sradicamento. Nel passato era la California della gioventù, oggi è l’iperspazio. E sembra sulla stessa linea Heather Phares , che sul portale Allmusic vede in Future’s Void, una EMA che sta ancora esaminando i pericoli della moltiplicazione di identità e i suoi scollegamenti. Sradicamento e scollegamento come due facce della stessa medaglia.
“Ma Cosa Ci Senti!” Ma veniamo al Premio “Ma Cosa Ci Senti!” destinato al riferimento più assurdo o fantasioso. Innanzitutto registriamo un en plain per i Nine Inch Nails/Trent Reznor, citati un po’ da tutti. Appena più indietro Garbage, le Hole, PJ Harvey ma anche Cat Power si piazza bene. Meriterebbe una mensione in positivo Allmusic che cita Linda Perry delle 4 No Blondes come ispirazione in “So Blonde”. Ma veniamo alle forzature. Ercole Gentile di Rockol sente in Chtulu alcune, non meglio precisate, produzioni di Nick Cave, ma d’altronde aveva sentito su 3Jane anche gli Interpol. Vignani su Rumore scomoda gli Swans in maniera incomprensibile. La webzine italiana DeerWaves va per i fatti suoi: omertosa verso tutti i riferimenti ‘90ies, dichiara il disco simile a St. Vincent e Liars: beata gioventù. Vincerebbe a mani basse quel tocco di “tardo Scott Walker” maldestramente evocato dal coraggioso Brandon Soderberg di Spin, se non fosse lei stessa, la stessa Erika M. Anderson a trovare la definizione e il riferimento più fuoristrada e al contempo geniale, segnalato da Sara Marzullo di IndieForBunnies: “come se Flea, in un film distopico su una gang
di motociclisti cyberpunk, scrivesse sul muro con lo spray #futuresvoid.”. Dove l’ha scritto? Su Twitter.
Ma a differenza dello stupendo Our Band Could Be Your Life di Michael Azerrad o di tanti altri libri sull’argomento, “Non Ti Divertire Troppo” è un insieme di racconti scritti da musicisti, addetti ai lavori, appassionati giovani e meno giovani, che hanno deciso scegliendo a gusto loro di raccontare di come un gruppo “alternative” o “indipendente” (inteso come lo si intendeva una volta) di quel periodo abbia inciso sulla loro vita. Spaccati di vita vissuta a sfondo musicale, per capirci. Come ci dicevamo in sede di scrittura, in quel periodo tutto sembrava uno stupendo unicum, dall’hardcore all’emo, passando per il college rock e lo slowcore… per noi quell’insieme è stato qualcosa di davvero importante, seppure non vissuto magari in presa diretta e quasi mai sul posto. Un qualcosa che probabilmente non rivivremo mai più, forse annebbiati da quell’altro unicum: quello dell’era internettiana dove tutti ascoltano tutto e tutto passa molto veloce, al ritmo di un like.
info
www.nontidivertiretroppo.iT
Un libro che racconta quindi di “generi, di gruppi persi che però hanno cambiato un sacco di vite”. Frutto della passione di tante persone e in special modo dei ragazzi della Flying Kids Records, che quella passione la vivono in modo così viscerale da aver voluto fondare un’etichetta discografica indipendente, in un paese così lontano da quello descritto nelle note e nelle canzoni di Non Ti Divertire Troppo. La prefazione è di Mike Watt, per ritornare al primo punto. Per la copertina basta osservare lo stile per capire da chi è disegnata. Qui, dalla provincia dell’impero è tutto: ora sta a voi entrare nelle nostre vite per un po’… e non divertirvi troppo.
– a cura di Emanuele Chiti –
“Volete la new wave o volete la verità“ scrivevano i Minutemen nel 1984. E (con tutto il dovuto rispetto per la new wave) Non Ti Divertire Troppo – 19881999, 20 Anni Di Rock Alternativo Visto Da Qui prova a portarla a galla questa verità, vista e vissuta con gli occhi di chi dal nostro lato dell’oceano, a migliaia di kilometri di distanza, ha consacrato parte della propria vita alla musica alternativa americana anni ’80 e ’90 al punto da farsela cambiare. Del resto “La nostra band potrebbe essere la tua vita”, no?
grazie a: