Problemi aperti 117
Francesco DelzĂŹo
Politica ground zero Lettera d’amore di un giovane tradito
Rubbettino
Š 2008 - Rubbettino Editore 88049 Soveria Mannelli - Viale Rosario Rubbettino, 10 tel (0968) 6664201 www.rubbettino.it Progetto Grafico: Ettore Festa, HaunagDesign
Prefazione Lettera d’amore di un giovane tradito
È difficile guarire di colpo da un Amore durato a lungo. gaio valerio catullo
caro maestro, era la donna più bella che avessi mai conosciuto. Me l’aveva presentata proprio Lei, dieci anni fa, in una calda primavera romana. Affascinante, imprevedibile, coinvolgente. Mi sentii subito rapito e indifeso. Avvertii un brivido caldo: m’avrebbe conquistato, per sempre, perché ogni tentativo di resistenza sarebbe stato vano. Aveva tanti nomi, uguali e diversi, e tante facce. A volte si truccava così tanto da essere irriconoscibile, ma sapeva sempre come farsi riconoscere. Mi trascinava per strada dalla mattina alla sera, mi costringeva a parlare per ore e ore con centinaia di persone diverse. Mi spingeva a convincere avvocati e casalinghe, impiegati e operai che era giusto firmare un quesito referendario, a spiegare con semplicità il funzionamento di una legge elettorale astrusa, ad ascoltare con inusuale pazienza una riflessione da bar sui destini del Paese.
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Caro Maestro, ne ho conosciute di donne, come Lei sa... ma non avevo mai provato nulla di simile. Un istante dopo averla incrociata, sentii che il tempo si era fermato. Perché doveva essere mia, per sempre. Nacque un rapporto entusiasmante: libero ma forte, saltuario ma profondissimo. Io la corteggiavo con entusiasmo, regalandole un Amore puro e disinteressato, una passione travolgente e primigenia. E nei momenti importanti c’ero, sempre. Lei mi corteggiava chiamandomi spesso: chiedendomi idee nuove, invitandomi a partecipare alle sue emozioni. Mi coinvolgeva nei suoi progetti per il futuro, senza remore, senza pudori. Sognavamo un mondo migliore, pensavamo di costruirlo. Insieme. Poi qualcosa si è spezzato. Non all’improvviso ma gradualmente, come il lento ritrarsi del mare dalla battigia su cui aveva mostrato le sue ricchezze. Lei mi è apparsa sempre più volubile, distratta, infedele. Ha iniziato a distaccarsi dalla realtà, avviluppata nel culto di sé. Vinta da un irrefrenabile desiderio di autodistruzione, ha allontanato da sé tutti quelli che l’avevano davvero amata. Quella meravigliosa donna, che aveva infiammato i cuori di tante generazioni, non c’era più. Molti avevano cercato di ammazzarla, invidiosi della sua unicità. Ma nessuno c’era riuscito. In realtà si era suicidata lentamente, anno dopo anno. Rinunciando a tutto ciò che l’aveva resa così bella e irraggiungibile. Caro Maestro, mi sono sentito tradito. E l’ho tradita, quella donna che aveva rapito il mio cuore. Ho cercato rifugio in un’altra passione. Ho trovato ciò che non avevo mai ricevuto da lei. 2
Forse non la rivedrò mai più, la Politica. Ma l’ho amata davvero. E se mai tornerò a incrociarla, forse la amerò ancora. L’Amore porta molta felicità, molto più di quanto struggersi per qualcuno porti dolore. albert einstein
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Introduzione Politica ground zero
cosa accadrebbe se oggi scoprissimo che, dopo millenni di magnifiche avventure sul palcoscenico della Storia, la Politica è stata rasa al suolo da nemici divenuti troppo potenti? O forse si è suicidata, vittima della sua stessa impotenza? Vivremmo un’altra Ground Zero, un’Apocalisse in Terra. Molto più sconvolgente della prima: l’Uomo sarebbe nudo – con i suoi istinti, le sue debolezze, le sue terribili e accattivanti pulsioni – di fronte ai conflitti che egli stesso, quotidianamente, genera. Sarebbe disarmato di fronte al caos, privato dell’unica arma che finora ha consentito di governare la convivenza, indirizzandola verso la civiltà, il progresso, il benessere. È solo un incubo? Percorrendo i sentieri che attraversano le profonde crisi in cui si stanno avvitando il Mondo, l’Europa e la nostra Italia, in questo pamphlet si possono avvistare i “nemici” della Politica e della sua migliore incarnazione, la Democrazia. Sono nemici sempre più numerosi, sempre più potenti. La colpiscono rapidi e imprevedibili. Disarmandola spesso, talvolta ferendola a morte. 11 settembre 2001, New York. Un banchiere, sfuggito miracolosamente al crollo delle Twin Towers, dopo aver vagato tra cadaveri, fumo e devastazioni d’ogni genere si rifugia in una chiesa del Greenwich Village. È ai piedi dell’altare, coperto di cenere. Trema, singhiozza. Un poliziotto lo vede, si avvicina e lo consola: «Non ti preoccupare, sei sotto shock». «Non sono sot5
to shock» risponde il banchiere «non sono mai stato così cosciente in vita mia». Politica ground zero è il viaggio – consapevole e provocatorio – di un giovane manager attraverso i campi di battaglia più attuali e più insidiosi della Politica, in tutto il globo. È un viaggio “sentimentale”: dominato dall’amore verso la Politica, dalla delusione per i suoi tradimenti, dalla rabbia contro la tragica miopia dei suoi protagonisti. Dal desiderio di un’altra Politica. Un viaggio di questo tipo richiede occhi nuovi. A chi scrive si affiancano, di volta in volta, testimonial al tempo stesso insider e outsider: protagonisti della vita politica, ma – per virtù o per cause di forza maggiore – sostanzialmente estranei alle sue logiche più consolidate. Otto donne impegnate con successo nella Politica italiana accompagnano questo viaggio. E lo rendono, per molti versi, unico.
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1. Atena e la trama divina
atena è la dea più misteriosa e affascinante, nell’umanissimo mondo dell’Olimpo. Nelle innumerevoli raffigurazioni a lei dedicate, appare come una divinità di guerra. I suoi occhi glauchi – scintillanti e pericolosi, come il mare tumultuoso che si agitava al momento della sua nascita dalla testa di Zeus – sorvegliano le mura della città o del tempio. E il suo assetto, perennemente in armi, non lascia dubbi sulla sua funzione. Ma esistono due diversi volti di Atena. Alcuni testi mitologici, infatti, la definiscono come figlia di Metis, la Mente. Da protettrice del palazzo-fortezza, Atena diviene in una fase storica successiva la protettrice della pólis. Alle facoltà guerresche si aggiungono le facoltà civiche: la “nuova” Atena è ora l’ispiratrice di ogni arte della comunità cittadina fondata sull’intelligenza e contrapposta alla forza bruta. La creatività della mitologia non conosceva confini, è risaputo. Ma l’incredibile “mutazione” della figura di Atena non ha pari, probabilmente, nel regno di Zeus. Nell’ultima versione la dea assume caratteristiche quasi opposte a quelle della figura più antica: Atena si trasforma, in particolare, nella mente che conosce e governa l’arte del telaio, simbolo dell’attenzione concentrata punto per punto che chiude il nesso fra trama e ordito. Ma che, nel contempo, sa tenere l’occhio aperto sullo schema finale, sul disegno complessivo. 7
«Quando si vuole costruire una città – scriveva Platone nel “Politico” – è necessaria la presenza di un Re tessitore, capace di unire l’elemento maschile (l’ordito) e quello femminile (la trama), gli uomini energici e quelli moderati». Per usare il trito codice dei consulenti, migliaia d’anni dopo: l’ultima Atena diventa lo spot del rigore e della progettualità, del calcolo e dello sguardo lungimirante. Ovvero, la “divinità di riferimento” della più grande invenzione dell’Umanità. Perché nell’immaginario della classicità greca, la tecnica della tessitura diventa la metafora dell’arte della Politica. Sotto il fiero sguardo della dea, oggi vive e pulsa Atene: il luogo di nascita della civiltà occidentale. La data fatidica è il 510 a.C.: ad Atene, per la prima volta nel mondo conosciuto, l’assemblea dei cittadini diviene l’unica responsabile dell’amministrazione pubblica. È l’inizio della “rivoluzione democratica”: l’idea della Politica che cambierà la storia del mondo.
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2. La democrazia oggi: il teatro vuoto
ma dopo 2500 anni, gli occhi scintillanti della dea Atena si sono distratti. «L’invenzione della Politica – scrive Jean-Pierre Vernant, uno dei più grandi studiosi contemporanei del mondo greco – va di pari passo con il deposito del potere al centro, affinché non appartenga più a nessuno dei membri della comunità. La situazione è tutta diversa nelle nostre società moderne. Il potere invece di essere posto al centro, ossia esercitato da tutti senza appartenere a nessuno, si ritrova fissato in alto – al di sopra dei cittadini – nelle mani di coloro che sono tenuti a rappresentarlo per delega. Di fronte a questo potere gli individui, che gli sono sottomessi, sono concepiti come atomi provvisti di diritti inalienabili»1. «La Politica è l’arte di governare le società» recita Wikipedia, la sorgente della conoscenza della nostra era. Ma alzi la mano chi pensa che la Politica odierna sia “arte”. E nell’eventualità che qualcuno sia così folle (o coraggioso) da alzarla, la tiri indietro rapidamente: eviterà rischi di mutilazione. Perché oggi la nobiltà di questo sostantivo contrasta drammaticamente – a qualsiasi latitudine del nostro pianeta – con la piccolezza (media) degli uomini politici e delle loro strategie, con la reputazione di cui normalmente (non) 1. j.p. vernant, Senza Frontiere (Memoria, mito e politica), Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
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godono, con la plastica impotenza che spesso dimostrano di fronte ai fenomeni in grado di incidere sulla vita quotidiana dei cittadini. Siamo di fronte, probabilmente, a una vera e propria “curva della Storia”. Dopo aver lottato e trionfato contro ogni forma di dittatura, monarchia, imperialismo, cesarismo, anarchia che Occidente e Oriente abbiano potuto immaginare e realizzare, la Politica – e in particolare la sua forma più riuscita, la Democrazia rappresentativa – sta attraversando una fase di crisi profondissima, in ogni angolo del mondo. La Intelligence Unit dell’Economist ha creato di recente il “Democracy Index”. L’indice misura il livello di democraticità di 165 Paesi, basandosi su cinque parametri: libertà delle elezioni, libertà civili, funzionamento del governo, partecipazione politica e cultura politica. I risultati sono clamorosi: soltanto la metà delle Nazioni del mondo può essere classificata come democratica. Ma c’è di più. Il numero di Democrazie “complete” è molto basso – sono soltanto 28 – mentre quasi il doppio – ben 54 – possono essere definite soltanto come Democrazie “incomplete”. Dei restanti 85 Stati, 30 possono essere considerati regimi ibridi e 55 autoritari. È sorprendente anche la posizione dell’Italia: si classifica soltanto al 34esimo posto – preceduta ad esempio da Costa Rica, Cile, Slovenia e Corea del Sud – a causa degli indici molto bassi relativi al “funzionamento del governo” e alla “partecipazione politica”. In Occidente la Politica e le sue forme democratiche rischiano di essere “inquinate” oggi dai leader populisti, dall’uso smodato dei sondaggi di opinione, dalla scarsa trasparenza del rapporto con gli interessi privati, dalla debolezza dei Governi rispetto alla frammentazione degli interessi sociali. Omero definiva il Re, il capo politico di una comunità, “pastore di uomini”. Ma la Politica e i politici oggi sembrano aver rinunciato a qualsiasi funzione pedagogica. Non più pastori dei cittadini, sono diventati “gregge” rispetto agli istinti dell’opinione pubblica: il pericolo quotidiano è di diventare forma senza sostanza, splendido simulacro del bel tempo che fu. 10
Oggi le campagne elettorali sono processi già predefiniti, gestiti esclusivamente sulla base delle indicazioni che provengono dagli spin doctor. La massa dei cittadini – il “popolo sovrano” – svolge un ruolo passivo: è soltanto la destinataria di sondaggi che apparentemente rilevano gradimenti e paure dell’elettorato, in realtà diventano lo strumento per dominare il consenso. Senza rappresentarlo. «Democrazia è il nome che diamo al popolo ogni volta che abbiamo bisogno di lui» diceva Gaston Armand de Caillavet. Assistiamo, quindi, a una doppia crisi della Politica e della Democrazia. Da una parte c’è la crisi della rappresentanza politica, in quanto il mandato a rappresentare il cittadino prescinde dal contenuto e, per le stesse modalità di voto, è un mandato “in bianco”. Dall’altra parte, essendo necessario interrogare la volontà del cittadino, si fa leva proprio sugli aspetti più emotivi e meno ragionati, assecondando le istanze più viscerali. Viene meno così il ruolo proprio della Politica, l’antica utopia del perseguimento del “bene comune” e della sintesi virtuosa degli interessi. Sono tendenze che non si limitano certo al nostro Paese, ma che ritroviamo – in modo più o meno visibile – in tutte le Democrazie occidentali. L’elemento comune è l’incapacità della Politica di dire “qualcosa di nuovo”: non è più portatrice di valori o di una visione del mondo, ma è solo il veicolo su cui far viaggiare visioni e interessi elaborati altrove2. Se volgiamo lo sguardo verso l’Oriente, scopriamo che – nella tumultuosa galoppata verso lo sviluppo di oltre tre miliardi di persone – la Democrazia rischia di non trovare neanche posto. Nel “nuovo mondo” dominano le Repubbliche autoritarie, lo sviluppo pianificato dall’alto, le leadership svinco2. Un’attenta riflessione sulle simultanee crisi della Democrazia in Occidente ed in Oriente è contenuta nell’introduzione del wokshop “In nome del popolo suddito”, (a cura di) Francesco Delzìo e Simonetta Giordani, dell’edizione 2008 di VeDrò (disponibile su www.vedro.it).
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late dal consenso democratico. Capaci di produrre – paradossalmente – tassi di crescita dell’economia che non hanno eguali nel mondo. Il potere senza consenso appare più forte, più duraturo, più lungimirante di qualsiasi sistema fondato sulla centralità del popolo sovrano. Cosa è rimasto, dunque, delle nobilissime origini ateniesi nella Politica e nella Democrazia del Duemila? Qualcosa, in realtà, è sopravvissuto alle intemperie dei millenni. Duemilacinquecento anni fa la Democrazia nacque nella Patria delle arti espressive e acquisì subito una forma molto teatrale. L’Ecclesia – l’Assemblea ateniese di tutti i cittadini maschi che avevano compiuto 18 anni – si riuniva in un anfiteatro e aveva ritmi e modalità di svolgimento simili a quelle di un’opera teatrale. Oggi la Democrazia ha perso molto del suo fascino originario. Ma non il suo aspetto teatrale. «Non è possibile una crisi di governo la prossima settimana: la mia agenda è già piena» era la battuta preferita di Henry Kissinger, negli anni di servizio civile a Washington. Chi non ricorda il “teatrino della politica”? Era lo sloganchiave del primo Berlusconi, l’imprenditore prestato alla res publica. Slogan efficacissimo, perché marcava in maniera comprensibile a tutto l’elettorato la differenza tra l’uomo nuovo del fare e la vecchia classe politica, delegittimata dal crollo del Muro di Berlino, da Tangentopoli e dalla teatralità retorica, vuota e indecifrabile in cui era scaduta la comunicazione politica dei partiti e dei politici della Prima Repubblica. Ma la “commedia politica”, oggi, si svolge in un teatro sempre più vuoto, dall’aspetto decadente e un po’ cupo – nonostante l’antica e prestigiosa architettura – in cui rimbombano le urla degli attori, che si affannano per catturare l’attenzione dei presenti. Mentre gli spettatori abbandonano il teatro. «Dopo essere aumentata per molti decenni, la partecipazione alle elezioni è calata nella maggior parte dei Paesi avanzati negli ultimi anni» denuncia il più recente rapporto ocse sulla “sa12
lute” delle società avanzate. Oggi i tassi di partecipazione al voto nelle elezioni politiche nazionali non raggiungono il 60% negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Svizzera: paradossalmente, sono le Nazioni che hanno rappresentato la culla della Democrazia liberale. Mentre l’estensione della Democrazia ai Paesi dell’ex Impero Sovietico si è rivelata finora un’illusione. D’altro canto, rimane alta la partecipazione al voto – con percentuali mediamente superiori all’80% – in Italia, Spagna, Danimarca, Nuova Zelanda3. Anche il trend di partecipazione alle elezioni europee è in netto calo, nonostante il continuo rafforzamento dei poteri del Parlamento dell’Unione. Se confrontato con quello delle prime elezioni del Parlamento europeo del 1979, il numero dei votanti è calato in occasione dell’ultima tornata del 2004 di quasi 20 punti percentuali, dal 66% al 48%. Queste cifre tengono conto dei cambiamenti avvenuti nell’Unione europea, con la moltiplicazione degli Stati membri da 9 nel 1979 a 25 nel 2004: ma il “sangue” nuovo proveniente dall’Est Europa non ha rinforzato la Democrazia europea, tutt’altro. Cosa accadrà nelle elezioni europee del 2009? Facile profezia: la partecipazione media al voto calerà ancora. «Il tasso di partecipazione alle elezioni resta uno dei criteri essenziali per misurare la partecipazione civica e la credibilità dei sistemi politici e delle loro istituzioni democratiche [...]» – si legge nelle conclusioni del Forum del Consiglio d’Europa sul futuro della Democrazia – «quando la partecipazione dei cittadini è scarsa o in declino, in particolare presso i giovani, è il momento di preoccuparsi»4. Con la benedizione dei documenti comunitari, possiamo scriverlo: è il momento di preoccuparsi. 3. Per approfondimenti si veda Society at a Glance: oecd Social Indicators 2006 Edition, 2007. 4. Il documento, che sintetizza la riunione del Forum del Consiglio d’Europa svoltasi a Varsavia il 4 novembre 2005, è consultabile sul sito Internet www.coe.int.
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Originale e significativa, in questo contesto, la tesi avanzata dal politologo Giorgio Galli5: esiste una relazione tra la diminuzione dei cittadini che votano nelle società post-industriali – in regime di democrazia rappresentativa – e l’aumento del numero di coloro che consultano normalmente veggenti, cartomanti, astrologi, interpreti di spiriti-guida, “contattisti” di misteriose entità, maghi e guru delle più varie e dubbie estrazioni. I due indici – il primo in caduta continua, il secondo in robusta crescita – possono essere interpretati come manifestazioni di una tendenza all’irrazionale: da una parte una spinta minore vero interessi e atteggiamenti concreti – il voto in difesa dei propri interessi, dei propri diritti, dei propri valori – dall’altra un desiderio crescente di soluzioni illusorie. Un dato per tutti: in Italia circa un quarto della popolazione adulta con diritto di voto consulta a pagamento, almeno una volta l’anno, un “operatore dell’occulto”... In ogni caso, sulla partecipazione dei cittadini al voto si gioca il presente e il futuro della Democrazia. Giunti al primo vero girone dell’Inferno della Politica, non possiamo che interpellare le nostre “compagne di viaggio”. Sperando che da loro arrivi la speranza di una nuova luce, più che la paura delle fiamme. «Il tasso di partecipazione al voto non è l’unico criterio per misurare una Democrazia» afferma Emma Bonino, che nei suoi ruoli internazionali e con i compagni radicali ha combattuto mille battaglie per l’affermazione della Democrazia in ogni angolo del mondo. «Non sono neanche molto convinta che i cittadini, oggi, non abbiano strumenti per partecipare» continua la leader radicale «È necessario però che escano dalla comodissima “corrente mugugno”: il partito più grande – almeno in Italia – nel periodo che intercorre tra un’elezione politica 5. g. galli, “Politica e New Age: William Blake e Internet”, tratto da «Pluriverso. Biblioteca delle idee per la civiltà planetaria», anno ii, numero 1, marzo 1997.
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e l’altra, che poi si scioglie come neve al sole il giorno delle elezioni. La verità di fondo è che l’impegno civile nella nostra cultura non viene visto come parte fondamentale dell’evoluzione di sé» chiosa la Bonino. «Oggi la platea democratica è enormemente più vasta – afferma rassicurante Stefania Prestigiacomo, Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, donna-simbolo delle battaglie a favore delle pari opportunità in Politica – anche grazie ai nuovi media, ad Internet, all’accesso nel mercato globale di centinai di milioni di nuovi attori di quello che prima era definito il Terzo Mondo». L’esponente del Governo Berlusconi non è affatto preoccupata dello “stato di salute” della Democrazia. «Non dobbiamo scambiare una periodica vandea antipolitica con una crisi strutturale della Democrazia. Prova ne è che nel nostro Paese i livelli di partecipazione al voto sono altissimi e che nel mondo, sia pure lentamente e fra mille difficoltà, il numero dei Paesi democratici è in costante ascesa. La Democrazia rappresentativa – conclude Stefania Prestigiacomo – ha dimostrato negli ultimi secoli la capacità di adattarsi a differenti realtà socio-economiche e culturali e, soprattutto, si è dimostrata l’unica capace di assicurare a tutti il bene più importante dell’uomo: la sua libertà». Intravede nella rivoluzione tecnologica una via d’uscita al deficit democratico anche Linda Lanzillotta, punto di riferimento dell’area liberal del centrosinistra. «Il teatro dell’antica Grecia era fisico, oggi è sempre più virtuale ed è affollatissimo» analizza l’ex ministro del Governo Prodi, oggi presidente del think thank Glocus ed esponente di punta del “Governo ombra” veltroniano. «Non ci sono soltanto i media tv, ma anche Internet dove sta nascendo una nuova forma di Politica – come dimostra la campagna elettorale Usa – con forme di partecipazione più attive e più globali rispetto a quella ateniese, che era una comunità ristretta». Guarda con fiducia al modello americano di rinnovamento democratico anche Alessia Mosca, giovane “scoperta” 15
di Enrico Letta e responsabile Lavoro dell’esecutivo del Partito Democratico. «La Politica è degenerata perché, oggi più che mai, il cittadino viene coinvolto solo nel momento del voto e si sente spettatore» afferma l’ex vicepresidente dei giovani popolari europei «ma oggi possiamo coltivare la speranza che – come sta succedendo negli Stati Uniti con Obama – il cittadino possa tornare protagonista utilizzando strumenti diversi dalle assemblee fisiche e dai partiti di massa. Anche se la politica italiana è schizofrenica: insegue e predica il nuovo, ma non riesce a staccarsi dagli strumenti del passato, come le vecchie strutture dei partiti». «In Grecia la democrazia era per pochissimi ed era solo una guerra tra oligarchie» afferma Beatrice Lorenzin, ex leader dei giovani di Forza Italia ed oggi esponente di spicco della nuova classe dirigente azzurra. «La fase storica che stiamo vivendo è quella dell’allargamento massimo possibile della Democrazia, sapendo però che non è possibile realizzare una Democrazia pura: le decisioni politiche sono troppo complesse per poter essere affidate ad un giudizio di massa, come dimostra l’esperienza dei referendum». Secondo la Lorenzin, «nell’Occidente democratico abbiamo oggi un problema non di rappresentanza o di rappresentatività, ma di velocità dei processi democratici: dopo il crollo del Muro di Berlino pensavamo che la Politica fosse stata archiviata a favore dell’Economia, dopo le Twin Towers ci siamo resi conto che la Politica ci serviva più di prima, ma molto più efficiente ed efficace di quella precedente». Più preoccupata del “teatro vuoto” e delle responsabilità della Politica è Giorgia Meloni, il più giovane Ministro nella storia della Repubblica. «Oggi la Politica rischia di tornare ad essere uno spettacolo, a causa della grande forza dei mezzi di comunicazione di massa» riflette il leader di Azione Giovani, che fonda gran parte del suo successo proprio su un’interpretazione “antica” della Politica e della sua funzione, come contatto e ascolto continuo dei cittadini. «Sono convinta che la partecipazione al voto sia elemento fondamentale della Democrazia, co16
sì come il rapporto diretto tra elettore ed eletto. Quando partecipo ad una puntata di Ballarò – racconta il Ministro della Gioventù – parlo contemporaneamente a 3 milioni di persone: non basterà tutta la mia vita politica per avere un contatto dal vivo con tutti questi cittadini. Potrei pensare, quindi, che iniziative, convegni, dibattiti in giro per l’Italia siano inutili e che sia sufficiente apparire in tv. Ma sarebbe l’errore più grande: se un politico non prova a “far parte” della gente, ad immergersi nella sua vita quotidiana, alla fine non rappresenta più niente e nessuno», conclude la Meloni. Alla ricerca di un rapporto più stretto elettori-eletti è anche Marianna Madìa, giovanissima capolista laziale del Partito Democratico nell’ultima battaglia elettorale e storia-simbolo della new age veltroniana. «La politica può anche essere teatrale, purché non ci sia finzione e la sceneggiatura rispecchi i cittadini e i loro problemi» afferma la Madìa, che confessa: «Prima di fare politica, temevo che il singolo deputato fosse solo uno spingi-bottoni, un soldatino. Dopo i primi mesi di esperienza in Parlamento, malgrado un Governo che tende ad esautorare le Camere, ho capito invece che ogni parlamentare può fare molto per le piccole battaglie, che magari non finiscono sui giornali ma che servono a risolvere problemi concreti delle persone». È questa la ragione di fondo, secondo la “promessa” del pd, per la quale «la Politica non può essere fatta solo dai politici di carriera e a vita – altrimenti rischia il suicidio – ma da una rappresentanza diversa e soprattutto temporanea, che porti nel palazzo la precarietà e la complessità di cui oggi è fatta la società». «Il problema fondamentale di molti politici italiani è che si relazionano soltanto con l’avversario politico, non con i cittadini» secondo Gabriella Giammanco, giovane newcomer del pdl, che nonostante lo scettro di “Miss Parlamento” e le sirene gossippare si è distinta nei primi mesi della legislatura per le battaglie politiche sulla scuola e sull’ambiente. «Ma la gente – afferma la giornalista – è davvero stufa del triste spettacolo delle risse politiche. Vuole soluzioni e fatti concreti». 17
3. Nostalgia canaglia
«quando uno si avvicina alla fine della corsa, arriva il momento in cui si chiede quale percorso abbia seguito» scriveva Jean Pierre Vernant. Primi anni ’80, Barletta, cittadina del nord Barese caotico e operoso che cerca disperatamente di agguantare la modernità. Quasi un fazzoletto di Nordest trapiantato nel profondo Sud: migliaia di operai ed artigiani che si mettono in proprio e creano da zero il più ampio distretto italiano delle calzature e delle maglie low cost. Cinesi ante litteram, potremmo dire con gli occhi del Duemila. Ovvero, i protagonisti del Mezzogiorno che cerca di uscire dalla fame con le proprie gambe, i “cafoni” che s’inventano un futuro da ricchi senza aiuti di Stato e senza cultura, spesso al di là delle regole, ma con la rabbia imprenditoriale di chi ha pochissimo da perdere e molto da conquistare. È lo scenario – opprimente ed esaltante al tempo stesso – in cui sono ambientate immagini in bianco e nero, che ritraggono una Politica genuina, utile, credibile. Il segretario locale del Partito Socialista è Don Franceschino. Non apparteneva alla borghesia, non aveva frequentato le “scuole alte”, non aveva letto manuali di politologia. Non era nato neanche a Barletta, ma si era trasferito lì da territori ancora più a Sud, intorno ai laghi vulcanici della Lucania. Sguardo fiero e penetrante, capace di ipnotizzare uomini, donne e persino animali. Leadership naturale, costruita nei 19
mille cantieri e nelle mille cave in cui i “padroni” gli avevano affidato il compito di organizzare il lavoro, di vigilare affinché tutti facessero il loro dovere. Soprattutto, un’idea della Politica come servizio civile. Apparteneva al partito del lavoro e dei lavoratori: la sua grande preoccupazione era quella di trovare un’occupazione dignitosa a chi ne aveva bisogno, di favorire lo sviluppo, la libera impresa, la creazione di benessere. Senza compromessi, senza intascare una lira, senza chiedere in cambio nulla che non fosse il consenso politico. Politica alta e bassa insieme, pragmatica e idealista, antica e moderna: così la ricordo, quella di mio nonno. Una piccola grande storia, come tante altre. Simile a quella di migliaia di amministratori locali e di politici nazionali – democristiani, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali – che in trent’anni hanno “fatto l’Italia”, trasformandola in una potenza economica e industriale di rango mondiale, in una società dinamica e coesa. Nostalgia canaglia.
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4. I “tradimenti” della politica: i nemici e le sconfitte del Duemila
La politica come vittima: il “doppio tradimento” l’abbiamo sempre vissuta e pensata come carnefice. Forte, arrogante, distante. Un’entità superiore, in grado di determinare i destini di tutti e di tutto. Simbolo e realtà del Potere, l’unica cosa «che logora chi non ce l’ha» nella felice accezione andreottiana. E ancor oggi ci piace chiamarla “Casta”, pensando solo ai suoi privilegi e ai suoi sprechi. Ma per la prima volta, oggi la Politica è soprattutto vittima. Caduta rapidamente dall’altare alla polvere, sotto gli strali di nemici – visibili e occulti – che la stanno spogliando delle sue armi, delegittimando, distruggendo. Ma anche vittima di se stessa: della sua incapacità di “leggere” un mondo che corre e cambia a velocità mai registrate prima, della sua mancanza di coraggio, della scarsa qualità dei suoi protagonisti e dell’inefficacia dei loro meccanismi di selezione. Non si è ancora riflettuto a fondo sul ribaltamento del rapporto Politica-Economia, che si è materializzato – da Ovest ad Est – a partire dal crollo del Muro di Berlino. Da una parte l’Economia è entrata nel Duemila, nel “secolo lungo” della dissoluzione delle unità di spazio e di tempo, annullate dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Dall’altra parte, la Politica è rimasta inchiodata al Novecento: al “secolo breve” delle barriere territoriali, dei tempi logorati e logoranti della tattica ideologica, delle stagioni tradizionali della semina e del raccolto. 21
La Politica oggi è protagonista di un “doppio tradimento”, passivo e attivo. È tradita da forze che un tempo governava o almeno controllava, dagli angeli ribelli diventati demoni nell’inferno della globalizzazione. E tradisce chi confida in essa: chi attende dalla Politica risposte che non avrà mai, chi vorrebbe contribuire alla sua crescita ma ne rimane escluso, chi ne viene affascinato e risucchiato prima di scoprire che ha perso gran parte dei suoi poteri. Eppure – paradossalmente – lo “spazio di mercato” della Politica è oggi il più ampio, forse, mai registrato dalla Seconda guerra mondiale. Dopo la “secolarizzazione” delle società avanzate, sedotte e abbandonate dalle ideologie che avevano dominato il Novecento, dopo l’esplosione dell’individualismo basato sul binomio soldi-sesso, oggi è in forte crescita la domanda di Politica e di valori. Lo rivelano le principali indagini demoscopiche, a tutte le latitudini. Ma anche la voglia di partecipazione diretta dei cittadini e di “socialità”, che sembrano rinate nell’era di Internet. Non è un fenomeno transitorio, non è l’ultima moda che svanirà all’alba delle elezioni americane. È la reazione – istintiva e razionale insieme – alle insicurezze della globalizzazione, all’accelerazione del tempo produttivo che ha spiazzato le vite dei cittadini occidentali, al bombardamento di informazioni senza formazione. Ma proprio nella fase storica in cui è più richiesta, la Politica – clamorosamente – latita. Si nasconde dietro l’ineluttabilità delle emergenze mondiali, si maschera nella fiction infinita dei dibattiti televisivi, si lacera sotto il peso di interessi estranei. S’impenna la domanda di Politica, crolla l’offerta di Politica. I cittadini domandano, i Governi non riescono a rispondere, mentre le bandiere dei partiti sbiadiscono e si sfilacciano... È un mismatch pericoloso, molto pericoloso. Senza Politica, le lancette della Storia rischiano di tornare indietro di più 22
di 3000 anni, cancellando la vera grande conquista che unisce Greci, Fenici ed Ebrei: quando si impadronirono del Mediterraneo, diffusero l’idea che la Storia fosse una corsa continua verso il miglioramento delle condizioni dell’uomo. Che il futuro fosse – per definizione – migliore del presente. Oggi non è più così, in Italia come nella gran parte del mondo avanzato: i padri credono che i figli vivranno peggio di loro. E i figli non hanno alcun motivo per credere il contrario. Anche in questa vicenda, l’Italia rappresenta un piccolo e divertente tassello di un puzzle gigantesco. Un tassello molto interessante, tuttavia, perché in esso i trend dell’intero Occidente sono amplificati e resi particolarmente visibili. Ma come e perché siamo giunti a questo punto? Riavvolgiamo il nastro, torniamo all’agonìa della Politica. Causata da una serie di “tradimenti”: grandi battaglie perse negli ultimi anni, contro nemici temibilissimi – ma fino a oggi sottovalutati – nonché contro se stessa. Eccole.
Autorità-sviluppo: il binomio vincente. La democrazia che non cresce C’è qualcosa che viene prima dei crudi numeri dell’economia, nell’incredibile primavera dell’Oriente asiatico. Oggi si sta ricomponendo la “frattura filosofica” che 2500 anni fa divise in due l’Umanità, spingendo una parte di essa verso l’azione, l’altra verso la meditazione. Intorno al 500 a.C., infatti, i destini di Occidente e Oriente si divaricarono radicalmente: mentre in Asia i grandi maestri del pensiero e dello spirito – da Confucio a Buddha – teorizzavano la liberazione dell’uomo dai propri desideri materiali per raggiungere la felicità nell’Aldilà, al contrario i padri della filosofia occidentale predicavano la liberazione dell’uomo per realizzare i propri desideri in Terra. 23
Non serve una complessa missione di business. È sufficiente una breve visita turistica a Pechino o Shangai – piuttosto che ad Hanoi o Nuova Delhi – per capire quale voglia di felicità individuale, da realizzare in Terra e non più nel regno dei Cieli, stia spingendo la corsa di centinaia di milioni di giovani cinesi, indiani o vietnamiti agli studi, all’arricchimento, alla scalata sociale, al radicale cambiamento di vita rispetto ai padri. Ogni rivoluzione, culturale o economica che sia, ha le sue immagini-simbolo. La secolare Cina agricola, fatta di folle di contadini chini a zappare la terra e piantare germogli di riso con l’acqua fino alle ginocchia, è come quella dei tiratori di risciò con il codino o quella dei placidi fumatori di oppio: sta scomparendo rapidamente – quasi un’immagine da cartolina – sotto l’ascesa incessante della produzione industriale e del pil cinese. Secondo un rapporto dell’onu, quest’anno la popolazione urbana in Cina supererà il 40%: ma aggiungendo, come spiegano i demografi cinesi, i circa 200 milioni di contadini che in realtà risiedono nelle città senza un permesso permanente, già oggi la popolazione urbana in Cina supera di gran lunga il 50%. E nel 2050 – quando i cinesi dovrebbero diventare 1,8 miliardi di anime – la Cina sarà urbanizzata al 70%. Questa colossale migrazione campagne-città è il vero segno della “primavera” cinese. L’Europa, che è nata intorno ai traffici marinari dei Greci e dei Fenici, alle avventure militari dei Romani o alle scorribande dei Germani, senza grandi fiumi da dominare ma cullata dal Mediterraneo, ha avuto un rapporto con l’agricoltura meno forte rispetto alla Cina. Per la Cina, nei millenni, l’organizzazione agricola è stata tutto: intorno alle rendite del campo si pagavano le tasse, si reclutavano i soldati, si decideva lo spazio di amministrazione dell’Impero. I contadini più intelligenti e studiosi, che superavano gli esami imperiali, diventavano ministri dell’Impero; i contadini bocciati agli stessi esami diventavano spesso i capi 24
delle ribellioni rurali, che hanno punteggiato la storia cinese. Contadino era rimasto fino alla fine persino Mao, che aveva vinto la sua rivoluzione allontanandosi dalle città e reclutando schiere di braccianti impoveriti. Lasciarsi alle spalle la civiltà agreste e fluviale significa per i cinesi, in sostanza, abbracciare l’anelito alla felicità in Terra e alla realizzazione immediata dei propri bisogni. Abbandonando la mediazione della meditazione, l’ideale della vita in armonia con i ritmi compassati della natura. Tutto questo si sta realizzando, però, senza Democrazia. Nelle province del Celeste Impero sta accadendo qualcosa di mai visto prima, sul polveroso palcoscenico dell’Umanità. La più grande dittatura del mondo sta sfatando il mito del binomio democrazia-sviluppo: nel nuovo mondo guidato dalla travolgente forza di Pechino le due variabili non sono più collegate. La carenza di processi democratici e il controllo autoritario sulla libertà dei cittadini sembrano – paradossalmente – favorire la crescita economica, la pianificazione lineare dello sviluppo, la conquista del mondo da parte del gigante cinese. È soltanto un incidente della Storia? No, rischia di diventare un modello. Lo dimostra l’affermazione nella stessa area – in condizioni simili – di medie potenze come il Vietnam, la Thailandia e la Malesia. Sta sorgendo a Est, dunque, un nuovo modello di crescita. Non è un modello sconosciuto in senso assoluto: il “capitalismo popolare di Stato”, nel quale la pianificazione pubblica e le compagnie statali giocano un ruolo decisivo nello sviluppo del Paese, è rintracciabile oggi anche nella Russia di Putin o nel Venezuela di Chavez. Ma non era mai accaduto – come sta avvenendo, da quasi vent’anni, in Cina – che si producessero simultaneamente risultati economici straordinari, sostanziale tenuta sociale ed una crescente forza internazionale, insieme all’assenza di libere elezioni e di democrazia rappresentativa. È il modello di 25
“sviluppo autoritario”: zero diritti civili e politici, piena libertà economica. È un modello che incanala il “risveglio” dei cinesi verso l’affermazione dell’homo economicus, incoraggiando la voglia di produrre, guadagnare, consumare. Eccitando gli istinti animali dell’economia, quella rabbia primordiale che batte la miseria e costruisce la ricchezza materiale. Ma ignorando del tutto l’homo politicus, le libertà di opinione e di manifestazione del pensiero, i diritti civili, la voglia di democrazia che aveva animato Tienanmen. «La Cina non potrà rimanere a lungo nella condizione attuale» sostiene Emma Bonino, che ha analizzato attentamente la situazione del gigante asiatico durante la sua ultima esperienza di governo «se vorrà mantenere l’attuale ritmo di crescita dovrà affrontare riforme sociali e politiche di grandissima rilevanza, perché ampliandosi e raffinandosi la borghesia cinese svilupperà esigenze che non sono soltanto economiche». «Ma non bastano le elezioni per fare la Democrazia – afferma il leader radicale – non c’è solo l’esercizio del voto ma la definizione di garanzie, di checks and balances. Inoltre, in Cina sta esplodendo una grande sensibilità sull’ambiente, molto prima – in proporzione – rispetto a quanto si è verificato in Occidente». «Anche i Paesi Emergenti dell’Oriente arriveranno a medio termine a forme democratiche» prevede Linda Lanzillotta, che inserisce la questione nella mappa delle grandi sfide dei liberal del Duemila. «La sfida vera dei progressisti è quella di globalizzare la democrazia e i diritti verso Est, per esempio promuovendo accordi commerciali basati non su barriere ma su regole. Possiamo ricostruire una visione del riformismo mondiale, proprio attraverso una visione progressista della globalizzazione». Intanto, all’interno del gigante giallo non mancano i fermenti del dissenso. Secondo le più accreditate organizzazioni umanitarie, il numero delle manifestazioni di protesta in Cina è cresciuto dalle 10 mila del 1994 a oltre 74 mila nel 2004, coinvolgendo in totale più di 3,5 milioni di persone. L’au26
mento del malcontento popolare e delle manifestazioni pubbliche ha costretto il Governo di Pechino a formare speciali unità di polizia “anti-sommossa” in 36 città chiave del Paese. E nei prossimi cinque anni le disuguaglianze potrebbero esplodere: la forbice tra reddito urbano e reddito agricolo continua ad allargarsi, mentre l’inflazione erode il potere d’acquisto delle pensioni, che in Cina spettano solo agli ex dipendenti statali. La netta impressione, però, è che si tratti di nubi non così minacciose da offuscare il radioso cammino della Repubblica Popolare Cinese e del suo Partito Comunista, il più grande partito politico del mondo. Anzi. Nell’era delle “democrazie indecise”, il rigido centralismo del pcc rischia di manifestarsi al mondo intero come modello di efficienza politica per capacità di realizzare piani di investimento pluriennali in infrastrutture, education e ricerca, nonché di perseguire strategie di internazionalizzazione delle imprese e dei capitali cinesi alla conquista del mondo, dall’Occidente all’Africa. Le nostre élite culturali e politiche stanno commettendo un tragico errore di valutazione: applicare meccanicamente alla Cina e all’Oriente emergente gli stessi schemi culturali, che hanno spiegato lo sviluppo economico e politico dell’Occidente. «Siamo impreparati ad analizzare ciò che oggi succede in Cina e in India» afferma perentoria Emma Bonino «Nel mondo occidentale c’è una evidente mancanza di informazioni e di comprensione su quello che succede a 3 miliardi di persone: il mondo occidentale dovrebbe avere più tempo, e mettere in campo maggior impegno, per studiare e imparare l’Oriente» sostiene l’ex Ministro del Commercio Estero. E non basterà a chiarirci le idee il successo organizzativo e sociale delle Olimpiadi 2008. Così come non basterà il consenso che i cinesi hanno dimostrato nei confronti del Partito Comunista e del Governo durante i Giochi: gli inviati Rai nella kermesse olimpica sono tornati in Italia raccontando – rigorosamente in privato – vere e proprie ovazioni dei giovani ci27
nesi nei confronti del premier Wen Jiabao. Lontano dalle luci delle telecamere. Persino per i Governi occidentali, le Olimpiadi sono state occasione di tacito consenso al modello cinese. Il lungo angosciante dibattito internazionale sull’opportunità – per i vertici delle istituzioni europee e americane – di presenziare alle Olimpiadi non ha partorito nulla: nessuna assenza “simbolica” ha enfatizzato la protesta contro i deficit democratici di Pechino. È rimasta così isolata la coraggiosa battaglia di Giorgia Meloni, che aveva proposto agli atleti azzurri di non partecipare allo show inaugurale di Pechino 2008. «Considero incredibile continuare a vedere gli atleti come persone che fanno parte di un mondo a parte» racconta il Ministro della Gioventù «perché noi tutti ci appassioniamo alle Olimpiadi non solo e non tanto per i gesti atletici, ma soprattutto perché rappresentano i valori della nostra Nazione: per questo motivo i gesti degli atleti hanno un’eco nell’opinione pubblica che la Politica non avrà mai» e che, dunque, doveva essere sfruttata per favorire la tutela dei diritti umani in Cina. «Non solo le Olimpiadi non sono state l’occasione per fare passi avanti sul tema del rispetto dei diritti umani» si sfoga il Ministro della Gioventù «ma addirittura la Cina ha passato gli ultimi mesi prima delle Olimpiadi a sfidare la comunità internazionale, come nella gestione del Tibet». Nonostante tutto, però, rischiamo di continuare a “leggere” la Cina attraverso lenti con gradazione e focus sbagliati. Che velano i nostri occhi, portandoci a considerare insostenibile e transitorio tutto ciò che non corrisponde alla Storia occidentale. Ma quanto durerà questa “anomalia”? Temo molto più a lungo di quanto abbiamo immaginato finora. Quasi vent’anni fa scoppiava la rivolta di Tienanmen. Tra meno di vent’anni, la Cina conquisterà il tetto del mondo, superando gli Stati Uniti nelle classifiche del pil e diventando la prima potenza economica globale. Nessuno può dire oggi cosa succederà allora, nel Secolo Cinese. Nessuno, neanche gli optimates di Pechino, costretti 28
ad affrontare in molti settori problemi comuni ad altri Paesi, ma in dimensioni sconosciute al resto del mondo. «Qualche mese fa» confida Emma Bonino «un ministro cinese mi diceva: in Cina non possiamo liberalizzare radicalmente Internet, ma non possiamo neanche chiuderlo, né possiamo lasciarlo aperto sull’economia e chiuso su tutto il resto. Non abbiamo modelli da seguire, a differenza dell’Occidente». «La libertà è un fine in sé», come dice Amartya Sen. Ma se fossimo costretti a rivedere radicalmente la nostra visione occidentale delle “libertà parallele”, economiche e civili? E se la Politica del Duemila perdesse clamorosamente la sua battaglia nella terra di Mao, dissociandosi strutturalmente dalla Democrazia?
Il far west della finanza Ottobre 2008. Il mondo intero si risveglia da un lungo e profondo “sonno della ragione”. La tragica esplosione della crisi finanziaria e l’arrivo della recessione economica abbattono – a colpi di sospensione al ribasso dei titoli azionari – il mito dello “sviluppo infinito”: l’idea ingenua e un po’ futurista che progresso e ricchezza formino un’equazione perfetta, che ogni giorno che passa una nuova fortuna economica e finanziaria possa essere colta da chiunque abbia voglia e strumenti per farlo, che infine la mano invincibile del mercato debba essere lasciata sempre più libera per migliorare il destino dell’Umanità. Crollato il mito e con esso i nostri risparmi, i Governi del mondo si affannano a spazzare via le macerie e a definire nuove regole per impedire che il crollo si ripeta. In qualche modo ce la faranno, perché la Storia perdona e guarda avanti. Ma è interesse e diritto di ogni cittadino consapevole capire perché e come ci siamo ritrovati in questo baratro. Pochi sanno che l’arte della speculazione è stata “inventata” in Italia, dai banchieri genovesi del xv secolo. Per primi – al29
meno in Occidente – utilizzarono i conti dei profitti e delle perdite, acquisendo un notevole vantaggio di know how sui concorrenti europei. E moltiplicando rapidamente i loro denari. Ma ciò che è accaduto negli ultimi decenni è impressionante: dal 1970 al 2006, negli Stati Uniti il valore del rapporto tra economia finanziaria ed economia reale è passato da 2 a 50. Mentre le transazioni finanziarie internazionali – che nel 1977 erano pari a 3,5 volte il volume del commercio mondiale – oggi sono 80 volte l’export planetario. Le crisi planetarie dei mutui subprime e dell’escalation del prezzo delle materie prime gettano una luce abbagliante sull’inadeguatezza della Politica – ancora, tendenzialmente, organizzata su base nazionale – incapace di tenere il passo di una Finanza fortemente globalizzata, che nella più totale assenza di regole e di controlli sta estremizzando le forme di speculazione su scala planetaria. «Il sistema finanziario si sta mangiando da solo» diceva, profetico, Keynes. «In un sistema di capitalismo avanzato e globale la Politica rischia d’essere vittima di condizionamenti dettati dalla Finanza, che poi finiscono per dettare l’agenda politica» osserva Stefania Prestigiacomo. «Il problema dei Governi nazionali e dei sistemi di governance internazionale è quello di impedire che le turbolenze della Finanza internazionale, in un contesto che non scalfisca la libertà di mercato e di impresa, possano innescare processi che si ripercuotono pesantemente sulla vita delle persone» riflette preoccupato il Ministro dell’Ambiente. Il rapporto con la Finanza è questione così esiziale per la “sopravvivenza” della Politica, da spingere persino la piccola e terribilmente rissosa politica italiana ad abbandonare l’amata bagarre destra-sinistra. «In Italia, su questo punto, le prime interessanti analisi sono di Giulio Tremonti» ammette Marianna Madìa «il rischio che la Politica venga espropriata del suo potere dalla Finanza è molto concreto, perché la Politica non domina più la complessità dei fenomeni economici e finanziari». Non la pensa così Linda Lanzillotta, che denuncia: «quando parla di glo30
balizzazione, Tremonti cerca un alibi per non affrontare i problemi in casa, puntando tutto sulle paure della globalizzazione». «La soluzione di Tremonti è Dio, patria, famiglia e lo stesso Tremonti, in un dibattito pubblico, l’ha definita un’ottima sintesi del suo libro – aggiunge Emma Bonino – Ma oggi è il momento di costruire i ponti, non quello di alzare i muri, perché la soluzione alla complessità del mondo non sono i localismi». Pensando alla migliore “tenuta” del sistema-Italia rispetto agli Usa nella crisi dei subprime, la Lanzillotta ricorda che «nella sua precedente esperienza di governo (2001-2006, N.d.R.), Tremonti aveva sostenuto che le famiglie italiane erano troppo patrimonializzate e dovevano fare debiti sulle loro case. Per fortuna non è riuscito a cambiare in questo modo la società italiana, perché oggi saremmo stati colpiti dalla crisi dei subprime come gli Usa». Oggi i cittadini di New York, di Roma o di Bombay sono costretti a pagare per decisioni prese da altri, in nome del massimo profitto di minimo periodo. Lontano dal loro consenso, lontano dalla Politica. «La Finanza sta espropriando la Politica, perché è in grado di produrre bolle speculative su ogni bene negoziato» accusa Beatrice Lorenzin «L’eccesso delle speculazioni rischia di danneggiare l’Occidente, che le ha create e che è l’unico che può frenarle». La Politica fa finta di governare il mondo, di indicare la via, di progettare il futuro. Mentre la Finanza determina l’alfa e l’omega, il prezzo del pane e il costo dei viaggi, il destino dei Governi e la fortuna degli uomini. Fino a produrre effetti non solo sul costo della vita, ma sui meccanismi più moderni di welfare, che sono stati pensati nel mondo occidentale sul presupposto di una relativa stabilità dei mercati finanziari. «Queste crisi – spiega Linda Lanzillotta – stanno mettendo in discussione il funzionamento di fondo dei nuovi modelli di Stato Sociale: basti pensare all’impoverimento patrimoniale dei fondi pensione, strumenti indispensabili di un modello sociale avanzato, diverso da quello tradizionale basato solo sulla spesa pubblica. Queste crisi speculative possono mettere 31
in discussione l’intera riforma pensionistica, in Italia e nei Paesi occidentali». «La politica non deve alzare bandiera bianca, perché il ruolo della politica non sarà mai quello dell’amministratore di condominio» dice Alessia Mosca. «La globalizzazione non è né buona né cattiva, è solo uno strumento: il suo esito dipende da come la utilizzi» ragiona Giorgia Meloni. «Ma la politica ha completamente abdicato al suo ruolo negli ultimi anni, perché ha ritenuto che la globalizzazione fosse sufficiente a se stessa». In realtà, la Finanza non è più il Sacro Graal nascosto in qualche luogo remoto del mondo, appannaggio di una ristretta cerchia di eletti: negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla “finanziarizzazione popolare” dell’Occidente avanzato. Ma la Politica continua ad adottare modelli di rappresentazione sociale basati esclusivamente sulla raffigurazione dei ceti produttivi, senza prestare adeguata attenzione ai nuovi “ceti finanziari”: piccoli azionisti, titolari di fondi previdenziali, debitori per necessità1. Non ci sono partiti che difendano i loro interessi, politici che ne parlino, talk show che li rassicurino sulle intenzioni del Governo. Intanto, il mondo intero ha scoperto – con terrore crescente – la pericolosità della Finanza selvaggia. Una scoperta molto tardiva, avvenuta a “cadavere freddo”: solo di fronte alla crisi economica mondiale più grave dal 1929, sull’orlo della recessione del mondo occidentale. Nessun organismo internazionale ha controllato, ha avvisato del pericolo, è intervenuto. In uno straordinario mix di negligenza, impotenza, collusione, si è consentito di crescere indisturbato al mostro vorace che ha divorato i risparmi delle famiglie americane ed europee, che ha minato alle fondamenta la credibilità delle banche e dei soggetti finanziari di ogni angolo del mondo, che ha ingolfato il motore della crescita mondiale fino a farlo scoppiare. 1. Molto interessanti, in questa direzione, le riflessioni di a. volpi, in Senza Misura. I limiti del lessico globale, bfs, Pisa 2008.
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Finanza uber alles. Libera di scorrazzare nelle infinite praterie delle Borse mondiali, come i pistoleri del vecchio caro Far West, perché nessuno ha pensato di regolamentare – come qualsiasi altra attività umana – la speculazione sui derivati. Abbiamo mangiato così, inconsapevolmente, il “frutto avvelenato” dell’idea delle “magnifiche e progressive sorti” dell’umanità liberata dal free trading planetario, che ha dominato la scena della Politica occidentale di fine Novecento. È nato così – nel disinteresse e nel silenzio dei policy makers internazionali e nazionali – il più potente, insidioso, inafferrabile nemico della Politica. Al suo attivo ha già il più appassionante thriller noir di inizio millennio: come è stato possibile che in 12 mesi – da luglio 2007 a luglio 2008 – il prezzo del petrolio sia schizzato da 60 a 160 dollari al barile, quando esce dalla sabbia al costo di 8 dollari? Chi è l’assassino? Il cartello dei Paesi produttori di petrolio, istituzionalizzato nell’opec? Il primo indiziato rifiuta decisamente, e da tempo, qualsiasi legame tra le oscillazioni del prezzo del greggio e lo squilibrio tra domanda e offerta di energia nel mondo. Ed è difficile pensare che giochi allo “scaricabarile”. Perché – in nome di un guadagno di brevissimo termine – l’opec dovrebbe rischiare di mettere in ginocchio la crescita mondiale? Per quale forma di “masochismo economico” dovrebbe spingere i Paesi consumatori a investire in tecnologie per il risparmio energetico e per lo sviluppo di fonti alternative, provocando una contrazione strutturale della domanda di petrolio? Non serve neanche aderire alle tesi, ardite e complottiste, del leader iraniano Mahmoud Ahmadinejad, secondo cui il boom del prezzo del petrolio è dovuto alla «volontà politica di grandi potenze capitaliste, che ne controllano in modo artificiale il prezzo, perché in questo modo si ripagano i costi delle loro guerre ed occupazioni e giustificano gli investimenti per lo sfruttamento delle nuove risorse energetiche in fondo agli oceani, ai poli e altrove». 33
La risposta è molto più semplice. Disarmante. Perché al Nymex i futures movimentano ogni giorno un miliardo di barili “virtuali”, contro gli 85 milioni reali scambiati sul mercato. Cercare di interpretare le quotazioni del greggio tramite i fondamentali dell’Economia, insomma, è come individuare il mostro di Firenze con il Cluedo. Quando in sole 48 ore di scambi – al New York Mercantile Exchange – i futures sul petrolio schizzano al rialzo del 13%, com’è successo tra il 10 e l’11 giugno 2008, non c’è aumento dei consumi cinesi e indiani che tenga. Speculare sul greggio è più facile e meno costoso che speculare sulle azioni. Il future è più “economico”, nel mondo delle commodities. Per comprare a temine – mediante futures – 100 mila dollari di azioni a Wall Street è necessario mettere sul piatto 50 mila dollari in contanti o simili, il cosiddetto margine. Per comprare con le stesse modalità 100 mila dollari di greggio, basta anticiparne 5 mila ed essere pronti a rivendere il diritto a quel greggio il giorno successivo. Senza che nessuno degli attori di questo mercato veda mai un barile vero. Dalle testimonianze di alcuni manager di hedge fund di fronte ai membri del Congresso degli Stati Uniti d’America, è emerso che – solo nei primi 52 giorni lavorativi del 2008 – gli investitori istituzionali hanno investito nel “casinò nero” dei derivati legati al petrolio la bellezza di 55 miliardi di dollari. La quantità di carta finanziaria che viene scambiata è immensamente superiore ai consumi mondiali di idrocarburi. A tal punto, da alimentare sinistre profezie sui “corsi e ricorsi” della storia finanziaria: la curva di incremento dei prezzi del barile è identica a quella disegnata dal Nasdaq al culmine dell’euforia sulla New Economy nel 1999, prima di crollare nel marzo 2000. A quell’epoca le Borse erano dominate dai colossi di Internet, proprio come oggi sono dominate dalle compagnie petrolifere. In passato altre manipolazioni clamorose dei mercati delle materie prime – come quelle dei fratelli Hunt sull’argento negli 34
anni ’70, o di Raul Gardini sulla soia a Chicago nell’89 – furono smascherate e neutralizzate dall’intervento delle autorità. Nel 1989 la temutissima Commodities Futures Trading Commission inchiodò Raul Gardini alle sue responsabilità in merito al trading di futures sulla soia e chiuse d’imperio le posizioni che avevano reso la Ferfin monopolista dell’intero raccolto annuale di soia. Cosa è cambiato da allora? Perché oggi la speculazione sulle materie prime avviene nel “Far West” delle regole e dei controlli? La Politica – in questo caso – è in gran parte vittima di se stessa. Negli Stati Uniti il Commodity Futures Modernization Act del 2000 ha spalancato la porta ai capitali diretti verso le materie prime, limitando i poteri della Commodity Futures Trading Commission, mentre nel Regno Unito la Financial Services Authority ha allentato le redini ancor di più sulle transazioni relative ai derivati sulle materie prime. E allora, meglio non vedere... Nel migliore dei casi, per acritiche convinzioni personali. Il 25 giugno 2008 il presidente della bce Jean Claude Trichet – interrogato dal parlamentare europeo Robert Goebbels – individua la causa delle incredibili oscillazioni dei prezzi del petrolio in «una domanda molto, molto attiva» da parte dei mercati emergenti: «non la chiamerei speculazione, ma ricollocamento dei portafogli internazionali verso le commodities» chiosa con involontaria ironia Trichet. Nel peggiore dei casi, per conflitti d’interessi così palesi da indurre a riflessioni amare sulla più grande Democrazia del mondo. «Per quanto riguarda gli investitori finanziari, la speculazione ed il ruolo che essa svolge, noi ne teniamo conto ma tutte le prove stanno ad indicare la domanda e l’offerta»: parola di Henry Paulson, Segretario al Tesoro usa. Prima di assumere l’incarico nell’amministrazione Bush è stato presidente e amministratore delegato di Goldman Sachs, il più importante operatore mondiale sui futures dell’olio nero, lo stesso che casualmente ha lanciato all’inizio dell’estate 2008 la celebre pro35
fezia sul greggio a 200 dollari il barile. In questo contesto, come si poteva sperare che avesse effetto sulle policies del Governo americano il clamoroso atto d’accusa sulle responsabilità della finanza speculativa di George Soros, nella recente audizione davanti ai senatori di Washington? «La gallina che canta è quella che ha fatto le uova» rispose Giulio Tremonti a chi gli ricordava che, secondo il Governo Usa, la speculazione non ha un peso nell’inflazione dei prezzi petroliferi. Deregolamentazione selvaggia, conflitti d’interesse, paralisi della Politica. Il vero protagonista del thriller noir dell’oro nero sono gli Stati Uniti. Cina e India, gli attori della domanda di energia che s’impenna, sono “attori non protagonisti”. E soltanto dall’America, dalla capacità dei cittadini Usa di rinnovare la propria Politica, potrà arrivare l’eventuale happy end. Paradossi della globalizzazione: non è casuale – e non risponde solo alle logiche del marketing elettorale – che sia Obama che Mc Cain abbiano dedicato parte della loro campagna elettorale alle missioni extraconfine, dall’Europa all’Asia. L’identikit del nuovo inquilino della White House è più importante per il resto del mondo, che per i cittadini americani. Perché è affidata a Lui la rimonta della Politica nel secondo tempo del match con la Finanza, il nemico più temibile.
L’emergenza e l’impotenza: utopia e fallimento della governance mondiale Dopo aver portato nel mondo più ricchezza, più tecnologia, più connessioni, la globalizzazione sta presentando il “conto”. Molto salato, molto più del previsto. Più di 100 Paesi al mondo, nel 2006, avevano fatto registrare un tasso di crescita del pil superiore al 5%. E non c’era solo l’Asia, ma anche l’Africa e l’America Latina nella grande corsa allo sviluppo mondiale. Ma in meno di due anni – con 36
una di quelle acrobazie che nessun economista potrà mai prevedere – il mondo si è capovolto. Il 2008 è stato l’annus horribilis della globalizzazione. «Da gioco a somma positiva, la globalizzazione ha mostrato la tendenza a diventare un gioco a somma zero» scriveva già nel 2004, con profetica ludicità, Mario Deaglio. «Questo progetto di economia mondiale integrata, regolata pressoché esclusivamente dai meccanismi dello scambio – scriveva il noto economista liberale – appare oggi come un sogno infranto: la crescita potrà riprendere, le illusioni che solo o prevalentemente con la crescita si possano, in un clima di mercato, risolvere le contraddizioni delle società umane sono del tutto svanite»2. Quest’anno, forse per la prima volta, il “bilancio sociale” della globalizzazione è sicuramente negativo. Non c’è stata solo la cupa marea dei subprime. È esplosa la speculazione su petrolio e materie prime, in uno scenario che prevede nel 2030 una domanda di energia globale superiore del 50% a quella di oggi e che moltiplica le tensioni geo-politiche per il controllo del petrolio, dell’acqua, degli snodi di transito dei flussi commerciali. Non c’è stata solo la gravissima e devastante crisi della Finanza globale e il “contagio” repentino dell’economia reale. È aumentata rapidamente, inoltre, la pressione demografica dall’Africa subsahariana verso i Paesi del Mediterraneo, “terre di mezzo” verso l’Europa e il sogno di un’altra vita. Dopo i capitali, i beni e i servizi, anche gli uomini stanno entrando fragorosamente sul palcoscenico della globalizzazione: i flussi migratori Sud-Nord rischiano di diventare incontrollabili, prosperano le organizzazioni criminali a composizione etnica “mista” in grado di gestirli, i Governi nazionali non hanno più gli strumenti – da soli – per gestire qualcosa di simile a un esodo biblico. Ma è stata soprattutto l’emergenza ambientale a scuotere le coscienze del mondo avanzato. Nel 2030 le emissioni di 2.
m. deaglio, Postglobal, Laterza, Roma-Bari 2004.
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anidride carbonica e biossido di carbonio aumenteranno del 60%. Entro il 2100 la temperatura media del pianeta potrebbe aumentare di 4 gradi centigradi e il livello degli oceani di 60 centimetri. Rischiamo, sostanzialmente, una catastrofe: in grado di cambiare radicalmente le condizioni di vita sul nostro pianeta. Chi pagherà il conto della “globalizzazione cattiva” e delle sue emergenze? Chi riuscirà a governarle? È la domanda che un numero crescente di cittadini pone ai propri governanti nazionali, è la domanda che risuona a vuoto nei teatri della Politica internazionale. Rimbalza una fastidiosa, inquietante eco: non c’è risposta. L’emergenza si specchia nell’impotenza. «Da una parte il movimento no global ha sbagliato analisi e si è reso irrilevante, dall’altra nelle analisi sulla globalizzazione scarsa attenzione è stata dedicata alla governance politica: oggi il vero problema è governare la Politica, non l’economia globale» analizza Emma Bonino, che ricorda «l’idea molto interessante della Community of Democracy di Bill Clinton, che però è stata congelata», fino al punto che oggi «è molto più coordinata la Conferenza degli Stati Islamici». Le prime vittime della globalizzazione sono stati proprio gli organismi di governo planetario, in primis il G8. Nato nel 1975 a Rambouillet per affrontare il primo grande shock petrolifero della storia, al di là dell’apparente e forzata convergenza sulle misure contro la crisi finanziaria ed economica mondiale, il club dei Grandi della Terra non è mai sembrato così vicino alla fine come 33 anni dopo, sulla croce dell’ingovernabilità mondiale. «Adottare coraggiosamente tutte le misure necessarie per vincere i flagelli della povertà estrema, della fame, delle malattie, dell’analfabetismo che colpiscono ancora tanta parte dell’umanità» era il compito che Papa Benedetto xvi aveva affidato al vertice G8 di Toyako del luglio 2008. “Misure concrete” era l’algida promessa del premier britannico Gordon Brown. “Aria di suc38
cesso” respirava addirittura George Bush, a bordo dell’Air Force One sul quale festeggiava il suo compleanno in volo verso il Giappone, mentre Silvio Berlusconi dimostrava il suo proverbiale ottimismo lanciando baci alla ragazze del pubblico e Sarkozy lo richiamava all’ordine, come da copione di una fiction di Tele Tuscolo. Forse la bellezza dell’isola di Hokkaido, la sua lussureggiante foresta avvolta in una romantica foschia incoraggiavano all’ottimismo, di fronte alla paura del mondo intero che già iniziava ad essere devastato dalle cavallette della speculazione, dalla brusca frenata dell’economia mondiale e dal crollo delle Borse. Di certo, il summit di Toyako sarà ricordato nella Storia della governance mondiale come il vertice dell’impotenza della Politica, perfettamente simboleggiata dal volto pallido e preoccupato del padrone di casa, il primo ministro giapponese Yasuo Fukuda. Un’impotenza trasmessa per tre giorni in mondovisione, in ogni casa del pianeta, senza neanche la speranza di un Viagra mediatico. Unica consolazione, un po’ di sano gossip: la frugale cena sociale del vertice ricca di otto-portate-otto, dai «bulbi di giglio d’inverno in gusto d’estate» al «tartufo nero con emulsione di olio di pinoli», il tutto annaffiato – anzi annegato – in cinque vini. Nessuno italiano, per la cronaca. Ma come poteva finire diversamente? Questioni globali affrontate con soluzioni nazionali e nazionaliste. Fenomeni straordinariamente “aggressivi”, nuovi e complessi affrontati con idee lineari, timide, vecchie. In più, l’illusione del tempo che non passa mai: un vertice tra 8 Paesi che non rappresentano più l’élite dell’economia mondiale. Nel 1987 i membri del G8 rappresentavano circa il 55% del pil mondiale. Nel 2008 producono solo il 40% della ricchezza globale e sono quasi irrilevanti sul piano demografico, perché ospitano il 13% della popolazione mondiale, anche se consumano il 50% del petrolio mondiale. Ne sono esclusi, incredibilmente, Cina e India: oggi sono già la secon39
da e la quarta potenza mondiale, tra 15 anni saranno probabilmente la prima e la terza. In ogni caso, facciamo un esperimento. Valutiamo sulla base dei risultati del vertice – come se avessimo a disposizione un mbo planetario – l’efficienza decisionale dei “manager” del mondo: la differenza tra gli “obiettivi” assegnati al G8 e le decisioni assunte. L’esito è desolante, per usare un eufemismo. E a ricevere il testimone di questo disastroso G8 sarà proprio l’Italia, che ospiterà il prossimo summit ordinario. Obiettivi Le aspettative più forti, nelle settimane che avevano preceduto il vertice, si concentravano su tre fronti. Gli scienziati dell’onu – notoriamente prudenti, per necessità di “sopravvivenza” di fronte agli interessi dei membri del club mondiale – invocavano un abbattimento del 40% delle emissioni di anidride carbonica entro il 2020, necessario per riequilibrare i dissesti ambientali da surriscaldamento del pianeta e scongiurare i gravi rischi del climate change sulla salute dell’uomo. La Banca Mondiale chiedeva subito 10 miliardi di dollari per far fronte alla fame dilagante tra le popolazioni dei Paesi più poveri, falcidiate dai rialzi speculativi dei prezzi alimentari, mentre il rapporto più aggiornato delle Nazioni Unite stimava in 20 miliardi di dollari l’anno il costo degli interventi necessari per affrontare la crisi alimentare. Tutto il mondo – avanzato, emergente e povero – chiedeva misure di contrasto agli eccessi della speculazione finanziaria, per regolamentare il Far West dei futures sulle materie prime. Risultati Una triste litania di appelli: all’opec per aumentare la produzione di greggio, a Cina e India per partecipare al presunto 40
sforzo del G8 verso la riduzione dell’inquinamento planetario, ancora alla Cina per accettare di rivalutare lo yuan. Ci mancava solo un appello a mettere fiori nei cannoni: fate l’amore, non la guerra, è inutile scannarsi così da 5.000 anni... Nessuna decisione significativa sulle tre grandi emergenze planetarie: clima, petrolio, cibo. L’Umanità può attendere. Sul clima il documento finale parla di “visione condivisa” degli Otto Grandi sulla riduzione del 50% dell’emissione di gas serra entro il 2050. Nel tartufesco linguaggio della diplomazia, vuol dire che non è un vincolo, non è una promessa formale, non è un impegno politico. Una “visione condivisa”? Come dire, lo faremo in un’altra vita. E c’è persino una “condizione”, posta dagli Stati Uniti: la collaborazione effettiva di Cina e India, che però vengono tenute fuori dal G8. Per il resto, tutto viene rimandato ad “ulteriori analisi”, compresa la responsabilità degli speculatori sull’aumento dei prezzi delle materie prime. In assoluta mancanza di decisioni memorabili, il summit sarà ricordato – sui giornali di tutto il mondo – soprattutto per una temeraria biografia di Silvio Berlusconi apparsa sul press kit distribuito dalla Casa Bianca ai giornalisti americani giunti in Giappone. «Il Premier italiano è stato uno dei più controversi leader nella storia di un Paese conosciuto per corruzione governativa e vizio». Neanche «Il Manifesto» aveva mai osato tanto. E per dettagliarne l’abilità di businessman, il pregiato documento descrive – con dovizia di particolari degna di un mattinale della Questura – il Presidente del Consiglio italiano da ragazzo, quando «guadagnava soldi organizzando spettacoli di marionette per cui faceva pagare il biglietto d’ingresso, vendeva aspirapolvere, lavorava come cantante su navi da crociera, faceva i compiti degli altri studenti in cambio di soldi». Scoppia il caso diplomatico, poi le scuse ufficiali del portavoce del Presidente Usa: sarà questo l’unico negoziato del G8 di Toyako andato a buon fine. 41
«Il caso del G8 è emblematico» afferma Stefania Prestigiacomo, che oggi governa un ministero in prima linea nella sfida alle emergenze globali. «Nato come un meccanismo di conversazioni informali fra i grandi della Terra, come sistema di conversazioni riservate davanti al caminetto, è diventato un grande evento mediatico» denuncia l’esponente di punta del Popolo delle Libertà, che aggiunge con realismo: «sul fronte dell’ambiente prevale l’effetto annuncio, l’esigenza di spostare sempre più in alto l’asticella a prescindere dalla concreta possibilità di raggiungere poi i risultati. Sarebbe necessaria più concretezza. Nel 2009 toccherà a noi italiani organizzare le sessioni del G8. Sarà un banco di prova importante per puntare a fare passi avanti, magari non roboanti ma concreti». «Dobbiamo chiudere le istituzioni internazionali obsolete» è la lucida provocazione di Emma Bonino «Siamo sicuri che il G8 oggi serva? Non è retto da nessun trattato, non ha regole o comunque non trasparenti, non ha sistemi decisionali. A volte il G8 sembra solo una somma di G2 bilaterali. L’apertura o la chiusura del G8 sembra casuale: il G8 medesimo ha un grande problema di governance di se stesso». Molto scettica sull’efficacia del G8 anche Alessia Mosca. «Ha assunto una ritualità e una formalità, che sono lontane dalla sostanza dei problemi politici globali» afferma l’esponente del Partito Democratico «credo molto di più nell’Europa, dove non c’è discrasia tra decisioni politiche e democrazia». Assai diversa la visione di Linda Lanzillotta, che punta sull’ampliamento della formula del G8: «Dobbiamo aprire questo organismo ai cinque Paesi che oggi pesano di più nei processi globali e che non ne fanno parte. Prendendo atto del rafforzamento degli altri, dobbiamo contrastare il nostro indebolimento sul piano economico e confrontarci con loro, non escluderli». Sulla stessa linea Beatrice Lorenzin. Nonostante sia stato proprio il Governo italiano a frenare, in occasione del vertice di Toyako, sull’allargamento del G8, è convinta che «abbiamo bisogno di un soggetto globale in grado di governare l’economia mondiale» e che 42
«per questo motivo il G8 dovrà essere aperto: dobbiamo riprenderci dal pugno nello stomaco, derivato dall’affermazione prepotente e imprevedibile delle potenze orientali. E dobbiamo pensare a difendere l’Europa, che è l’anello debole di questa catena». La giovane parlamentare pdl, protagonista dei network internazionali dei movimenti giovanili conservatori, crede anche in un diverso ruolo della nato. «È una fase di transizione verso un’era successiva – dice la Lorenzin – basata sulla riorganizzazione della Nato attraverso l’ingresso della Russia e la progressiva sostituzione dei caschi blu dell’Onu». Un’altra clamorosa conferma dell’impotenza degli attuali strumenti di governo delle economie e delle società del pianeta è giunta dal fallimento del Doha Round del wto a Ginevra, negli ultimi giorni del luglio 2008. In realtà, dopo un’infinita litania di colloqui tra i rappresentanti dei 153 Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si potrebbe dire che non è andata malissimo: su 20 punti all’ordine del giorno, i negoziatori hanno trovato l’accordo sui primi 18, si sono incagliati sul diciannovesimo e non hanno mai affrontato il ventesimo. Le trattative si sono bloccate – per l’ennesima volta – al tavolo dell’agricoltura, davanti alle differenze di posizione tra l’asse India-Cina e gli Stati Uniti sulle “misure speciali di salvaguardia” dei prodotti agricoli. Ma queste misure non rappresentavano uno dei temi più controversi dei negoziati. Hanno un effetto economico limitato, come la maggior parte delle proposte avanzate durante i colloqui di Ginevra. E basta qualche indagine più approfondita per scoprire che né l’India né la Cina hanno mai fatto uso di queste misure. Facile intuire – a questo punto – che il Doha Round sarebbe fallito comunque, su questa o su qualsiasi altra questione. L’interesse di Stati Uniti, Cina e India verso la liberalizzazione dei commerci si è velocemente dissolto a causa della crisi economica internazionale, che ha spinto i Governi a considerare la difesa della sovranità nazionale più conveniente – in 43
termini di consenso politico e di comunicazione, prima ancora che economici – degli eventuali vantaggi di una maggiore apertura degli scambi. Ciò non elimina, tuttavia, l’assurdità dei meccanismi di governo del wto, che impongono ai 153 Paesi membri di agire all’unanimità e prevedono che l’accordo non sia valido se non viene aggiunto sull’intera agenda dei lavori. A Ginevra era stato definito un accordo su oltre il 90% delle questioni sul tappeto, ma non è bastato. O tutto, o niente. Un principio che qualunque individuo sano di mente considererebbe assurdo nella sua vita quotidiana. Figuriamoci in uno dei più complessi consessi diplomatici internazionali. L’unico risultato di quasi un decennio di trattative sarà – nei prossimi anni – il ritorno su larga scala del protezionismo. Potrà anche sembrarci rassicurante, visto dalla placida e benestante provincia italiana. Ma senza la sicurezza di regole internazionali, in un mondo nel quale i beni pubblici globali diventano il bene di nessuno, rischiamo di dover affrontare l’anarchia della globalizzazione. Un “fantasma” che dovrebbe preoccuparci molto più della globalizzazione stessa. In ogni caso, stiamo entrando nella “seconda era” globale. L’era della risacca, dopo la grande ondata. Caratterizzata dal trionfo degli interessi nazionali e dalla “regionalizzazione” del mondo. E, in fondo, dal ritorno dei Muri. Di fronte alla crisi delle istituzioni globali, infatti, si stanno moltiplicando e rafforzando le aggregazioni regionali e le intese bilaterali: oggi gli accordi in vigore sono più di 300 e coprono la metà del commercio mondiale. Sono la nuova versione delle barriere della guerra Fredda: finita l’era delle divisioni ideologiche dominano le alleanze per lo sfruttamento comune delle “risorse scarse”, che rischiano di rendere impotenti gli esclusi. È uno scenario radicalmente nuovo, che coglie impreparata l’Europa. Isolata e divisa, rischia di fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. Ma è uno scenario che coglie ancor più impreparata l’Italia. Chiamata oggi a fare ciò che, probabilmente, 44
non ha mai fatto nella storia contemporanea: definire una propria “mappa degli interessi”, capace di guidare a medio termine le sue strategie politiche, diplomatiche e commerciali nel mondo. Per non limitarsi più a subire scelte maturate altrove3. Tutto ciò non risolverà, piuttosto aggraverà le spinte centrifughe e disgregatrici della globalizzazione. Non potrà reggere a lungo un ordine globale a doppia velocità che contrappone 2 miliardi di esseri umani senza acqua potabile, 1 miliardo e 200 milioni con un reddito inferiore a 1 euro al giorno, 1 miliardo di analfabeti ad un Occidente spaventato, sfiduciato, votato molto più al carpe diem che alle visioni di lungo periodo. Ma soprattutto pone in drammatico contrasto pubblico e privato, Economia e Politica. Da una parte mercati che svolgono l’auto-regolazione dei beni privati, dall’altra istituzioni che non riescono a regolamentare e fornire i “beni pubblici” essenziali: sicurezza internazionale e lotta al terrorismo, tutela dell’ambiente e governo delle risorse energetiche, regolazione dei commerci e tutela dei marchi e della proprietà intellettuale. «Il mondo non può essere governato solo dalle Nazioni Unite e dal Consiglio di Sicurezza» secondo Emma Bonino, che ripensa all’esperienza maturata negli organismi internazionali. «Nel Consiglio di Sicurezza, l’organo massimo della governance globale, non è rappresentato in alcun modo il mondo multipolare: non c’è l’Europa in quanto tale, non c’è l’India, non c’è l’America Latina, non c’è l’Africa». La prospettiva di riferimento è un’altra. «Come italiani ed europei, dovremmo andar fieri del manifesto di Ventotene e dell’idea di mettere insieme sovranità a livello di macroregioni del mondo – afferma il Vice Presidente del Senato – Ma oggi non è così e la cessione di sovranità nazio3. Un’analisi approfondita della seconda era della globalizzazione – che, riletta oggi, risulta per molti versi “profetica” – è contenuta nelle Tesi presentate dai Giovani Imprenditori in occasione del Convegno di Capri del 6-7 Ottobre 2006 («L’impresa al centro. Rischi, scelte, opportunità per l’Italia nella seconda era globale»), consultabili sul sito www.giovanimprenditori.org.
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nale rimane un tabù. Monnet e Spinelli avevano inventato la messa in comune delle istituzioni, che però tutte le altre aggregazioni regionali – pensiamo all’Unione Africana, oppure al Mercosur – hanno mutuato solo parzialmente, evitando la “comunitarizzazione” d’importanti spezzoni di sovranità». «La chiave del successo della governance mondiale – conclude Emma Bonino – è il superamento dei nazionalismi e la limitazione della sovranità nazionale, andando oltre il mero “coordinamento” di Stati nazionali per creare aggregati regionali in grado di confrontarsi tra di loro. Questa è la mia visione della governance globale. Ma qual è l’alternativa?» «Se la governance politica, economica, commerciale, ambientale, finanziaria e sociale del pianeta è capace di organizzarsi, la crescita mondiale si manterrà a lungo al di sopra del 5% annuo» prevede con l’ottimismo della volontà il rapporto della Commissione Attali4. Ma sarà capace di organizzarsi? Rebus sic stantibus, sembrerebbe proprio di no. A meno che la Storia non ci riservi a breve una sorpresa. Come l’ascesa di una leadership carismatica e globale, in un mondo di politici provinciali. O come un evento-shock, che ci faccia sentire tutti parte dello stesso pianeta. Non possiamo che augurarci la prima sorpresa, naturalmente. Ma, sul piano statistico, è difficile dire quale sia l’evento più probabile.
L’Europa della bce e il Coro della tragedia greca: felice di essere inutile «L’Europa dominerà il xxi Secolo» vaticinava soltanto due anni fa Mark Leonard, intitolando così un suo fortunato saggio. Oggi sembra una battuta da Bagaglino. 4. j. attali, Liberare la crescita. 300 decisioni per cambiare la Francia, Università Bocconi Editore-Rizzoli, Milano 2008.
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Il Duemila ha sorpreso l’Europa – e noi europei – senza identità, senza orgoglio, senza una mission comune nella seconda era della globalizzazione. L’idea che potremmo ereditare lo “scettro” del pianeta, o almeno dell’Occidente, di fronte a un’America avviluppata in una complicata crisi economicofinanziaria e di credibilità internazionale, rientra oggi nella categoria delle ipotesi di scuola. Irrealizzabili. Non era così, fino a qualche anno fa. Perché conquistare la leadership del mondo era l’obiettivo tacitamente scritto nel “dna” dell’Europa a 27 all’epoca in cui fu progettata, nel clima euro-entusiasta degli anni ’90. L’Europa unita sta attraversando oggi la “crisi di crescita” più dura e pericolosa dall’inizio della sua straordinaria cavalcata. È in gran parte una crisi di sfiducia: convergono verso il basso aspettative economiche, consumi, natalità. Dopo l’ultimo allargamento, l’Europa può vantare una popolazione di 493 milioni di abitanti, contro i 295 milioni degli Stati Uniti. Ma se gli attuali tassi di natalità rimarranno invariati, entro il 2050 le due popolazioni saranno sostanzialmente identiche. «È finita in Europa l’età dell’oro. È finita la fiaba del progresso continuo e gratuito»5 scrive oggi (ma con antica intuizione) Giulio Tremonti, che profetizza l’avvento di nuova era storica, “l’età del Pacifico”: lo spostamento della leadership mondiale dagli Usa all’Asia, saltando l’Europa. Non solo in ambito economico, ma anche geo-politico e culturale, forse perfino militare: è il “neocolonialismo” cinese, di cui si vedono già gli effetti nei massicci investimenti di Pechino in Africa e nel Golfo Persico. «L’Europa ha cominciato ad assumere un ruolo simile a quello del Coro nella tragedia greca, limitandosi a giudicare e commentare le azioni dei protagonisti, ma senza incidere minimamente sugli sviluppi della trama» scrive il politologo americano 5. g. tremonti, La paura e la speranza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008.
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Robert Kagan6, che teme che la rinuncia degli europei ad esercitare un ruolo di leadership mondiale rappresenti un’insidia – anzitutto – per gli stessi Stati Uniti, che rischiano di dover affrontare da soli le ambizioni della Cina di Hu Jintao e della Russia di Vladimir Putin. Ma cos’ha trasformato il sogno europeo in un incubo? Linda Lanzillotta, che con Glocus ha costruito una rete dei migliori “pensatoi” riformisti europei, è convinta che «ci siano state due svolte critiche negli ultimi anni. La prima è l’allargamento ad Est: l’Europa dei 15 aveva una velocità molto superiore, l’ingresso dei Paesi orientali ha rallentato nettamente la sua corsa. La seconda è la difficoltà degli europei di accettare il cambiamento del loro modello sociale: ciò è avvenuto agevolmente solo in Gran Bretagna in virtù di una grande leadership come quella di Tony Blair, favorita dalla cultura anglosassone che valorizza l’individuo e il suo senso di responsabilità, ma le difficoltà sono state molto maggiori nei Paesi dell’Europa Continentale, dove sono mancate grandi leadership». «Sono molto critica su alcune scelte sbagliate» rincara la dose Alessia Mosca «è stato fatto l’allargamento con una velocità troppo rapida rispetto al rafforzamento delle istituzioni. Questo è il peccato originale che ha indebolito l’Europa. E così i governi nazionali hanno iniziato a scaricare sull’Europa le difficoltà interne: l’Europa è diventato il capro-espiatorio di ogni problema nazionale». Nell’unico Paese in cui nel 2008 i cittadini sono stati chiamati a pronunciarsi sul Trattato di Lisbona, l’Irlanda, hanno prevalso i no. È la seconda clamorosa bocciatura della Costituzione europea, dopo il voto negativo di francesi e olandesi nel 2005, e segna la definitiva sconfitta del modello dell’Europa top down, della delega in bianco della costruzione europea ai burocrati di Bruxelles. Sintetizza Emma Bonino: «Il no 6. r. kagan, “Se l’Europa è contenta di non essere importante”, «Corriere della Sera» (tratto dal «New York Times»), 8 luglio 2008.
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irlandese rivela la nausea dei cittadini europei rispetto all’Europa dei trattati». «Il vero problema dell’Europa è la percezione che ne hanno i cittadini europei» commenta Gabriella Giammanco. «Oggi la vedono come una realtà molto burocratizzata. Un’Europa distante, fredda: un insieme di obblighi portatore di regole incomprensibili, troppo spesso legato solo ad interessi economici. Nell’immagine popolare, l’Europa è solo burocrazia ed economia» è la sintesi della giovane deputata pdl. Del resto, parlando ai giornalisti europei riuniti per presentare gli obiettivi della Presidenza francese del Consiglio d’Europa, perfino il Ministro degli Esteri francese Kouchner è stato terribilmente esplicito: «Più parlo dell’Europa, più la gente non capisce – ha dichiarato – Perché non capisce che, quando il prezzo del petrolio va alle stelle, noi si parli di istituzioni». Quella di oggi è un’Europa paralizzata dalla regola dell’unanimità e dalla guerra senza quartiere tra gli interessi nazionali. «Ho assistito nella mia esperienza di Commissario Europeo a cose stravaganti» rivela Emma Bonino «in politica estera ci vuole l’unanimità perfino per definire l’agenda dei lavori». «In Italia abbiamo una percezione dell’Europa come il luogo nel quale una serie di brave persone si riuniscono per fare il bene degli Europei» aggiunge Beatrice Lorenzin «in realtà l’Europa è il regno degli interessi nazionali e l’Italia paga l’incapacità di sostenere a Bruxelles i suoi interessi. Ho visto personalmente la mutazione della classe politica greca e spagnola nel rapporto con Bruxelles, quella italiana non si è ancora accorta della realtà europea». Ma qual è il “male oscuro” dell’Europa? “Magari esistesse l’Europa” è l’amara provocazione di Giorgia Meloni. Secondo il Ministro della Gioventù, «l’Europa non ha avuto il coraggio di andare oltre l’interesse economico per disegnare un’identità comune. La battaglia per il riconoscimento delle radici cristianogiudaiche nella Costituzione Europea – rivendica la Meloni – non aveva natura religiosa ed era cruciale proprio per questo motivo: perché le radici rappresentano, in realtà, la sintesi dei valo49
ri del passato e del destino comune. Se ai cittadini non diamo qualcosa di superiore in cui credere, si chiedono perché dovrebbero rinunciare alla sovranità nazionale. E non trovano risposta». Contrariamente a chi crede nella “Generazione Erasmus”, il leader di Azione Giovani è convinta che manchi un’identità comune anche – anzi soprattutto – tra i giovani europei: «quest’analisi vale soprattutto per i giovani. Sia in Europa che in Italia abbiamo perso il senso d’appartenenza, il senso della Nazione: la consapevolezza di far parte di qualcosa che qualcuno ci ha consegnato e che contribuiremo a rendere migliore nei prossimi anni». «Nel 2008, per la prima volta, i giovani europei che hanno fatto l’Erasmus sono in diminuzione – denuncia Alessia Mosca – È un fenomeno molto preoccupante, soprattutto per l’Italia: da noi il calo è iniziato prima e il livello degli studenti italiani che scelgono un periodo di studio in Europa è sempre stato uno dei più bassi dell’Unione. L’Italia ha investito troppo poco sui programmi Erasmus: non è mai stato adottato nessun incentivo per i giovani. La mobilità europea non è mai stata la priorità dei nostri Governi, di qualsiasi colore politico». «Perché in Italia – conclude l’ex Vice Presidente dei giovani popolari europei – pensiamo che andare all’estero non sia un arricchimento, ma un rischio: quello di mancare occasioni in Italia, di perdere il proprio posticino nella catena delle relazioni e delle carriere per cooptazione». Questa non è l’Europa dei cittadini europei, né tanto meno dei giovani europei. Questa non è l’Europa della Politica. È l’Europa della bce, unico potere “assoluto” e incontrastato nel recinto comunitario. «È ragionevole portare i tassi europei a 4,25%, mentre gli americani hanno dei tassi al 2%?»: ho trovato questa domanda, di sapore retorico, navigando su Internet. Pensavo appartenesse a uno dei milioni di bloggers che discutono on line di politica e di condizioni di vita dei cittadini. In realtà, è una dichiarazione rilasciata da Nicolas Sarkozy, qualche giorno dopo il suo insediamento come presidente di turno del Consiglio d’Europa. 50
Sarkozy si riferiva alla decisione adottata dalla bce il 4 luglio 2008, che aveva portato i tassi d’interesse nell’area euro al 4,25%, il livello massimo dal settembre 2001. Era stato il decimo rialzo dei tassi in due anni e mezzo. E forse non sarebbe stato neanche l'ultimo, se il crollo delle Borse e lo spettro della recessione non avessero letteralmente costretto la bce ad un taglio di mezzo punto dei tassi d'interesse nell'ottobre 2008, in strettissimo coordinamento con la fed. Ma torniamo alla decisione di luglio. Nelle settimane precedenti, c’era stata una sequenza impressionante di prese di posizione “preventive” dei politici europei. Tutte contrarie ad una politica monetaria restrittiva, in una fase di frenata dell’economia europea così brusca da far temere una prossima recessione. «La bce – aveva dichiarato a fine giugno il ministro delle Finanze tedesco Steinbrueck al settimanale «Der Spiegel» – deve riflettere sul fatto che, se alzerà i tassi, potrebbe inviare un segnale negativo, perché una decisione del genere potrebbe avere un effetto prociclico in un momento di rallentamento e indebolimento della congiuntura». Il “grande azionista” dell’euro lanciava un warning molto preciso contro il rincaro dei saggi centrali dell’euro, accusati di accelerare la tendenza dell’economia europea verso la recessione. Era uno strappo, il primo del genere nella storia della democrazia tedesca. Fino ad allora la Germania aveva sempre seguito una linea di allineamento incondizionato alle scelte dell’Istituto centrale di emissione: ieri la Bundesbank, oggi la bce. Ma fino a quando i Governi nazionali continueranno a esercitare un pressing pubblico sulla bce ci ritroveremo, paradossalmente, con tassi d’interesse più alti di quello che sarebbe strettamente necessario. È sorprendente la miopia dei politici europei: cercano di mettere la bce alle strette, invocando un’altra politica monetaria di fronte al deteriorarsi delle condizioni reali dell’economia, e così fan finta di non sapere che queste pressioni coram populi sono soltanto controproducenti. Se anche, teoricamente, la bce fosse d’accordo con loro, farebbe di tutto per dimostrare il contrario: cedere alle 51
pressioni della Politica equivarrebbe, per la Banca Centrale, a una perdita netta di credibilità. Se davvero i Governi dei Paesi europei volessero ottenere una riduzione dei tassi per dar fiato all’economia, dovrebbero agire in modo molto più discreto. Ma a cosa servirebbe ai nostri politici una riduzione dei tassi decisa unilateralmente dalla Banca, e non sotto la loro virtuosa pressione anti-tecnocrate? Sembra un classico caso di “dilemma del prigioniero”. Le polemiche Governi-bce sulla politica monetaria sono, dunque, puro teatro a beneficio di elettori “disattenti”. C’è, però, un macigno gigantesco che pende sul libero agire dei banchieri dell’Eurotower. Perché la bce, a differenza della Federal Reserve, non dichiara esplicitamente le sue previsioni di inflazione a medio termine nei comunicati ufficiali in cui annuncia le proprie decisioni, quelli la cui “sintassi” viene sezionata da tutti i mercati, e non spiega neanche come intende arrivare all’obiettivo di inflazione? Gli algidi banchieri della bce sembrano orgogliosi del “vezzo” di non rivelare né le valutazioni alla base delle proprie decisioni, né le proprie intenzioni7. Peccato che, in questo modo, minino la credibilità della Banca – e quella dell’intera zona euro – almeno quanto farebbero, se seguissero le indicazioni dei Governi europei. Intanto, il “Coro” europeo continua a commentare le strategie e le conquiste delle altre Potenze che dominano il mondo. Felice di essere inutile.
L’interesse collettivo in Italia: chi l’ha visto? La Politica e la Democrazia si nutrono di passione civile, di amore per una comunità e per il suo futuro, di desiderio dif7. Un’analisi molto interessante sul tema è quella sviluppata da t. monacelli nell’articolo “Più alti i tassi, più forti le critiche”, pubblicato su «Lavoce.info» l’8 luglio 2008.
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fuso di partecipazione. «La politica è una faccenda troppo seria per essere lasciata ai politici» ripeteva con tagliente ironia Charles de Gaulle. Interesse individuale versus interesse collettivo: quando il pendolo è interamente spostato verso il primo, c’è di che preoccuparsi per le sorti di una comunità. Da qualche anno, i sondaggi demoscopici condotti nel nostro Paese registrano un grande paradosso: gli italiani guardano con fiducia e speranza al loro futuro individuale, ma hanno una visione negativa del futuro del Paese. È in forte calo la fiducia degli italiani nelle istituzioni: secondo l’edizione 2008 del Rapporto Italia di Eurispes, ben il 49,6% degli italiani ha meno fiducia nelle istituzioni rispetto a un anno prima. Lo confermano le rilevazioni di Eurobarometro, giugno 2008: in Italia la fiducia verso il governo nazionale – rilevata tra marzo e maggio 2008, quindi a cavallo delle elezioni politiche – scende al 9%, il livello più basso dopo l’Ungheria nell’Europa a 27. E la stessa fiducia nell’Unione Europea è in Italia la più bassa del Continente, inchiodata al 26%, contro il 37% della Germania8. Nel nostro Paese la sfiducia verso le istituzioni, insomma, sembra aver sfondato ogni limite e si colloca a un livello mai raggiunto dal 2000 ad oggi9. Sfiducia verso il pubblico, fiducia nel privato. Un’indagine Ipsos del 2007 rilevava che il 51% della popolazione italiana ripone fiducia in se stessa, ma non nel futuro dell’Italia. È la prova che si è consumata nel nostro Paese, nel silenzio dei media e degli opinion makers, una clamorosa dissociazione tra destino individuale e sorti della collettività. È un fenomeno che non promette nulla di buono per il futuro, soprattutto per i giovani italiani. Secondo un’ampia ricerca condotta nel 2008 dalla Fondation pour l’Innovation 8. European Commission, Eurobarometer 69 - Public opinion in the European Union, June 2008. 9.
Tratto da «La Repubblica», 13 dicembre 2007.
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Politique su 200.000 ragazzi tra i 16 e i 29 anni, pensano di poter cambiare il destino del proprio Paese ben il 63% dei ragazzi americani, ma soltanto il 28% degli italiani10. E quasi il 40% dei nostri under 20 pensa addirittura che – almeno per qualche tempo – si possa fare a meno della Democrazia11. «La Nazione è una comunità politica, prima ancora che un’entità storica e culturale» ha affermato di recente il Presidente della Camera. «Oltre al senso di appartenenza, è necessaria la volontà di condividere un destino comune. Se questa volontà viene meno, la Nazione scompare: rimane solo il Paese» ha ammonito Gianfranco Fini, inquadrando in una visione più ampia e preoccupante il deficit di civismo italico12. Non è azzardato, a questo punto, pensare che la «volontà di condividere un destino comune» sia venuta meno. Se così fosse, la Politica in Italia avrebbe di fronte a sé oggi un nemico silenzioso e temibilissimo, di cui la recente ondata di antipolitica sarebbe solo un segnale marginale. Ma come siamo arrivati fino a questo baratro? L’analisi delle cause è troppo complessa per essere esaurita in due battute. Temo però che le radici della scomparsa dell’interesse collettivo e del senso civico, in Italia, debbano essere cercate nelle anomalie del rapporto Stato-cittadino. È un caso che – fin dall’inizio della Seconda Repubblica – tutte le campagne elettorali siano state giocate, vinte e perse sul terreno delle tasse? Prendiamo i dati dell’Agenzia delle Entrate, elaborati dal Centro Studi Confindustria13: per il contribuente onesto, ovve10. I dati dell’interessante indagine sono riportati e commentate sulla rivista on line «Job24», “Giovani e futuro. La vecchia Europa è blues, l’Oriente è rock”, 30 aprile 2008. 11. L’incredibile dato è contenuto nell’indagine Demos-La Repubblica del gennaio 2008. 12. “Italia: una nuova rinascita”, Intervista rilasciata da Gianfranco Fini alla rivista «Politique Internationale», luglio 2008. 13. I dati sono stati pubblicati dal «Sole 24 Ore» del 7 luglio 2008, p. 3.
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ro colui che paga interamente imposte e contributi, la pressione fiscale in Italia è pari al 51,8% del reddito. È questa la pressione fiscale effettiva – quella di cui nessun Governo è disposto a parlare – che risulta più alta di ben 8,5 punti rispetto al dato comunemente utilizzato, che non tiene conto dell’evasione fiscale e contributiva. «Il valore della pressione fiscale effettiva» osserva il csc «indica che una parte cospicua di italiani subisce un prelievo da Paese scandinavo, ricevendo in cambio servizi di qualità decisamente inferiore». Così è saltato in Italia il tacito “patto civico”, che da quasi otto secoli regola la convivenza in ogni Stato occidentale. Così, per induzione spontanea da un contesto fiscale poco credibile, è nato l’individualismo fiscale degli italiani. O se preferite, il chiagni e fotti nazionale. Ma la mancanza di senso civico è evidente in molti altri ambiti. E scava un abisso tra l’Italia e gli altri Paesi avanzati, a Ovest come a Est. «Sono stata a Kobe, in Giappone, per il G8 sull’ambiente» racconta il ministro Prestigiacomo. «Lì ho ammirato l’atteggiamento dei giapponesi. Hanno uno slogan che faccio mio, la regola delle tre R: riduci, riusa e ricicla. Secondo loro chi non si attiene a queste tre R deve avvertire un senso di vergogna perché, in qualche modo, ha fatto qualcosa contro l’ambiente». Quanto è distante l’Italia...
Le debolezze parallele: il riformismo senza riforme «L’Italia è sempre stato un Paese incompiuto: il Risorgimento incompleto, la Vittoria mutilata, la Resistenza tradita, la Costituzione inattuata, la Democrazia incompiuta. Il paradigma culturale dell’imperfezione genetica lega con un filo forte la storia dello sviluppo politico dell’Italia unita»: Francesco Cossiga dixit. Da epigoni potremmo aggiungere l’ultimo capitolo dell’incompiutezza italiana: il riformismo senza riforme. Negli anni ’70 e ’80 l’Italia era una delle economie più dinamiche del mondo avanzato: per crescita del pil e della pro55
duttività, per capacità d’innovazione, per mobilità sociale. Poi l’inversione a U: negli ultimi dieci anni il nostro Paese ha registrato la peggiore performance di sviluppo tra i Paesi industriali, con l’eccezione del Giappone. Mentre il resto del mondo viveva l’era di sviluppo economico più intensa della storia, il nostro pil è aumentato soltanto dell’1,5% medio annuo, il peggior risultato dal dopoguerra. Rispetto agli altri Paesi della zona euro – che pure è stata l’area meno dinamica del mondo – la nostra ricchezza ha perso lo 0,9% di crescita all’anno nel periodo 1997-2007. Ancor peggiore l’andamento del reddito pro capite: nel 1991 quello italiano era pari al 99% della media dell’Unione Europea, nel 2007 è sceso al 90,5%. Causando il contestatissimo (ma reale) “sorpasso” della Spagna nei confronti dell’Italia: carico di significati simbolici, tutti negativi per l’Italia. Oggi non c’è strategia politica, non c’è congiuntura economica, non c’è riforma che riesca ad aumentare gli investimenti diretti esteri in Italia, i più bassi tra i Paesi avanzati. Sembra un dato marginale, da maniaci di macro-economia. In realtà il livello degli ide è l’indicatore più chiaro del (mal) funzionamento di un Paese: l’Italia sconta inefficienza e pesantezza delle Pubbliche Amministrazioni, considerate stabilmente nelle indagini ad hoc il principale freno all’attrazione di investimenti stranieri, costo dell’energia nettamente superiore a quello degli altri Paesi europei, fisco oppressivo con trend di tassazione addirittura in crescita, pessimo funzionamento della giustizia con gravi difficoltà nella tutela dei diritti e nel recupero dei crediti, declino della dotazione infrastrutturale, capitale umano inadeguato, incapacità di risolvere il dualismo Sud-resto d’Italia e di far uscire il Mezzogiorno dal ruolo di area “Cenerentola” dell’Europa unita. Factbook 2008 dell’ocse. Fatti, non opinioni. Nessuna possibilità di “interpretare” e rileggere ideologicamente. Nessun appiglio per chi vuole contestare i dati. Nessuna possibilità di andare a caccia delle telecamere dei tg per dire che so56
no frutto di pregiudizi e di propaganda e di manipolazioni e di complotti e via cantando... Il rapporto – sostanzialmente ignorato dai media italiani – è una denuncia circostanziata del fallimento italiano: il nostro Paese cumula oggi, tra i 30 Paesi più avanzati, una serie impressionante di record negativi. Nel periodo 2001-2006, l’Italia è ultima nell’area Ocse per produttività del lavoro e per produttività generale: in questo caso, la responsabilità è attribuibile al tempo stesso al privato e al pubblico, a imprenditori e sindacati. Ma soprattutto, è ultima per crescita del pil pro capite e penultima per crescita del pil (nel periodo 19932006). Quart’ultima per investimenti nella conoscenza e per preparazione scientifica degli studenti, penultima per crescita delle rete autostradale (nel periodo 1993-2006). La scia negativa si completa con il primo posto nelle disparità regionali della disoccupazione e il secondo posto per numero di giovani inattivi. Tutto questo è il prodotto del riformismo italiano: un sistema di “debolezze parallele” delle due coalizioni che si alternano al potere, di inefficienze convergenti, di inadeguatezze cumulate. «La differenza tra un politico ed uno statista sta nel fatto che il politico pensa alle prossime elezioni, lo statista alle prossime generazioni» ripeteva spesso Alcide De Gasperi: evidentemente, dopo il leader democristiano, molti politici e nessuno statista si sono alternati al capezzale dell’Italia. Dando vita ad un genere politico nuovo: il riformismo senza riforme. Tanto sbandierato il primo – da sinistra a destra – quanto inattuate le seconde. «Nel sistema politico bloccato del dopoguerra, in cui non esisteva di fatto possibilità di alternanza» è l’analisi di Stefania Prestigiacomo «lo statista poteva guardare lontano senza occuparsi delle elezioni successive. Oggi lo statista che vuole programmare riforme radicali per il cambiamento di un Paese – aggiunge il Ministro dell’Ambiente – deve avere la capacità di mantenere il consenso, deve essere in grado di comunicare la portata del cam57
biamento e di creare attorno alle riforme una mobilitazione politica immediatamente spendibile. Ma le società europee stanno mostrando spesso di guardare all’oggi senza tener conto del progetto di prospettiva». «Quante persone, tra i cittadini, sono disposte a rinunciare ad una gallina oggi per avere l’uovo domani?» chiede provocatoriamente Beatrice Lorenzin. «Lo statista oggi dovrebbe essere una sorta di missionario, che fa un lavoro difficile e complesso, sapendo di poter perdere» secondo la deputata del Popolo delle Libertà. «Per troppi anni in Italia le grandi scelte sono state rimandate alla generazione successiva: si è governato semplicemente per gestire il consenso, ammazzando il merito» rileva la Lorenzin, convinta però che «oggi siamo arrivati ad un punto di non ritorno». «La Politica italiana corrisponde perfettamente alla società italiana: un Paese bloccato che non riesce a rinnovarsi e che non vuole rinnovarsi, con una classe dirigente immarcescibile» accusa Linda Lanzillotta «a causa di un meccanismo elettorale, che non premia chi porta avanti una politica riformista e che appare esso stesso immodificabile. Le riforme che incidono sull’assetto della politica hanno ostacoli sordi, profondi e insuperabili». Secondo l’esponente di spicco del pd «in Italia sarebbe impensabile ciò che ha fatto Sarkozy: durante la conferenza stampa comune con Barack Obama, in occasione della missione in Francia del leader americano, Sarkozy ha annunciato di aver fatto inserire nel progetto di riforma costituzionale del comitato Balladur il limite a due mandati presidenziali, contenuto nella Costituzione americana». «Se un Governo si concentrasse soltanto sui programmi di lungo periodo, dall’ambiente al debito pubblico, il Paese nel frattempo decadrebbe» rileva Marianna Madìa con visione da ricercatrice dell’Arel. «È aumentato il carattere emergenziale dei problemi sociali ed economici. Servono da parte dei decisori politici anche scelte con effetti immediati. Alla gente che vive il dramma del precariato e dell’incertezza del fine mese le battaglie 58
a favore dell’ambiente o per la riduzione del debito pubblico, pur necessarie, non possono arrivare». La paura dell’impopolarità da riforme è un fantasma che si aggira per l’Europa intera. «Noi politici sappiamo tutti cosa fare, ma non sappiamo come farci rieleggere una volta fatto quello che è necessario fare» ha dichiarato qualche tempo fa JeanClaude Junker, primo ministro del Lussemburgo ed ex presidente dell’Eurogruppo, uno dei più influenti policy-maker europei. È una paura che si fonda sull’esperienza empirica: le riforme strutturali – dalle liberalizzazioni all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro alla riforma del welfare – innescano inesorabilmente una forte opposizione da parte di rumorosi gruppi d’interesse, mentre i benefici che ne derivano sono più diffusi e più diluiti nel tempo. Ma l’elettorato punisce davvero i governi che attuano riforme incisive? Un’indagine condotta su 21 Paesi dell’ocse, relativa al periodo tra il 1985 e il 2004, dimostra che più del 50% dei Governi sono rieletti per il mandato successivo a prescindere dall’aver portato avanti riforme o meno. Sul piano statistico, la ricerca dimostra che la probabilità di rielezione di un Governo non è influenzata dall’aver approvato o meno riforme strutturali. L’unico fattore rilevante sembra essere il ciclo economico: in tempi di forte crescita, la probabilità di rielezione del Governo in carica aumenta fortemente14. «Una nave in porto è al sicuro, ma non è per questo che le navi sono state costruite» diceva Benazir Bhutto. Dopo 15 anni di non scelte, la debolezza del riformismo italiano ha qualcosa di patologico. Colpisce, per esempio, la sua mancanza di identità e di riconoscibilità positiva. Quando Anthony Giddens, padre della “Terza Via” e politologo progressista tra i più 14. Molto interessante in questa direzione l’analisi di p. biroli, m. buti e a. turrini, contenuta in “Come fare le riforme ed essere rieletti”, «Lavoce.info», 31 luglio 2008.
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autorevoli del mondo occidentale, stila un elenco dei punti di forza che nei prossimi anni l’Europa dovrà “copiare” da ciascuno degli Stati membri per «reggere la concorrenza con il resto del mondo», indica la Germania per la produttività industriale e la Francia per il livello dei servizi sanitari. E l’Italia? Solo per la cucina (e unendo il danno alla beffa, suggerisce di annaffiarla con vino ungherese)15. Ma prima di proporre Gianfranco Vissani come nuovo leader del Partito Democratico, forse è opportuno un supplemento d’indagine sul riformismo italiano. Con un punto di caduta imprevedibile: l’analisi di Giddens sull’Italia è così pessimistica, da ipotizzare l’uscita del nostro Paese dalla moneta unica europea... Francia e Germania, e per alcuni aspetti anche la Gran Bretagna, hanno dovuto affrontare negli ultimi vent’anni un’agenda politica e una condizione sociale molto simile a quella italiana. Cosa ha fatto la differenza? «La società italiana è tranquillizzata dalla conservazione. Chi prova a realizzare riforme coraggiose viene marginalizzato e messo a tacere» si sfoga Linda Lanzillotta, che nella difficile congerie del secondo Governo Prodi ha “osato” portare avanti una coraggiosa liberalizzazione dei servizi pubblici locali – l’ultimo baluardo dei monopoli pubblici – scontrandosi con le invalicabili resistenze della sinistra massimalista. «La vicenda della mancata liberalizzazione dei servizi locali ha un grande valore simbolico» conferma Emma Bonino. «Il veto è stato trasversale in nome del radicamento sul territorio, che nasconde in realtà – accusa la Bonino – l’occupazione della vita economica e sociale del Paese da parte di tutti i partiti. La pratica della partitocrazia in Italia ha reso centrodestra e centrosinistra molto simili, creando una specie di mono-partitismo imperfetto. In tutto ciò il merito serve solo per i convegni del sabato e della domenica. Dal lunedì al venerdì c’è di meglio da fare». 15. a. giddens, L’Europa nell’età globale, Laterza, Bari-Roma 2007.
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«In Italia la Politica, più che in altri Paesi, tende a guardare solo ciò che porta consensi in tempi brevi» conferma Giorgia Meloni, che cita due esempi clamorosi. «La politica estera è il caso più evidente – racconta il Ministro più giovane della nostra storia – perché in quasi tutte le democrazie avanzate i Governi di colore diverso, che si alternano alla guida del Paese, ne garantiscono la continuità. In Italia non è così». «Lo stesso vale per le politiche per la natalità – aggiunge la Meloni – La più grande emergenza per l’Italia, oggi, è quella demografica. Continuando con questi tassi di natalità, nel lungo termine noi italiani siamo destinati a scomparire. Sono convinta che l’Italia debba rivoluzionare la sua legislazione in materia: ho presentato nella scorsa legislatura una proposta completa, basata su incentivi alla natalità, quoziente familiare, investimenti sugli asili nido, riforma dei congedi parentali. A parole sono tutti d’accordo, ma costa 2 miliardi e mezzo l’anno. E così – conclude amaramente la leader conservatrice – finora non è mai stata considerata una priorità, neanche nella prima Finanziaria del Governo Berlusconi». Ogni iniziativa politica, inoltre, è soggetta al terribile giogo della delegittimazione reciproca che si infliggono – vicendevolmente e senza tregua – centrodestra e centrosinistra. «Il centrosinistra ha avuto come unico collante, sia all’opposizione che al governo, l’anti-berlusconismo» rileva Gabriella Giammanco. «Penso invece che l’avversario debba essere considerato non un nemico da abbattere, ma come qualcuno che coltiva un pensiero e soluzioni diverse» è la visione post-ideologica della giovane deputata del Popolo delle Libertà. «Nella passata esperienza di Governo da Ministro per le Pari Opportunità» racconta Stefania Prestigiacomo «riuscii ad ottenere la creazione di un fondo per finanziare la creazione di asili nido nei posti di lavoro: l’iniziativa ottenne grandi consensi, perché si muoveva nella direzione di facilitare la vita dei genitori e di offrire un servizio moderno alle famiglie. Ebbene, la sinistra la contestò duramente dicendo che era penalizzante per le donne, perché le costringeva a lavorare di più avendo i figli accanto! Contro quella norma si 61
mobilitarono le Regioni governate dalla sinistra, che fecero ricorso affermando che gli asili nido erano di competenza esclusiva delle Regioni. Morale: dopo il primo anno quel fondo venne abolito e con esso la possibilità di realizzare asili nei posti di lavoro a condizioni vantaggiose». Le contraddizioni del sistema istituzionale, elettorale e politico italiano rendono meno efficiente la risposta della Politica e più forti i veto players in Italia, certo. Ma è difficile, a questo punto, negare l’esistenza di una differenza “antropologica”. Abituati all’emergenza, non riusciamo a cogliere il senso e l’urgenza della crisi. Gli allarmi delle istituzioni internazionali vengono regolarmente classificati come “propaganda politica”, frutto di non meglio precisate “quarte sponde” estere del centrosinistra o del centrodestra italiano. I moniti dell’Europa vengono re-interpretati in chiave creativa. Tutto è urgente e tutto non lo è, tutto e il contrario di tutto può essere sostenuto pubblicamente. Senza alcun contraddittorio formato e informato. In questo modo abbiamo perso, in Italia, due elementi fondamentali delle società avanzate. La prima è un’opinione pubblica consapevole: un’élite adeguatamente informata, intellettualmente libera, con possibilità di “sbocco” sui media e sufficiente forza di opinion making. La seconda è una reale capacità di agenda setting: selezionare le priorità, concentrare l’attenzione politica e le risorse economiche sulle priorità individuate, costruire il consenso sociale per realizzarle. «Governare è sempre scegliere tra svantaggi» diceva Charles de Gaulle. Ma come nelle barzellette degli anni ’80, noi italiani siamo i più furbi: perché, semplicemente, non scegliamo.
Il governo dei ragionieri, il riformismo impalpabile, l’elitismo: dieci anni d’opposizione per il centrosinistra? Autunno 2007. Nelle stanze del Ministero dell’Economia si preparano affannosamente i testi della Finanziaria 2008, l’ul62
tima del centrosinistra. Il Sottosegretario incaricato di coordinare i lavori discute con i parlamentari della maggioranza le norme principali della manovra. «Su questo emendamento dobbiamo fare un ragionamento politico» dice uno dei parlamentari presenti. «Allora esco dalla stanza» risponde il Sottosegretario. Nell’incredulità generale. Piccolo aneddoto, simbolo di un grande fallimento politico. Quello del “governo dei ragionieri”: tecnici di valore – molto stimati nei loro ambiti professionali – ai quali un bel giorno la coalizione di centrosinistra chiede improvvisamente di cambiar mestiere e di “fare politica”, al posto dei politici. E non una politica qualsiasi: gestire l’intera strategia economica del Governo. «Sembra difficile riuscire a scalfire le basi di massa della destra – ha lucidamente ammesso Massimo D’Alema, qualche mese dopo la sconfitta elettorale del 2008 – con un riformismo tecnocratico, che è apparso lontano dalla realtà sociale del Paese e figlio di quel minoritarismo illuministico che ha rappresentato a lungo un limite storico dei riformatori italiani»16. «Non ho mai creduto nei tecnici, perché la politica senza visione è nulla, è solo gestione del quotidiano» sostiene, dall’altra parte della barricata, Giorgia Meloni. «Del fallimento del governo Prodi mi ha colpito l’uso della burocrazia come elemento di freno allo sviluppo» dice Stefania Prestigiacomo, che rivela: «Al Ministero dell’Ambiente ho trovato un pesantissimo arretrato che definirei scandaloso per un Paese che ha bisogno di infrastrutture e di ammodernare il proprio sistema produttivo. L’inattività della Commissione di Valutazione di Impatto Ambientale ha paralizzato la realizzazione di opere fondamentali per lo sviluppo dell’Italia: sono ben 159 le pratiche che ho trovato ferme e che attendono la valutazione. Alcune sono in lista di attesa da tre anni». 16. “Basta con il riformismo tecnocratico”, Intervista a Massimo D’Alema, «Il Riformista», 8 maggio 2008.
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Ma lasciamo spazio alle intriganti ricostruzioni live delle protagoniste del “governo dei ragionieri”. «È stato un grande errore di Romano Prodi voler affidare tutta la linea di politica economica a tecnici» è la ricostruzione senza remore di una protagonista diretta di quel Governo, Linda Lanzillotta «perché esercitando quel livello di responsabilità, si compiono scelte politiche a tutto tondo. E, non a caso, le uscite pubbliche del Ministro Padoa Schioppa non portavano consenso». «Sono convinta che il Ministro dell’Economia debba essere un politico – continua l’ex Ministro agli Affari Regionali – Mi ha colpito un “fuorionda” della visita di Obama in Gran Bretagna, in cui Cameron diceva al leader dei Democrats: abbiamo molti tecnici che ci portano soluzioni,ma un uomo politico deve avere visione e tranquillità per saper scegliere la soluzione giusta tra le varie opzioni tecniche». «Ho condiviso le scelte di Padoa Schioppa – afferma un’altra protagonista di quel Governo, l’ex Ministro per le Politiche Comunitarie e il Commercio Estero Emma Bonino – ma avremmo dovuto avere una maggiore forza di comunicazione: comunicavano solo i dissenzienti. In questo modo siamo diventati protagonisti di un riformismo lento e cacofonico: in Consiglio dei Ministri la discussione era serena, ma mentre i Consigli erano ancora in corso le agenzie di stampa già davano notizia di discussioni roboanti tra di noi». Le due ex ministre ricostruiscono con amarezza le battaglie perdute in nome del riformismo, a causa della rissosa eterogeneità dell’ultima maggioranza di centrosinistra. «Le mie riforme avevano il consenso dell’opinione pubblica, non avevano il consenso dei politici» confessa Linda Lanzillotta. Il suo disegno di liberalizzazione dei servizi pubblici locali è stato al centro di un “paradosso riformista”: affossato dalla sinistra massimalista, è stato elogiato e sostenuto pubblicamente più dal centrodestra che dalla sua stessa coalizione. «In realtà – spiega l’esponente del Partito Democratico – sono stati tutti d’accordo dopo la santificazione post mortem (lo scioglimento delle Camere, N.d.R.). Io ho sempre vissuto l’appoggio di parti del 64
centrodestra alla riforma dei servizi pubblici locali come una finzione: prova ne è la riforma della materia presentata dall’attuale maggioranza. L’emendamento firmato dalla Lega, e approvato da tutto il centrodestra, è vergognoso». In questo contesto, Emma Bonino ricorda invece di aver «perso la battaglia sulla riforma della giustizia: provengo dal partito di Enzo Tortora e delle iniziative a favore della responsabilità civile dei magistrati, come potevo accettare la riforma Mastella? Per me è stato uno dei momenti più difficili. L’Italia ha 9 milioni di processi pendenti – circa uno per ogni famiglia italiana – che durano in media 10 anni. E mentre i problemi della giustizia sono rimasti tutti sul tappeto, oggi abbiamo aggiunto persino la stravaganza del lodo Alfano». «La sopravvivenza quotidiana del Governo Prodi – aggiunge Linda Lanzillotta – è prevalsa sulla possibilità di spiegare direttamente al Paese le riforme che non piacevano alla sinistra conservatrice. L’emergenza dei rifiuti in Campania, per esempio, è stata avviata a soluzione dal Governo Berlusconi mettendo in atto il piano che era stato già elaborato da Bertolaso su incarico del nostro Governo, ma che noi non abbiamo potuto realizzare a causa dell’opposizione di Pecoraro Scanio. Tra Bertolaso e Pecoraro – chiosa l’ex ministro – io avrei scelto Bertolaso: anche a costo di affrontare una crisi di governo, avrei spiegato al Paese le ragioni di una scelta riformista». Il governo dei ragionieri ha però centrato il suo obiettivo di fondo, secondo l’esponente radicale. «In due anni abbiamo chiuso un’infrazione europea sui conti pubblici: abbiamo fatto una politica impopolare nella forma, per evitare di essere antipopolari nella sostanza» afferma Emma Bonino, che aggiunge sarcastica: «il primo dpef del Governo Berlusconi potrebbe averlo scritto il Governo Prodi, perché in quel documento si fanno più omaggi alle politiche di Padoa Schioppa e di Visco di quanti ne abbia mai fatti il centrosinistra [...]». «Riformismo vuol dire anche essere rigidissimi sul rispetto delle regole, come è stato Visco – aggiunge Alessia Mosca – solo 65
quando tutti rispettano le medesime regole, si possono dare opportunità uguali per tutti. A conti fatti, il Governo Prodi non è stato il governo delle tasse rispetto agli altri governi. Ha avuto, piuttosto, la presunzione di poter reggere 5 anni, varando provvedimenti coraggiosi nonostante una maggioranza molto esigua». In linea con le riflessioni di Emma Bonino, che osserva: «Non ho mai visto nel mondo un governo che va ad elezioni dopo 20 mesi e le vince, soprattutto se in fase di crescita debole e con conti pubblici dissestati. Ci siamo suicidati da soli». Ma dopo le delusioni del Prodi bis, che sembra aver cancellato dalla memoria degli elettori (e dal suo stesso dna) le apprezzabili performances di governo della seconda metà degli anni ’90, cosa rimane oggi del centrosinistra in Italia? A guardare i sondaggi, un cumulo di macerie. «Non credo che oggi la sinistra sia in grado di proporre un riformismo moderno» afferma Stefania Prestigiacomo «prova ne è la sua perdita di contatto con i bisogni profondi del Paese, perfino nel suo elettorato di riferimento. La vittoria del pdl alle ultime elezioni nelle zone a forte concentrazione operaia è la prova di questo scollamento. Da sinistra vengono proposte battaglie di retroguardia: penso soprattutto alla controriforma delle pensioni e alle difese ad oltranza delle rigidità del sistema del lavoro». «Credo che il sistema culturale della sinistra italiana – conclude provocatoriamente il Ministro – oggi sia sostanzialmente conservatore e non riformista». «La sinistra ha esaurito la sua spinta vitale» come scrive Giulio Tremonti17, «perché ha perso l’essenza della sua politica sociale, la spesa pubblica fatta a debito [...] e perché la base fondamentale della sinistra è culturalmente ermafrodita»? Patologie anatomico-sessuali a parte, è evidente il venir meno della funzione storica del centrosinistra in una società atomizzata, in cui è molto difficile rintracciare i blocchi sociali del mondo del lavoro – su cui si era fondata la sua forza nel Novecento – e 17. g. tremonti, op. cit.
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nella quale l’anelito alla libertà e alla felicità individuale sembra prevalere su tutto. Il passaggio del testimone da Prodi a Veltroni nasceva dall’idea che ci fosse un clamoroso deficit di comunicazione, di immagine e di leadership da colmare. Ma la netta vittoria del Popolo delle Libertà e il continuo rinnovarsi della sua “luna di miele” con l’elettorato hanno spazzato via quella che si è rivelata, in fondo, solo una pia illusione. Il “male oscuro” del centrosinistra italiano è molto più profondo e inquietante. Oggi sembrano essersi dissolte nell’area progressista le “antenne” che da sempre – seppur con modalità molto diverse nella varie fasi storiche – hanno consentito ai partiti di massa di interpretare pezzi di società e di incanalare e sintetizzare i loro bisogni in una visione più ampia del futuro del Paese. «Come Partito Democratico ci siamo allontanati troppo dal territorio» ammette Alessia Mosca, eletta in un’area di frontiera per il centrosinistra come la Lombardia, «perché troppi politici hanno voluto fare gli statisti senza averne le caratteristiche. Per questo abbiamo perso. E ancor oggi tutta la discussione nel nuovo partito è legata al tesseramento e ai vecchi strumenti, allo scheletro del passato». Durante la campagna elettorale non è bastata l’attraente confezione del Partito Democratico, evocativo della grande esperienza riformista dei liberal americani, per conquistare gli elettori. Mancava il prodotto politico. Al di là dei claim elettorali, è emersa un’incapacità quasi “genetica” nell’interpretare i nuovi bisogni dell’Italia globalizzata, una ripetuta incoerenza nel tempo sui temi-chiave dell’agenda, una mancanza di flessibilità ideologica nella definizione di soluzioni politiche “pragmatiche”, un’estrema difficoltà nel comunicare i propri valori di fondo. Gli italiani chiedevano e chiedono “sicurezze”: non le hanno trovate, non le trovano nel pd. Che sembra aver iniziato una “traversata nel deserto” dell’opposizione lunga almeno dieci anni. «Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare» declamava Seneca. Tradotto nella congerie politica 67
del Duemila: non c’è spin doctor, non c’è esperto di immagine che tenga senza una solida visione politica. La campagna elettorale del 2008 offre, in questo senso, innumerevoli spunti di riflessione. Uno per tutti: la proposta di Veltroni del “salario minimo legale” di 1000 euro al mese per i precari. Proposta-choc per catturare i consensi dei giovani italiani? Sarebbe meglio dire, forse, boutade neo-assistenziale senza copertura, né economica né politica. «Ero contraria alla proposta del salario minimo» confessa a sorpresa Alessia Mosca, all’epoca responsabile lavoro del Partito Democratico. «Durante la campagna elettorale cercavo di non parlarne, perché credo non sia una proposta riformista – denuncia l’esponente della nouvelle vague democratica – ma un provvedimento di facciata, che aiuta poco o nulla i precari e non favorisce lo sviluppo del mercato del lavoro. Non è flessibilità, non è sicurezza. Oggi qualcuno vorrebbe ri-presentarla come disegno di legge al Senato, come provvedimento-bandiera del partito: io sono contrarissima» annuncia la giovane e determinata deputata, che da tempo analizza le dinamiche del mercato del lavoro. Curiosa la genesi della contestata proposta. Lanciata da Veltroni nel forcing dialettico di un Porta a Porta elettorale, sulle ali dell’entusiasmo di una presunta rimonta. Buttata lì a sorpresa, d’istinto, per vedere l’effetto che fa. A tal punto da spiazzare non solo i compagni di partito, ma gli stessi guru del programma elettorale del pd, costretti a costruire – nelle ore successive al programma – una “toppa” per argomentare, sostanziare, rendere credibile la proposta. Che rimane incredibile, però. Dal mistero della copertura di spesa di una misura che dovrebbe valere la bellezza di 50 miliardi di euro, all’evidente lesione dell’autonomia del mercato e delle parti sociali. Su un piano più “filosofico”, la proposta dice addio al merito: tutti uguali i giovani italiani, a prescindere da capacità competenze impegno. E arrivederci (a tempi migliori) alla spinta innovativa sul mercato del lavoro che fu portata in Italia dal primo governo di centrosinistra, con il pacchetto Treu. 68
Ma il tema del precariato non è un’eccezione nella “via crucis riformista” del Partito Democratico. «Le forze riformiste in entrambi gli schieramenti sono ancor oggi minoritarie»: né è fortemente convinta Linda Lanzillotta, che si sente «molto più rivoluzionaria rispetto alla nostra sinistra conservatrice e corporativa, quella di Pecoraro o di Giordano, che è sempre stata dalla parte sbagliata sul tema del rapporto tra produzione e ambiente». Ma non basta. «Nel centrosinistra – confessa il “ministro ombra” per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione del pd – abbiamo approcci conservatori anche sulle politiche della giustizia, che tendono a difendere solo la piccola casta dei magistrati, sulle politiche fiscali che risentono ancora di una visione vecchia del profitto, sull’introduzione di criteri meritocratici nella scuola, nell’università, nella ricerca. La nuova visione del Partito Democratico, che Veltroni ha presentato al Lingotto di Torino, ha bisogno di tempo perché diventi patrimonio di tutto il centrosinistra». I dilemmi e i travagli del riformismo di centrosinistra sono ben visibili anche dall’altra parte del fiume. «Il centrodestra fa le riforme, il centrosinistra si limita a scriverle – afferma Beatrice Lorenzin – Non riesce a tradurre in pratica le riforme frutto delle visioni più avanzate, perché sono sempre state ingabbiate dalle logiche del consenso che premiano i non riformisti. Paradossalmente i riformisti di centrosinistra si troverebbero molto bene nel governo di centrodestra». «Basta con l’antiberlusconismo e con i salotti, il Partito democratico deve diventare nazional-popolare. Dobbiamo essere meno intellettuali e farci capire di più dalla gente. Dovremmo prendere un Pippo Baudo come portavoce»18 è l’invocazione di Enrico Letta per superare la “minorità” dei riformisti di centrosinistra nella loro stessa coalizione e nel Paese. Ma se oggi mancano le due C della Politica – contenuti e comunicazione – lo scenario dei progressisti in Italia nei pros18. “Basta anti-berlusconismo e salotti, il pd diventi nazional-popolare”, Intervista ad Enrico Letta, «Il Messaggero», 9 agosto 2008.
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simi anni si fa cupo. «La mia paura è che torni una specie di bipartitismo imperfetto» ha confessato di recente Massimo D’Alema «con una forza riformista che non trova più la via del governo. Come era negli anni ’80, con la dc che comandava e il pci che restava fuori. Alle elezioni di aprile il pd ha subito una sconfitta consistente, raccogliendo 3 milioni e mezzo di voti meno della destra. Il rischio che vedo è che il pd diventi una minoranza strutturale»19. In questo scenario Walter Veltroni rischia di ripercorrere le orme di Francesco ii di Borbone, “Re Franceschiello”, l’ultimo sovrano del Regno delle Due Sicilie. Salito al trono molto giovane rispetto ai suoi avi, ma in una situazione estremamente difficile, dovette assistere impotente – dopo pochi mesi – alla disgregazione del suo Regno. Cercò di salvarlo, ma fu costretto alla resa. Insieme ai vessilli e alle illusioni della sua gente.
La mutazione di Silvio Berlusconi, alias Napoleone iii 1852, Francia del Secondo Impero. The Illustrated London News racconta l’irresistibile ascesa al soglio imperiale di Napoleone iii: «Il suo successo è il grande prodigio dell’attuale mondo politico [...] Se la Francia può essere tenuta tranquilla con gli show, lo show alla fine può essere più utile del Parlamento. Un impero teatrale in Francia sarà un divertente spettacolo per il resto d’Europa, ammesso che i francesi siano soddisfatti della rappresentazione di un Imperatore che cerca popolarità e potere solo in vittorie pirotecniche». Napoleone iii fu bersaglio di ferocissime critiche durante il suo Impero: il nomignolo “Napoleon le petit”, titolo di un sarcastico pamphlet a lui dedicato da Victor Hugo, le riassume meglio d’ogni altra. Sarà ricordato dai posteri soltanto per 19. “La sinistra italiana era originale, ora è tornata nella normalità”, Intervista a Massimo D’Alema, «Liberazione», 30 luglio 2008.
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la tragica fine del suo Impero, su cui sorgerà la terza Repubblica Francese, per il governo autocratico e personalistico, per la politica demagogica di “nazionalizzazione delle masse” attraverso il ricorso sistematico al plebiscito. Fu il grande anticipatore della politica leaderistica di fine Novecento, potremmo dire con il senno di poi. Ma il secondo Imperatore di Francia non fu soltanto un campione di populismo: costruì quella Parigi dei boulevards che oggi attira milioni di turisti da ogni angolo del mondo, realizzò la rete ferroviaria francese, favorì la modernizzazione degli istituti di credito e negoziò una serie di trattati commerciali che stimolarono lo sviluppo dell’industria nazionale, riportò la Francia al rango di prima potenza militare d’Europa. La storia, in fondo, si ripete. Sempre diversa da se stessa, ci mostra spesso forme nuove dal cuore antico. Si diverte a seguire strade già battute, a tracciare parabole consonanti, unendo idealmente tempi, luoghi, personaggi incredibilmente distanti. «Mi piace molto l’evoluzione di Silvio Berlusconi» dice Gabriella Giammanco «ieri leader della politica-spettacolo, oggi politico maturo che prende le distanze da quella politica e offre soluzioni ai problemi del Paese. La gente non vuole il teatrino della politica, non cerca più le frasi ad effetto: attende fatti, sostanza, soluzioni concrete. Questa trasformazione è legata alla mutazione del sentiment popolare, che il Presidente del Consiglio intercetta meglio di ogni altro». Nell’era delle incertezze, una società spaventata cerca sicurezza. «Il compito di far fronte alle paure derivanti dalle nuove incertezze – ha lucidamente scritto Zygmunt Bauman – è stato, come le paure medesime, deregolamentato e sussidiarizzato, trasferito in gran parte alla sfera della politica della vita, cioè lasciato nel suo complesso alla cura, all’ingegno e all’astuzia degli individui e ai mercati»20. Nasce qui il trend di fondo della do20. z. bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza, Roma-Bari 2007.
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manda di Politica nei Paesi occidentali: la richiesta di Governi forti, di soluzioni chiare e rassicuranti alle paure di una società ricca e più incline alla rendita che al rischio, la voglia di semplificazione e di decisionismo politico. È una domanda di “destra”, secondo le categorie politiche più tradizionali: ne dovranno tenere conto, paradossalmente, soprattutto i leader riformisti e progressisti del mondo avanzato, se vorranno tentare la conquista del potere nei prossimi anni. «Riformismo senza decidere o operando compromessi al ribasso, questo è stato il problema del centrosinistra italiano al governo: emergenza-rifiuti, decreto-sicurezza, Dico... solo per citarne alcuni» ammette Marianna Madìa. «Oggi, al contrario, il Governo Berlusconi sta mostrando di ricevere grande consenso, più che nel merito, per il solo fatto di decidere rapidamente». Oggi gli italiani sembrano aver concesso una “delega in bianco”. I sondaggi più raffinati dimostrano che – forse per la prima volta – nelle elezioni del 2008 non hanno scelto un orientamento politico o un programma di coalizione, ma il profilo di un leader. Hanno scelto tra due volti, due storie personali, due modi di rassicurare e guidare. «Berlusconi è un uomo del fare per cultura e storia personale ed è un grande comunicatore, capace di appassionare e di coinvolgere» è il ritratto da vicino di Stefania Prestigiacomo «Il suo carisma, la sua leadership inducono i suoi detrattori a dipingerlo come l’uomo solo al comando. Il Presidente è convinto che la Politica sia anche la forza di decidere, perché questo chiedono gli elettori a chi è votato per guidare il Paese – afferma il Ministro dell’Ambiente – ma è anche una persona capace di ascolto e di mediazione, disposto a cambiare idea se riconosce che il suo interlocutore ha ragioni valide». «Berlusconi è un leader carismatico, capace di sviluppare un’identificazione fisica tra lui ed il suo elettorato – aggiunge Beatrice Lorenzin – Non puoi cercare di decifrare l’alchimia da cui nasce l’appeal di Berlusconi sulla base delle categorie tradizionali. In un Paese in cui nessuno prende le decisioni, perché le delega a chi verrà dopo o al vicino di stanza, lui decide». 72
«Berlusconi non è l’uomo solo al comando, ma è il solo a comandare e a decidere. Oggi è accettato come il padrone assoluto della coalizione, ancor più che nella precedente esperienza di governo» ribatte Linda Lanzillotta, perché «dentro il suo partito nessuno ha autonomia politica, neanche Tremonti. Il Ministro dell’Economia ha una sua forza solo perché rappresenta il garante delle istanze leghiste: ma se non sarà capace di onorare le promesse sul federalismo fiscale, cadrà in grossa difficoltà» prevede l’esponente liberal del Partito Democratico. «Il riformismo di Berlusconi e del suo Governo, inaugurato in questa legislatura, non è né di destra né di sinistra, perché è largamente condiviso dai cittadini» dice Gabriella Giammanco. «Il nostro progetto punta ad un’Italia più semplice, più veloce, capace di scommettere sulle sue eccellenze inimitabili, di valorizzare le proprie inestimabili risorse – spiega Stefania Prestigiacomo, pensando all’Italia disegnata dal programma del Popolo delle Libertà – Un’Italia capace di competere in Europa con meccanismi socio-economici in linea con quelli dei nostri concorrenti. Un’Italia che sappia essere solidale ma che non sia assistenziale. Un’Italia con un pubblico più leggero, che non pesi come un macigno sui contribuenti e sia in grado di offrire servizi efficienti». «Il centrodestra non ha mai perseguito una politica di vero riformismo» attacca Alessia Mosca «lo dimostra l’esperienza dei 5 anni del primo governo Berlusconi: nessuna corporazione è stata scalfita, nessuna forma di immobilismo è stata eliminata, nessuna redistribuzione di poteri è stata tentata tra le categorie». Al di là dell’immortale bagarre centrodestra-centrosinistra, il Berlusconi “uomo del fare” sembra aver fatto sua, anzitutto, la filosofia pragmatica e post-ideologica che anima il rapporto tra elettori ed eletti negli Stati Uniti. «Si fanno le campagne elettorali con la poesia, ma si governa con la prosa»: parola di Hillary Clinton.
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Elezioni 2008: il “tradimento inverso” di giovani e donne Soltanto quattro su ventuno ministri. Le donne nel Governo Berlusconi sono di meno che nella legislatura precedente – circa il 19% contro il 23% del Governo Prodi – e sono meno presenti nei Ministeri che contano. Risultato davvero sorprendente, dopo una campagna elettorale combattuta proprio sul terreno del rinnovamento della Politica italiana, troppo vecchia e maschilista rispetto al resto dell’Occidente avanzato. Ancor più sorprendente, dopo almeno 15 anni di invocazioni quasi ossessive – da Mani Pulite, dal crollo della Prima Repubblica in poi – del mantra di ogni palingenesi politica: più giovani e più donne in politica, nei posti chiave, a comandar piuttosto che a subire. Si è già arrestata l’onda lunga delle battaglie a favore dei “giacimenti nascosti” della Politica e della società italiana? A ben guardare, sul palco della campagna elettorale 2008 è andato in scena uno spettacolo nuovo: il “tradimento inverso” dei giovani e delle donne. Per la prima volta sono stati incredibilmente sovraesposti, sul piano dell’immagine: collocati ai vertici delle liste bloccate dell’orrendo proporzionalismo all’italiana, lanciati in talk show e interviste e comizi come modelli della nuova Italia. In realtà, troppo spesso esposti come bandiere di fronte ad un vento artificiale, che non ha rinnovato vertici e costumi della Politica italiana. «Penso che la mia generazione – rivela Marianna Madìa – non abbia bisogno di simboli e neanche di una rappresentanza puramente generazionale. Credo nella collaborazione tra le generazioni per risolvere problemi comuni, con un’idea di futuro che ci riguarda tutti». «Oggi al Governo abbiamo 5 ministri sotto i 40 anni: è la prima volta che succede in Italia, è un fatto epocale. E 4 su 5 di loro provengono dai movimenti giovanili dei partiti» è la rivendicazione orgogliosa di Beatrice Lorenzin, ex leader dei giovani azzurri, che distingue nettamente il “destino” delle due categorie-Panda della Politica italiana. Intanto abbiamo più gio74
ventù al potere, per le donne si vedrà. Ma può il rinnovamento anagrafico cancellare le rivendicazioni di genere? È la stessa Lorenzin a considerare aperta, e molto critica, la questione femminile: «prima delle ultime elezioni politiche c’è stato un dibattito intenso in Forza Italia, durato almeno due anni, sull’applicazione delle quote femminili e giovanili» svela l’esponente azzurra. «Io sono stata trattata benissimo, il ragionamento non riguarda me – chiarisce subito – ma considero un grave errore non aver applicato le quote rosa e verdi nelle liste per le elezioni politiche: a livello giovanile sono state dilapidate molte energie ed è diminuita la rappresentanza femminile. È stata tradita da Forza Italia, paradossalmente, la grande battaglia di Stefania Prestigiacomo a favore delle pari opportunità per le donne in Politica». «In Italia le donne in politica sono quello che sono nella società» secondo Linda Lanzillotta, che ha sempre puntato sulle battaglie di merito più che di genere «come Partito Democratico abbiamo dato un messaggio positivo sull’importanza delle donne: scegliendo di destinare loro il 50% delle candidature, abbiamo aumentato la rappresentanza femminile in Parlamento in modo significativo. Ma anche da noi il peso politico delle donne rimane molto relativo». «Nelle riunioni dell’assemblea del partito – racconta l’esponente di punta del Partito Democratico – gli interventi di donne non superano il 2%, contro il 50% delle presenze femminili in platea. Da ciò emerge che le donne hanno anche un problema di auto-stima e di auto-legittimazione, rispetto all’assunzione di un ruolo politico». «Mi piacerebbe poter pensare ad un Paese dove non è più necessario un Ministro per le Pari Opportunità» è la provocazione di Marianna Madìa. «Non credo neanche nella politica di categoria. Da quando sono stata – continua il ragionamento della deputata del pd – eletta non faccio che ricevere inviti da donne che parlano di donne, oppure da giovani che parlano di giovani, addirittura divisi per fasce d’età: ventenni che vogliono uccidere i trentenni, trentenni che vogliono uccidere i quarantenni e così via. In que75
sto modo non progettiamo il futuro dell’Italia, ma uno sterminio di massa. In realtà questo fare politica per categorie, come ha dimostrato la sconfitta della sinistra radicale, non raccoglie più il consenso dei cittadini e non risolve i problemi nella loro complessità». Di segno diverso, e particolarmente interessante sul piano culturale, l’esperienza di Alessia Mosca: «ho fatto e faccio tanto gioco di squadra con le donne. Le due persone che hanno cambiato la mia vita e che mi hanno fatto appassionare alla Politica sono due donne, perché il loro modo di far politica è fare squadra. Oggi, se devo fare un nome per una candidatura in un Consiglio Comunale, preferisco sia quello di una donna. Di recente ho promosso un corso di formazione a Monza che si chiamava 50 per 100: era dedicato a 50 donne che non avevano mai fatto politica. Dopo quell’esperienza, quasi tutte si sono impegnate in politica: nel giro di un anno, una di loro è diventata consigliere comunale, un’altra è entrata nell’esecutivo provinciale del Partito Democratico, un’altra nell’esecutivo regionale, un’altra ancora è diventata assessore comunale». Ma a livello di sistema, come si può uscire da questa condizione di inferiorità delle donne nella Politica italiana? «Partendo dal basso – risponde Linda Lanzillotta – Non credo che il ruolo delle donne in Politica potrà cambiare, finché non ci sarà una crescita significativa del ruolo delle donne in economia, nella società, nella percezione comune. Le recenti intercettazioni (relative ai rapporti tra Silvio Berlusconi, alcuni dirigenti Rai e una serie di donne dello spettacolo, N.d.R.) hanno inciso in profondità nell’immaginario collettivo, diffondendo l’idea che molte donne hanno successo in Politica solo perché si concedono – è l’amarissima riflessione dell’ex ministro, entrata in Politica dopo una prestigiosa carriera nelle Amministrazioni Pubbliche – è un’idea culturalmente devastante, capace di azzerare decenni di lotte di donne d’ogni colore politico, che hanno combattuto per affermare la loro professionalità e la loro autorevolezza. Ogni volta che si vede in televisione una donna che non sia brutta, oggi si tende a pensare: chissà come ha fatto ad arrivare lì...». 76
5. L’incubo: 2050, un mondo senza politica?
anno domini 2050. «Il guaio del nostro tempo è che il futuro non è più quello d’una volta»: sullo schermo di un vecchio computer compare la citazione di un filosofo francese del Novecento. Immagini da un Mondo irriconoscibile. La Terra è decisamente sovraffollata: popolata da 9,5 miliardi di esseri umani – il 50% in più di oggi – alla ricerca spasmodica di beni primari per soddisfare i bisogni della vita e dello sviluppo. La Cina è di gran lunga la prima potenza economica del pianeta, ma l’India l’ha appena superata per numero di abitanti. L’Europa ha mantenuto un’alta qualità della vita e produzioni d’eccellenza: ma è un’area marginale nello scacchiere planetario, è lontano il tempo in cui esercitava la sua potenza sul piano economico, demografico e militare. Come aveva profetizzato, quattro decenni prima, Jacques Attali1, gli Stati Uniti sono stati vinti dalla soverchiante forza della Finanza globale e non amministrano più il Mondo. È accaduto qualcosa di simile alla rovinosa caduta dell’Impero Romano. Il pianeta è intrappolato in un “iperconflitto” che contrappone tutti contro tutti: per il controllo delle materie prime sempre più scarse, per il dominio delle fedi religiose, per il controllo di intere regioni da parte di interessi criminali. 1.
j. attali, Breve storia del futuro, Fazi Editore, Roma 2007.
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La Democrazia – rimasta colpevolmente a livello territoriale – è stata soppiantata completamente dal mercato senza frontiere. Il privato ha sostituito il pubblico: i contratti hanno preso il posto delle leggi, l’arbitrato della giustizia, i mercenari privati delle forze di polizia. Così, dopo 2500 anni, il Mondo inizia a fare a meno della Politica nella sua forma più celebrata, la Democrazia. Troppo costosa, troppo inefficiente, troppo autoreferenziale. È stato un bel gioco, ci siamo divertiti tutti in quelle seratone elettorali vissute al cardiopalma per un exit poll sbagliato o per uno 0,2% in più conquistato dal partito del cuore. Ma ora basta. Siamo nel 2050, non è più tempo di fiction. Il rifiuto degli assetti di potere e dei riti della Politica istituzionale, quella regolamentata dalle Costituzioni e dalle leggi elettorali, spazza via tutto. I cittadini non partecipano più alle elezioni, non credono più nel monopolio dello Stato e dei partiti. La Democrazia rappresentativa diventa quella romantica e terribile “Repubblica oligarchica dei custodi”, che compare negli ultimi scritti di Platone. I singoli si riorganizzano “dal basso”, iniziando a programmare in modo razionale le loro 24 ore. Moltissimi aderiscono alla banca del tempo: investono il loro tempo libero per gli altri, ricevendo in cambio servizi e assistenza. Altri organizzano ronde armate per garantire la sicurezza delle città, al posto della polizia. I piccoli delinquenti di strada stanno alla larga: questa è gente che conosce a fondo i quartieri, i loro anfratti e le loro vie di fuga, e che è pronta a tutto pur di salvare la figlia da uno stupro o la nonna da uno scippo. Nascono i centri di mutuo soccorso, al posto degli ospedali, e i tribunali privati per una giustizia veloce. Sembra un Mondo che funziona. Ma è il regno della tristezza: non c’è più passione. Spaventato, spengo la tv. E accendo il cervello.
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6. Il sogno: la rinascita della politica
Amanti e pazzi han sì ardenti cervelli a sì inventive fantasie, ch’essi crean più che la fredda ragion possa intendere. L’amante, il pazzo e il poeta hanno la stessa fantasia. william shakespeare il viaggio nella politica rischia di finire qui. Troppo potenti i suoi nemici di oggi, troppo cupe le prospettive di domani, troppo grande la distanza tra desiderio e realtà. Ma dove non può la ragione, soccorre l’Amore. Per salvare la Politica è necessario trovare in natura l’Amore per essa, estrarlo, diffonderlo per contagiare una società cinica, individualista e apatica. Chiedo aiuto alle “compagne di viaggio”: hanno avuto la fortuna di conoscerlo, l’Amore per la Politica. Lo praticano ogni giorno. E possono trasmetterlo. «Da quando la Politica è entrata nella mia vita non riesco più a farne a meno – confessa candidamente Gabriella Giammanco, dopo i primi mesi di esperienza parlamentare in cui si è appassionata alla riforma della scuola, lanciando per prima la proposta del ritorno al grembiule e al voto in condotta – Mi accompagna giorno per giorno, anche quando non lavoro, mi dà energia e voglia di fare. È sempre con me, è entrata a far parte del mio modo di vedere e giudicare la realtà. Mi gui79
da nelle decisioni da prendere e organizza l’agenda delle mie priorità. È un legame affettivo che sento crescere quotidianamente e mi piace». Ma come nasce questo Amore? Dalla voglia di comunità, di confronto, di superamento dell’iper-individualismo. È un sentimento che non potrà mai estinguersi nel Politikon Zoon. «Mi sono innamorata della Politica – racconta Giorgia Meloni – quando ho pensato che l’impegno politico fosse il modo migliore per reagire, in una stagione molto difficile per l’Italia: erano i primi anni ’90, la mafia ammazzava i giudici, l’Italia aveva bisogno di qualcosa di pulito. Mi ha fatto innamorare della Politica la dimensione della comunità. La Politica è qualcosa che non esiste come percorso personale, perché quando diventa tale è tradimento di se stessa». «Per me è impensabile una Politica fatta da sola – conferma Alessia Mosca – la Politica è il mio modo di esprimere la mia voglia e la mia necessità di socialità. È il modo di realizzare la parte di me, che non trova realizzazione in un percorso individuale di ricerca». Secondo Stefania Prestigiacomo «la Politica è il senso della relazione tra le persone singole, è l’alito dell’azione civile, è anche la rabbia contro le ingiustizie e i torti. Una società senza Politica viene descritta talvolta in certi romanzi di fantascienza dove esistono mondi abitati da replicanti privi di coscienza, di anima. Ma quello, per fortuna, non è il nostro mondo». L’Amore per la Politica nasce anche dall’emozione di essere utile agli altri, di contribuire a costruire una società diversa. «Nella mia vita c’è sempre stata la Politica – riflette Linda Lanzillotta, che pure non è entrata subito nell’agone politico – Ho fatto il ’68: passioni, ideali, valori. Ma non mi sono piaciuti gli sbocchi partitici di quella rivoluzione e, quindi, ho deciso di coltivare il mio impegno civile nelle istituzioni, in modo professionale. Ho visto la devastazione che produceva l’ideologia, per capire che l’ideologia non portava a costruire una società migliore». 80
«Per me la Politica è missione, è la possibilità di prevedere il futuro e di intervenire, di scegliere e di non subire quello che ti accade – dice ispirata Beatrice Lorenzin – È un modo per non stare alla finestra, per partecipare alla vita. La Politica occupa il primo posto nella mia mappa dei sentimenti: mi coinvolge non solo intellettualmente, ma anche sul piano emotivo. Quando mi trovo a fare scelte che valgono per gli altri, sento non solo la responsabilità ma anche l’emozione di farlo». Altro che anti-Politica, altro che Casta. Di fronte a una società mai così frammentata e così centrata sull’interesse individuale, abbiamo un tremendo bisogno di senso civico, di passione collettiva, di Politica. Ma non possiamo più dare per scontato che qualcuno, all’inizio della sua vita, penserà di occuparsi del bene di tutti. E non possiamo più tollerare che la sua azione sia circondata dal disinteresse, dall’indifferenza e dall’ignoranza generale. Dobbiamo coltivare l’interesse per il bene pubblico in ogni cittadino, perché – dovunque lo portino i sentieri della sua vita – abbia il desiderio e gli strumenti per occuparsene. Aboliamo nelle scuole l’insegnamento triste e desueto dell’educazione civica, sostituiamolo con l’Educazione alla Politica: rileggendo i testi dei grandi maestri del pensiero classico, affianchiamoli a testimonianze live in classe dei protagonisti della Politica. Dopo questo “pit stop emotivo”, il viaggio alla ricerca della Politica può riprendere carico di nuove speranze. Ci aspettano tappe molto impegnative. Il teatro d’azione si sposta fuori, nuovamente, dai confini nazionali per scoprire chi sta riaccendendo la fiamma della Politica nel mondo e con quali armi globali si può provare a sconfiggere i suoi nemici più insidiosi. Primi fra tutti – in un pericoloso gioco di specchi – il disinteresse dei cittadini e la tentazione del “suicidio” cui la Politica, troppo spesso, sembra abbandonarsi.
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Se tardi a trovarmi, insisti. Se non ci sono in nessun posto, cerca in un altro, perché io sono seduto da una qualche parte, ad aspettare te. walt whitman
I leader carismatici Destra e sinistra sbiadiscono fino a confondersi l’una con l’altra. Le vecchie divisioni ideologiche, le barriere religiose ed etniche vengono archiviate e consegnate alla Storia. I partiti, le loro strutture e i loro riti sembrano relegati sullo sfondo. Sono gli effetti comuni dell’irruzione in Politica dei nuovi “leader carismatici”: nati dopo la Seconda guerra mondiale, si sono affermati in Politica dopo il crollo del Muro di Berlino e parlano al cuore, alla pancia, alla testa dei cittadini. Senza mediazioni, senza vincoli. «Oggi vince e convince» osserva Stefania Prestigiacomo «chi è in grado di parlare direttamente agli elettori, convincendoli di essere affidabile. Si è chiusa la fase storica del mondo diviso in blocchi, la gente chiede ai leader politici risposte nuove e su questa esigenza si sta formando una nuova classe dirigente internazionale». «I leader carismatici possono esistere perché partono da una struttura istituzionale molto solida, con responsabilità chiare e trasparenti. Altrimenti il carisma non basterebbe per governare un Paese» precisa con rigore sabaudo Emma Bonino, pensando ai deficit del sistema istituzionale italiano. Ma prima che di regole e di assetti efficienti, l’affermazione dei leader carismatici è figlia di un nuovo modo di fare e comunicare la Politica.
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Barack Obama, il primo global leader Barack Obama è il volto più vero dell’America di oggi, è il volto-simbolo della globalizzazione. Nella sua storia familiare, nel suo corpo, nel suo patrimonio culturale si incarnano al tempo stesso Occidente e Oriente, Cristianesimo e Islam. In una fase storica nella quale i Paesi europei mostrano difficoltà sempre più profonde a integrare le minoranze nel tessuto sociale, Obama rappresenta la versione rinnovata e vincente del melting pot del Duemila. Come rileva lo scrittore liberal Jonathan Schell, «sono finiti i tempi in cui l’Umanità può sperare di salvarsi dalla forza con la forza. Gli Stati Uniti dovrebbero anzitutto scegliere la Repubblica americana, preferendola all’Impero americano»1. Obama rappresenta in questo senso la fine del mondo a una dimensione. Nel suo tour europeo, ha promesso il ritorno a quel multilateralismo che prima dell’era Bush – da Franklin Delano Roosvelt a Bill Clinton – gli Usa avevano sempre offerto all’Europa. «Non c’è alternativa alla partnership e alla cooperazione tra le Nazioni» ha scandito di fronte agli applausi della folla di Berlino. «Dobbiamo tradurre in politiche convincenti una visione ottimistica della globalizzazione – è l’analisi di Linda Lanzillotta – e Obama nel suo discorso a Berlino lo ha fatto, presentandosi come il primo global leader, impegnato a far cadere i muri, estendere i diritti, aumentare la ricchezza, costruire ponti». Come ha scritto un opinion maker d’oltreoceano2, «Barack Obama simboleggia ciò di cui l’Europa ha bisogno, ma che non possiede ancora». È proprio così. Una vittoria di Obama è forse più utile all’Europa e al mondo intero, alla disperata ricerca di una governan1. j. schell, Lezioni di pace da Ground Zero, in Cosa succede a un sogno, (a cura di) Roberto Festa, Einaudi, Torino 2004. 2. Per questa e altre interessanti riflessioni sul rapporto tra Barack Obama e l’Europa, si veda “Obama, un sogno anche per l’Europa” di c.a. kupchan, «Corriere della Sera», 30 luglio 2008.
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ce mondiale pacificata dopo l’11 settembre 2001, che agli Stati Uniti stessi. «Non mi piace che le sorti della democrazia siano concentrate nelle mani di una sola persona, non mi piace il leaderismo spinto. Il mio cuore batteva per Hillary più che per Obama» confida Alessia Mosca «ma devo riconoscere che Obama è riuscito a far riappassionare alla Politica le nuove generazioni. Sta avvicinando la Politica alla gente assegnando a ciascun cittadino una missione, sta creando comunità nuove». «All’inizio avevamo programmato i Rolling Stones, ma li abbiamo cancellati quando abbiamo capito che Barack Obama avrebbe venduto molti più biglietti» disse ai sostenitori del Partito Democratico John Lynch, governatore del New Hampshire, durante la prima tappa pubblica del tour in cui Obama annunciò la candidatura alle presidenziali Usa3. È straordinaria la capacità di Obama di re-inventare non solo la Politica, ma soprattutto il profilo del politico. Facendo apparire tutto ciò che era prima di lui, persino i “numi tutelari” del suo partito, come superato dalla Storia. «Quando assisti ai faccia a faccia di Clinton contro Gingrich – osò dichiarare due anni fa il leader democratico – o di Gore contro Bush, o di Kerry contro Bush, ti senti come se stessi assistendo a risse da dormitorio degli anni ’60»4. La sua stessa storia personale è simbolo di un’altra Politica. L’happy end del figlio di un keniota, costretto a vivere un’infanzia travagliata in giro per il mondo, è il “rilancio” di quel sogno americano che sembrava assai sbiadito negli ultimi anni. E dà a Obama titoli e credibilità senza pari, quando afferma che «il nostro Paese resta il più grande del mondo non per la potenza del nostro esercito o dell’economia, ma perché ogni ragazzo può realizzare tutto ciò che è in grado di sognare»5. 3. Il racconto dell’episodio è contenuto nella biografia di Obama Si può fare, (a cura di) l. rogak, Casini Editore, 2008. 4.
Intervista a Barack Obama, «Sunday Time Magazine», 5 novembre 2006.
5.
Intervista a Barack Obama, «msbnc tv», 25 luglio 2004.
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Valori, pragmatismo, flessibilità nelle soluzioni: il primo global leader ha intuito e mette in pratica la lezione della fine del Secolo delle ideologie. Qualche tempo fa – in un’ampia intervista al Washington Post – ha spiegato così la sua filosofia politica: «credo che ciò che abbia funzionato per me sia stata la capacità di attenermi ad una serie di valori progressisti, ma di mantenermi eclettico in termini di mezzi con i quali questi valori progressisti sarebbero stati raggiunti. Non essere ortodosso. Aver voglia di prendere il buono da tutti»6. Indicazioni utili, molto utili, per i gracili “cugini italiani” dei Democrats made in Usa...
Esperienza e nuovismo: il paradosso vincente di Sarkozy «È stata una scelta politica della massima importanza: facciamo, come al solito, una riforma dietro l’altra? Aspetti un attimo, signor boia, abbiamo tempo! Oppure, in una società complessa come la nostra, in cui tutto è collegato, facciamo qualcosa che non è mai stato fatto prima: avanziamo simultaneamente su tutti i fronti»7: c’è tutta la summa del Nicolas Sarkozy-pensiero nel discorso pronunciato dal nuovo “Re di Francia” all’atto dell’insediamento della Commissione Attali. Decisionismo. Ovvero rifiuto di quel gradualismo – tipico delle politiche europee fondate sulla concertazione – che diluisce nel tempo le policies e i loro effetti sulla società. Chi ha dimenticato l’indimenticabile dibattito, che in Italia ha accompagnato la nascita del secondo Governo Prodi, sulla “politica dei due tempi”? Prima risanamento, poi sviluppo? 6.
Intervista a Barack Obama, «Washington Post», 11 dicembre 2006.
7. n. sarkozy, Discorso del Presidente della Repubblica Francese in occasione dell’insediamento della “Commissione per liberare la crescita economica”, Palazzo dell’Eliseo, 30 agosto 2007.
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Politica di destra e di sinistra, insieme. Al di là dell’appeal mediatico e dell’attivismo sul fronte internazionale, le prime misure di politica economica di Sarkozy colpiscono uno spettro molto ampio di elettori e mixano efficacemente filosofie radicalmente diverse. Perdono così di significato le strategie politiche tradizionali. E sembrano lontane anni-luce le italiche battaglie – dall’amaro sapore neo-marxista – che contrappongono “risarcimenti sociali” a vantaggio degli sfruttati a liberazioni dal “fisco oppressivo” a beneficio degli sfruttatori. La soppressione delle tasse di successione e di donazione, come l’abbassamento del tetto fiscale dal 60 al 50% erano largamente attesi tra i cittadini ad alto reddito, imprenditori e professionisti, mentre l’agevolazione dei mutui per l’acquisto della prima casa, la detassazione delle ore supplementari, l’appesantimento delle pene per i delinquenti recidivi strizzano l’occhio ai ceti sociali più poveri e più indifesi. Persino l’orgoglio patriottico assume in Nicolas Sarkozy venature nuove: emerge in lui un certo “romanticismo industriale”, un’esaltazione genuina del lavoro e della fabbrica made in France. Durante la campagna elettorale il candidato Sarkozy si entusiasmava al contatto con gli operai e nei comizi non mancava mai di esaltare il lavoro: «chi lavora di più guadagna di più» era il suo slogan. «Oggi la Francia è il Paese europeo che, almeno sul piano della visione, riesce a rappresentare meglio l’innovazione» ammette, con spirito bipartisan, Linda Lanzillotta «La destra francese, pur populista, ha cultura dell’innovazione e riesce a rappresentare la Politica come divisione non più tra destra e sinistra, ma tra innovatori e conservatori». «Ho conosciuto Sarkozy a Parigi, durante la campagna elettorale presidenziale del 2006» racconta Beatrice Lorenzin, che confessa: «mi sono commossa perché ho ascoltato da lui un discorso straordinario dedicato ai giovani francesi, tutto centrato sull’Amore per la Patria, per la vita, per il futuro». «Ho ancora con me la maglietta-simbolo della campagna elettorale: Insieme 86
tutto diventa possibile» aggiunge la deputata azzurra, mostrandomi con orgoglio il cimelio in cotone. Grande passione per il leader francese anche nelle parole di Gabriella Giammanco, che individua il paradosso del suo successo: «Sarkozy ha alle spalle una grande esperienza politica: Sindaco, Presidente della Regione, due volte Ministro. Ma nonostante la lunga esperienza politica, riesce a mostrare e a trasmettere freschezza e anticonformismo. Sarkozy comunica grande sicurezza, grande affidabilità, grande umanità». «Mi aspettavo di più da Sarkozy» è invece il commento, sorprendente e in controtendenza, di Giorgia Meloni. «La sua forza è stata quella di offrire grandi suggestioni e di unirle a capacità decisionale – ragiona il Ministro della Gioventù – ma ha offuscato tutto questo con una dimensione gossippara, con una comunicazione troppo light e incoerente».
David Cameron: i valori del passato, i temi del futuro «L’idea di trovare una giustificazione a tutti i problemi della società è sbagliata, le situazioni di disagio in cui molti si trovano sono spesso conseguenza del proprio comportamento personale». Parola di David Cameron, quarantenne leader dei conservatori britannici: colui il quale ha riportato i Tories in testa ai sondaggi, nell’era di Tony Blair e di Gordon Brown. Cameron ha mandato in soffitta il “politicamente corretto”: gli obesi, i pigri, i poveri non hanno nessuno con cui prendersela, se non se stessi. «Abbiamo vissuto decenni di erosione della responsabilità, della virtù sociale, dell’autodisciplina, del rispetto per il prossimo – ha affermato il leader conservatore, in un ispirato discorso tenuto nel luglio 2008 a Glasgow – preferendo la neutralità morale, il rifiuto di esprimere giudizi. Bene, male, giusto, sbagliato: sono parole che quasi nessuno più usa nel sistema politico e nel settore pubblico. Io credo sia ora di ricominciare a dirle». Un discorso che a molti commentatori 87
ha richiamato alla mente un illustre precedente, il celebre discorso con cui John Major nel 1993 auspicò «il ritorno ai valori del passato», e che soprattutto avvicina Cameron alla mappa ideale che ispirò il regno politico di Margaret Thatcher: responsabilità individuale, rigore, merito, libertà. Ma il ritorno alla matrice valoriale thatcheriana non basterebbe a spiegare, da solo, il successo di David Cameron. Nella strategia politica di Cameron c’è soprattutto una fortissima dose di innovazione dell’agenda politica. «Cameron è lontano dal pugno di ferro della Thatcher degli anni ’80 – rileva Gabriella Giammanco – e dimostra che essere conservatori non vuol dire avere posizioni rigide, immodificabili nel tempo e nella storia». «Cameron ha un programma politico che scavalca a sinistra, come si diceva un tempo, i laburisti» secondo Stefania Prestigiacomo. «È geniale perché ha trasformato il partito – commenta Beatrice Lorenzin – Ha assorbito gli umori globali, li ha inglesizzati e li ha messi sul mercato della Politica come soddisfazione dei bisogni primari del cittadino globale». «Conosco lui e il suo staff – aggiunge la deputata pdl – età media 30 anni, tutti molto attenti ai problemi globali e a quelli del Sud del mondo». Giorgia Meloni è convinta che il modello Cameron possa essere utile a rinnovare l’agenda del centrodestra italiano, perché «sta dando impulsi rivoluzionari, in particolare sull’ambiente che è stato sempre considerato un tema di sinistra. Io non l’ho mai considerato tale e credo anche che la difesa della terra, la sostenibilità, i nuovi bisogni, l’edilizia a misura d’uomo appartengano alla visione del mondo di centrodestra più che di centrosinistra, anche se pochi di noi se ne occupano». Sulla stessa linea Gabriella Giammanco: «mi piacerebbe che la difesa dell’ambiente e degli animali, che oggi troppo spesso è associato ad un’unica parte politica, entrasse nel sentire comune. Sono valori che crescono in noi, al di là delle appartenenze. Il primo atto che ho compiuto da parlamentare è stato quello di presentare una proposta di legge che mira alla graduale dismissione degli animali da parte dei circhi equestri, confinati oggi nel vicolo dell’anacronismo». 88
È una vera e propria rivoluzione, quella lanciata dai New Tories di Cameron sulle politiche ambientali: storicamente relegate ai margini dei programmi conservatori della vecchia Europa, perché vissute con fastidio rispetto alle energie dirompenti della libertà individuale e del liberismo economico. È una rivoluzione coraggiosa: lanciata da Cameron nel dicembre 2005, all’atto della conquista della leadership dei conservatori britannici, è stata portata avanti con coerenza fino a oggi, nonostante l’arrivo repentino e imprevisto in Europa della crisi economica internazionale e della recessione. La proposta-chiave del “conservatorismo verde” di Cameron è ben più avanzata di quelle che animano i programmi politici dei Verdi italiani o tedeschi: abbattere il consumo di anidride carbonica in Gran Bretagna del 60% entro il 2050, attraverso l’istituzione di una Commissione indipendente che stabilisca obiettivi vincolanti da raggiungere anno per anno. L’idea si basa su una convinzione di fondo: un intervento deciso sulle politiche ambientali ha un costo sostenibile oggi, ma rischia di diventare economicamente insostenibile nei prossimi anni. «Le politiche verdi sono vitali anche quando l’economia rallenta» ha affermato di recente il leader dei New Tories «la verità non è che non possiamo permetterci di salvaguardare l’ambiente, la verità è che non possiamo permetterci di non salvaguardare l’ambiente»8.
La rivincita della politica sulla finanza “L’autunno nero” del 2008 è già entrato nei libri di storia senza bisogno degli storici, mentre la realtà della crisi mondiale supera le più perverse fantasie. La finanza mondiale collassa come una Supernova e travolge ogni certezza: gli strumenti 8. “Green policies vital even when economy slows”, «The Guardian», 16 giugno 2008.
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d’intervento tradizionali – dal taglio dei tassi d’interesse alle immissioni di liquidità da parte delle Banche Centrali – diventano improvvisamente vecchi e inutili. L’Orso si impadronisce delle Borse, la sfiducia e il panico rapiscono i consumatori-risparmiatori d’ogni angolo del pianeta. «Il capitalismo cadrà vittima delle sue contraddizioni»: sembra avverarsi all’improvviso la terribile profezia di Karl Marx, lasciandoci nudi e impotenti di fronte alla più profonda, pesante e imprevedibile crisi finanziaria ed economica dell’era contemporanea. Ma forse il “far west” della Finanza rischia di produrre nei prossimi anni qualcosa di ancora più spaventoso: la prima guerra mondiale per il controllo e il governo delle materie prime, cibo e acqua ancor più che energia. È una guerra di tipo nuovo, che contrappone Occidente e Oriente su un terreno inedito: da una parte la Finanza anglosassone e i suoi protagonisti, dall’altra i Governi dei giganti demografici dell’Asia e dell’Africa. Luglio 2008. Il governo indiano vieta con una legge ad hoc il trading sui futures dei beni alimentari. Il divieto riguarda la farina, il riso, l’olio di soia, la gomma e le patate, ma può essere esteso alle commodities simili. Con un atto a sorpresa, l’India dichiara guerra alla speculazione: investitori, mutual fund e banche straniere non potranno più investire in commodity fund, alterando di conseguenza il prezzo delle materie prime alimentari. Qualche tempo prima, lo aveva denunciato urbi et orbi il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon: a causa del vertiginoso aumento dei prezzi, negli ultimi 2 anni 100 milioni di esseri umani in più sono stati spinti verso la fame e la povertà, in un mondo nel quale ogni anno muoiono per mancanza di cibo 3 milioni e mezzo di bambini. Una situazione intollerabile. E in uno scenario in cui la tracciabilità delle operazioni finanziarie daily sui futures è quasi impossibile e altrettanto complessa è la loro regolamentazione, l’India ha aperto forse l’unica strada di contrasto possibile agli eccessi della finanza globalizzata. 90
Vietare un’espressione di libero mercato è una soluzione estrema, rozza e anacronistica, si dirà. Ma i cultori del liberismo puro e incontaminato, che ritengono la legge della domanda e dell’offerta lo strumento esclusivo di regolazione dei rapporti umani, sono ormai una razza in via d’estinzione. Non solo tra i politici. E quando è in gioco l’esistenza di milioni di esseri umani, il dogma liberista può cedere il passo a una misura “proibizionista”, ma di buon senso. L’India ha infranto un tabù. È la prima reazione della Politica contro lo strapotere della Finanza. Se da una parte le cavallette della speculazione continuassero ad accanirsi sulle materie prime alimentari, se dall’altra parte le elezioni della Casa Bianca segnassero una svolta in senso democratico e mondialista, non è fantapolitica ipotizzare un accordo di governance tra i Grandi della Terra per regolare il rapporto tra finanza e beni alimentari. Dovrebbe essere un accordo multilevel, capace di dotare la Politica di un set di strumenti di diversa intensità per contingentare e – in caso di necessità – bloccare le escalation speculative, prima che creino danni irreversibili all’economia reale. Primo livello: “stop speculation deposit”. È la proposta presentata a metà giugno da Giulio Tremonti al summit dei ministri delle Finanze del G8 a Osaka. L’idea – ingiustamente snobbata – consiste nell’aumentare i margini dei depositi richiesti dalle Borse sui contratti future dall’attuale 5% al 50%, consentendo poi all’Autorità Antitrust europea e a quella americana di intervenire contro gli abusi. La misura dovrebbe frenare e selezionare la massa di denaro che oggi si riversa sui derivati delle materie prime. Secondo livello: la prima misura, da sola, rischia però di essere insufficiente. «Ci sono tutti i segnali di una bolla speculativa» ha sostenuto in una recente audizione al Senato Usa un esperto del ramo come George Soros «e quanto ai margini speculativi, alzarli potrebbe scoraggiare qualcuno ma sarebbe inutile». 91
È necessario iniziare ad analizzare in profondità i fenomeni speculativi sui futures – confrontando costantemente il loro andamento con quello della domanda e dell’offerta “reale” dei beni sottostanti – e attribuire poteri di intervento e di regolazione a un ente indipendente, sganciato dai singoli Governi nazionali. Immagino un’Authority mondiale sulle materie prime, dotata di poteri di analisi, di regolazione e di intervento sui mercati internazionali. Terzo livello: in casi eccezionali, in cui le oscillazioni dei futures superino limiti predefiniti, l’Authority avrebbe il potere di vietare temporaneamente le contrattazioni sui futures delle materie prime alimentari. Sarebbe una rivoluzione, nel lungo e accidentato percorso di costruzione di una vera governance mondiale. E cambierebbe le sorti di un match, fino ad oggi clamorosamente perduto dalla Politica contro il suo nemico più temibile. La grande rivincita sulla Finanza, a quel punto, sarebbe finalmente possibile.
O si cambia o si muore: una nuova anima e un leader per l’Europa «Nata con il mercato e dal mercato – il mitico mec, il mercato comune europeo – l’Europa rischia di morire proprio di mercato [...] perché l’Europa è in realtà l’unica area del mondo in cui si crede che il mercato possa sostituire la Politica: l’Europa ha infatti pensato che il mercato potesse essere la sua sola Politica»9: è la ricostruzione della crisi europea, “vista da vicino” da Giulio Tremonti. L’Unione Europea gode ancora di uno straordinario – quasi inspiegabile – capitale di fiducia da parte dei suoi cittadini. Secondo le rilevazioni di Eurobarometro del giugno 2008, il 9. g. tremonti, La paura e la speranza, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008.
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45% degli europei pensa che «things are not going in the right direction in their countries», mentre il 42% pensa esattamente il contrario dell’Unione Europea10, di cui ha una visione positiva. E nonostante la crisi delle istituzioni comunitarie, il dato sulla fiducia verso l’ue da parte dei cittadini europei è aumentato di quasi 10 punti negli ultimi due anni. Ma l’affondo del Ministro dell’Economia italiano, probabilmente, coglie nel segno. Impauriti più di altri dalle incertezze del mondo globale, oggi i cittadini europei hanno bisogno di riscoprire la ragione più profonda della cessione di sovranità dei loro Stati nazionali verso Bruxelles. E questa ragione non potrà più essere, nei prossimi anni, l’economia. Un altro prezioso indizio sulle tracce della nuova Europa lo ha fornito Nicolas Sarkozy. «Bisogna cambiare profondamente il nostro modo di costruire l’Europa – ha dichiarato al debutto del semestre francese di presidenza del Consiglio d’Europa – I nostri connazionali si chiedono se lo Stato nazionale non potrebbe proteggerli meglio. È un passo indietro: dobbiamo riflettere per fare di questa Europa uno strumento per proteggere gli europei nella loro vita quotidiana». La reazione rapida e convincente (e imprevista) dell’Unione Europea alla crisi della finanza mondiale è un primissimo segnale in questa direzione. Per la prima volta, l’Europa politica ha conquistato sul campo il primato planetario nella soluzione delle contraddizioni della globalizzazione. Ma è troppo presto per dire se questa “eccezione” potrà diventare la regola: la normalità quotidiana, fino a oggi, è stata costellata dalla debolezza e dalle divisioni dell’Europa politica. «Vogliamo diventare come l’isola di Knido, nel mar Egeo, passata dai fasti di Omero alla povertà?» si chiede provocatoriamente Linda Lanzillotta. «Abbiamo bisogno di un’Europa snella ed efficiente, vicina ai cittadini – afferma Stefania Prestigia10. European Commission, Eurobarometer 69 - Public opinion in the European Union, June 2008.
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como – Un’Europa che accetti la sfida del futuro. Un’Europa unita in un mondo diventato molto più grande, dove potremo contare solo se parleremo con una voce sola». «Oggi abbiamo più bisogno di ieri dell’Europa» dichiara convinta Beatrice Lorenzin «ma non può essere quell’obbrobbio che c’è oggi a Bruxelles, fatto di scartoffie, di burocrazia e di lobby. Abbiamo bisogno di un’Europa con più velocità decisionale. È ora di fare l’Europa sul serio, per evitare di diventare solo il luogo in cui i vecchi cinesi e indiani vengono a trascorrere le loro vacanze». «Sono ottimista sul futuro dell’Europa – spiega Gabriella Giammanco – La costruzione dell’identità europea è lunga e faticosa come ogni acquisizione culturale: è stato così anche per la creazione dell’identità italiana, che non è coincisa con l’unificazione territoriale. Oggi guardiamo ancora agli altri cittadini europei come stranieri. Le istituzioni scolastiche dei Paesi ue dovrebbero promuovere il pluralismo linguistico, perché le differenze culturali e linguistiche, anziché un limite, diventino un valore aggiunto». Per corrispondere al sentiment più profondo dei suoi cittadini, la nuova anima dell’identità europea dovrà fondarsi su due pilastri: fiducia e sicurezza. Sono i “beni pubblici” di cui gli europei avvertono più la mancanza. Sono i “beni pubblici” che gli Stati nazionali non possono più fornire. Se vorrà conquistare i nostri cuori e le nostre teste, l’Unione Europea dovrà attrezzarsi rapidamente per contrastare il climate changing, governare i flussi migratori, lottare efficacemente contro il terrorismo internazionale, esercitare una politica estera comune e una capacità militare unica di fronte alla nuova forza dei giganti asiatici e alle tentazioni neo-imperialiste della Russia. «Sogno l’Europa dei popoli – dice Giorgia Meloni – capace di liberarsi del giogo dei burocrati, costruita dal basso, che sia in grado di non chiedere mai più a nessuno di intervenire per conto proprio». «Il massimo di Europa possibile» chiede Alessia Mosca «un’Europa federale, con più politiche comunitarizzate, con più decisioni possibili a maggioranza e non all’unanimità». 94
L’obiettivo è terribilmente ambizioso. Ma raggiungibile, se si procederà con il metodo dei “cerchi concentrici”. In quello più largo rimarrebbero i Paesi indisponibili a ulteriori cessioni di sovranità. Nei cerchi più stretti si posizionerebbero invece gli “avanguardisti”, i Paesi disposti a realizzare integrazioni più strette, che mettendo in comune poteri e risorse non sarebbero più costretti ad attendere i pachidermici tempi dell’unanimità dell’Europa a 27. «Oggi l’Europa non può più seguire il processo di integrazione incrementale, passo dopo passo – dice Emma Bonino, ripensando anche alla sua esperienza di Commissario Europeo – Serve una svolta. Seguendo i modelli dell’Unione Monetaria e di Schengen, abbiamo bisogno di Paesi che vadano avanti più rapidamente nell’integrazione su politica estera e difesa comune. E per farlo non c’è bisogno di alcun Trattato». Se questa sarà la mutazione dell’Europa nei prossimi anni, potrà avverarsi davvero la profezia di Jacques Attali, che immagina l’Europa come culla di quella “iper-democrazia” capace di salvare il mondo, impedendo all’umanità di autodistruggersi11. Nella visione del pensatore francese, tra qualche decennio l’Unione Europea – che comprenderà anche la Turchia e la Russia – sarà la sintesi migliore tra democrazia e mercato, il modello che ogni Continente o sub-continente dovrà seguire per unire gli Stati in macro-regioni omogenee. Ma per realizzare questa Europa, l’Europa dei sogni, ci vuole un leader carismatico. Un Presidente del Consiglio europeo, dotato di una legittimazione forte perché eletto direttamente dai cittadini europei. Nella «riserva della patria europea», una sola persona risponde a questo profilo: Tony Blair. «Saprebbe dare senso e identità agli europei, e al tempo stesso leadership globale – aggiunge Linda Lanzillotta, che guarda ancora oltre – anche perché si confronterebbe con Barack Obama...».
11. j. attali, Breve storia del futuro, Fazi Editore, Roma 2007.
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La rivoluzione degli esclusi L’amore è la più terribile, ma anche la più onesta delle passioni; è la sola che non possa occuparsi della propria felicità senza comprendervi la felicità di un altro. alphonse karr «La donna più importante che ho incontrato è la Politica» ripeteva spesso nelle sue comparsate tv Gianfranco Funari. Ma sono troppi oggi gli Esclusi, quelli che non riescono neanche a immaginare come sia fatta questa particolarissima donna... Gli Esclusi? Il pensiero corre normalmente ai popoli dell’Africa subsahariana, ai derelitti delle favelas brasiliane. No, questa volta siamo noi: europei ed americani, i protagonisti della modernità, gli eredi della grande civiltà occidentale. Esclusi dalla Politica. Perché per partecipare alla “vita civile” di un Paese, per valutare l’offerta elettorale di un partito, è necessario (e sufficiente) possedere qualche strumento basico di cognizione della realtà. Prendiamo per esempio il pil, l’indice di misura più importante per lo stato di salute nazionale. Il 53% degli europei non è capace neanche di tentare di indicare quale sia il tasso di crescita e soltanto l’8% conosce il dato corretto. Negli Stati Uniti i 5 principali network televisivi riportano i dati sul pil nel 46% dei casi, i 27 principali giornali Usa nel 39% dei casi: ma il 40% dei cittadini degli States non ha mai sentito neanche parlare dei dati ufficiali sulla ricchezza prodotta nel Paese in cui vive12. 12. I dati sono tratti da “Misurare il progresso della società: una questione chiave per la politica e la democrazia”, ricerca del giugno 2008 di Enrico Giovannini, Chief Statistician dell’ocse.
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In Italia abbiamo invocato per decenni la democrazia dell’alternanza, il potere dell’elettore di premiare chi governa bene e di punire chi lo fa male, l’accountability delle politiche pubbliche. Oggi dobbiamo riconoscere che il meccanismo si è inceppato, che l’antica teoria non funziona per manifesta inconsapevolezza dell’elettore. Siamo immersi nella società dell’informazione ma, come diceva Albert Einstein, “informazione non è conoscenza”. «Non importa che il gatto sia bianco oppure nero, finché acchiappa i topi, è sempre un buon gatto»: la celebre massima di Deng Xiaoping è il pensiero dominante nell’era post-ideologica della Politica occidentale. Massimo pragmatismo: l’elettore maturo giudica non le ideologie ma i risultati, vota una coalizione o un partito sulla base dei successi o dei fallimenti della sua azione di Governo. Ma che succede se l’elettore non ha a disposizione gli indicatori di risultato dell’azione politica? Perché indicatori universalmente riconosciuti non esistono, perché non vengono portati a conoscenza del cittadino, perché l’elettore non ha tempo e voglia di cercarli, o perché non ha la preparazione sufficiente per valutarli? Come notava già nel 1988 Alesina, la mancanza di informazioni per monitorare la coerenza tra promesse politiche e realizzazioni rende l’elettore libero, sostanzialmente, di fare ciò che vuole. Nella maggioranza dei casi, lo spinge a disinteressarsi della Politica e dei suoi effetti. Per questa via i cittadini delle società avanzate non esercitano più il potere di “delega” del loro futuro collettivo nei confronti della Politica e dei politici, ma firmano una vera e propria “cambiale in bianco”. Tra eletti ed elettori si crea, così, la stessa asimmetria informativa che regola di solito il rapporto tra piccoli azionisti e manager di una società per azioni: i primi non sono in possesso delle informazioni e del know how, appannaggio esclusivo dei secondi. 97
Giunti al termine di questo appassionante e accidentato viaggio, abbiamo scoperto dunque l’ultimo nemico della Politica. È il virus dell’esclusione e del disinteresse, la “sindrome dell’alieno”: la tendenza – consapevole e inconsapevole – a considerare le sorti della propria comunità, del proprio Paese qualcosa di altro rispetto ai propri comportamenti, ai propri giudizi, alle proprie ambizioni13. Non aiuta a vincerla, anzi rischia di alimentarla costantemente, la “cultura dello spot televisivo”14: l’accelerazione della comunicazione, il montaggio dei telegiornali con battute di sette-dieci secondi dei politici, dei commentatori, degli speaker. In queste condizioni, nessun problema può essere approfondito seriamente dal pubblico. Come si batte la “sindrome dell’alieno”? È questo il grande dilemma della Democrazia occidentale, oggi. Trattasi di nemico liquido, sfuggente e traversale, capace di fare proseliti in ogni ceto sociale. Probabilmente è necessario creare a livello politico ciò che è già successo – a partire dalla fine del Novecento – nelle società avanzate: la “democratizzazione della vita quotidiana”, la diffusione della libertà di scegliere il proprio stile di vita e della capacità di auto-determinarla15. «Se vuoi costruire una nave», scriveva Antoine de SaintExupery nel Piccolo Principe, «non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma invece prima risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato [...]». Istituiamo ufficialmente la “Giornata della Partecipazione”. Una domenica di primavera. In tutte le scuole e Università, in tutte le piazze, su tutti i media: 24 ore di “formazio13. f. delzìo, Generazione Tuareg. Giovani, flessibili e felici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007. 14. Ibidem. 15. Il fenomeno è descritto da a. giddens in L’Europa nell’età globale, Laterza, Roma-Bari 2007.
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ne” al pubblico su come diventare cittadini attivi, come e dove reperire le informazioni più importanti sull’Europa, sull’Italia, sulla propria comunità territoriale. La Giornata è preceduta da una campagna tv e stampa, in cui si invitano i cittadini a partecipare al Deliberation Game: chiunque vorrà sarà chiamato a discutere in piccoli gruppi – all’interno di meeting point creati in ogni municipio, in ogni paese, in ogni città – sui temi-chiave dello sviluppo economico, sociale e culturale dell’Italia. Alla fine di ogni dibattito, ogni partecipante dovrà votare la soluzione migliore. Se la Giornata della Partecipazione avesse successo, sarebbe la spinta decisiva per costruire un’opinione pubblica più attenta e informata. Al momento delle elezioni, le persone discuterebbero con maggiori possibilità di sapere quel che vogliono e quali candidati sarà più probabile rispettino il mandato popolare16. «Sarà in specie proprio la spinta del malessere materiale e soprattutto spirituale che c’è già alla base della nostra piramide sociale, un malessere che via via si sposterà dal basso verso l’alto, a portarci verso il rifiuto delle forme attuali della politica, miope e abulica, fatalista e stupida»17 è la cupa profezia del politologo Tremonti. Scongiurare questo rischio è possibile. A patto di diffondere la “bellezza” della Politica. Come atto artistico collettivo, come esperimento creativo del logos che si contrappone efficacemente allo stato di natura: perché la Politica ragiona per raffinare gli istinti primari, per contenere le passioni e dar loro visibilità, espressione e forma. 16. L’idea si inserisce all’interno delle analisi e delle proposte, riconducibili alla teoria della “democrazia partecipativa”. In proposito è utile leggere, in particolare, il saggio di b. ackerman, j. fishkin, Deliberation day, Yale University Press, 2004, felicemente divulgato e commentato da g. bosetti e s. maffettone in Democrazia deliberativa: cosa è, Luiss University Press, 2004. 17. g. tremonti, op. cit.
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Dobbiamo ripristinare la tèchne politikè. È l’unica nobiltà degna del Duemila, è l’unica nobiltà alla quale tutti possono avere accesso. Muore solo un amore che smette di essere sognato. pedro solinas
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7. Aneddoto finale
«lei è del sagittario o del capricorno?». Ferragosto. Roma, Lungotevere caldo, afoso e magnificamente deserto. Sono fermo al semaforo: il corpo imprigionato nel microclima sahariano dell’auto, la mente proiettata nell’estasi di una metropoli liberata dalla morsa del traffico e dei trafficanti. All’improvviso un’auto arriva da dietro a gran velocità, sgomma e si affianca alla mia. Uno strano personaggio, a bordo di una vettura che rifiuterebbe perfino uno sfasciacarrozze a fine giornata, faccia fantozziana con modi alla bullo dei film di Verdone, gesticola animatamente verso di me. Scatta l’istinto di solidarietà. Mentre abbasso il finestrino, vengo trafitto dalla fatidica domanda: «Lei è del Sagittario o del Capricorno?». Lo osservo in silenzio, come fosse un animale del Bioparco. Lui insiste, piccato: «Risponda, è il gioco di mezza estate». «Nessuno dei due» sibilo, con il minimo sindacale della voce. «Allora è Ariete, oppure Cancro, forse Vergine... no, dev’essere proprio Gemelli, oppure Pesci o Acquario, vero?». Prima che citi tutta la mappa astrologica – mentre il verde è già scattato e alcune violente botte di clacson ci ricordano il valore della convivenza civile – mi consegno alla follia: «Ha sbagliato, mi dispiace. Sono un Leone». Immancabile, rapidissimo il responso. «Lei è il re della savana, un leader ed anche una brava persona... Ha visto che ho indovinato?». “Auguri” gli rispondo chiudendo il finestrino, carico di stupore e delle maledizioni degli auto101
mobilisti ferragostani negli specchietti retrovisori. “Ma lei è troppo serio” chiosa l’astrologo dilettante, orgoglioso del successo della sua Corrida ferragostana. In fondo, ha ragione lui. Perché è come la Politica italiana: arruffona e ambiziosa, orgogliosa e inconsapevole, divertente e inconsistente. Proprio come la maggioranza degli italiani. Ognuno ha quel che si merita. Ognuno ha quello che, forse, vuole davvero.
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Ringraziamenti
il lettore attento e curioso – rara avis – si sarà chiesto chi è il “Maestro” al quale è indirizzata la Lettera che apre il pamphlet. Svelo l’arcano: è Luigi Abete, dal quale ho avuto la fortuna di imparare moltissimo negli splendidi anni del debutto nel mondo del lavoro e che ha la (consapevole) responsabilità di avermi trasmesso il “virus” della Politica. Non quella dei partiti e dei corridoi di Palazzo, ma quella coraggiosa e trasparente di chi si fa carico dell’interesse comune, pur rappresentando interessi di parte. Devo confessare, inoltre, che nella visione internazionale del libro c’è l’implicita influenza di Roberto Colaninno. Gli sono molto grato. Non solo perché mi sta dando oggi l’opportunità di un contribuire professionale a sfide imprenditoriali di portata unica, ma soprattutto per le sue intuizioni straordinarie sul presente e sul futuro del mondo globalizzato e – ancor più – per il suo desiderio di condividerle senza riserve. Dulcis in fundo, desidero ringraziare le “compagne di viaggio”. Politiche di grande valore, amiche di antica o più recente data nella maggior parte dei casi, donne umanamente ricche. Sono state – senza eccezioni – disponibili, pazienti e aperte al confronto. Hanno mostrato un’onestà intellettuale fuori dal comune, che arricchisce Politica ground zero di contenuti originali e innovativi. Hanno regalato a questo scritto, soprattutto, la speranza e la bellezza di una Politica migliore. 103
Indice
1. 2. 3. 4.
Prefazione Lettera d’amore di un giovane tradito pag. Introduzione Politica ground zero Atena e la trama divina La democrazia oggi: il teatro vuoto Nostalgia canaglia I “tradimenti” della politica: i nemici e le sconfitte del Duemila La politica come vittima: il “doppio tradimento” Autorità-sviluppo: il binomio vincente. La democrazia che non cresce Il far west della finanza L’emergenza e l’impotenza: utopia e fallimento della governance mondiale L’Europa della bce e il Coro della tragedia greca: felice di essere inutile L’interesse collettivo in Italia: chi l’ha visto? Le debolezze parallele: il riformismo senza riforme Il governo dei ragionieri, il riformismo impalpabile, l’elitismo: dieci anni d’opposizione per il centrosinistra? La mutazione di Silvio Berlusconi, alias Napoleone iii Elezioni 2008: il “tradimento inverso” di giovani e donne
1 5 7 9 19 21 21 23 29 36 46 52 55 62 70 74
5. L’incubo: 2050, un mondo senza politica? 6. Il sogno: la rinascita della politica I leader carismatici Barack Obama, il primo global leader Esperienza e nuovismo: il paradosso vincente di Sarkozy David Cameron: i valori del passato, i temi del futuro La rivincita della politica sulla finanza O si cambia o si muore: una nuova anima e un leader per l’Europa La rivoluzione degli esclusi 7. Aneddoto finale Ringraziamenti
pag. 77 79 82 83 85 87 89 92 96 101 103
Finito di stampare nel mese di ottobre 2008 da Rubbettino Industrie Grafiche ed Editoriali per conto di Rubbettino Editore Srl 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro)
Problemi aperti Ultimi volumi pubblicati 80. Philippe Nemo, Che cos’è l’Occidente 81. Marvin Olasky, Conservatorismo compassionevole 82. Marco Ricceri, Il cammino dell’idea d’Europa. Appunti e letture 83. Luciano Monti, L’altra Europa. Diario di un viaggio nella povertà 84. Atilla Yayla (a cura di), Islam ed economia di mercato 85. Gennaro Malgieri, Conversazioni sulla Destra 86. André Fourçans, La globalizzazione raccontata a mia figlia 87. Aventino Frau, Un centro-destra compatibile 88. Nino Galloni, Misteri dell’euro misfatti della finanza 89. Marco Fraquelli, A destra di Porto Alegre. Perché la Destra è più noglobal della Sinistra 90. Russel A. Berman, L’antiamericanismo in Europa. Un problema culturale 91. Fiamma Nirenstein, La sabbia di Gaza. Cronache di uno sgombero forzato 92. Alfredo Mantovano, Prima del kamikaze. Giudici e legge di fronte al terrorismo islamico 93. Paolo Armaroli, Grazia a Sofri? Un intrigo costituzionale 94. Alberto Spampinato, La lezione di Ciampi 95. Council on Foreign Relations, La democrazia nel mondo arabo. Come e perché sostenerla 96. Dale O’Leary, Maschi o femmine? La guerra del genere 97. Alister McGrath, Dio e l’evoluzione. La discussione attuale 98. Luca Volontè, La congiura di Torquemada. L’eclissi di luna che colpì Buttiglione 99. Eduth Levi, Società a irresponsabilità illimitata. Tutta la verità sui manager italiani 100. Mario Brunetti, L’attualità inattuale. Il rapporto capitalismo Mezzogiorno lungo mezzo secolo 101. Maurizio Griffo, Dimenticare la dc 102. Francesco La Camera, Quale via per il partito democratico 103. Paolo Savona, L’esprit d’Europe. Come recuperarlo riformando le istituzioni 104. Luciano Pellicani, Le radici pagane dell’Europa 105. Francesco Delzìo, Generazione Tuareg. Giovani, flessibili e felici 106. Tony Blankley, L’ultima chance dell’Occidente 107. Ugo Cardinale, Dario Corno, Giovani oltre 108. Vincenzo Lippolis, Giovanni Pitruzzella, Il bipolarismo conflittuale. Il regime politico della Seconda Repubblica 109. Gennaro Malgieri, Le macerie della politica. Diario di un riformista deluso 110. Dina Nerozzi, L’uomo nuovo. Dallo scimpanzé al bonobo
111. Alessandro Campi, La destra in cammino. Da Alleanza nazionale al Popolo della libertà 112. Alessandro Barbano, Degenerazioni. Droga, padri e figli nell’Italia di oggi 113. Michael Bonner, La Jihad. Teoria e pratica 114. Alceste Santini, La Chiesa dopo la Chiesa. Credenti e non credenti nell’epoca del pluralismo 115. Piercamillo Falasca e Carlo Lottieri, Come il federalismo fiscale può salvare il Mezzogiorno 116. Dario Buzzelli, La Costituzione si è fermata 117. Francesco Delzìo, Politica ground zero. Lettera d’amore di un giovane tradito