VISIONI DI ALL
ESSERE ASSOCIAZIONE LAUREATI LA SFIDA DELLA RESTITUZIONE
APRILE – MAGGIO 2015
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Editing e Grafica:
P&Co.
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“Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte”.
Karl Popper, La lezione di questo secolo, Marsilio, Venezia, 1992.
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Restituire trasformati Nunzio Galantino
La percezione dell’onere di una certa gratitudine sfuma ancor più rapidamente quando ne sarebbe destinatario il servizio pubblico: a nessuno viene in mente di ringraziare lo Stato, soprattutto dopo averlo identificato con la macchina burocratica che prosciuga le risorse collettive e individuali mediante un farraginoso sistema di gabelle.
Segretario generale della CEI Vescovo emerito di Cassano all’Jonio Non è facile né scontato “restituire”. Se ce ne fosse stato bisogno, l’impegno profuso nell’elaborazione dei contributi qui raccolti ne testimonia la scomoda complessità. Ho, quindi, accettato volentieri l’invito del Presidente dell’Associazione Laureati della LUISS, Daniele Pelli, di scrivere un’introduzione alla lettura del testo che vi trovate tra le mani.
Tutto si paga, per tutto c’è un prezzo. Anche l’educazione universitaria ne ha uno, e ad esprimerlo non è soltanto l’ammontare delle tasse accademiche. Ne tiene traccia anche il complesso sistema dei “debiti” e “crediti” formativi, un elaborato intreccio che tiene conto di ciò che uno studente ha maturato, dei suoi diritti e dei suoi doveri in termini di ore di studio, di esami e di sviluppi creativi reintrodotti nel circuito della didattica. Si tratta spesso di un circuito virtuoso, che però collassa quando l’iter formativo giunge al suo naturale compimento: in troppi casi l’affrancamento del diploma, della laurea, del dottorato relega ermeticamente l’esperienza universitaria nel passato. Lo studio, gli esami, le tasse versate sono il prezzo pagato: la transazione è chiusa, e l’unica traccia che ne resterà sarà il tradizionale “pezzo di carta”.
Il nostro tempo ha perso l’abitudine a restituire. Da un lato la logica del “vuoto a perdere” ha prevalso su quella del riciclo: l’usa-e-getta è più rapido, immediatamente efficace, commercialmente più redditizio. Non si restituisce, perché si considera la proprietà un possesso assoluto: se ne può disporre per intero, nello spazio e nel tempo, senza limitazioni né condizioni. Ciò che è mio – e che diventa tale previo atto di cessione onerosa o compravendita – può essere da me gestito, impegnato, manipolato, dismesso e smaltito a piacimento. Le nozioni di arbitrio assoluto e di assoluto possesso diventano coestensive: se è mio, ne dispongo in tutti i modi possibili.
Riscoprire il significato profondo dell’impegno a restituire è un dovere d’importanza primaria. Non si tratta di un semplice riposizionamento amministrativo di costi e rendimenti, e men che meno di un tentativo di sanare buchi di bilancio che altrimenti resterebbero rovinosamente aperti. La posta in gioco è più alta: insiste precisamente sul valore cardine dell’asimmetria nelle dinamiche del dare e dell’avere.
Ogni cosa ha il suo prezzo e tutto può essere acquistato. Le convenzioni sociali mantengono, nella maggior parte dei casi, l’uso dell’“arrivederci e grazie” per concludere una transazione, ma in genere si tratta di poco più che una formalità. Ringraziare per ciò che è stato pagato – magari a caro prezzo – è percepito come inutile, a tratti persino ipocrita.
Di che asimmetria si parli è facilmente intuibile quando a determinarla sono le espressioni della gratuità. La logica del dono spiazza e fa scattare 4
intuitivamente l’esigenza di donare a propria volta. La gratuità innesca quella restituzione non onerosa – l’unico onere è quello di coscienza – che risponde a una cessione anch’essa del tutto liberale. Il linguaggio della fede conosce queste dinamiche sin dagli albori della Chiesa. I catecumeni si impegnavano solennemente a “ridare” (e a ridire) la fede ricevuta con la restituzione del Simbolo apostolico che avevano accolto e che professavano ad alta voce. Nell’atto stesso del ricevere, del resto, il cristiano trova già il seme per esprimere la propria gratitudine. È forse un caso che il più grande dono di Dio al nostro mondo, l’Eucaristia, abbia nel suo stesso nome – da eucharistein, rendere grazie – la radice della riconoscenza?
nell’esperienza di chi li vive – dal lato discente, ma anche da quello docente – non ha prezzo, ed è quindi letteralmente impagabile. L’impegno alla restituzione si innesta qui: nello spazio sottile tra appello e risposta, tra lezione e studio. Non si esaurisce nel ripagare lo sforzo docente con esami dagli esiti brillanti, né si dissolve alla luce della pur motivata gratificazione, individuale e collettiva, per l’aver conseguito obiettivo dopo obiettivo. Restituire è un dovere antropologico fondamentale. È tanto radicato nella fisiologia spirituale dell’essere umano che scaturisce dalla sua stessa identità. Non è un caso che alcuni contributi qui raccolti insistano sul fatto di partire dall’identità vissuta, acquisita, maturata.
Tutto questo sembra intuitivo, perché le grandezze in gioco sono sproporzionate: c’è un dono assoluto, c’è una risposta che non può vantare pretese, essendo disarmata dalla liberalità dell’offerta. Ma che dire quando lo scambio non è gratuito?
Una certa spiritualità dell’essere come dono ci ricorda che solo per il fatto di esistere, a priori, a prescindere, è doveroso donare. L’essere stesso è dono, e come ogni bene è sempre diffusivo di sé stesso. Ma lo ripeto: l’onere della restituzione non riguarda solo la risposta a un atto di gratuità. Riguarda ogni scambio interumano. Riguarda ogni relazione.
È possibile, e a mio avviso indispensabile, ricordare all’uomo di oggi che nessuno scambio è perfettamente compiuto in sé. E che, particolarmente quando sono in gioco dimensioni come quella dell’educazione, nessun avere chiude perfettamente il circuito innescato dal dare. C’è sempre uno scarto, una sfasatura che richiede una riapertura della mediazione, un di più che bolla come continuamente insoluto il dovere che lega offerente e ricevente.
È investimento, e non solo in termini di rendimento contabile. È spinta per un di più, perché ad essere restituito – come giustamente è stato osservato – non è semplicemente ciò che si è ricevuto, ma il surplus di un impegno, secondo la logica dei talenti evangelici. Si restituire un dono dopo averlo trasformato. Lo si restituisce trasformati, arricchiti.
Così, l’investimento di anni di seria formazione non potrà mai dirsi del tutto ripagato dal semplice conseguimento di un titolo. Le prospettive che quegli stessi anni aprono, in termini di progettualità e di opportunità, sono incommensurabili. La ricchezza di umanità che condensano
Questo è più di un impegno volontario. È una missione. Perché dire “grazie” non si risolva mai in un atto retorico.
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Istruzioni per l’uso Daniele Pelli
mativo LUISS in cui ci riconosciamo, come beneficiari, e a cui molti tra di noi, a vario titolo e interpretando diversi ruoli, hanno contribuito e/o contribuiscono ancora. Si continua, così, il rapporto con l’Università attraverso quella “trasformazione” propria del restituire. Al contempo, siamo consapevoli che, nei suoi trenta anni di vita, l’Associazione Laureati LUISS abbia dato rappresentanza a un patrimonio vivo di esperienze, credibili e autorevoli, di impegno responsabile, come singoli e in forma associata, verso il bene comune di cui andare orgogliosi. In questo senso, la nostra sfida istituzionale di connettere persone, territori e buone pratiche è esigente nell’offerta di opportunità, di iniziative e di servizi da costruire “su misura” anche in logica di rete; essa richiede un’adeguata comunicazione, in grado di alimentare appartenenza (la membership) all’Associazione e di render conto (l’accountability) della gestione. Anche qui, gli incontri di Visioni hanno offerto indicazioni operative di qualità.
Presidente Associazione Laureati LUISS
Restituire “non è facile né scontato”, ci ammonisce S. Ecc. Mons. Galantino ricordandoci poi che non è un’attività impostabile soltanto in termini contabili. C’è qualcosa di più. E, nelle pagine che seguono questo “qualcosa” prende forma, attraverso una selezione di analisi e di traiettorie tracciate durante i tre appuntamenti di “Visioni” che hanno impegnato i membri del Direttivo e della Giunta a ragionare sul rilancio della nostra Associazione; ragionamento che, partendo dall’identità, ha rinvenuto il valore intrinseco di ALL nella sfida della restituzione, o del cosiddetto “give back”. È trascorso più di un anno, ormai, dallo svolgimento di questi incontri, e in molti casi le intuizioni abbozzate hanno trovato compimento in veri cammini, come ad esempio la costituzione di un Advisory Board al servizio dell’Università prima di tutto, la newsletter “Connect”, il viaggio sociale a Londra – che è stata esperienza di incontro, facendo anche visita ad alcuni luoghi di lavoro, con i nostri laureati che oggi vivono e operano lì –, oppure il Premio alla carriera Alumnus LUISS, che nella sua prima edizione è stato conferito a Carlo Messina del cui intervento abbiamo inteso riprodurre qui i passaggi salienti a mo’ di postfazione.
Personalmente, ho registrato nei nostri appuntamenti pubblici, quali gli incontri di metà estate, le cene di ALLMeetUp, gli eventi in Università - tra cui gli ultimi in ordine di tempo gli ALL Impact Speech -, il lancio dei nostri gruppi territoriali pugliese e newyorkese, e ancor di più negli incontri singoli, avuti di persona e a distanza, uno straordinario senso di appartenenza verso la LUISS; tutto ciò rappresenta, come ci dicono gli interventi che seguono, la condizione perché una comunità, ricca in quanto diversa, come la nostra, faccia pratica di “give back”, sia in termini personali che collettivi.
C’è molto ancora da fare, come Associazione, per essere all’altezza di quell’originale, avanzato (nel suo costante aggiornamento), modello for-
Sento di rivolgere un vivo ringraziamento per il sostegno ricevuto dai Vertici dell’Università, in
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assenza dei quali difficilmente quanto sin qui realizzato sarebbe stato possibile; per il supporto dato dai membri del Consiglio direttivo e della Giunta dell’Associazione, giacchÊ in questi mesi abbiamo lavorato insieme, impegnandoci in modo assiduo e costruttivo. Un altrettanto sincero grazie va al nostro ufficio di segreteria, per il lavoro di coordinamento e di interfaccia svolto. Di questo lavoro di squadra, nonchÊ dei suoi esiti, gli appuntamenti di Visioni rappresentano un esempio concreto.
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Parte prima
La restituzione
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1. La restituzione tra Europa e Italia 1.1. Il punto di vista di
parte di mondo mediterraneo e occidentale. Li indico a persone che sono convinto abbiano già piena consapevolezza di tutto ciò. E mi consento di accompagnare questa indicazione con una riflessione per me essenziale: sono convinto anch’io che la ricchezza vera del mondo siano le persone. È una sottolineatura che può sembrare banale, ma non lo è. Perché sempre di più, oggi, le persone sembrano esser diventate solo un problema, persino “il” problema: nel lavoro, nello studio, sul piano delle regole, quando si muovono nel nostro mondo per piacere o per necessità. Pensate, in particolare, a tutte quelle persone, donne e uomini, quasi sempre giovani e in buona misura anche minorenni, che arrivano sulle nostre coste e premono e attraversano le frontiere d’Italia e d’Europa. Ogni anno, sulla Terra, si muove circa un miliardo di persone, almeno duecento milioni sono costretti a farlo perché non hanno altra scelta, da migranti forzati per guerra, ingiustizia, cambiamenti climatici. Gli ottocento milioni “regolari” non fanno notizia e non sono ovviamente un problema, mentre ci concentriamo mediaticamente e politicamente quasi solo su coloro che emigrano, e che tendiamo comunque a tenere ai margini del nostri sguardi e dei nostri mondi e a volte lasciamo morire alle porte di casa. Un lettore visionario e lungimirante, un professore di filosofia, mi ha scritto a questo proposito una lettera che pubblicherò presto nella quale, in sostanza, dice: ma perché queste persone che bussano alle porte di un’Europa che invecchia e ha bisogno di nuovi figli e di nuovi cittadini non li consideriamo “utili per noi”, come in effetti sono, piuttosto che considerarli un problema.
Marco Tarquinio
Direttore di “Avvenire”
Il tema della “restituzione” è un tema davvero stimolante per un giornalista, e ancor di più per un cristiano. Ma anche per chiunque si renda conto che il dono di sé, della propria esperienza e delle proprie affinate capacità, e la costruzione generosa di un bene comune sono parte fondamentale dell’umanesimo concreto e positivo che ispira la civiltà di cui siamo figli e che merita di essere sempre riscoperto e rinsaldato se vogliamo preservare quella civiltà e farla sviluppare ancora in modo giusto e sostenibile da ogni punto di vista. Nel prepararmi, tra un’urgenza di cronaca e l’altra, a questo appuntamento mi è venuto prima di tutto in mente – anche se può non essere vero in assoluto – che “restituzione” non fa rima con “competizione”. E subito dopo ho pensato a una parola che ha la stessa radice, ma affatto diversa: “competenza”. Stiamo vivendo un tempo – penso alla classe politica, ma più in generale alla classe dirigente del nostro Paese - in cui si manifesta un preoccupante deficit di competenza – e di disponibilità utile di questa – a favore di quel bene comune che evocavo poco fa. Ci sono tre ambiti in cui a mio parere vi è urgente bisogno di servizievole competenza: la dimensione politica e burocratica della Pubblica Amministrazione, il cantiere dell’Europa unita, la costruzione di società meticce saldamente ancorate a quei principi di libertà e di responsabilità che informano – o meglio, dovrebbero informare – la nostra
Uomini e donne che, come voi, hanno compiuto studi eccellenti sono chiamati, oggi, ad aiutare 10
questo nostro Paese a comprendere che le persone non sono “il problema” e che il movimento – quando è spontaneo, e anche quando è forzato – è espressione del nostro essere umani. Viviamo, invece, un tempo nel quale il sospetto, la paura, verso tutto quello che è in movimento e che cambia lo status quo ci blocca.
il futuro. Ed è a questo livello che c’è prepotente bisogno di intelligenze e visioni italiane. Termino dicendo qualcosa su Roma. Una città speciale che ho vissuto a lungo da cittadino, pur essendo un umbro (di Assisi), e che continuo a frequentare intensamente anche in questa fase per me più milanese. Mi spiace constatare come questa città, capitale d’Italia, cuore spirituale e culturale dell’umanità, abbia smarrito il senso profondo e l’impegno a prendersi cura di se stessa. Potremmo e dovremmo applicare a questa città lo slogan di Renzi sull’urgenza del “cambiar verso”. Il verso va cambiato adesso, proprio perché la china sembra disastrosa e irreversibile, e se non cambia verso nella convivenza civile, nell’uso delle sue strade e delle sue piazze e nelle modalità di stare insieme e di costruire comunità, dilagherà sempre più un altro male (che sta già aggredendo il Sud del Lazio): l’economia criminale che ha dietro le mafie. C’è bisogno di una resistenza civile e competente di persone che sanno cos’è l ‘economia buona e come può essere fatta. Consideratela una pro-vocazione. Una chiamata positiva, a un dovere incalzante.
Abbiamo distrutto nel “secolo breve”, nel Novecento, tutte le città cosmopolite del Mediterraneo orientale. Rischiamo di non essere più capaci di ricostruirle, su quella sponda e sulla nostra. E stiamo mettendo in pericolo – vivendolo come una maledizione - quello che è il più straordinario laboratorio pacifico di integrazione, nella differenza, che c’è oggi al mondo, che è la nostra Europa. E vengo all’altro punto: c’è da restituire uno sguardo alla profondità di visione sull’Europa, che è diventata soltanto la guardiana arcigna. Non riusciamo nemmeno più ad apprezzare la grandezza del processo di integrazione comunitaria: basterebbe solo pensare, oggi, ai tanti movimenti che stanno cercando di interpretare un’altra politica dentro l’Europa, senza trasformarsi in sovversione armata, né rivoluzionaria né terroristica, attraverso le vie democratiche. Io credo che noi italiani abbiamo una competenza speciale per “fare” l’Europa. L’abbiamo avuta sin dai primi passi verso l’integrazione, per poi smarrirla per strada, anche causa negli anni della cosiddetta Seconda Repubblica di una presenza non sempre molto convincente di nostri connazionali all’interno delle istituzioni europee e delle grandi famiglie politiche continentali (Ppe e Pse). È in Europa che si costruiscono leggi che scandiscono e condizionano le nostre vite e le nostre attività e “decidono” (anche per reazione) 11
1.2. Il punto di vista di
Luigi Abete
Presidente di LUISS Business School
Il direttore di Avvenire ha anticipato una mia riflessione filosofica che potremmo sintetizzare in “servono meno dualismi e più Europa”. Nel nostro Paese i dualismi crescono, anziché ridursi. Questo vale anche per l’economia. E invece serve più Europa. Unica alternativa possibile. La Confindustria ha puntato sulla LUISS per dar vita ad un’università con un respiro internazionale e con una visione europea. Il mio auspicio è che dalla LUISS possa crearsi un ceto dirigente, capace di assumersi le proprie responsabilità in una società che invece tende a depotenziarle. Abbiamo molti esempi positivi in questo senso; come Carlo Messina nel mondo delle banche.
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2. La restituzione al plurale, al singolare 2.1. Il punto di vista di
Ora, mi chiedo se sia giusto che le università, e i professori, preparino i propri studenti alle 80 mila ore di lavoro, disinteressandosi delle altre 450 mila.
Domenico De Masi Sociologo
Ho trascorso, in queste settimane, tre giornate (di 8-9 ore l’una, quindi 24-27 ore complessive) con undici laureati LUISS (di tutti e quattro i Dipartimenti), con un range di votazione finale che va dal 98 al 110 e lode, che non hanno trovato lavoro in un arco di tempo compreso tra sei e ventiquattro mesi dalla laurea. E’ interessante che non abbiano trovato lavoro; non è positivo ma è comunque interessante dal punto di vista dell’analisi il fatto che siano giovani senza lavoro perché hanno studiato con la convinzione che ad una università di eccellenza come la LUISS non si possa non trovare lavoro dopo la laurea, soprattutto se conseguita con un voto significativo. Erano tutti giovani di prim’ordine, che hanno studiato con grande coscienza, e che posseggono capacità di fantasia, di concretezza, cioè capacità creative molto alte, che però non hanno ancora un lavoro. Si vanno convincendo che non trovano lavoro o per colpa loro (come immaginano i loro genitori e come immaginano i nostri ministri) oppure perché la sorte è contro di loro. Di fronte a queste situazioni bisogna chiedersi cosa può fare l’università e che cosa possano fare gli stessi allievi.
Partirei da una serie di dati molto precisi. Un ragazzo che ho in aula come allievo ha circa venti anni. Il che significa che ha un’aspettativa di vita, più che legittima oggi, di circa ottant’anni; ovvero vuol dire che gli studenti che sono oggi in aula, anche qui alla LUISS, hanno davanti a sé almeno sessant’anni di vita. Sessant’anni di vita da progettare, anche con il nostro aiuto. Traduciamo questa aspettativa in ore e avremo un monte di circa 530 mila ore. Cosa farà questo giovane in queste 530 mila ore? Immaginiamo che a venticinque anni, terminato il proprio curriculum di studi, trovi immediatamente lavoro e che lavori ininterrottamente fino a 65 anni … è un’ipotesi un po’ utopistica vista la difficoltà di trovare oggi lavoro a venticinque anni, ed è comunque altamente probabile che si verifichino periodi di interruzione dal lavoro così come potrebbe ricadere in politiche di prepensionamento … teniamo, però, ferma questa ipotesi, e chiediamoci quante ore lavorerà, in questi quarant’anni. Per contratto, in Italia, si lavora in media per 1.750 ore. Ma immaginiamo che sia un manager, devoto al lavoro, che lavori 2 mila ore, che moltiplicate per 40 (gli anni di lavoro) fanno 80 mila ore. Il nostro giovane ha, quindi, davanti a sé soltanto 80 mila ore di lavoro a fronte delle complessive 530 mila a disposizione. Diciamo, poi, che questo giovane ogni giorno dedichi 8-9, diciamo anche 10 ore, a dormire e a curare il suo corpo. Siamo, così, a 220 mila ore: ne rimangono ancora 230 mila di totale tempo libero.
Un primo problema è che noi, spesso, pensiamo che i nostri giovani, proprio come se fossero i nostri figli, non crescano mai. Li chiamiamo ragazzi. La linguistica è una spia molto interessante. Ricordo che nelle università dove ho studiato, quella di Perugia prima e poi quella di Parigi, i professori ci chiamavano “collega”. Questo dipende, probabilmente, dai tempi, ritenendosi oggi che la maturità di un giovane sia ritardata 13
rispetto al passato. Faremmo bene a considerare questi giovani non più eterni ragazzi, ma colleghi da molto prima.
fica dire che l’Italia è una Repubblica democratica fondata su un settimo della vita. Il lavoro è una parte importante della nostra vita, ma resta sempre un settimo. Il problema diventa, allora, la cultura generale, che si riverbera immediatamente sulla cultura specialistica.
Il secondo aspetto è che tendiamo a formare più dei manager, dei lavoratori dipendenti diciamo, che non degli imprenditori. È interessante che ciò avvenga in un Paese in cui si invoca, continuamente, che i giovani debbano crearsi un lavoro, cioè essere imprenditori. Se noi spingiamo i nostri giovani ad essere dei manager non li spingiamo, naturalmente, ad essere degli imprenditori. Sono due vocazioni completamente differenti, che richiedono predisposizioni, abilità, competenze e conoscenze diverse. Connesso a questo tema c’è l’atteggiamento con cui questi giovani si presentano ai colloqui di lavoro. Ci possono essere, teoricamente, due atteggiamenti diversi. Un primo, quello della persona “succube” che, ad esempio, non usa chiedere per non urtare la controparte “scusi, ma che tipo di lavoro debbo fare?”; “scusi, ma quanto mi pagate?”; “scusi, ma quale orario si fa?”. L’altro atteggiamento potrebbe essere quello del “sono venuto a questo colloquio, lei sappia che sono un giovane che ha studiato bene, mi considero preparato, che ho preso un buon voto, quindi vorrei capire bene se il nostro fidanzamento possa diventare matrimonio, mi dica con chiarezza cosa dovrei fare, quanto dovrei guadagnare, che orario”. Questa è dignità. Non so se è chiara la differenza. Un laureato del MIT avrebbe questo atteggiamento nell’affrontare un colloquio.
Non c’è cultura specialistica che non riceva una forte accelerazione se è immersa in una buona cultura generale ma su questa noi docenti poco possiamo se non incontriamo la necessaria collaborazione: possiamo soltanto provare. C’è, poi, da tener conto di una serie di stereotipi che hanno il vantaggio di poter essere calcolati con grande precisione. Ad esempio, nello scorso mese, l’istituto di ricerca dell’amico Pagnoncelli ha effettuato, insieme a due altri istituti internazionali, un’analisi degli stereotipi in 14 nazioni. L’Italia è risultata in fondo all’elenco, rispetto alle otto questioni poste; evidenziando quindi, per il nostro Paese, un grave problema di disinformazione. Pensiamo agli stereotipi trasmessi, anche senza volerlo, ai nostri allievi. In particolare, pensiamo allo stereotipo, molto diffuso in Italia, in tema di quantità di lavoro a tempo fisso e a tempo non determinato. La gran parte degli italiani pensa che, ormai, il lavoro fisso non esista più quando, invece, rappresenta il 72% in Italia e negli Stati Uniti il 76%. In questo senso, l’università e i professori dovrebbero porsi il problema di come ridurre il più possibile il gap tra la realtà e l’immaginazione della realtà dovuta agli stereotipi.
Un terzo profilo riguarda la cultura generale. Se, tornando al “gioco” di calcolo che ho fatto in premessa, il lavoro è un settimo della vita bisognerebbe rivedere persino l’articolo primo della Costituzione, perché dire che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” signi-
C’è un ulteriore elemento critico, quello connesso alla formazione dei formatori. Leggo da più parti che ogni riforma sarebbe ripudiata dai professori, che sarebbero refrattari ad ogni innovazione. Credo che, in questo senso, ci sia un problema da 14
parte di chi propone le riforme e di noi professori che poi le dobbiamo applicare. Appuntiamo le riforme su fatti sub-strutturali come lo stipendio, il potere dei presidi ecc… ma nessuno di noi sa questa scuola chi deve formare, come e perché. Non lo sa il Presidente del Consiglio, non lo so io, tantomeno i rettori, i miei allievi ed i loro genitori, perché viviamo nella prima società in assoluto - la società postindustriale - che è stata formata senza un modello di riferimento. Tutte le società precedenti hanno avuto un modello; quella nostra, postindustriale, è invece come il modello Positano, cioè una casa sull’altra senza un piano regolatore. Ne consegue quindi che il rifiuto delle riforme esiste perché si avverte la mancanza di una struttura, di uno scheletro e come diceva Seneca, “nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove deve andare”. Non sapendo dove portare gli allievi, naturalmente nessun vento è favorevole e nessuna riforma è valida. Ciò significa che, almeno per le nostre istituzioni di riferimento, dovremmo sforzarci di avere una chiara visione omogenea comune ma dialettica e chiara di qual è il Paese che vogliamo costruire con i nostri allievi, qual è il tipo di futuro, tenendo conto che il perno della società postindustriale è la progettazione di futuro. Se non progettiamo il nostro futuro qualche altro lo progetta per noi.
2.2. Il punto di vista di
Matteo Giuliano Caroli
Professore e laureato LUISS Credo che anche in Italia le grandi imprese e le persone che ne sono alla guida debbano impegnarsi fortemente in quello che abbiamo definito il “give back”. L’economia capitalistica concentrata solo sulla creazione della massima ricchezza individuale funziona sempre meno e sempre meno è compresa da molti comparti della Società. Del resto, sono sempre più numerosi gli imprenditori e i dirigenti concordi nel ritenere che le aziende, e in modo particolare quelle di maggiori dimensioni, devono contribuire attivamente alla soluzione di problemi collettivi; non possono più limitarsi al solo creare ricchezza economica se così facendo, si generano anche delle esternalità negative di natura ambientale o sociale, o comunque si amplia il divario economico e sociale tra le persone. L’impresa e coloro che la guidano devono agire da traino dello sviluppo sostenibile della Comunità di cui fanno parte. L’aspetto chiave della cultura del “give back” sta proprio nel voler mettere le risorse economiche accumulate a disposizione della realizzazione di progetti concretamente in grado di creare valore sociale; nel voler dare opportunità significative a chi altrimenti non ne avrebbe. Le grandi donazioni grazie alle quali molte università americane sono divenute leader internazionali non sono assegni “in bianco”. Sono, quasi sempre, finanziamenti per la realizzazione di progetti molto ben identificati nei contenuti,
Lavorare con chi studia è un’arte straordinaria, per considerare maturi gli allievi insegnandogli a restare immaturi. Come ha detto Gilberto Freire, un grande antropologo brasiliano, «Se dipendesse da me non sarei mai maturo né nelle idee, né nello stile, ma sarei sempre verde, sempre incompiuto, sempre sperimentale». La nostra sfida è, allora, quella di allevare adulti che, però, si sentano sempre verdi, incompiuti e sempre sperimentali. 15
come nei risultati attesi. Non viene finanziato un Dipartimento in quanto tale; piuttosto, chi al suo interno si impegna nel lancio di un grande e credibile progetto di ricerca con importanti effetti sociali.
toriali tali da consentirci di darsi appuntamenti e ritrovarci in discussione, in modo destrutturato, su temi specifici, a partire dalle esperienze di ognuno. In altri termini, si tratta di far “fruttare”, operativamente come Associazione, rispetto agli associati, agli studenti e agli altri interlocutori, la ricchezza e varietà delle nostre esperienze non solo professionali.
2.3. Il punto di vista di
Giuseppe Cornetto Bourlot
Un altro interlocutore è rappresentato dall’Università. Credo che sia arrivato il momento che l’Università chieda soldi ai propri laureati o alle persone che hanno comunque qualcosa da restituire, perché questa rappresenta una forma di vicinanza in quanto per ogni progetto è vero che necessitano idee ma occorrono anche soldi per svilupparle. In questo senso, va individuato, e costituito, un gruppo ristretto di laureati, che avendo esperienze simili, sia in termini anagrafici che di responsabilità, possa farsi carico, in maniera strutturata, del “give back”.
Past president ALL
Rispetto al tema del restituire, individuerei le tipologie dei nostri interlocutori. La prima è quella più diretta, gli studenti e i laureati. Sottolineo la parola “laureati” perché siamo un’associazione laureati, alla quale negli anni abbiamo dedicato tempo e passione. Nel tempo ho fatto esperienza di qualcosa che non accadeva quando avevo trent’anni: c’è una serie enorme di interlocutori che chiede, anche in maniera amicale e colloquiale, di poterti parlare per presentare un progetto, un’iniziativa. È giusto relazionarsi perché non bisogna chiudersi rispetto agli altri, e molto spesso comporta anche una forma di arricchimento personale. Sono, quasi sempre, incontri one to one che talvolta sono la richiesta di un favore mascherato, nella gran parte sono espressioni del bisogno di un confronto, della possibilità di avere un consiglio o di sottoporre a verifica. Credo che questo possa essere fatto in maniera più strutturata. Mi domando perché non l’abbiamo mai fatto a cominciare da me stesso e perché non si possa fare. Ognuno di noi ha maturato nel tempo delle competenze, riveste ruoli professionali ed imprendi-
Recentemente, all’Accademia di Santa Cecilia, che ha più di 500 anni di storia abbiamo dato vita ad un gruppo stabile di donatori. È una costola importante per l’Accademia, che sempre più dovrà puntare sul contributo e ruolo dei privati, facendo sempre meno affidamento sul pubblico. Nel momento in cui una organizzazione, in quel caso un’accademia musicale ma lo stesso vale per la nostra Università, si impegna a raccogliere denaro, se non vuole disperdere il proprio patrimonio reputazionale, deve essere anche in grado di rendicontare in maniera strutturata, operativa, pragmatica, l’esecuzione dei progetti condividendo gli scenari e i trend di riferimento. 16
Un altro esempio di restituzione, realizzata, è offerto dall’esperienza dell’ex collegio Don Mazza, che alcuni di noi – tra cui Stefano Pighini – hanno avuto modo di conoscere e di aiutare nel suo sviluppo. Era un collegio di ragazzi disagiati economicamente ma meritevoli dal punto di vista dello studio, il cui inserimento nel mondo lavorativo è andato oltre ogni aspettativa. C’è stato un momento in cui abbiamo rischiato di perdere questa esperienza per via di un dissesto economico. È un progetto che va avanti, ancora oggi, e che rappresenta un modello di restituzione.
frequentato durante il mio dottorato. Partecipo poco perché loro si riuniscono a Londra, ma lo dico perché è un osservatorio interessante per apprezzare le attività svolte in altre università. Il tema della restituzione è, forse, il tema cardine che un’associazione laureati dovrebbe portare avanti. Ho letto tutti i materiali di preparazione all’incontro e, tra questi, mi ha colpito il contributo di Antinucci sul “give back” negli Stati Uniti. Antinucci indaga le ragioni per le quali il “give back” è particolarmente percepito dagli americani come un dovere nei confronti della società intera. Non è la questione fiscale a fare la differenza, perché anche le donazioni godono in Italia di un trattamento favorevole; Antinucci pone, invece, un tema culturale: gli Stati Uniti sono la storia di uomini e donne che hanno lasciato, per necessità, le proprie terre di origine, approdando in America, dove hanno trovato la terra delle opportunità. Prende forma, così, un debito verso la società americana che si cerca di onorare, nel momento in cui, grazie alle opportunità offerte, arriva il successo. Secondo Antinucci, la nostra dipendenza dallo Stato, che è un concetto centrale nella logica della popolazione italiana, porta a considerare esaurito il dovere di restituire nel momento in cui si pagano le tasse.
Infine, un ultimo riferimento alla lobby. Sono convinto che la nostra Associazione come sviluppatore, moltiplicatore, facilitatore di contatti e progetti possa svolgere anche una sana attività di lobbying. Propongo come target l’Eton College dove da centinaia di anni si forma la classe dirigente del Regno Unito e non solo. Il prestigio di questo liceo non sta solo nella qualità della didattica ma in una capacità di lobby progettata ex ante da re Enrico VI. La lobby va progettata, alimentata e va gestita in modo saggio e trasparente.
2.4. Il punto di vista di
Marcella Panucci
Direttore generale Confindustria e laureata LUISS
Spostando il ragionamento su un piano più personale, riflettevo sulla mia posizione rispetto a questa Università dove mi sono laureata con il massimo dei voti e che mi ha aiutato a trovare lavoro. Pensavo che l’aver fatto al meglio il mio dovere di studente, studiare bene e pagare le rette, mi ponesse in pari con quanto ricevuto dall’Università. Così non è, perché la LUISS mi ha dato una visione, il senso della competizio-
È la prima volta che partecipo ad una riunione dell’Associazione Laureati, pur essendo laureata LUISS da oltre vent’anni. Ammetto di far parte di un altro network, quello dell’UCL, che ho 17
ne, delle opportunità, delle relazioni; elementi questi che probabilmente un’altra università non mi avrebbe offerto. I miei compagni di corso occupano, oggi, posizioni di rilievo, anche grazie a questa Università che ci ha insegnato a vincere e ad accettare la sconfitta per migliorarsi. Noi non siamo abituati alla restituzione in senso economico. Le università americane vivono per più della metà delle loro risorse di donazioni. In queste donazioni si comprende come il restituire alla società è un dare qualcosa alla società che poi ritorna, nel tempo, come beneficio collettivo di cui si gode, come può essere un capitale umano più qualificato. Oggi, noi laureati LUISS siamo un numero considerevole, di cui molti – soprattutto tra chi ha maggiore anzianità di laurea - in posizioni di prestigio. Possiamo, dunque, impegnarci in questa scommessa della restituzione, in termini economici e di competenze, di messa a disposizione di opportunità. Il tema della “restituzione” diventa, così, un tema centrale per far salire, o meglio riattivare, l’ascensore sociale nel nostro Paese. Mi piacerebbe che la nostra Associazione aprisse nuove strade, lanciasse nuove iniziative, a favore di quei giovani che ambiscono a frequentare questa Università, pur non potendosela permettere, così come in tema di sostegno e assistenza ai neo laureati.
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Parte seconda
Traiettorie di restituzione
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1. Essere associazione 1.1. Il punto di vista di
stro Paese. E una realtà così può e deve giocare la sua parte per il bene di tutti.
Marco Tarquinio
Direttore di “Avvenire”
In una stagione in cui stanno saltando schemi consolidati ma usurati di malagestione, nuove energie possono liberarsi. Liberare energie non vuol dire rompere relazioni, al contrario significa rafforzarle, renderle più salde. Sono sicuro che lo fate, ma è evidente che le vostre competenze, che avete acquisito in università e affinato con gli anni; possono essere messe in gioco spingendo altri all’imitazione positiva. Ci vuole coraggio, visto che sempre di più convivremo con chi è differente da noi per origine e che, a volte, è portatore di culture e idee profondamente diverse dalle nostre. Se non siamo capaci di darci delle occasioni per costruire e ricostruire ogni volta con pazienza e con forza l’alfabeto comune dello stare insieme, come faremo? Bisogna saperlo scrivere insieme il lessico della civiltà condivisa. Occorrono “correnti forti” dentro la società e dentro il nostro pensiero collettivo. I passi indietro si fanno più rapidamente di quanto si possa pensare. Dobbiamo re-imparare cosa voglia dire generare ed essere generativi. Io credo insomma che voi siate una ricchezza. Me ne avete dato un saggio stasera, penso che sia importante coltivare dentro un’istituzione, e ogni università è un’istituzione, spazi ai quali possono tornare coloro che hanno concluso un percorso formativo (anche se Eduardo ci insegna che “gli esami non finiscono mai”) e hanno preso la via del mondo. È bella la vostra idea di rendere i luoghi dell’alta formazione, anche luoghi generativi di permanente amicizia, di incontri e, dunque, di pensiero nuovo.
Come molti di voi, provengo da esperienze associative e so cosa significhino. Vengo, infatti, da un’associazione che ha il “semper” nel suo motto. L’avrete sentito “semel scout semper scout”. L’ho sentito riecheggiare nel vostro senso di appartenenza a questo eccellente luogo di formazione. Giudico questo sentimento molto importante. Potremmo dire che “istituzione” fa rima con “relazione”. Viviamo un tempo nel quale le relazioni sono sempre più in crisi e messe in discussione. Sembra che tanti di noi abbiano disimparato la pazienza, l’allegria e l’orgoglio che danno forza, e sostegno, alle relazioni che a loro volta danno senso alla vita e al lavoro delle persone. La relazione è movimento, capacità di reinventarsi i rapporti tra le persone alle quali si vuole bene, cioè con le quali si vuole il bene. Un “bene” concreto da realizzare. Da cronista so come va il mondo, ma sono altrettanto consapevole che c’è una parte del mondo che non fa mai notizia, che è quella che “fa la cosa giusta”. Il mio giornale, “Avvenire”, racconta molto spesso un’altra Italia, quella che ha professionisti che professano un’idea di umanità e la coniugano alla loro competenza, imprenditori che non sono dei “prenditori”, uomini e donne impegnati in sane attività profit e no profit, giovani che resistono alle mafie affrontandole a viso aperto… Occorre mettere insieme, orientarla verso obiettivi condivisi, questa Italia che vuole fare ancora le “cose giuste”. Voi siete un’associazione, non una delle tante camarille che abbondano nel no22
1.2. Il punto di vista di
to qualcosa. Il professore mi rispose che stavano comunicando. Passarono cinque minuti di silenzio; poi il professore comunicò il termine della riunione. Mi avvicinai al prof. Carli chiedendo cosa stessero comunicando e lui mi ricordò un dibattito che avevo avuto, qualche giorno prima, con un interlocutore, dicendo che secondo lui se avessi avuto un mattone glielo avrei dato in testa. Risposi dicendo che la violenza non mi apparteneva, e lui mi fece notare che il problema non era quello che pensavo io ma quello che pensavano gli altri. Perché per capirsi bisogna volersi bene. L’associazionismo si fonda anche su questo.
Luigi Abete
Presidente di LUISS Business School
Dobbiamo sempre ricordare che tutte le associazioni sono luoghi di potere. La differenza la fa l’apertura o meno degli obiettivi e delle attività dell’associazione agli interessi generali, e non solo a quelli particolari. É importante che voi manteniate aperto il vostro tavolo ai nuovi o a quelli che ritornano. È “l’apertura” del tavolo che permette l’evoluzione, che segna la differenza tra la società aperta e quella chiusa. Non è facile realizzare, oggi, una società aperta perché in definitiva rinchiudersi è una tendenza naturale dell’uomo. Nella sfida di superare gli steccati, di abbattere i muri, qualunque essi siano, l’associazionismo è una buona palestra.
Voi avete con questa Associazione l’opportunità di fare una esperienza importante. Non sprecatela.
La dimensione pre-politica, propria della vita associativa, è già politica, è il luogo in cui si crea il rinnovamento. Non rinunciate a dibattere tra di voi anche quando siete in disaccordo. Mi piace raccontarvi uno dei miei primi esperimenti di gruppo. Era il 1969, avevo 23 anni. Stavo partecipando ad un seminario della Fondazione Agnelli. Durante l’ultimo modulo giocava la Abete calcio. Proposi a un amico funzionario di un’associazione federale di andare a vedere la partita mentre gli altri partecipanti al seminario sarebbero stati in pausa pranzo. Al rientro li trovammo tutti riuniti in silenzio. Allora, chiesi al prof. Carli, che era il coordinatore di quel seminario, se fosse accadu23
1.3. Il punto di vista di
1.4. Il punto di vista di
Brunetto Tini
Barbara Santa De Donno
Past president ALL
Professoressa e laureata LUISS Il senso di appartenenza è, forse, l’elemento attorno a cui è possibile coagulare il consenso all’interno della nostra Associazione. Ho fatto il presidente in un momento di passaggio; qualcuno tra i presenti se lo ricorda. Per far capire ai laureati che dovevano frequentare, e impegnarsi nella (e per la) nostra Associazione abbiamo puntato sul senso di appartenenza. È stato vincente e siamo riusciti ad unire un gruppo di laureati molto eterogeneo, prima di tutto per età.
Dalla lettura dei materiali distribuiti emerge l’idea di graduare le diverse attività secondo l’età e le esperienze degli associati. Credo che l’Associazione debba andare in questa direzione e anche ampliare le tipologie di coloro che vi aderiscono. ALL non dovrebbe, pertanto, accogliere solo i laureati LUISS, ma anche chi dopo la laurea, conseguita qui o altrove, ha seguito in LUISS corsi di perfezionamento, Master o percorsi di ricerca e di dottorato. Uno spazio potrebbe inoltre essere creato per i miei colleghi professori che non sono, come me, laureati LUISS, ma che insegnano qui da tempo e hanno perciò maturato un forte legame con l’Università.
Con riferimento al senso di appartenenza c’è un elemento culturale che consiglierei di approfondire. Avevamo, all’epoca, iniziato con il Laboratorio per le modernizzazioni. Fu un’iniziativa culturale che contribuì ad unire, a far gruppo, mostrando e dimostrando come si può partecipare alla vita collettiva, lavorando sulle proprie proposte, attraverso il dibattito. Il valore aggiunto era poi rappresentato dal farlo all’interno dell’Università, con il contributo dei professori e anche di personalità di rilievo. Credo che oggi abbiamo di nuovo bisogno di impegnarci in un dibattito, aperto al pubblico e agganciato alla complessità delle sfide presenti e future. In questa dimensione di impegno di civile si potrebbe esplorare e sviluppare il concetto del restituire.
Una rete così articolata e ricca di profili diversificati e con diversi gradi di maturità professionale potrebbe ben rispondere alla richiesta di “dare” soprattutto a chi, più giovane, ha ancora bisogno di “ricevere” contributi di orientamento e motivazione.
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2. ALL: l’associazione come serbatoio di pensiero, come laboratorio di innovazione Talent place non vuol dire solo career service, che è pure importante. È qualcosa di più. Significa dare la possibilità ai laureati della nostra Università di esser scoperti, di avere opportunità di visibilità sul mercato del lavoro che possono nascere anche dalla partecipazione ad un’iniziativa, ad un progetto, ad un esperimento. Questa è una scommessa molto legata al tema della restituzione e che può rappresentare un modello per il Paese, un supporto concreto all’emersione del merito, nonché un elemento forte di marketing associativo per l’Associazione stessa, soprattutto tra i laureati più giovani.
2.1. Il punto di vista di
Francesco Delzio Past president ALL
Sono convinto che l’Associazione Laureati LUISS possa e debba darsi come compito prioritario quello di occupare quei “vuoti di mercato” che sia i soggetti paragonabili per tipo di attività, sia le altre aggregazioni di cui noi tutti facciamo parte non riescono a coprire. In particolare vorrei condividere con voi due di questi “vuoti”, o se volete di questi spazi di opportunità, su cui come Associazione Laureati potremmo concentrare nei prossimi anni le nostre energie.
Il secondo vuoto che vi segnalo, e che considero ancora più importante, riguarda la costruzione del pensiero collettivo. L’Associazione dovrebbe tornare ad essere una thinking community, una “comunità che pensa”, o meglio che riesce ad alimentare al proprio interno un pensiero trasversale, più ampio di quello settoriale, più largo rispetto a quello personale. Un “campo lungo” all’interno del quale le competenze e i ruoli, le idee e i talenti possono diventare una visione collettiva.
Il primo: nel nostro Paese – lo dico avendo scritto su questo tema, ormai dieci anni fa, “Generazione Tuareg” - continuiamo ad avere, rispetto agli altri Paesi avanzati, un gap evidente nella gestione e nella valorizzazione dei talenti. Negli ultimi anni abbiamo trovato il modo di interpretare questa mancanza, pensando di combatterla, con i talent. Peccato che i talent fanno rima con spettacolo e non hanno nulla a che fare con i talenti. In Italia dobbiamo uscire rapidamente, dunque, dalla logica consolatoria del talent come soluzione alla questione-talenti.
Tutto questo – potrà obiettare qualcuno di voi - dovrebbe essere compito della politica. Ma mi chiedo, come ho fatto in “Opzione Zero”, e vi chiedo: a chi compete oggi l’elaborazione del pensiero politico in Italia? I funzionari di partito sono una razza in via di rapida estinzione. Le scuole di partito non esistono più. I think tank non sono mai davvero decollati nel nostro Paese. I luoghi nuovi di aggregazione e di formazione del pensiero, come poteva essere Vedrò, sono morti. Dunque pensare il pensiero politico - nel senso “abetiano” del termine - è il secondo, o forse il primo, obiettivo che dovrebbe porsi l’Associazione Laureati LUISS. Più di qualche anno
Cosa possiamo fare in positivo? L’Associazione potrebbe qualificarsi come una sorta di talent place. Non a caso, insieme a Giuseppe (Cornetto Bourlot) e Brunetto (Tini) abbiamo provato costantemente - durante le nostre presidenze - a realizzare qualcosa del genere. Quest’attività di “discoveraggio”, ovvero di individuazione e di incrocio dei talenti, deve tornare ad essere oggi uno dei primi impegni della nostra Associazione. 25
2.2. Il punto di vista di
fa avevamo creato una struttura, uno strumento, che si chiamava Laboratorio per le modernizzazioni: con questo nome o anche con un altro nome, e magari con un format aggiornato, dobbiamo dar vita nuovamente - quanto prima - ad un luogo in cui la thinking community si inveri, si realizzi, alimentandosi nel confronto con soggetti esterni, senza riprodurre gli schemi dei talk show televisivi. È qualcosa che può servire ai laureati LUISS di tutte le generazioni e che può servire al nostro Paese, dando all’esterno l’idea che non siamo soltanto una sommatoria di pensieri individuali ma l’inizio di un pensiero collettivo.
Pier Luigi Petrillo
Professore e laureato LUISS
Nella mia pur breve vita lavorativa ho percepito la difficoltà del capo di assumere decisioni, quindi di assumersi responsabilità nella scelta tra più opzioni. Si preferisce, in genere, non decidere, non disturbare, fino a quando poi alla fine la decisione la prendono altri. Questo è emblematico nella vita politica, dove si cercano sempre paraventi. Basta aprire un giornale per scoprire che la causa di alcune mancate riforme sarebbero le lobby, e non la politica che decide di non decidere a favore di un certo interesse piuttosto che di un altro. Rispetto a questi paraventi, per non utilizzare altre parole, l’Associazione che cosa può fare? Secondo me, l’Associazione può essere da un lato “servizio” e dall’altro “azione”. Cosa voglio dire? Essere “servizio”: ad esempio, dovremmo far capire i processi riformatori in atto, organizzando incontri a porte aperte, rivolti innanzitutto ai nostri laureati, in cui poter offrire un qualificato approfondimento. Un’azione, direi, quasi educativa. Scegliendo dei temi potremmo anche scoprire che i protagonisti delle riforme, a cui chiedere l’analisi, sono spesso nostri laureati. Essere “azione”: non solo capire i processi in atto, ma anche esserne parte. In che modo? Sfruttando al massimo il sistema LUISS, ovvero la nostra accademia che è di primissimo ordine. Potremmo, insieme al mondo accademico LUISS, cercare di entrare nei processi; è ciò che abbiamo provato a fare, anni fa, con il Laboratorio per le modernizzazioni, dove si chiedeva a un giovane ricercatore (interno all’Università)
Sono molto affezionato ad una citazione di Novalis, che diceva che l’arte della politica è quella di rendere necessario ciò che è inutile. Nel nostro Paese siamo riusciti a fare negli ultimi quindici anni esattamente l’opposto: siamo riusciti a rendere inutile ciò che è assolutamente necessario. Ciò che è assolutamente necessario, a mio avviso, è proprio questo: avere fonti qualificate di pensiero culturale pre-politico - o se volete politico nel senso più ampio - senza che debbano tradursi necessariamente in attività di partito o nella formazione di nuovi movimenti. Perché ne abbiamo fin troppi. “Pensare il pensiero politico” e pensare le policies che la politica dovrebbe mettere in atto: ecco una sfida ambiziosa e utile che l’Associazione Laureati LUISS potrebbe far propria.
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di presentare su uno specifico tema un position paper, con una faccia fredda, ricostruttiva, e una calda fatta di proposte. Sul paper si confrontava, poi, un gruppo di decisori pubblici di primo livello. Potrebbe essere utile ripartire da questa esperienza, parlando con i giornalisti, che ci sono amici e quelli che sono nostri laureati, per capire da loro quali sono i temi all’ordine del giorno, quelli su cui come Associazione potremmo dare un contributo di idee e di processi.
cità potenziale maggiore di restituire. Il direttore della LUISS Business School, il prof. Paolo Boccardelli, è un nostro laureato. Dovremmo interrogarci, dunque, sul come attivare questa leva rappresentata dai nostri laureati che insegnano e lavorano in LUISS. La seconda considerazione è, invece, focalizzata sul progetto ideale che questa Università intende rappresentare. Dico questo perché per raccogliere soldi è decisivo aggregare su un progetto ideale. La sfida è essere eccellenti, anche a livello internazionale. È complessa, per tante ragioni. Richiede ingenti investimenti e risorse a disposizione.
2.3. Il punto di vista di
Matteo Giuliano Caroli
Professore e laureato LUISS
Non dimentichiamo, inoltre, che essere eccellenti non vuol dire essere soltanto tra i primi ma anche essere attori trainanti dello sviluppo condiviso della società di cui si è parte. Questo è forse uno degli elementi che ci differenzia da altre istituzioni concorrenti che interpretano l’eccellenza solo a livello individuale o dei propri studenti. Puntare all’eccellenza competendo sulle regole del gioco attualmente in essere, e al tempo stesso preoccuparsi di essere trainanti di un sistema più ampio, è veramente complesso. È, però, una grande sfida.
Cerco di interpretare la categoria a cui in qualche modo appartengo, ovvero quella dei laureati che hanno deciso di fare ricerca. Abbiamo molti nostri laureati che insegnano in LUISS, e in altre prestigiose università. Giovanni Nocco ebbe la grande intuizione di investire su giovani laureati che volevano seguire la carriera accademica e che l’Università accompagnò nella crescita. Il restituire assume, dunque, un significato particolare per me laureato in questa Università, di cui sono oggi un docente.
Come Associazione dovremmo impegnarci a trasmettere questo progetto ideale all’interno della società italiana, che è sempre più chiusa.
Chiamo in causa questa categoria, interrogandomi sul cosa possiamo e dobbiamo fare per sviluppare il senso di appartenenza tra gli studenti che è, poi, alla base di quella consapevolezza di aver ricevuto che è necessaria per restituire. C’è, poi, tutto il mondo del post laurea da tenere in considerazione, anche in ragione di una capa27
Può essere una palestra per aggregare e fare innovazione.
2.4. Il punto di vista di
Barbara De Donno Professoressa e laureata LUISS
Avete spesso richiamato l’idea di Alma Mater. In questo senso, la sfida interessante è quella di pensare un’anima. Ad esempio, pensare un’anima diversa dell’impresa. Come non richiamare Adriano Olivetti che ha creato un modello di impresa. Aveva costruito, nel sud del nostro Paese, lo stabilimento ancora oggi più bello del mondo. A Matera ha costruito un grande villaggio modello, progettato da Quaroni, spostando più di sedicimila abitanti.
Sui talenti penso che la scommessa sia quella di scoprirli laddove non emergano in modo evidente, di motivare i giovani più timidi, ma di valore. Senza ovviamente trascurare chi riesce da sé a far emergere le proprie capacità. Rispetto al nostro essere una Thinking community, dovremmo rafforzare i luoghi di incontro interdisciplinari, creandone di nuovi. Luoghi di incontro tra l’accademia, le professioni, le istituzioni e le aziende per riflettere insieme, formulare proposte e realizzare progetti innovativi.
Secondo me, la sfida che voi avete è quella di creare una via italiana al management. In Brasile, anche all’interno delle sue migliori università, ci si è posti il problema di dar vita ad una via brasiliana al management, non evitando però di studiare la manualistica americana, l’inglese come lingua, creando così un modello per l’America Latina.
2.5. Il punto di vista di
Domenico De Masi
Sarebbe una sfida straordinaria quella di costruire una rivista come “estuario” delle esperienze dei 30.000 laureati di questa Università, provando anche ad aprire una via italiana al management che sia basata sulla leggerezza, perché come diceva Paul Valery “Bisogna essere leggeri come una rondine, non come una piuma”. Cioè, la leggerezza in balìa delle correnti è una cosa negativa, ma la leggerezza guidata, auto-servita, è un capolavoro di vita attiva.
Sociologo
Interessante è il problema di che cosa vi può aggregare. Pensando alle varie associazioni alumni, nel mondo, l’aggregazione più potente è quella del MIT. L’aggregazione del MIT è fatta attorno ad una rivista, “Technology Review”. Se uno vuole sapere dove va il mondo oggi deve sapere dove va la tecnologia e, se uno vuole sapere dove va la tecnologia non può non leggere questa rivista. Secondo me, voi dovreste fare altrettanto. Le esperienze dei vostri alumni potrebbero diventare il “succo” di una rivista di cultura generale. 28
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Postfazione Carlo Messina
Il percorso in questa Università, come studente e dall’altra parte della cattedra, lo ritrovo oggi nella mia attività lavorativa perché esser capi significa generare un senso di appartenenza, riuscire a trasformare quello che è un rapporto quotidiano con un lavoro in un’occasione di orgoglio di far parte di una squadra di successo. L’esser riusciti a far capire a tutti i collaboratori il progetto industriale e l’averlo realizzato negli ultimi due anni credo sia, oggi, uno degli elementi di forza di Intesa Sanpaolo. È un piano di impresa che abbiamo costruito con il coinvolgimento degli uomini e delle donne del Gruppo, contribuendo al cambio di posizionamento della banca. Intesa Sanpaolo era, infatti, un’azienda che competeva nel campionato di serie A in Italia, vincendo spesso il campionato, ma in Europa giocavamo, diciamo, in serie C o B. Siamo riusciti a risalire la classifica dell’eurozona piazzandoci oggi al terzo/quarto posto, come valore di borsa, quando fino a due anni fa ci posizionavamo tra il quindicesimo e il ventesimo posto, superando colossi che sembravano irraggiungibili. Abbiamo non solo aumentato il valore di borsa ma moltiplicato il peso degli investitori internazionali nel capitale della banca, passando dal 40 al 65%. Intesa Sanpaolo è, a tutti gli effetti, un operatore internazionale. Siamo riusciti in questa impresa perché abbiamo indubbiamente i migliori professionisti, di cui molti sono laureati LUISS, che lavorano nel settore bancario in Italia. E, permettetemi di affermare, con orgoglio, che siamo la rappresentazione dei punti di forza del nostro Paese.
Alumnus LUISS 2015, CEO Intesa SanPaolo
È la prima volta che entro nella sede della LUISS di viale Romania, essendo invece legato a quella di viale Pola dove ho studiato, mi sono laureato e per un periodo accanto al lavoro in banca ho svolto lezioni come collaboratore di una cattedra. L’esperienza di studente in LUISS mi ha consentito di acquisire molto in termini di competenze, grazie a professori eccellenti, così come di costruire importanti relazioni umane, che in alcuni casi continuano ancora oggi. L’avere avuto la possibilità di tenere lezioni è stata molto utile. Anzi, devo confessare che se oggi ho una capacità di parlare in pubblico, e anche un approccio molto diretto che va all’essenza delle questioni, lo devo al lavoro svolto qui in Università. Per qualche tempo, ho anche pensato di poter intraprendere la carriera accademica, ma le condizioni della vita e un percorso sempre più importante in banca mi hanno portato a scegliere la carriera aziendale. In Università ho costruito dei legami che sono ancora oggi dei punti di riferimento importanti sia nella mia vita personale che professionale. Un’associazione laureati forte e solida è, in questo senso, un valore aggiunto anche per la LUISS, perché attraverso la relazione con persone di cui ti fidi, con persone che sai che hanno avuto la stessa esperienza puoi acquisire degli elementi formativi nell’attività che fai che possono completare e che possono consentire di assumere decisioni più consapevoli.
E, qui, qualche considerazione sull’Italia vorrei condividerla: Intesa Sanpaolo gestisce 850 miliardi di euro di risparmio degli italiani. Il risparmio degli italiani è da tripla A. Non dob30
biamo permettere che alcune situazioni di crisi, complicate ma limitate, oscurino la forza del sistema bancario e la solidità del risparmio degli italiani. Noi sosteniamo aziende da tripla A, che esportano e che competono con le migliori aree industriali della Germania, e aziende più collegate alla domanda interna che, invece, soffrono pur traendo il maggior apporto dal recupero che si sta determinando sul fronte del ritorno ai consumi. Anche sui consumi vorrei esser chiaro: dal nostro osservatorio – sui conti correnti di Intesa Sanpaolo girano 25 – 30 miliardi di euro di pagamenti ogni giorno - registriamo un trend chiaro di recupero. I trend mensili possono non dare, in assoluto, questa evidenza ma questo è un Paese che sta tornando ai consumi, la vera determinante che consentirà la ripresa del PIL slegata da quella che è la domanda proveniente dal mondo internazionale che può soffrire maggiormente dei ridotti tassi di crescita dei paesi emergenti. C’è, poi, il debito pubblico, un tema molto importante, che va affrontato. C’è però un punto da sottolineare: lo stock del debito pubblico va confrontato con il patrimonio pubblico e non con il flusso del PIL. Dobbiamo respingere le enfatizzazioni dei nostri ipotetici punti di debolezza. Sono convinto che dobbiamo continuare una forte azione di confronto tra il totale del risparmio e il debito totale del nostro Paese perché questo ci consentirà sempre di più di porre in evidenza quelli che sono i punti di debolezza degli altri paesi.
munitarie dove si prendono le decisioni e si preparano i dossier che hanno impatto sui sistemi nazionali. La capacità di lobbying di altri Paesi europei è veramente più forte della nostra, avendo noi una debolezza strutturale da recuperare. Mi auguro, e cercherò di fare il possibile in prima persona e come banca, che ci possa essere un supporto agli studenti delle nostre università affinché riescano, con i propri profili, a ricoprire quelle posizioni chiave, a livello europeo e internazionale, di cui abbiamo bisogno come Paese. Abbiamo bisogno di persone non solo che siano preparate ma anche orgogliose di essere italiane. Alcuni miei colleghi, amministratori delegati di aziende italiane, fanno gli italiani in Italia ma quando vanno all’estero fanno i tedeschi, i francesi… non si risparmiano nel parlare male del nostro Paese. La nostra Università, anche insieme ai suoi laureati e all’Associazione laureati, può, ancor di più oggi, essere uno dei più qualificati e avanzati luoghi di formazione della classe dirigente nazionale, che sia orgogliosa di essere italiana e che ambisca ad assumere responsabilità anche a livello internazionale. Non posso che esprimere il mio impegno, che è un esercizio di restituzione rispetto a quanto vissuto e ricevuto negli anni di LUISS, in questa sfida che è un’avventura, che nasce dall’incontro con culture e approcci differenti senza rinunciare alla propria identità.
Abbiamo bisogno di persone che lavorino in un contesto internazionale, che rivestano posizioni di responsabilità, in particolare in ambito europeo. Abbiamo bisogno che i giovani, che vengono formati nelle università italiane, assumano posizioni di responsabilità nelle istituzioni co31
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