La solitudine del corpo

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La

solitudine del

corpo



La solitudine del corpo Tesista Giulia Angrisani

Matricola M13000600

Relatore Alberto Baldi

Corso di Laurea in Sociologia indirizzo antropologico UniversitĂ degli studi di Napoli Federico II A.A. 2013-2014



“Nel pensiero del corpo, il

corpo

forza

il

pensiero Troppo

sempre

lontano, ma

mai

più lontano, sempre troppo lontano. perché possa essere ancora pensiero,

abbastanza perché possa essere corpo”.

(Jean–Luc

Nancy)



Questo lavoro non riuscirà a dare risposte. Questo lavoro non vuole dare risposte. Forse ci sarà qualche domanda.

Ci saranno persone, occhi e vite. Ossa, pelle e mani. Ci saranno individui ma non ci sarà individualismo. Tra l’insonnia e la difficoltà di riuscire a narrare, ci sarò io.

Forse ci sarà qualche timore, ma ciò che sicuramente non mancherà, sarà l’onestà. L’ onestà di essere uomini e donne mortali e tutti insieme.



Indice

Ini-zio

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Capitolo I. Il corpo tra natura e cultura

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Il corpo che desidera

22

Capitolo II. Il corpo utopico e l’utopia del corpo

32

Il corpo utopico

36

Capitolo III. Corpi ibridi: dall’organico al post organico

42

Il corpo come design

47

Precipi-zio

56

Frammenti iconografici

62

Bibliografia

66



Ini-

zio


Abbiamo radici profonde e dolenti in ogni essere e in ogni frammento del mondo in cui viviamo.

Un mondo pieno di memorie, di sussulti, di pianti e di sorrisi che avvinghia, prepotentemente i nostri respiri.

Siamo un insieme di crudeltà, superbia, ironia, tenerezza carnale, fantasia e ricordi, impregnati della stessa materia sognante di cui erano fatti i nostri antenati, e sopravviviamo, ancora oggi, convinti di essere vittime di un tremendo imbroglio, quel tormento devastante dell’immortalità impura, la quale ci ha dotati di carne mortale, ma anche di desideri che si perdono nell’infinito. Siamo l’incarnato della contraddizione; tra la mente infinita e il corpo finito, ci siamo noi.

E allora, sospesi tra la gioia e il sospetto, procediamo con difficoltà estrema, in una sospensione ritmata dall’alienazione e dalla nostalgia.

Il corpo, quest’agglomerato di emozioni di cui siamo fatti, è materia desiderante. Il desiderio è mancanza e la mancanza è vuoto ed il vuoto è solitudine.

12


Siamo immagini istantanee e istantaneamente dimenticate.

Ognuno di noi è sofferente per essere caduto sulla terra da solo e cerca in tutti i modi di ribellarsi, tendendo a non riconoscere questo duro e piatto supporto, scandito dal ritmo della luce e delle ombre, come luogo in cui è obbligato a vivere definitivamente.

E allora sogna di evadere verso luoghi indefiniti, amori immaginari, sostanze stupefacenti, sfuggendo alle leggi del mondo e si libra, con le ali della propria mente, al di là dell’estremo limite. Ma le ali si sciolgono e, come Icaro, ricade nel buio del proprio mare, della propria solitudine. Ed è proprio quel buio che l’uomo non vuol affrontare.

Come se tutti questi voli pindarici, queste fughe dalla realtà fossero tentativi per scappare dall’unica certezza che ci attende e che non vogliamo accettare: arriviamo in questo scenario apocalittico da soli e quando avremo messo a posto i nostri arredamenti, da soli andremo via.

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Il corpo, con il suo spessore da muro di prigione, con il suo peso di sangue, acqua ed ossa sprofonda nel mondo. Lui è un tubo, dove passa tutto, senza attrito, senza trattenere. Uno spazio vuoto, una sincope, un’ espirazione, una pausa pneumatica.

Sperso nell’oscurità della sua inconsistenza, imbrigliato nella realtà ordinaria, l’uomo non può che anelare sempre alla dimensione dello straordinario, della bellezza poetica, e qui morire.

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capitolo I

tra

natura

e

Il

corpo

cultura


In un’epoca di grande incertezza, dove l’essere umano è giunto alla massima potenza esteriore e alla massima debolezza interiore, il corpo è sempre più utilizzato per scrivere la propria soggettività, definire le proprie appartenenze, comunicare il proprio disagio. In esso, sono segnate costantemente le tracce che ci permettono di comporre la nostra storia ed organizzare i rapporti con la società. Non esiste scrittura più impegnativa, né lettura più emozionante del corpo umano. Lavorare sul corpo, significa agire sui confini identitari. Come accade sempre in ogni scrittura, innumerevoli sono, però le interpretazioni e le letture, poiché il corpo è profondamente impregnato di quel processo essenziale e intensamente vissuto che è la costruzione della sua identità. Le cornici corporee che organizzano la nostra esperienza, infatti, incarnano un’epoca, o meglio la propria stagione politica, con le sue gerarchie (comprese quelle di genere), le sue retoriche e le sue narrazioni. Esistiamo, è certo, ma dubitiamo a tal punto della nostra esistenza, da sviluppare un’urgenza collettiva che ci assicuri di essere realmente vivi, un bisogno impellente che incarni le nostre ossessioni, che certifichi la nostra identità, con le sue carenze ed i suoi eccessi. Non abbiamo più tempo di cercarci un’identità 18


nella nostra memoria o di scavare nel passato per edificare una prospettiva futura, un avvenire, dunque ci siamo muniti di una memoria momentanea, una specie di identità pubblicitaria che possa verificarsi ed esaurirsi in un attimo, rimanendo in perfetta precarietà esistenziale. Il corpo, dunque, diviene il centro di quell’irradiazione simbolica per cui il mondo naturale e culturale si è sempre modellato, una rete di simboli con cui distribuisce lo spazio, il tempo e l’ordine del senso. Il corpo è l’unico dato invariabile, in tutte le epoche, nella sua essenza squisitamente corporea. Nell’esperienza umana, è il terreno primario, il punto di riferimento su cui basiamo la nostra identità, il mezzo ineluttabile di ogni relazione con il mondo. Il corpo, infatti, non ha nella pelle il suo limite estremo, ma il suo inizio, visto che è proprio attraverso la pelle che si ritaglia la forma del corpo stesso: la pelle non è, quindi, solo un semplice rivestimento organico, l’ultima membrana che definisce il limite del nostro spazio sensorio ma è soprattutto l’apertura ai transiti che l’ambiente esterno ci propone quotidianamente. Ciò nonostante, Il corpo rimane il grande sconosciuto della nostra cultura. Sconosciuto perché, è l’unica “cosa” da cui l’essere umano non può e non potrà prescindere ed è l’unica “cosa” che agisce come agente determinante e condizionante nelle nostre effimere esistenze. 19


Tutto sta procedendo in direzione di una visione dove il corpo risulta essere soltanto lo strumento dell’onnipotenza umana e non il suo più grande margine di realtà, e in tanti casi, di limite. La distinzione tra l’essere corpo o avere un corpo (a nostra disposizione),a mio avviso, sembra essere uno dei punti nevralgici di come stiamo decidendo o subendo quest’epoca contemporanea. Si può quasi parlare della creazione dell’”idea corpo”. Omero, per esempio, non parla mai del corpo come un’unità, non c’è mai una definizione unitaria del corpo. Parla sempre del corpo facendo riferimento alle sue parti. Perché per Omero, il corpo non è rappresentativo di un teatro che si svolge alle sue spalle; il corpo è immediatamente espressivo. Il nostro corpo esprime noi stessi, non rappresenta qualche cosa che si svolge nella nostra interiorità. Questo perché si tratta dunque di un corpo espressivo e non rappresentativo. Nietzsche per esempio ha denunciato quel retro mondo, quell’ “al di là inventato per meglio calunniare l’al di qua”. Il corpo è narrazione, riscaldamento, annientamento, emozione e soprattutto scrittura, che diventa un demone represso da far volare. Ma soprattutto sui corpi vale la pena di scommettere, anche se si tratta di scrivere e quello che hanno da dire ci passa attraverso e ci provoca dolore. Corpi ridotti ad involucro, a superficie, a carne 20


in cui si ritrae la fissità, l’immobilità della morte, il silenzio, la solitudine del corpo vuoto. Il vero rapporto non è corpo/anima bensì corpo/ mondo. Nella nostra cultura, in occidente, nessuno di noi si rassegna di essere corpo e nient’altro che corpo, perché abbiamo un concetto oramai svalutato della corporeità. Il discorso sull’identità umana, presenta l’irrisolta tensione tra natura e cultura: La natura definisce differenze biologiche, sulle quali poi la cultura costruisce significati, variabili nello spazio e nel tempo, in grado di plasmare aspettative, desideri, scelte, percorsi di vita, sguardi (il nostro come quello di coloro che ci circondano). Tutto questo, a sua volta, si riflette su dimensioni solitamente trascurate dalla letteratura scientifica. Più specificamente: Per natura, si intende l’insieme dei fattori fisici, chimici e biologici che costituiscono l’ambiente naturale. Qualunque attività condotta dall’uomo toglie naturalità all’ambiente; infatti, la natura, in senso stretto, è qualcosa che preesiste all’uomo ed è indipendentemente da lui, mentre l’uomo, invece, non potrebbe esistere né essersi originato senza la natura. Però, la presenza e l’intervento dell’uomo non escludono di per sé la persistenza o l’equilibrio della natura, che può essere mantenuto se l’impatto dell’uomo è contenuto e sottostà ad opportuni criteri; Per cultura invece, intendiamo l’insieme di 21


fattori eterogenei elaborati da una società o da una comunità umana. Tali fattori consistono in conoscenze, credenze, tecniche o valori, ma anche espressioni materiali di tutti questi elementi (parole, immagini, ecc.) e manufatti, utensili ed oggetti di ogni tipo. Per esserci cultura deve esserci un aggregato umano. È infatti nell’interazione che emergono situazioni del tutto diverse rispetto a quelle che riguardano il singolo. I processi comunicativi, il gioco dei ruoli, la reciprocità delle identità, il riconoscersi nell’altro, i legami e le affettività sono fattori che mettono in gioco una dimensione non riconducibile in alcun modo alla semplice somma dei singoli. La gregarietà è fortemente innata ed è presente anche negli animali; però, l’uomo, capace di rappresentazioni astratte, di consapevolezza e di autocontrollo, realizza una socialità di tipo diverso. È, quello attuale, un mondo in cui la parola ‘corpo’ viene scritta, pronunciata, declinata infinite volte, anche se il suo senso più profondo ci rimane spesso nascosto.

IL CORPO CHE DESIDERA Ma cos’è quindi che desideriamo veramente? Da sempre in noi vi è qualcosa di profondamente ambiguo, i caratteri dell’essenza umana non sono certo i più chiari e si stagliano nell’assurdità di questo tempo presente come il memento di qualcosa di sfuggito. 22


La misura dello spazio, degli oggetti, della natura non bastano più a comprendere la complessa struttura del nostro vissuto, dunque serve che qualcuno o qualcosa, intensifichi il dialogo con l’invisibile e, in questo ambito, si muova nel riempimento di un senso, indagando su ogni immagine, svelando il mistero che giace in ogni atomo dell’universo. Niente di nuovo al sole, poiché il problema che troviamo sempre in primo piano è quello della comunicazione. L’animo umano non comprende, se non elaborando, facendo, esprimendo e, in questo senso, tutti noi abbiamo una grande responsabilità, nei confronti degli altri e del mondo intero. L’espressione è una presa di coscienza, da parte di ognuno di noi, della realtà percepita che diventa sintesi in un tutto organico. Elaborando le impressioni, l’uomo si libera da esse, ma vi è in tale libertà, l’impotenza della libertà stessa. Si ode, spesso, taluni asserire di avere in mente molti ed importanti pensieri ma di non riuscire ad esprimerli, e addolora constatare che tutti noi, uomini comuni, intuendo o immaginando idee, figure o scenari forse non troveremo mai il modo di manifestarli. Che la realtà umana sia soprattutto fatta di mancanza è provata dall’esistenza del desiderio, come dato naturale. Nell’animo umano risiede questo sentimento arcano. 23


Una felicità tenera, dove la vita si ripiega su sé stessa in un’atmosfera di calma latente, impolverandosi di tormento, dove i pensieri tutti si assottigliano e la materia cerca di evadere come un insetto, una sorta di enorme farfalla dalle ali polverose. Ma si pietrifica. Il desiderio è un buco metafisico incolmabile, potenzialmente infinito, che cresce e persiste dentro di noi, che non si appaga e non si esaurisce perché ci spinge alla ricerca di qualcosa che non si può raggiungere e che spesso non esiste. Poco importa da dove provenga, da cosa sia determinato e quali conseguenze possa produrre su di noi, perché esso è un atteggiamento universale radicato da sempre nella nostra società. Siamo vincolati da un’implacabile legge naturale che, nel complesso, regola la nostra vita reale ma che, inesorabilmente, condiziona e placa qualsiasi slancio dei nostri pensieri. Vivendo, quindi, in una continua condizione di caos, ci troviamo a desiderare qualcosa talmente forte da allontanarci dalla nostra struttura sociale, ma altrettanto debole perché fatta della stessa sostanza fragile dei nostri sogni. Il desiderio va al di là dell’essenziale struttura del mondo e delle cose, sfidando la capacità che ogni uomo ha di percepire ed immaginare altri mondi ed altre cose, trascinandoci in una dimensione illusoria ma vitale, così coinvolgente da rischiare di confonderla con la realtà stessa. 24


Il desiderio umano è ambiguo, perché, allo stesso tempo, pulsionale e culturalmente codificabile: natura e cultura si fondono, giacché, per inclinazione, l’uomo non può far a meno di identificarsi nel mondo comune e nella vita sociale. Dunque, il soggetto desidera, ma non sa cosa. Nella sua fluttuazione d’animo, improvvisamente egli incontra un’Alterità, fornita di qualcosa che gli manca, che sembra dargli quella pienezza che non ha, che potrebbe riempire quel buco metafisico che lo tormenta. E, questa pienezza a volte così vicina, a volte irraggiungibile è ciò che propriamente lo affascina. Esso, quindi, non potendo porre la soppressione di sé come fine supremo, né eleggere a suo scopo un atto in particolare è puramente e semplicemente desiderio di un oggetto trascendente. Nel corso dell’esistenza abbiamo a disposizione una serie di oggetti con i quali stabiliamo rapporti, più o meno intensi, ma che spesso non permettono di colmare pienamente quel vuoto, con il quale ognuno di noi convive: il mondo reale, dunque, non contiene tutti gli oggetti di cui abbiamo bisogno, ne manca almeno uno, quello del nostro desiderio. E’ per questo che esistono dentro di noi, altri mondi, provvisti di ciò che la realtà non possiede, che contengono la chiave del nostro desiderio. La teoria della incompletezza dell’uomo, lo 25


precisa lo stesso Remotti, ha radici lontane: da Michel deMontaigne (1500) a Blaise Pascal (1600) a Giambattista Vico (prima metà del 1700); ma sono soprattutto i contributi teorici di Johann GottfriedHerder (seconda metà del 1700) a fornire un forte sostegno filosofico al concetto perché Herder definisce “cultura” (anticipando di un secolo la concezione antropologica di questo termine) ciò che, intervenendo dall’esterno, colma il vuoto, le lacune, le manchevolezze che segnano la natura umana. Sulla stessa scia, molti anni dopo, anche Clifford Geertz: Noi siamo animali incompleti o non finiti, che si completano e perfezionano attraverso la cultura – e non attraverso la cultura in genere, ma attraverso forme di cultura estremamente particolari: dobuana e giavanese, hopi e italiana, di classe superiore e inferiore, accademica e commerciale. […] Tra quello che ci dice il nostro corpo e quello che dobbiamo sapere per funzionare c’è un vuoto che dobbiamo riempire noi stessi, e lo riempiamo con le informazioni (o disinformazioni) fornite dalla nostra cultura. Il binomio tra natura e cultura si presenta spesso 26


in modi diversi, che ci possono aiutare a capire la specificità del rapporto che intercorre tra di essi. Dunque, contrapporre la cultura alla natura equivale in molti casi a contrapporre l’artificio alla spontaneità, intendendo il primo come una forzatura e la seconda come un mondo puro e incontaminato: potremmo subito obiettare che artificiale non significa falso, in quanto l’artificio è opera dell’uomo, quindi della sua cognitività e dei sistemi culturali che inevitabilmente elabora; la spontaneità, d’altra parte, non è che l’assenza di ogni ambiguità del determinarsi assoluto dell’istinto. Altre volte l’accento della contrapposizione è posto sul binomio astrazione/concretezza, intendendo ciò che è culturale inevitabilmente legato a concetti, idee e pensieri, mentre ciò che è concreto indissolubilmente legato alla materia e a ciò che esiste nel mondo reale. Anche qui si possono sollevare delle contestazioni: cultura e pensiero danno luogo continuamente a manifestazioni che hanno realtà materiale, come ad esempio suoni, odori o colori; anzi, l’intera cultura attraversa ed è attraversata dalla materia e non può essere concepita senza gli elaborati materiali che sono il suo stesso prodotto. Per motivi evidenti il discorso può essere esteso a tutto ciò che ha una natura materiale e con cui interagiamo: se l’uomo non avesse avuto la voce e la possibilità di articolare parole, la cultura umana sarebbe forse la stessa?

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capitolo II

e

Il

corpo

l’utopia

utopico

del

corpo


Cos’è il corpo umano se non un universo simbolico immediatamente disponibile e sperimentabile, della sua capacità di produrre significazione perché strettamente legata al suo essere centro di ogni produzione immaginifica dell’uomo, centro del suo desiderio, delle sue pulsioni, più o meno controllate dall’educazione e dalla cultura (?). Esso non è più solo un oggetto ma un campo, un sistema di opposizioni sociali e culturali intorno a cui si giocano nuovi conflitti e nuove domande, in un’atmosfera di trasformazione personale e collettiva.

Le occasioni di condivisione disponibili – sempre più garantite – all’interno dello spazio sociale sono molteplici e non esclusive. Le norme che ne regolamentano l’appartenenza possono essere infinitamente diverse ma sempre si declinano come dispositivi funzionali: sono finalizzate alla sopravvivenza del proprio spazio (dominio) e alla riproduzione della possibilità di quella stessa appartenenza. In altre parole: lo spazio di condivisione è un corpo, un accorpamento che si esprime nel mantenimento e nell’accrescimento dei propri membri, delle proprie membra.

Il riferimento a un luogo impossibile, inesistente, forse solo immaginato, o reale pur nell’apparente impossibilità della sua esistenza, ci rimanda al discorso sulle “allucinazioni”. Le allucinazioni sono state definite, fin dalla 30


loro comparsa nel lessico di una psichiatria che ritagliava il proprio spazio all’interno dell’ambito della medicina, percezioni senza oggetto, cioè eventi attinenti al dominio della sensibilità umana, ai quali mancava un referente individuabile nel mondo degli oggetti “reali”. Sono, questi, fenomeni di natura percettiva, per i quali il soggetto che ne è “colpito” prova effettivamente sensazioni paragonabili a quelle che proverebbe in presenza di un oggetto – o un suono, o un odore, o qualsiasi altro elemento possa essere percepito – reale? Oppure altro non sono che il risultato di una convinzione per cui il soggetto che “crede” all’esistenza di un oggetto, si “convince” di percepirlo effettivamente?

Vi è quindi uno sdoppiamento, del dato anatomico nel dato psichico o culturale potremmo dire, e contemporaneamente, il dato biologico, il corpo, è definito come il luogo abitato, come un doppio, dal dato psichico o culturale. In questo quadro, il corpo umano è senza dubbio un’eterotopia. Scrive Foucault: “Le utopie consolano: se infatti non hanno luogo reale si schiudono tuttavia in uno spazio meraviglioso e liscio; aprono città dai vasti viali, giardini ben piantati, paesi facili, anche se il loro accesso è chimerico. Le eterotopie inquietano, senz’altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano 31


di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la “sintassi” e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa “tenere insieme” (a fianco e di fronte le une alle altre) le parole e le cose.” È per questo che le utopie consentono le favole e i discorsi: sono nella direzione giusta del linguaggio, nella dimensione fondamentale della fabula; le eterotopie (come quelle che troviamo tanto frequentemente in Borges) inaridiscono il discorso, bloccano le parole su se stesse, contestano, sin dalla sua radice, ogni possibilità di grammatica; dipanano i miti e rendono sterile il lirismo delle frasi.

Il corpo, potremmo dire, è il luogo utopico in cui dovrebbe avvenire la composizione delle sue istanze biologiche e delle sue istanze psichiche, ma è anche l’eterotopia in cui questa composizione non può avvenire. In fondo, l’essere umano prende corpo, prende coscienza del proprio corpo, solo grazie all’immagine, al doppio di sé, che vede nello specchio e nel cadavere: Foucault riprende l’argomentazione per la quale il corpo, di cui il bambino e il greco dell’antichità percepiscono le parti indipendenti – le braccia, le gambe, la bocca –, prende forma e luogo nell’immagine che lo specchio e il cadavere rimandano loro. L’uomo prende coscienza del proprio corpo solo di fronte alla sua immagine inanimata, di fronte al suo doppio inanimato. L’aspetto utopico del corpo, che per Foucault coincide con l’utopia di un corpo al 32


centro del mondo, viene meno quando “ci troviamo davanti a un corpo”: al corpo riflesso in uno specchio, al corpo immobile di fronte a noi del cadavere. Il corpo prende spazio, ha luogo nel mondo, nel momento in cui si riflette e si sdoppia in un’immagine conclusa nello spazio di uno specchio o di un cadavere, in uno spazio “esterno” al corpo stesso, uno spazio che ne duplica e allo stesso tempo ne sopprime l’aspetto utopico – possiamo dire vitale –. Il corpo come eterotopia, dunque, in cui è da sempre già presente uno sdoppiamento, una duplicità tra l’aspetto biologico e l’aspetto psichico, tra l’immagine di sé e la coscienza di sé, tra il visibile e l’invisibile. Riprendendo un tema caro a Blanchot, potremmo dire che lo specchio e il cadavere rivelano ciò che già si mostrava, ciò che non è mai stato nascosto, nella sua duplicità che tuttavia non istituisce un doppio. Per Blanchot la parola e l’immagine condividono la capacità di svelare senza togliere il velo che copre le cose: «Esiste una parola – scrive – in cui le cose, pur senza mostrarsi, non si nascondono. Né velate né svelate: tale è la loro non-verità. E accade così anche nei sogni: il sogno rivela velando.

Il corpo, dunque, come eterotopia, come luogo in cui costitutivamente si dà una duplicità che si rivela solo nel momento in cui un “doppio” è portato “fuori” e osservato all’interno di uno spazio estraneo: quello dello specchio e del cadavere, come quello, circoscritto 33


artificialmente, di una scienza. Il corpo e la psiche divengono “oggetti” separati solo nel momento in cui uno dei due è artificialmente separato dall’altro e proiettato in un “fuori” che non gli appartiene. Uno spazio esterno, è bene intendersi, che non è uno spazio genericamente esterno al corpo o all’individuo, ma uno spazio delimitato concettualmente, nel quale il soggetto possa osservarsi e nel quale soltanto possa riconoscersi. IL CORPO UTOPICO Il corpo, dunque, come utopia, come luogo di accostamenti incongrui, come luogo reale nel quale si trovano a contatto elementi che dovrebbero essere incompatibili, ma, proprio per questo suo carattere, luogo assolutamente “altro”, separato da tutti gli altri spazi, che è destinato a cancellare o a neutralizzare. L’eterotopia inserisce nel continuum dello spazio una sostanziale discontinuità, crea uno spazio chiuso, che contesta tutti gli altri spazi, in due modi: creando un’illusione che denuncia tutto il resto della realtà come un’illusione e creando uno spazio reale tanto perfetto e ordinato quanto il nostro è disordinato ed imperfetto.

Essendo dunque il corpo un luogo eterotropico, significa quindi che si tratta di un luogo assolutamente diverso dagli altri. Un non-luogo o un luogo che per definizione in antagonismo con gli altri luoghi. 34


il corpo è il contrario esatto di un’utopia: è “irrimediabilmente qui, mai altrove”. Il corpo puoi agitarlo, spostarlo, rannicchiarlo, ma non sparirà, non ti darà mai tregua; sarà sempre con te, non se ne andrà mai. O al massimo ve ne andrete insieme. Il corpo è topologia pura, è spietato perché è se stesso ogni giorno, si ribadisce e ribadisce i propri (suoi e tuoi) confini. La vera utopia è quindi un posto dove puoi re-inventarti di continuo, dove puoi essere muscoloso o grassottello, alto o basso, biondo o rosso, ma comunque sempre un non-luogo dove cancellare il reale. Quindi l’utopia è la cancellazione del corpo reale.

È qui dunque che il corpo diventa l’unica utopia possibile: dato che è il filtro con cui tutto il reale viene assimilato e rielaborato. Di conseguenza, le utopie sono possibili solo all’interno del proprio corpo, della propria mente. Le maschere, i tatuaggi, il trucco, mediante la loro seduzione, il rito e il contatto con il divino, creano un linguaggio cifrato individuale, personale e sono tutti metodi validi per costruire la propria utopia. Del resto, c’è qualcuno che coincide con il proprio corpo? Un corpo che sopravanza, eccede, straborda ai lati. Corpi dell’orrore e dell’amore, corpi che 35


desiderano e che si desiderano, si guardano, che odorano, corpi con veli, con seni smagliati, con capelli fasulli, corpi trastulli, corpi del quotidiano sudare e faticare, corpi della follia, del farneticare, del fuggire via. Ma non solo. Un corpo che si contamina con la politica, l’alterità, la biologia, che prepara il terreno di una mutazione che fonde luoghi e linguaggi, che mette in discussione identità sessuali, fisiche, razziali. Ed ancora. Non è detto che si ami alla follia proprio tutto di quello che siamo, le sembianze con cui ci mostriamo ogni giorno. Possono esserci in noi appetiti inconfessati a manifestare altre valenze, altre forme di vita.

Dalla metamorfosi fisica a quella identitaria, dalla riflessione sullo stato del corpo al desiderio di costruirsene uno proprio come luogo di riflessione. Sposta le sbarre della gabbia dell’organico, dell’identità, interviene sul suo corpo creando nuovi conflitti, un corpo ibrido, una carne mutante, un’identità alterata e in continua metamorfosi, una presenza performativa, alterata, imprevedibile, trasformandolo in un linguaggio, in una forza che trova nel corpo stesso un universo inesplorato , una dimensione mobile per un’identità mobile. 36


Il corpo contemporaneo somiglia ad una fiamma. Minuscolo, isolato, separato, quasi impercettibile. Corre fuori da sé stesso potenziato dagli sport, passa attraverso i satelliti, entra negli aerei e va verso il cielo, lungo le reti della comunicazione. Si annoda ad altri corpi e brucia dello stesso loro calore, brilla della stessa luce di altri corpi/fiamma. Poi torna indietro, nella sua sfera privata, fin quando si sconnette completamente e si spegne, dorme. Il corpo moderno non è né sostanza, né fenomeno, né carne, né significato. E’ sempre sul punto di partire, nell’ imminenza di un movimento, di una caduta, di un allontanamento, di una dislocazione. Che cos’è, infatti, una partenza, anche la più semplice, se non quell’ istante in cui un certo corpo non è più là, proprio dov’era prima ? Ed in fine, il corpo, che ha attraversato i secoli, è stato indagato, svelato, mostrato, ferito, martirizzato, anatomizzato, sezionato, torturato, suppliziato, crocifisso, rappresentato e presentato con una tensione senza limiti.

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capitolo III

Corpi al

ibridi:

dall’organico

post

organico


Si può vestire il diverse scene del riscrivere quelle le forme, segnano

corpo per interpretare le quotidiano, spogliarlo per caratteristiche che, attraverso i nostri destini sociali.

Si può tentare di liberarsi dal corpo vivendo in un universo virtuale attraverso la finzione e la speranza di corpo virtuale. Si può nascondere il corpo dietro uno chador e vivere questa scelta come espressione di antagonismo e occasione di ridefinizione di una soggettività confinata nel limite. Si può mascherare il corpo attraverso una malattia che, se accreditata socialmente, può divenire rifugio per il disagio identitario.

Tutto questo è però possibile a condizione di utilizzare codici culturalmente appropriati.

Il corpo da sempre viene utilizzato nella sua valenza simbolica come mezzo di comunicazione, di espressione artistica o come segnale di appartenenza e di identità.

A seconda delle epoche e delle culture esso è esibito, ostentato, nascosto o addirittura ripudiato. E’ anche il luogo nel quale i detentori del potere concentrano le loro forze per attuare meccanismi di sopraffazione. 40


Il concetto di corpo ha subito profonde trasformazioni a partire dalla seconda metà del Novecento; in particolare dagli anni Sessanta esso viene utilizzato come strumento di opposizione alla società ponendosi come il fulcro attorno al quale ruotano quasi tutte le manifestazioni artistiche e non solo. Rappresenta il momento espressivo e creativo per eccellenza.

Adesso il soggetto prende il sopravvento sull’oggetto. Così la nuova corporeità, il senso dell’effimero e gli impulsi controculturali alimentano un rinnovato gusto estetico destinato a caratterizzare le attività umane in tutti gli ambiti.

Tutto ciò conduce all’estremo il concetto di riappropriazione del corpo, finalmente libero dagli istinti repressi e dalle regole sociali e morali che lo avevano plasmato fin dall’infanzia.

Si può parlare di un corpo in divenire, in continua evoluzione desideroso di mutare e di esprimersi non importa se attraverso il sangue e la violenza, il trucco o i travestimenti.

Anche gli anni Novanta proseguiranno in questa 41


direzione e proprio nel momento in cui la macchina trionfa e dilaga il corpo assume paradossalmente una centralità mai raggiunta prima. Tutto questo non senza contraddizioni poiché la corporeità viene esaltata e rinnegata al tempo stesso. La chirurgia può mutare le identità sessuali, innestare protesi artificiali o sostituire con meccanismi parti difettose; l’ingegneria genetica permette di clonare gli organismi; il corpo può quindi essere modificato per necessità o per piacere grazie alla tecnologia. Questo fenomeno di penetrazione tra corpo e tecnologia è la diretta conseguenza dei mutamenti sociali e culturali dell’età contemporanea. Il tatuaggio, il piercing, la chirurgia plastica rappresentano le nuove forme di trasformazione del corpo che consentono agli uomini di pensare ad esso come ad una materia plasmabile e modificabile sulla base dei propri sogni o timori.

E’ un organismo dunque che incarna il “corpo sociale”; si modella e si forgia per rassomigliare il più possibile ai canoni imposti dalla moda e dai mass-media. Spinta all’estremo questa morbosa ricerca porta ad una serializzazione degli individui, i quali, privati della loro unicità diventano merce preconfezionata dall’industria.

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Dunque, l’individuo post-moderno non identifica più la sua pelle con un confine che divide l’interno dall’esterno: questa non è più una linea che divide, ma una frontiera. Nel momento in cui si frappone tra le parti, le unisce nel segno del sincretico e dell’ibrido. La pelle diventa una struttura porosa ove esternare e somatizzare i tratti interni dell’individuo; una pergamena su cui scrivere.

Il nostro corpo però non finisce con la nostra pelle: molti oggetti, naturali o artificiali, vengono inclusi nel nostro corpo, nel senso che c’è con essi un’interazione fisica, un rapporto funzionale, ma soprattutto sono fusi insieme ad esso nella rappresentazione che ci facciamo del corpo.(es) L’uomo, per la sua capacità di manipolare ed interagire con oggetti e materiali, è unico tra i viventi. Il potersi astrarre dalla realtà gli consente, infatti, di estendere il suo dominio di azione e di controllo, comprendendovi gli oggetti esterni. È come se il nostro corpo contemplasse non solo i propri arti, ma anche parte del mondo che lo circonda e questo ci conferisce un potere molto maggiore di quello che ci garantirebbero le nostre sole risorse organiche.

In tal modo, il corpo diviene qualcosa di diverso da un semplice organismo. Gradualmente, nel corso del tempo, il controllo sul mondo, sulla materia e 43


sull’energia che si trovano in natura, è divenuto più ampio e più incisivo e pertanto l’espansione del nostro dominio ha abbracciato quantità di materia e di energia paurosamente grandi. Ciò può accadere grazie al fatto che il nostro corpo è pensato (e pensante) e l’elasticità del pensiero ci permette di concepirlo come sempre disponibile ad accogliere entro i propri limiti e sotto il proprio controllo sia nuova materia che oggetti ulteriori. L’istinto invece chiude l’animale entro i limiti fisici del proprio organismo e delle sue necessità immediate. L’uomo, dunque, va oltre il corpo in molteplici direzioni: infatti, oltre a (cercare di) ricreare un corpo artificiale ex novo, l’uomo interviene anche sul proprio, conferendogli caratteristiche che ne segnano la differenza rispetto alla naturalità. Un iper-corpo ibrido, sociale e tecno - biologico, alterato e modificato dalle trasformazioni contemporanee, cognitive, genetiche, sessuali, tecnologiche, rimodellato sulle proprie paure e sui propri desideri, che assomma i conflitti etnici, politici, bellici, che assorbe totalmente le radiazioni e le accelerazioni del mondo in cui vive. E’ una sorta di campo minato al cui interno i conflitti esistenziali vanno a condensarsi e fluidificarsi.

Questa centralità del corpo è rifluita prepotentemente oggi nella dimensione estetica 44


tramite una corporeità in mutazione, divenendo una sorta di mappa all’interno della quale si possono percepire tutti i flussi di cambiamento sociale e culturale. Quello che ci appartiene è un nuovo corpo, un corpo che si riappropria del centro di irradiazione simbolica delle comunità primitive, un corpo che transita nelle comunità immateriali. Separato dalla mente e pensato come mero rivestimento, che riconosce e risignifica le sue superfici a partire dagli spostamenti della mente, un corpo capace di metamorfosi. IL CORPO COME DESIGN Il corpo moderno è sottoposto a torsioni che riguardano gli aspetti più profondi dell’umano e che modificano radicalmente sensi e linguaggi. Si modificano la vista, l’udito, la sessualità, la percezione del tempo e dello spazio e al corpo, recluso e intrappolato, viene interdetta la possibilità di relazione con altri corpi. Immagini di corpi modificati, che perdono gli organi della comunicazione, dell’espressione, delle emozioni, corpi sigillati ermeticamente, che contengono sentimenti e sensazioni che non possono più uscire.

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C’è qui ora il concetto di nuove soggettività smembrate, decostruite, aperte, che vivono nella dimensione tormentata della ferita, un’anatomia del dolore, in cui il corpo diviene mezzo di espressione centrale; diventando tela, supporto, linguaggio, schermo simbolo e significato del lato oscuro di una natura umana lacerata.

La necessita di avere un corpo, un corpo che non vuole essere dimenticato, un corpo che incarna le proprie ossessioni, le proprie esperienze, le proprie perversioni, un corpo che si ribella ad un corpo sempre più sterilizzato, tecnologizzato e smaterializzato.

C’è qualcosa, nel mondo di oggi che eccede e stravolge i cicli, che dissemina corpi lucenti, obesi, scarni, imbottiti di grassi eccessivi, zeppi di vermi che si ostruiscono fra loro, si contaminano, si coagulano, si replicano, si clonano, si irradiano e decompongono il mondo stesso. Risulta dunque evidente il percorso postmoderno che manifesta la necessità collettiva e contemporanea di esprimere le differenze, di reinventare ed ibridare il proprio corpo, secondo una scia di mutazioni costanti.

Con l’avanzamento della tecnologia, come nel caso delle macchine digitali, il corpo, mai come adesso, esige di essere ripensato, proprio perché proiettato in ambienti non più esclusivamente 46


umani, nel senso biologico del termine. Il passaggio da compiere prevede un rimodellamento, una ricostruzione, un montaggio corporale in cui da oggetto predefinito, come fino ad oggi esso era stato considerato, diventi soggetto passibile e rimodellabile, secondo le esigenze e seguendo i propri desideri. Nascono e continueranno a nascere identità plurime e desiderabili che fanno del corpo un nuovo spazio da esplorare, svalutando quella vecchia ideologia tesa a considerare il corpo nella sola prospettiva biologica. corpo vuoto, svuotato di forme, di abitudini, di reazioni personali, un corpo trasparente, ricettivo, vuoto, immediato, infinito. Fatto di un sentire, di un immaginario e di un uso che eccedono il soggetto finito, personale, attivo, e introducono a un soggetto di mezzo. Un soggetto - corpo che realizza il suo destino nell’essere trasparente, vacuo, impermanente, connettivo, corpo - rete. (es) Il corpo digitale non vuole solo rappresentare ma farsi attraversare. Il corpo diviene linguaggio assoluto, materiale plasmabile, medium. C’è un oltre surrealista alla ricerca dell’Essere, che si compone in questo mondo e si dilata nella nostra vita, che si manifesta in eventi che gli uomini possono vivere e in cui l’oggetto, che sembra superare se stesso, si rivela nello stesso tempo come quotidiano e quasi sacro, originario e sconvolgente. 47


Lo straniamento si produce regolarmente quando si prende coscienza di qualcosa, ogni qualvolta si aggiunge un elemento nuovo alla propria consapevolezza del mondo ed inevitabilmente bisogna aggiornare il proprio pensiero e fare i conti con il nuovo intruso. Talvolta gli oggetti che popolano il quotidiano, gli automatismi che scandiscono il ritmo confortante delle nostre abitudini, se estrapolati dalla palude salubre che è la vita, comunicano in maniera diversa, lanciando segnali nuovi e per certi versi incomprensibili. L’arte ha memoria di tutto questo e spesso reagisce creando una serie di cortocircuiti, di piccole grandi provocazioni. Del resto, ha sempre un certo fascino ciò che non ha né origine né fine e che si esaurisce nel suo effetto speciale. E, come scrive Nietzsche, non si deve forse essere quasi disumanizzati per sentire in sé l’inclinazione contraria?

In principio, esisteva una classe specifica di oggetti, allegorici e notoriamente diabolici: gli specchi, simulacri trasparenti e manifesti di pura contraffazione dell’immagine, il cui piacere consisteva nello scoprire qualcosa di naturale in ciò che era, per sua natura, artificiale. Ma adesso che il reale è puro artificio, immerso com’è nell’atmosfera scintillante e accecante dei simulacri, ora che l’uomo ha esplorato in 48


tutti i suoi aspetti possibili l’esperienza dello specchiarsi, ci troviamo di fronte ad un’identità intesa come pura prospettiva mobile: nessuno è più in grado di offrire una trasparenza oggettiva del proprio Io, poiché il corpo che si pone costantemente il problema della sua esistenza è per metà già morto. Non solo. L’aspetto più inquietante è che ci si trova di fronte alla metamorfosi irreversibile, dell’uomo in un’immagine speculare. Il presente dello specchio è l’incontro vertiginoso con un altro specchio: l’uomo. E’ proprio attraverso questo rapporto sensuale, per alcuni aspetti incestuoso, che intratteniamo con la nostra immagine, che conquistiamo il nostro potere di seduzione. Il corpo diventa il supporto essenziale della gigantesca impresa di sedurre gli altri, ma prima di tutto noi stessi. Il corpo, rappresentazione dell’uomo, con tutti i suoi accessi, orifizi, pori della pelle, cicatrici, ombelichi, non ha più entrate, né uscite. Corpi auto - realizzati nel rispetto dei canoni mediatici di bellezza, superfici lisce, rasate, i cui tratti distintivi completamente cancellati e in cui la comunicazione interiore - esteriore è interrotta e ininterrotta, in un’identità anatomica e morfologica riformata e uniformata. Eleganti, perfetti e sterili nel loro sviluppo 49


bizzarro della pelle, quasi a voler documentare una patologia. Sembra chiaro, che ad un certo livello questa patologia è non soltanto dermatologica, ma culturale, annotando, la graduale perdita dell’ identità e dei mezzi di comunicazione in un ambiente tecnologico che promuove l’anonimato. C’è sempre stato questo bisogno di coprire il corpo di apparenze, di giochi illusionistici, di trappole in cui l’artificio non aliena il soggetto ma lo altera misteriosamente. Ognuno di noi sa che il fascino sta nel riverbero diretto dei segni. Nessun tempo intermedio. Un gioco fondato sul principio del piacere più di quanto lo sia sul principio della realtà.

Annullare gli occhi con occhi più belli, annientare le labbra con labbra più splendenti è un cerimoniale a cui gli uomini non hanno mai rinunciato, perché questa pulsione irresistibile avvicina l’essere umano all’essere divino, che assume al tempo stesso la forma estetica di un’opera d’arte raggiungendo l’apparenza pura di un essere spogliato di senso.

Il segreto della seduzione consiste in questa evocazione continua del vuoto, attraverso gesti la cui lentezza, la cui sospensione, il cui delirio 50


diventano poetica, come può esserlo la ripresa al rallentatore di una caduta o di un’esplosione. Perché qualcosa, prima di compiersi, ha il tempo di mancarci e questo costituisce, ammesso che ve ne sia una, la perfezione del desiderio. L’incantesimo funziona solo se qualcosa è nascosto, o meglio, è velato, qualcosa che renda superflue le parole, che sia immobile, quasi assente e silenzioso.

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Precipi-

zio


Ci avviciniamo a quel che è il termine della mia narrazione… Tutta la storia umana può essere intesa come percorso doloroso dall’innocenza che ignora all’innocenza che sa. Credo che la verità nuda e cruda non esista e che la verità più pura è anche la più sporca. Credo che il senso non stia nelle parole o dietro le parole, ma tra le parole, che ci penetrano a nostra insaputa, si conficcano dentro di noi e poi talvolta, a distanza di tempo, bruscamente, si drizzano in noi e ci obbligano a fermarci in mezzo ad una strada, ci svegliano di soprassalto nelle notti e ci costringono a sederci, inquieti, nel letto. Credo che in questi esigui attimi di lucidità, l’uomo non si lasci commuovere abbastanza, perché spesso si rifiuta di coglierne il senso. Credo che le sfumature siano più importanti della visione generale, il dettaglio più dello sguardo d’insieme, il frammento più del punto di vista, i bordi più della prospettiva. Cosa cogliamo, infatti, in una figura della vita, se non proprio l’ultimo, il vero istante che se ne sta in bilico tra l’estetica e la poetica, la legge e l’etica, il godimento e il desiderio? Credo che il senso di quanto dico si interrompa là dove presumo ci sia qualcuno che continui il mio discorso, che mi risponda. Perché credo che la mia opinione ha un cervello, una lingua e un sesso, e non ci sono solo io in questo mondo, ma milioni di alterità, diverse da 54


me, con le loro opinioni, le loro lingue, i loro sessi. Credo nel corpo, che insieme al mio cervello, alla mia lingua, al mio sesso vivono i propri desideri in questa ridondante, costante, tenace ambiguità che è la realtà. Credo che la sostanza di ogni uomo e di ogni donna stia nella piena espressione e consapevolezza del corpo quanto dell’anima, indifferentemente, prima e dopo la morte. Credo anche, che nel tragitto della vita, ci si possa imbattere in quelle tensioni segrete, nelle pulsioni istintive, movimenti impercettibili, vortici minuscoli che sono all’origine della parola e del gesto, che nella loro essenza perfetta esistono come arte. Credo in tutti quegli artisti/antropologi che distruggendo i muri del linguaggio convenzionale, finiscono, prima o poi, per trovarne altri. Perché la loro ricerca ha un riscontro ed una risonanza inaspettata nell’universalità degli istinti, dei sentimenti, delle passioni, dei desideri che finisce sempre per salire in superficie, come una bolla d’aria, e comporre un nuovo tessuto di relazioni psichiche ed intellettuali ben più solido della crosta delle convenzioni sociali. Credo nell’antropologia, nella sua capacità non di riprodurre il visibile, ma di rendere visibile l’invisibile. Per questo, io credo. Finito il tempo che riecheggia sinfonie disperate 55


non ci resta che battere il dito su un tamburo e dare inizio ad una nuova armonia. PerchĂŠ ad ogni morte segue una vita, ad ogni fine un inizio. E perchĂŠ tutte le storie hanno una loro musica.

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Frammenti

iconografici


Le fotografie qui proposte raccolgono e raccontano i frammenti di corpi sparsi, smarriti, soli. La potenza cercare di di estrema dimensione stesso.

dell’immaginario risulta qui utile per porre il fruitore in una condizione fragilità, trascinandolo così in una di maggiore onestà e vicinanza con se

Ho sentito l’esigenza di appoggiarmi ad un discorso visivo, per meglio rendere la questione del sentirsi estranei al proprio corpo, dell’ essere distanti da sé. L’intento è di creare una sorta di relazione tra l’immagine, la fotografia e chi l’osserva. Una relazione intima e soggettiva, dove ci si riconosce nella diversità. Ecco, è nel momento personale, in cui noi riusciamo a sentirci, dove possiamo entrare in contatto con la nostra solitudine e con la capacità di poter intendere questo sentimento come una forza, una potenza. Smetterla di decifrare le cose e i luoghi attraverso la convenzione, che risulta essere oggi giorno arretrata e stantia, oltre a stereotipare i sentimenti e i volti.

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La conoscenza e la consapevolezza di questa solitudine incompresa è forse l’unica o ultima possibilitĂ per unirci e creare nuovi codici e nuovi alfabeti. Le fotografie in questo caso contengono le storie di tanti e allo stesso tempo di nessuno, riuscendo comunque ad essere testimonianza di un esistenza, quella mia, quella vostra, quella di tutti noi.

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Bibliografia


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Un silenzioso e commosso ringraziamento va a: Quelle persone che non smettono di cercare perché curiose ed eternamente infantili. Quelle persone che pur non avendo nessuno dalla propria parte,decidono di farlo lo stesso. Quelle persone che nella debolezza trovano la loro forza. Quelle persone che vanno lontano per sentirsi vicino. Quelle persone che hanno paura ma, ciò nonostante, hanno il coraggio di guardarla. Quelle persone che vengono catturate da un odore nostalgico e sorridono. Quelle persone che con sudore, mani rotte e schiene spezzate, si alzano e camminano giorno dopo giorno. Quelle persone che sono forti pur rimanendo delicate e sincere. Quelle persone che continuano a fare i figli. Quelle persone che ti tengono la mano e lo sguardo unito al tuo. Quelle persone che lottano perché la vita non è facile per tutti. Quelle persone che si sono perse e che forse resteranno per sempre dei bimbi sperduti. Quelle persone eternamente alla ricerca di sé stessi. Quelle persone che credono negli altri perché credono che un mondo diverso si comincia a costruire da adesso. 68


Quelle persone che praticano l’anarchismo sentimentale e hanno il fuoco negli occhi e il cuore denso. Quelle persone che non si dimenticano chi sono e scoprono quello che saranno. Quelle persone che vivono lontano ma che grazie alla memoria di noi tutti, al ricordo continuano ad esserci sempre. Quelle persone che trovano nel nulla il tutto. Quelle persone piccole ma grandi. Quelle persone che non ti dicono cosa pensano ma trasmettono la trasparenza del gesto. Quelle persone che non sapevano come essere genitori eppur ci sono riusciti. Quelle persone che ti fanno innamorare ogni giorno e che ogni giorno ti fanno sentire speciale per loro, rendendo cosÏ reali le favole. Quelle persone che suonano la loro musica. Quelle persone a cui la propria vita sembra qualcosa che gli capita. Quelle persone che ti hanno abbandonato ma che tu sai di averle con te. Quelle persone che soffrono perchÊ incomprese ma felici di esserlo. Quelle persone che se ne vanno per poter esserci. Quelle persone che invece restano per poter continuare a sognare concretamente. Quelle persone che ritornano e quelle che ancora non hai incontrato.

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A tutte quelle persone come me e con me, grazie. E come ultimo ma non ultimo, grazie al mio professore che ha saputo starmi vicino anche quando nessuno sapeva farlo, che ha creduto nelle mie capacitĂ e che mi ha incoraggiato proprio quando ero intrappolata nel mio mondo sotterraneo, nei miei vuoti di narrazione e di significato, dandomi la forza per poter credere in me stessa e in questo lavoro, grazie.

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“Queste

cose

non ma

avvennero sono

mai

sempre.�

(Sallustio)


“...il faranno

tempo poi

e

la

tutto

memoria, il

resto...�


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