Un testamento senza eredità. Una città dentro la città, una città-stato dentro e oltre lo Stato: difficilmente potrebbe essere coniata metafora migliore per descrivere il luogo simbolo della Fiat, Mirafiori. Difficilmente si potrebbe sintetizzare meglio il ruolo che la sua storia ha assunto nel determinare le sorti della politica economica italiana. Come in passato, le recenti vicende di Pomigliano d'Arco e Mirafiori hanno contribuito a riportare al centro del dibattito pubblico italiano la questione lavoro. Come in passato, la nuova strategia Fiat farà scuola: l'intero sistema delle relazioni industriali in Italia non tarderà a imparare da Marchionne come coniugare la
privatizzazione delle forme di contrattazione sindacale, la trasfigurazione di procedure democratiche in forme plebiscitarie (con l'annesso ricatto che vi fa sfondo) con una politica antisindacale (1). Quest'ultima, in particolare, non ha mai cessato di essere adottata dalle dirigenze aziendali per riconquistare il terreno precedentemente sottrattogli dalla classe operaia. Ci sembra certo azzardato riabilitare questo termine, rievocante un passato costellato di vittorie, di sconfitte, ma soprattutto di contraddizioni che hanno lacerato la storia del movimento operaio per oltre un secolo. Allo stesso tempo, l’esperienza di Pomigliano e Mirafiori e l’esempio della Fiom-Cgil sembrano voler ribadire una lezione davvero “altra”. Una lezione che non vorremmo mai dimenticare. Libri, riviste e articoli continuino pure a ribadire che il concetto di classe non possa più avere cittadinanza teorica e politica negli attuali assetti economici globali. Perché classe si può solo diventare, come i delegati sindacali della Fiom e gli operai che
abbiamo avuto l'onore di incontrare in questi mesi ci hanno ricordato. Un divenire in risposta agli attacchi frontali da parte di quanti detengono le redini del dominio, dentro e fuori le fabbriche. Esemplare si è rivelato, a questo proposito, il ruolo ideologico giocato dai media italiani in occasione del duplice referendum che ha interessato gli stabilimenti campani e piemontesi della Fiat. Non è un caso che nelle più recenti forme contrattuali inserite nel mercato del lavoro italiano si verifichi una puntuale manomissione dei requisiti minimi di socializzazione garantiti (ormai parzialmente) dal Contratto Nazionale e dalla rappresentanza sindacale. E proprio a partire dalle conquiste dei diritti sul luogo di lavoro il movimento operaio ha saputo contrapporre la sua storia a quella dei Marchionne e dei Romiti. Il paradosso uscente dal quadro delineato dalla nuova strategia Fiat si manifesta con maggior chiarezza laddove, alla luce di parole chiave come delocalizzazione, globalizzazione, competitività ecc., si continua a procedere in direzione di una riduzione dei diritti, della sicurezza e della retribuzione precedentemente acquisiti nelle democrazie costituzionali occidentali. Più che offrire una lente di ingrandimento analitico sui processi economici, sociali e politici a livello internazionale, la globalizzazione sembra aver provvisto il capitalismo contemporaneo di un inedito bacino ideologico cui attingere per giustificare pubblicamente il disfacimento di quelle garanzie erette dal movimento operaio a tutela della dignità del e nel lavoro. Da alcuni decenni a questa parte le democrazie occidentali stanno cedendo il passo a questa immensa operazione ideologica – dovuta alle politiche neoliberiste intraprese a partire dalla fine degli anni Settanta e oggi riconducibili al cosiddetto “nuovo spirito del capitalismo” – e nessuna narrazione sembra capace di condensare al meglio i sogni, le speranze e l'ansia di emancipazione di milioni di persone. Alcuni hanno dovuto aspettare il 1989, altri avevano intuito da tempo che il Muro avrebbe trascinato con sé nella sua caduta una storia che si era illusa di procedere unita, come in una marcia solenne verso il sol dell'avvenire. Quel sole non c'è più e molti di noi, in fondo, nemmeno se ne rammaricano. Tutti però patiamo l'assenza di una narrazione che dia voce a tutti quei soggetti ridotti al silenzio nella storia più o meno recente. In una nuova narrazione, allora, il lavoro deve tornare ad occupare un posto centrale: non ci resta che ripartire dalle ombre proiettate nel nostro paese e nel mondo dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro, dalla precarizzazione dei contratti e dall'eclissi progressiva del lavoro salariato. Ma le ombre del presente non devono precluderci la possibilità di trasformare in un progetto comune la speranza di futuro sottratta alla nostra generazione. E' gettando luce sulle ombre del nostro presente che forse possiamo far tesoro delle conquiste del passato, ora minacciate da una competitività eletta a parola d'ordine del nuovo ordine globale. Mai come oggi la previsione di Marx sull'espansione progressiva dei mercati e sulla conseguente emersione delle contraddizioni del capitalismo manifesta tutta la sua attualità. Mai come oggi, tuttavia, i sindacati sembrano
aver rinunciato a dare alle loro battaglie un respiro internazionale. capace di esprimere la volontà coesa di non fare passi indietro sui diritti acquisiti, la tentazione ostinata di fare passi avanti verso la tutela dei lavoratori. A fronte di questa premessa è doveroso porre l'attenzione su altre scommesse che devono e dovranno interpellarci con sempre maggior forza nel futuro prossimo delle nostre lotte. La riduzione dell'orario di lavoro si profila come un'istanza irrinunciabile, oggi più di ieri, per far fronte alla disoccupazione e alla minore capacità occupazionale del sistema: le innovazioni tecnologiche e informatiche hanno reso necessarie meno persone che lavorano, a fronte di una crescita economica maggiore. A questo tassello programmatico si affiancano nuove rivendicazioni incentrate sul reddito sociale, che non può in alcun modo essere ridotto a mero reddito minimo garantito. Certamente la produttività non può più essere eletta a criterio della redistribuzione della ricchezza, e agli individui devono essere garantiti i mezzi economici indispensabili per poter partecipare attivamente alla vita della comunità di cui sono membri. Occorre restituire al lavoro la centralità che ad esso spetta, e che spetta ad ogni bene comune su cui ruota la nuova narrazione di cui non possiamo fare a meno. Il che vuol dire lavorare meno, ma lavorare tutti. Nuove forme di mutualismo possono restituire beni e servizi alla comunità a partire dal lavoro, anziché “nonostante” il lavoro. È necessario costruire nuove forme di cooperazione sia per migliorare la qualità dei servizi sia per rispondere a una diffusa necessità di partecipazione degli individui alla cosa pubblica. E c ostruire nuove forme di cooperazione non significa sostituirsi allo Stato, anzi. Significa rivendicare e aggiornare il suo ruolo nella tutela di beni comuni che, in quanto tali, non possono divenire materia di privatizzazioni, né essere abbandonati all’arbitrio della burocrazia statale. I primi utenti di questi beni comuni sono i cittadini. A loro spetta la gestione di questi beni. Per “democratizzare la democrazia”. Per giudicare e gestire i beni comuni non vi sono soggetti più adatti dei relativi utenti, ovvero i cittadini; né possono esistere utenti migliori per assicurare la dignità di chi lavora in settori che gestiscono i beni comuni di quei cittadini a cui è assicurato un lavoro, insieme alla sua dignità. Da qui ci proponiamo di ripartire, senza l'arroganza di definire in maniera definitiva un manifesto che spiani la strada verso il sol dell'avvenire. Piuttosto, dalla sua eclissi intendiamo ripartire, portandoci dietro il bagaglio dell'esperienza di quanti continuano a lottare contro le ombre del presente. Una telecamera fissa dinanzi alle porte di Mirafiori ci potrebbe forse restituire il diario di un'altra storia, quella delle lotte che negli scorsi decenni hanno contribuito a dare pregnanza storica al significato di partecipazione democratica. Quella telecamera avrebbe potuto forse riprendere gli istanti in cui masse di uomini e donne a testa alta tentarono di fare entrare dentro quei cancelli la democrazia. Le sconfitte hanno prevalso sulle vittorie, negli ultimi decenni. Per ora, un ospite inatteso davanti a quei cancelli continua ad attendere il suo turno, mentre migliaia di operai svolgono il loro all'interno. Solo assieme, seguendo il filo rosso delle attuali lotte contro le pervasive e multiformi condizioni di dominio che il XX secolo ci ha lasciato in eredità, potremo realisticamente
accompagnare quell'ospite paziente chiamato democrazia dentro i cancelli di Mirafiori, ovvero dentro i cancelli di ogni fabbrica italiana. Per farlo, abbiamo bisogno di provarci a livello internazionale. Con tutti i limiti che uno spazio modesto come questo può concedere alle analisi e proposte che in questo editoriale abbiamo appena abbozzato, abbiamo voluto pescare nel mare del recente passato del nostro paese i messaggi in bottiglia che generazioni di operai hanno affidato al loro futuro, che è anche il nostro presente. Non c'è modo migliore per farsi carico, per dirla con René Char, della nostra eredità, preceduta da nessun testamento.
(a cura di) Amatori M., Mazzone L., Morino E.
Le lezioni di Pomigliano e Mirafiori Oltre alla chiusura dello stabilimento siciliano di Termini Imerese entro la fine del 2011, nella scorsa primavera 2010 l’A. D. Sergio Marchionne annuncia anche il trasferimento a Pomigliano della produzione della Nuova Panda (attualmente assemblata in Polonia). L'investimento totale – che ammonta a circa 700 milioni di € – prevede come contropartita la sanzionabilità dello sciopero, lo smantellamento del diritto alla malattia retribuita (subordinato al tasso di assenteismo collettivo dell'intero stabilimento), una diminuzione delle pause, lo spostamento a fine turno della pausa mensa per i turnisti: tali sacrifici dovrebbero essere contobilanciati dal mantenimento dei posti di lavoro ( quasi 5000 addetti) e da circa 30 € lordi di aumento mensile. La reazione della Fiom – CGIL non si fa attendere: l'accordo palesa l'erosione dei diritti dei lavoratori. L'azienda rifiuta di conseguenza qualsiasi trattativa e rigetta ogni critica al testo, che dovrà essere approvato direttamente dai singoli lavoratori. Gli esiti plebiscitari del referendum vengono preconizzati da media e dai vertici aziendali con la baldanza propria di chi detiene una condizione dominante: nel caso in cui i NO all'accordo dovessero superare i SI, lo stabilimento di Pomigliano verrebbe chiuso. Vincono i SI, che raggiungono il 62%. Intanto, alle orecchie dei vertici Fiat e del paese risuona inascoltato il monito rappresentato dal 38 % dei NO: l’azienda ribadisce a più riprese il carattere straordinario della riorganizzazione dello stabilimento di Pomigliano, dovuta alla sua scarsa produttività e al suo alto tasso di assenteismo. Come non detto: a Luglio 2010 viene annunciato l'avvio della produzione della monovolume L0 nello stabilimento serbo di Kragujevac, anziché a Torino. A questa dichiarazione ne segue un'altra: circa 1 miliardo di euro sarà investito a Mirafiori per produrre il nuovo SUV Chrysler, che dovrà essere distribuito sul mercato europeo. L'operazione richiede un nuovo contratto che esuli dal CCNL dei metalmeccanici. Il
mantenimento di oltre 5000 posti di lavoro dipende dalla firma di un contratto che prevede il passaggio da due turni per cinque giorni a tre turni per cinque fino a tre per sei giorni (compreso il sabato); l'innalzamento delle ore di straordinari obbligatori (da 40 a 120 ore annue, cui se ne devono aggiungere altre 80 concordabili con i sindacati firmatari); come a Pomigliano, il diritto da parte di Fiat di non retribuire i primi tre giorni di malattia e la sanzionabilità dello sciopero. Neppure la contropartita subisce ratifiche degne di nota rispetto a quella di Pomigliano: vengono promessi aumenti salariali che nella maggior parte dei casi ammontano a poche decine di euro. Il peggio dell'economia italiana sembra aver imparato dal peggio della politica italiana: come i partiti, saranno le sigle sindacali a nominare i delegati, la cui elezione viene così sottratta alle scelte dei lavoratori. Ovviamente le sigle sindacali che avversano l'accordo perderanno anche la possibilità di eleggere delegati propri in fabbrica. Il supporto al testo del contratto da parte di CISL e UIL espelle automaticamente FIOM CGIL dagli stabilimenti. Come a Pomigliano, l'accordo viene sottoposto in forma referendaria all’approvazione diretta dei lavoratori: in caso di rifiuto da parte degli stessi, non ci sarà nel prossimo futuro più nulla da contrattare. Vince il SI con 54%. Perde il no con il 46%, grazie ai voti di quei lavoratori – gli impiegati – che non sanno cosa siano i turni.
(a cura di) Mazzone L., Morino E.
Profilo storico (a cura di) Acampora D., Aimar A., Chiantaretto S., Mazzone L., Migliaccio F.
Prima degli anni '60 Anche a costo di trasformare la fabbrica in una prigione, la Fiat guidata da Valletta realizzò il boom economico e l'aumento dell'immigrazione operaia* degli anni '50 e '60 del Novecento all'insegna di un unica, grande sfida: produrre (2).
Stanno come in guerra in fabbrica gli operai.
Ritraducendo in questi termini i versi di “Soldati” di Ungaretti è forse possibile rendere conto dell'organizzazione del lavoro interna alla fabbrica in quegli anni, improntata al rigido fordismo che già nel 1912 Giovanni Agnelli aveva importato in Italia: non a caso, la gerarchia impressa ai rapporti di lavoro conferisce alla catena di montaggio le sembianze di una trincea, con i suoi generali e le sue truppe. Tutto è lecito, in guerra (3). Le tinte fosche di questo spettacolo sono ritratte in “Tempi Moderni” di Chaplin: il lavoro si compone di attività semplici,
sempre uguali a se stesse, da ripetere per ore e ore, cronometrate e sorvegliate da altri soldati a cui si è tenuti ad obbedire (4).
Gli anni '60 e le prime lotte Sono gli anni della motorizzazione di massa, dell'aumento dei consumi, della promessa di maggiore benessere. Occorrevano decine di migliaia di operai per produrre le migliaia di macchine che milioni di italiani avevano imparato a guidare. Masse compatte iniziarono a riversarsi su un territorio impreparato ad accoglierle: Torino non offriva case, servizi e una cultura in grado di ospitare “i napuli” o i “terun”. E' all'interno di un contesto così inospitale che la fabbrica diventò l'unico vero luogo di cittadinanza e d'integrazione: impotente e minacciosa, essa era crocevia di nuove relazioni, culla di una nuova identità che si faceva strada anche tra gli ultimi arrivati: una identità “di classe”. Operai specializzati (e non) iniziarono a condividere una comune prospettiva di lotta, caratterizzata dall'incontro tra generazioni diverse, per di più provenienti da contesti geografici differenti, e supportata dal nascente movimento studentesco. Gli operai, prima impauriti dalla fabbrica, ne presero progressivamente confidenza (5): conoscendosi reciprocamente, potevano socializzare anche il rifiuto delle condizioni di lavoro a cui dovevano sottostare (6). Il '69, l'autunno caldo, nasce dalla comune esperienza dell'inferno (7).
Il caldo '69 Iniziò la stagione degli scioperi, dei cortei interni, dei picchetti, dell'orgoglio operaio che diventa politica. La Fiat di quegli anni era, per i tanti arrivati dalle campagne da nord a sud, una scuola di politica e di comunità: solidarietà e lotta sono le due parole chiave. Gli operai erano al centro di ogni scelta politica, le condizioni nella fabbrica migliorarono, la voce dei lavoratori venne sentita e qualche volta presa in considerazione. Nel 1971, all'insegna del motto “la miglior difesa è l'attacco”, incominciano le vertenze unitarie su cottimo (8), ambiente di lavoro, qualifiche e diritti sindacali. A differenza del 1969 (9), tale piattaforma rivendicativa spostava l'asse delle vertenze dalla contrattazione delle conseguenze derivanti dall'organizzazione del lavoro alla modifica strutturale della produzione stessa. Le richieste: riduzione del ventaglio salariale e dei differenziali di qualifica, superamento del cottimo e aumento di 50 lire all'ora per tutti. Tali vertenze trovarono una serie di compromessi nell'accordo finale. Crescente fu la presenza dei comunisti nelle fabbriche e il loro sostegno a favore dei delegati e dei consigli di fabbrica.
Gli anni '70: la crisi, la lotta continua e le nuove generazioni Con il 1973 giunse la crisi: i consumi cominciarono a diminuire e i conflitti internazionali contribuirono alla penuria petrolifera. E' in questi anni che la Fiat
adottò una nuova strategia. Il settore dell'industria dell'automobile andava incontro a una ristrutturazione complessiva, che rispondeva a un duplice fattore: la debole crescita degli acquisti e la conseguente stagnazione della domanda interna dei paesi produttori. Gli effetti sarebbero ratificati nel 1980 con una riforma strutturale dei rapporti di lavoro. È in questo contesto che la Fiat si avvia a diventare una compagnia finanziaria di carattere multinazionale: assumono nuova importanza le politiche di esportazioni, le modifiche apportate al prodotto e alla tecnica costruttiva, il decentramento produttivo e lo sviluppo di circuiti produttivi policentrici su scala internazionale. Cambiò il rapporto con le banche: entro il contesto di crescente internazionalizzazione del gruppo Fiat si collocava anche la politica culturale intrapresa dall'azienda. Inoltre, controllando istituti finanziari, bancari, giornali e fondazioni di Torino la Fiat poté assicurarsi l'esercizio della propria egemonia culturale per stringere un rapporto diretto con i sindacati e gli operai, la cui subordinazione risulta un requisito indispensabile per gestire la propria politica industriale. Intanto in fabbrica nel 1978 entra una nuova generazione operaia composta di un'alta percentuale femminile (10). Le differenze si fanno sentire – i “vecchi” fanno fatica a capire i giovani e viceversa. Era cambiato molto il mondo fuori da Mirafiori e quei nuovi arrivati erano il prodotto di quel mutamento. Per loro l'ingresso in fabbrica non era un punto di arrivo, un appuntamento con il progresso ed il lavoro, ma al massimo un passaggio obbligato. Coloro che entravano in quel 1978 erano i figli e le figlie della scolarizzazione di massa: era la cultura del '70 ad averli plasmati. Un decennio dove l'individualità chiedeva spazio, la libertà non era solo più collettiva ma anche privata, intima. La fabbrica che trovavano era un luogo di oppressione, intollerabile. Per i vecchi invece era un luogo migliorato rispetto a prima, un prima che i giovani non avevano potuto conoscere. E i giovani non avevano nemmeno conosciuto il prezzo pagato, di lotte e sacrifici, per ottenere quella fabbrica – opprimente ma comunque mutata e un poco più umana. C'era incomprensione tra le due generazioni ma l'autunno del 1980 le avrebbe obbligate al confronto.
1980: la fine di un'era Il 10 settembre 1980 la Fiat annunciò i 14469 licenziamenti che la nuova ristrutturazione produttiva aveva reso necessari. Cominciò un nuovo '69: assemblee, cortei, picchetti, anche se i giovani non furono subito completamente della partita iniziata dai “vecchi” leader del movimento. Il 26 settembre c'era Berlinguer davanti ai cancelli, per assicurare che il Partito Comunista ci sarebbe stato, a qualunque condizione. Il 27 Cossiga si dimise e il governo cadde. La Fiat cambia strategia: i licenziamenti diventarono “solo” cassa integrazione per migliaia di lavoratori: 24.000 (di cui 22.000 operai metalmeccanici) in cassa integrazione per 18 mesi, al termine dei quali una metà sarebbe stata reintegrata in fabbrica e l'altra sarebbe
stata soggetta a meccanismi di mobilità esterna. Iniziarono così i 35 giorni della FIAT, fra settembre e ottobre del 1980: un mese caldo in cui si ripeterono a oltranza gli scioperi quotidiani di sei ore, i cortei degli operai per le vie della città, i presidi ai cancelli di Mirafiori. Cominciarono i picchetti, le notti, i racconti, la legna per scaldarsi. Si ricreò una comunità, in difesa, non in attacco. La svolta avviene il 14 ottobre: la mattina sfilò nel centro di Torino il “Coordinamento dei capi e quadri Fiat”. Dirigenti, colletti bianchi e impiegati manifestarono il dissenso verso le forme di protesta e le rivendicazioni dei Consigli di fabbrica di Mirafiori, riuniti nel pomeriggio dello stesso giorno al Teatro Smeraldo. La “marcia dei 40.000” inflisse un colpo durissimo al movimento operaio italiano (11): il giorno dopo i sindacati confederali siglarono a Roma l'accordo con i vertici Fiat: 23.000 lavoratori in cassa integrazione con promessa di rientro dopo alla scadenza dei 18 mesi. 15 ottobre: il giorno dopo era il momento delle assemblee davanti ai cancelli per legittimare l'accordo col voto operaio. Ma non ci fu alcuna legittimazione. Una telecamera immortala un momento emblematico: al momento di decidere pochi mani si alzano per dire sì all'accordo, poco importa, il sindacato annuncia che la maggioranza ha detto sì. Una violazione della democrazia in diretta tv, risposta a chi si chiede il perché di una crisi sindacale del dopo '80.
Gli anni '80, la cassa integrazione e le Upa Nei dieci anni successivi alla sconfitta del 14 ottobre i rapporti fra sindacato e cassintegrati (riunitisi nel Coordinamento Cassintegrati) si deteriorarono e i soggetti espulsi dal luogo di lavoro vissero ai margini della società, fra disagi psicologici, oblio istituzionale e speranza di reintegro. I 18 mesi furono prolungati in seguito ad ulteriori accordi e la strategia della dirigenza Fiat mirò a ridurre drasticamente il numero di lavoratori in esubero proponendo prepensionamenti e ricche liquidazioni di licenziamento. Il reintegro sarebbe avvenuto solo a partire dal 1985, ma gran parte degli operai non sarebbero stati più riammessi a Mirafiori. La Fiat predispose per loro stabilimenti ad hoc: le Upa (unità di produzione accessoriale, centri industriali di produzione accessoriale o di imballaggio) dislocate in periferia. Gli operai che per cinque anni avevano rifiutato le offerte di liquidazione non poterono tornare nel cuore della produzione e dopo l'emarginazione della cassa integrazione subirono il confino in organismi produttivi spesso inutili, privi delle basilari norme sulla sicurezza, istituiti solo per consentire il reintegro obbligato dagli accordi presi dalla dirigenza. La strategia dirigenziale del decennio seguente all'accordo ebbe il solo fine di disincentivare il reintegro attraverso continue offerte di liquidazione e prepensionamento, rafforzate dalle condizioni inaccettabili che attendevano gli operai nelle Upa, dai ritmi di lavoro disumani o dalla violenza psicologica operata sul luogo di lavoro: i cassintegrati del 1980 erano scomodi residui di cui liberarsi al più presto in nome di una maggiore razionalizzazione
della produzione. Gli aiuti economici pubblici affidati all'azienda servirono a finanziare la riduzione del personale e aumentare i capitali della Fiat: i contributi statali e dell'Unione Europea (finalizzati a operazioni di welfare, strategie di formazione e reintegro dei cassintegrati) vennero impiegati per le offerte di liquidazione o per l'istituzione di corsi di formazione inutili e spesso fittizi. I reintegri nel confino delle Upa furono necessari perché solo con lo smaltimento dei cassintegrati la Fiat (che attraversava una nuova espansione economica nella seconda metà degli anni ' 80) avrebbe potuto assumere nuovi operai con i Contratti di formazione e lavoro (contratti a termine per il nuovo lavoro flessibile), anch'essi oggetto di importanti finanziamenti e sgravi concessi dagli enti pubblici. Il confino delle Upa rappresentò un chiaro tentativo di emarginazione socio-politica (selezione cosciente dei delegati sindacali, dei comunisti) e razionalizzazione della produzione a sfondo darwinista (isolamento degli improduttivi: donne, invalidi, anziani). Le condizioni di lavoro umilianti e l'emarginazione concentrazionaria aprono una possibile analogia fra le forme più dure di produzione capitalistica (dalle Upa torinesi, alle fabbriche inglesi del '700, fino alle cittadine industriali della Cina contemporanea) e i sistemi di produzione e repressione totalitari. La posizione di forza della Fiat, inoltre, innescò una frattura interna al mondo del lavoro di fabbrica, nel quale si favorì la divisione interna tra i lavoratori e l'identificazione del lavoro con la strategia aziendale. La velocizzazione del processo produttivo impose ritmi veloci e regolari sul numero di pezzi, sulle operazioni consecutive, sui movimenti fisici. La fabbrica cambiò volto, e con lei il lavoro fisico delle persone per mandarlo avanti. Esso diventò completamente organico alla strategia aziendale.
La prospettiva odierna Dalla nostra prospettiva, la sconfitta del 1980 rappresenta una svolta storica nei rapporti fra sindacato e consigli di fabbrica: “questo fu il risultato della sconfitta alla Fiat: la modifica qualitativa della natura stessa del sindacato. Non solo la sconfitta del modello consiliare, ma la rottura del patto fondamentale che fin dall'origine aveva legato l'organizzazione ai suoi appartenenti, i dirigenti alla loro base, i rappresentanti e i rappresentati e la formulazione di un nuovo patto, con nuovi soggetti, nuovi referenti, e nuovi contenuti. La gestione dei rapporti di forza non sarà più la stessa dopo il 1980 e si apre una stagione di crisi per le forze sindacali da una parte e le forze politiche della sinistra italiana dall'altra. L'accordo stipulato nel 1980 si profila come un attacco mirato ai diritti ottenuti nel decennio precedente: Mirafiori è l'avamposto da cui si avvia la dissoluzione dei sistemi consiliari, della partecipazione operaia nei processi di produzione, delle conquiste contrattuali e della sostanziale coesione e organizzazione del movimento operaio. La strategia dirigenziale della Fiat è un'operazione chirurgica diretta al cuore dell'organizzazione operaia
interna a Mirafiori: si colpiscono i delegati sindacali e i lavoratori più irriducibili e politicizzati (il movimento operaio di conseguenza subisce un indebolimento senza precedenti), si emarginano gli invalidi, gli inabili, le donne e i più anziani. La lotta del 1980 è un paradigma fondativo del processo di neo-liberismo in cui siamo immersi, della perdita di forza dell'organismo sindacale, che nel Novecento aveva costruito con la sua unità le basi per un conflitto importante nel mondo del lavoro. La lotta Fiom di questi mesi ha portato alla luce le evidenti questioni sollevate dal nuovo modo di produzione e ha formulato proposte per una fabbrica al passo con le urgenze ambientali, per una nuova mobilità, in risposta alle rivendicazioni che donne e precari fanno per un lavoro che sia in armonia con la vita quotidiana. Il ponte tra il momento attuale e i 35 giorni dell'autunno '80 sta in questo: il diritto ad un lavoro sostenibile, per ogni donna o uomo, è ancora la questione maggiore da risolvere. Note 1 Tra il 1955 e il 1968 ci fu un raddoppiamento delle assunzioni alimentato dalle ondate migratorie. Nel 1951 Torino conta 719 mila abitanti: nel 1961 la popolazione ammonta a poco più di un milione e nel 1971 raggiunge la cifra di 1.184.223 abitanti. 2 Nel 1952 si producevano un qualcosa come 500 auto al giorno, nel 1968 7000. I numeri assoluti sono ancora più chiari: dalle 430 mila auto prodotte nel 1959 si arriva a 1.452.297 nel 1968. 3 Negli anni '50 il la rappresentanza dei lavoratori fu assunta dai sindacati organizzati dai vertici FIAT. «La FIAT divenne assai simile a una enorme caserma e prigione, con la disciplina, la repressione, il conformismo, la paura, i “reparti confino”, propri di regimi autoritari e fascisti» [L. Libertini (1973), p. 75]. 4 Velocità e ordini denotano i tratti distintivi dell'esperienza di dominio che si svolge in fabbrica, secondo Simone Weil: la prima respinge ogni attività umana che non coincida con la cieca esecuzione dei compiti affidati, mentre «pensare, vuol dire andar più piano», Weil S. (1951), p. 129. 5 «Quando si ha occasione di scambiare uno sguardo con un operaio – sia che lo si incontri passando, che gli si chieda qualcosa, o che lo si guardi mentre lavora alla sua macchina – la sua prima reazione è sempre il sorriso. E' una cosa bellissima. Una cosa simile accade solo in fabbrica», Weil S. (1951), p. 114. 6 1962: vertenza per il contratto nazionale dei metalmeccanici accompagnata da grandi scioperi e picchettaggi di massa. 1968: vertenza sui cottimi e scioperi di reparto precedettero l'avanzata politica del fronte operaio nelle
elezioni del 19 Maggio 1968. Il P.C.I. divenne il primo partito di Torino. 14 Novembre 1968: sciopero generale sulle pensioni che unificò i diversi fronti sociali. 2 dicembre 1968: eccidio dei braccianti ad Avola. 7 Divisione dei ruoli e delle funzioni previste dall'organizzazione di fabbrica [Weil S. (1951), pp. 9596]; durata (8 ore e 45 minuti al giorno) e tipologia del lavoro giornaliero; numero dei pezzi montati e di quelli scartati; ordinativi ultimati in tempo; sistema salariale; fatica psico-fisica scandita da nausea e stanchezza [Weil S. (1951), p. 34]; viltà degli operatori [Weil S. (1951), p. 31]: Sono questi alcuni degli indicatori del dominio vigente in fabbrica rilevati nella metà degli anni Trenta del Novecento da Simone Weil. 8 La retribuzione a cottimo prevede di corrispondere al lavoratore un compenso commisurato alla quantità di lavoro prodotto, anziché sulla base della durata della prestazione lavorativa. 9 9 Aprile 1969: eccidio degli operai e dei disoccupati a Battipaglia. Seguirono due scioperi, le prime assemblee interne, l'incontro con gli studenti, il dibattito su temi politici. Vertenza sulla mensa: assemblee, cortei, nuove forme di rappresentanza sindacale (nomine dei primi delegati). Rivendicazione in massa del passaggio alla categoria di operai qualificati e livellamento salariale. Risposta della FIAT: licenziamento di 30000 operai in una volta sola, licenziamenti sistematici, denunce alla magistratura, campagna di stampa contro le lotte operaie. Controrisposta dei lavoratori: grande sciopero interno, cortei interni alle Officine, moltiplicazione delle assemblee, aumento dei delegati, elezione dei consigli, organizzazione di manifestazioni cittadine. Dicembre 1969: firma del contratto nazionale. A parte le conquiste ottenute in materia di concessione del diritto di assemblea (con 10 ore retribuite all'anno), di riconoscimento dei rappresentanti sindacali (con 8 ore retribuite di permessi al mese, 1 rappresentante ogni 250 dipendenti), di un giorno di ferie in più, di parità di trattamento degli infortuni tra impiegati e operai e di parità di trattamento per malattia (entro il 1982), di orario settimanale fissato in 40 ore complessive (entro il 1972), di aumento di 65 lire all'ora eguale per tutti, altre tre grandi conquiste qualitative risalgono al 1969: la comparsa di delegati e consigli esercitarono una forma embrionale di controllo sul processo di produzione, passibile di contrapporsi al potere padronale. La novità politica di questo dato può essere notata a partire dalla reazione padronale: «ciò che nei delegati sopra ogni altra cosa il blocco industriale respinge è che essi siano l'espressione di un potere unitario dei lavoratori che si eserciti all'interno delle strutture di produzione: è che essi siano lo strumento di una crescita di coscienza politica» [L. Libertini (1973), p. 99]. l'unità delle lotte e delle rivendicazioni, scaturite da condizioni oggettive interne al luogo di produzione e dalla progressiva cementificazione di una coscienza di classe.
nuova strategia rivendicativa, che rompeva le rigide barriere innalzate tra operi e impiegati grazie all'integrazione del progressivo riconoscimento di diversi livelli di qualifica e di remunerazione salariale a carattere egualitario (si veda il trattamento degli infortuni, della malattia e gli aumenti salariali eguali per tutti). 10 Il fordismo è stato un modello produttivo la cui richiesta di manodopera non prevedeva alcuna capacità o condizione particolare al singolo. Di fatto ciò ha costituito la principale porta di ingresso delle donne nelle fabbriche ed ha permesso al femminismo di costituirsi anche come fenomeno di rivendicazione di eguaglianza salariale. 11 La marcia dei 40000: La “restaurazione” posta in essere da Fiat si palesa nell'attuazione di politiche protoliberiste che preparano il campo all'attuale flessibilità e precarietà e all'atomizzazione delle esistenze lavorative. Dal lato delle maestranze e della loro rappresentanza, l'inizio della disgregazione dell'unità sindacale, la frattura che si allarga tra lavoratori e confederazioni sindacali. Parole chiave
dalla manutenzione meccanica si espanse anche a tutte le singole operazioni compiute dagli operai. Originariamente ispirato al nome dell'industriale statunitense H. Ford, il fordismo non tardò ad affermarsi su scala globale. Tra i suoi effetti, occorre annoverare: la progressiva sostituzione di operai specializzati con operai non qualificati, l'aumento della concorrenza nel mercato occupazionale, l'isolamento e la divisione tra operai, la crescente monotonia imposta alle attività lavorative, l'abitudine e l'automatismo dei movimenti richiesti ai singoli operai e le inedite forme di disciplinamento interne alle singole aziende per la loro supervisione. «In conclusione, il padronato ha fatto questa scoperta: che per sfruttare meglio la forza operaia c'è un sistema migliore di quello di allungare la giornata di lavoro. […] C'è dunque un limite alla produzione che si raggiunge abbastanza facilmente con l'aumento della giornata di lavoro» – dovuto a stanchezza fisica degli operai – «mentre non lo si raggiunge aumentandone l'intensità», [Weil S. (1951), p. 243].
Nuovo spirito del capitalismo Indebolendo progressivamente il ruolo dello stato sociale
(a cura di) Amatori M., Mazzone L., Migliaccio F. e privilegiando l'azionariato delle aziende, il “nuovo spirito
Parole chiave Taylorismo Prima apprendista operaio meccanico, poi tornitore, caposquadra tecnico in fabbrica e infine dirigente: questo fu il curriculum professionale di F. W. Taylor, che iniziò a lavorare in fabbrica nonostante le sue origini borghesi, forse per l'avversione all'ozio stimolata dalla sua fede puritana. A questa stessa fede risale il suo maniacale spirito calcolatore nei confronti dell'organizzazione di lavoro di fabbrica. Certamente fu la sua esperienza lavorativa pregressa a ispirargli il metodo del lavoro a cottimo, con il quale i salari avrebbero subito una riduzione qualora gli operai avessero continuato ad aumentare la cadenza del loro lavoro. A partire dal 1880, Taylor ebbe modo di mettere a punto questo particolare sistema di lavoro a cottimo con premi di produzione per i 26 anni successivi: durante questo lasso di tempo, Taylor istituì un ufficio che si occupasse appositamente dei metodi di lavorazione. Da questo studio iniziale, un ulteriore ufficio poté stabilire la durata necessaria per ogni singola operazione lavorativa condotta dagli operai: a ciò seguì la divisione del lavoro tra dirigenti tecnici, deputati a presidiare le differenti funzioni aziendali individuate per la razionalizzazione della produzione.
del capitalismo” ha assunto progressivamente una propria identità morale, all'insegna della quale sono state mobilitate in suo favore nuove risorse motivazionali. Basti citare, a titolo di esempio, la demolizione dei metodi di produzione fordisti, a cui si è accompagnata la diffusione di una nuova concezione dei lavoratori, considerati non più come dipendenti ma come imprenditori di se stessi. Il livellamento delle gerarchie, l'autonomia dei team aziendali e l'autogestione hanno indotto i lavoratori a concepirsi sempre più individualizzati, a conformare le loro motivazioni con il profilo delle attività richieste, a percepire qualsiasi cambiamento sul posto di lavoro come un frutto della loro iniziativa. Richiamandosi continuamente alla crescente responsabilità e autonomia che spetterebbe ai lavoratori stessi, questo nuovo sistema di richieste ha consentito di legittimare la progressiva deregolamentazione del lavoro salariato. La novità risiede nell'incremento dell'illusione: il nuovo spirito del capitalismo consiste nel produrre l'adesione volontaria dei lavoratori alla loro schiavitù. Ecco perché la critica dell'ideologia, oggi più di ieri, serve da critica alle condizioni di dominio che meno di ieri possono essere intese come suo mero sostrato materiale. «Quando l'autonomia si riduce a una promessa impossibile da onorare in virtù del contesto sociale entro cui viene formulata, ma si presenta come una giustificazione morale, si è in presenza di un'ideologia», [M. Marzano (2010), p. 70.]
Toyotismo Fordismo Facendo tesoro delle innovazioni apportate dal Taylorismo, il fordismo decretò l'estensione del metodo produttivo inaugurato dalla catena di montaggio, che
Il Toyotismo (anche Toyota Oproduction System) designa un metodo di organizzazione industriale volto a massimizzare le (poche) risorse disponibili nel modo più produttivo possibile con l'obiettivo di incrementare
drasticamente la produttività aziendale. Ispirato al metodo di produzione della Toyota, il TPS inverte l'ordine dei termini della classica formula fordista “Produrre per vendere”: il Toyotismo impone di “vendere per produrre”, eliminando gli stock e le giacenze di materiale in fabbrica (just in time) e producendo solo in risposta alla domanda effettiva del cliente. Simili coordinate della produzione impongono l'adeguamento dell'organizzazione del lavoro alla flessibilità qualitativa e quantitativa della domanda sul mercato. La sofistica menageriale che fa da sfondo a questa nuova organizzazione della produzione si fonda sulla cosiddetta ideologia del “tutto è possibile”, in cui il fallimento lavorativo è a carico solo ed esclusivamente del dipendente, che deve farsi “imprenditore di se stesso”. Tale ideologia insiste su messaggi tra loro contraddittori e predica l'autonomia dei lavoratori laddove l'individuo non ha spazio alcuno per decidere obiettivi e calendario degli stessi: «questa bella parola, in sostanza, serve solo a uno scopo: rendere i dipendenti totalmente responsabili dei loro eventuali fallimenti. Dall'incoerenza di questi messaggi nasce il disagio della contemporaneità», [M. Marzano (2010), p. 19]. Per poter sussistere, ogni condizione di dominio deve dissimularsi ricorrendo al suo contrario: «Mentre il fordismo, per aumentare la produttività, faceva leva sulle pressioni derivanti dall'esterno, a opera dei capireparto, il toyotismo introduce una “pressione interiorizzata” attraverso il lavoro di gruppo. Sarà il collettivo a imporre al singolo di impegnarsi al massimo, onde evitare che gli altri vengano penalizzati», [M. Marzano (2010), p. 35]. Anche solo chi abbia lavorato in un call center ha una vaga idea di cosa significhi.
Crisi e non solo La storia economica ci insegna che ogni crisi incrementa il rango di opportunità a disposizione del padronato: piangendo miseria, questi può meglio controllare le sorti della propria impresa e la vita delle persone e del territorio da cui deriva la ricchezza prodotta. La successione storica delle ristrutturazioni dei rapporti industriali dei principali poli produttivi si adatta costantemente ai momenti di debolezza del mercato: il peso delle crisi economiche è sempre stato caricato sulle spalle dei lavoratori. Ciò vale per gli anni '70: durante le crisi petrolifere e la stagnazione della domanda interna l'impresa chiedeva “sacrifici” ai propri lavoratori, ovvero licenziamenti e straordinari. Vale anche e soprattutto oggi, con la saturazione del mercato globale: anche la ristrutturazione ha assunto forma una dimensione globale. Diversamente dagli anni '70, tuttavia, è mutato il rapporto di forza tra padronato e lavoro salariato, così come la natura del conflitto tra capitale e lavoro. La cultura del cosiddetto “post-fordismo” tende a dissimulare, come ogni forma di dominio, la struttura del conflitto con cui le classi sociali si sono storicamente affrontate per spartirsi il bottino della ricchezza. I rapporti di forza sono sempre stati squilibrati, ma oggi si assiste all'annientamento vero e proprio della controparte lavorativa. La possibilità reale, da parte dell'impresa, di ricattare il lavoro è dovuta ad una posizione di dominio nella cosiddetta contrattazione.
La ristrutturazione aziendale infatti è un processo che si occupa di rendere la variabile lavoro sempre più marginale e sostituibile nel processo produttivo. I rapporti di forza classici della forza lavoro sindacalizzata vanno incontro a una crescente subalternità. L'impotenza che ne consegue proietta inevitabilmente sulla struttura classica del sindacato le sembianze di un attore collettivo ormai impreparato ad affrontare le nuove ristrutturazioni dei rapporti di dominio. La rivoluzione post-fordista rappresenta l'età della fine del lavoro e, nel contempo, dell'apogeo del lavoro immateriale. La segmentazione del lavoro, la flessibilità e la precarietà sono i processi con cui si inizia a sradicare la premessa fondante della società moderna: quella che il lavoro, come la produzione, sono “prodotti sociali” e rappresentano “proprietà collettive”, “beni comuni”. Ma il lavoro diventa funzione del mercato e non più rapporto sociale. Gli anni '80 hanno ratificato l'equivalenza tra lavoro e merce nel nostro paese. L'80, i 35 giorni di occupazione di Mirafiori e la marcia dei 40000 rappresentano un momento storico drammatico, in cui “il capitale” ha vinto sul lavoro. Con il contratto separato e le nuove forme di contrattazione individuale gli anni '90 rappresentano l'epilogo di quella sconfitta. «Benché dominati, gli operai potevano almeno considerarsi proletari sfruttati, in grado di fare gruppo con altri, desiderosi come loro di migliorare la condizione di ognuno attraverso la lotta collettiva. Era un modo per non sentirsi umiliati di fronte a se stessi, un modo per mantenere una dignità operaia», [M. Marzano (2010), p. 30]: l'“egoismo” del singolo operaio implicava direttamente l'altruismo nei confronti della sua classe.
Bibliografia (a cura di) Acampora D., Aimar A., Chiantaretto S., Mazzone L., Migliaccio F. Weil S., La condition ouvrière, Gallimard, Paris 1951; tr. it. La condizione operaia, SE, Milano 1994. Libertini L., La Fiat negli anni Settanta, Editori Riuniti, Roma 1973. Marzano M., L'estensione del dominio della manipolazione. Dall'azienda alla vita privata, Mondadori, Milano2010. Polo G, Sabattini C., Restaurazione italiana. Passato e presente dei 35 giorni alla Fiat del 1980, ManifestoLibri, Roma 2000.
Revelli M., Lavorare in Fiat, Garzanti, Milano 1989. Revelli M., Polo G., Fiat. Relegati di reparto, Massari, Colsena (VT) 1992. Revelli M., Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001.