DELOC PROJECT - SEMINAR CONCLUSIONS

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Convegno internazionale DELOC Tre territori europei di fronte all’internazionalizzazione dei mercati Trois territoires éuropéens confronté à l’internationalisation des marchés Venezia – Mestre, 12 e 13 aprile 2007

Nota: di seguito è riportata la trascrizione libera degli interventi di relatori esterni al progetto Deloc svolti nell’ambito del Convegno. I testi non sono stati rivisti dagli autori.

I Sessione

L’impatto della globalizzazione in tre realtà europee INTERVENTI Federico Callegari (Ufficio studi della Camera di Commercio di Treviso) Il mio breve intervento vuol parlare di “non delocalizzazione”, perché in realtà la globalizzazione stessa genera anche dei fenomeni che non hanno bisogno di reti produttive delocalizzate. La varietà e l’eterogeneita dei percorsi di sviluppo che contraddistinguono il Veneto, già richiamati questa mattina, sono fattori emblematici del modo in cui in un’economia di varietà si possa affrontare per così dire a testa alta lo spiazzamento indotto dalla globalizzazione. Per questo è bene evitare di proporre, anche con il linguaggio, rappresentazioni parziali del fenomeno, così come mi pare sia emerso in alcune delle relazioni che mi hanno preceduto, laddove veniva proposta una visione della globalizzazione un po’ troppo a senso unico. Comprensibile nel caso del Portogallo, dove però alcune concatenazioni sono state determinate da una scarsa lungimiranza in merito al posizionamento di quel paese negli scenari globali. Mentre maggiori perplessità mi ha destato il ripetuto uso e la connotazione negativa data dagli amici francesi alla globalizzazione; mi sono appuntato alcune espressioni: de-localizzazione, de-industrializzazione, smantellamento, abbandono di attività locali; oppure, in logica difensiva, controllo locale degli investimenti, difesa delle produzioni locali… addirittura globalizzazione come “mostro”. Non credo che questo tipo di rappresentazione ci aiuti a governare il cambiamento, nel momento in cui invece nella globalizzazione noi territori dobbiamo vederci e sentirci inseriti all’interno di una griglia di nodi e di reti. Io oggi ho sentito parlare più di reti, di flussi che vanno via. In realtà dobbiamo pensare ad un mix più equilibrato di nodi senza evitare il rischio Portogallo (un nodo fin troppo specifico, fin troppo dipendente al punto da diventare marginale) o di territorio rete, per nulla distintivo e facilmente sostituibile. Quindi, la prima attenzione è al come rappresentiamo, con il linguaggio, la globalizzazione. Non è certamente un percorso a senso unico, come potrebbe sembrare a partire da alcuni passaggi di questa mattina. Seconda attenzione: l’eccesso di politiche che possono “dirigere” il cambiamento. Cito ancora una frase pronunciata da Sylviane Cartaz, “stiamo cercando di poter organizzare la mutazione”. Se può essere utile citare l’esperienza condotta di recente nell’ambito di un altro progetto Fse – art. 6 (…), noi ci siamo convinti del fatto che il cambiamento non lo possiamo organizzare dall’alto. Ma a fronte di questi processi, il cambiamento deve diventare un atteggiamento mentale dei players, soprattutto delle imprese, quindi di una componente essenziale dei nodi; imprese prima di tutto, ma

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poi anche istituzioni. È proprio ciò che poi rende un territorio distintivo, ma al contempo anche sufficientemente interfacciato con i cambiamenti a livello globale. Un esempio concreto, a partire dalla mia esperienza di osservatore sul territorio, a Treviso, e da un settore, il sistema moda, di cui si è parlato questa mattina. Al di là di interventi a valle per minimizzare l’impatto sociale delle delecalizzazioni, può essere curioso capire un po’ più in dettaglio che cosa è accaduto al sistema moda. È vero, esso ha perso un numero importante di addetti; però è anche vero che non facendo nulla, per così dire “non assistendo il moribondo”, è stato favorito un processo di autoselezione delle imprese. Oggi il Veneto individua a livello italiano un polo di specializzazione importante nella moda dove, accanto a imprese che colgono le opportunità della globalizzazione e hanno praticamente la produzione al 100% esternalizzata, c’è un numero rilevante (per quanto non altrettanto visibile) di imprese di nicchia, imprese che presidiano importanti segmenti di mercato di fascia medio-alta, alta e altissima. E dove sono accaduti anche importanti effetti di ricomposizione della manodopera. Il caso di Montebelluna è forse noto anche a livello internazionale. Lì ormai ciò che doveva essere portato fuori è stato portato fuori; ma per esempio abbiamo realtà aziendali di 30 dipendenti con 900 lavoratori in Romania; quei 30 dipendenti sono tutti progettisti, tecnici di logistica o di marketing. Quindi, anche con una composizione della forza lavoro più in sintonia con quella che è la struttura del mercato del lavoro locale. In questo processo di selezione del sistema moda del Veneto si è permessa la sopravvivenza e l’evoluzione di imprese, per esempio di lanifici, che non hanno bisogno di delocalizzare, hanno il ciclo industriale completo, magari fanno fatica a trovare periti tessili ma trovano la loro forza nella flessibilità produttiva raggiunta visto che offrono 3.600 varianti-tessuto per stagione: quindi spingono al massimo la specializzazione di processo. E qui vengo al punto centrale di quello che vuole essere il mio contributo. Voglio parlare di ciò che la globalizzazione lascia scoperto come opportunità. La globalizzazione è normalmente intesa come connessa a produzioni standard rispetto alle quali si perseguono vantaggi di costo e, per questo, si porta la produzione o in Romania o, se il prodotto è ancor più standard, in Cina. In realtà, però, i mercati evoluti, quelli che dovrebbero interessare di più il manifatturiero europeo, stanno generando una domanda, oltre che di qualità del prodotto, di varietà, di velocità degli assortimenti che sta creando degli spazi che non possono essere presidiati da reti delocalizzate, dove poi il vantaggio di costo è sbilanciato dai costi di transazione, di gestione e di coordinamento di una rete lunga. In questo interstizio credo che non solo il manifatturiero trevigiano o veneto, ma tutto quello europeo, abbia da giocare le sue chance. Ovviamente è un percorso faticoso, perché – parlando con le imprese – tradurre la velocità, la qualità e la varietà vuol dire spingere al limite dell’efficienza i processi produttivi: 3600 variantitessuto a stagioni vuol dire impostare dei problemi di produzione per lotti brevissimi e quindi uno sforzo organizzativo immenso. Ma è l’unica chance percorribile, perché in questo modo riusciamo ad offrire un mix di prodotti e servizi davvero distintivo e non aggredibile dalla concorrenza internazionale basata sui bassi costi. Credo che sia questo il sentiero di sviluppo su cui ragionare. Noi come territorio veneto siamo famosi per alcuni big player su prodotti come maglie, elettrodomestici, motociclette. Però non dimentichiamoci che abbiamo altrettanti leader di nicchia, anche nella sub-fornitura, meno noti: siamo leader nelle maniglie anodizzate, nei pavimenti di legno, nelle selle per biciclette o nelle tute dei ciclisti. Come dire, nella varietà ci siamo inventati continuamente specializzazioni: come direbbe Rullani, il continuo riuso in modo inedito delle conoscenze. Questo è ciò che accomuna il manifatturiero dei nostri territori e queste opportunità di confronto a livello europeo credo che trovino in ciò l’ambito di lavoro più interessante. Cosa chiedono le imprese per affrontare queste sfide? Certamente fare networking in modo da contaminare i saperi tra il manifatturiero che esiste in Europa, ma soprattutto tanto apprendimento organizzativo, tornare a scuola, concepire (come abbiamo fatto per i lavoratori) forme di apprendimento continuo per imprenditori e manager. Perché la tradizione manifatturiera nostra, 2


come penso anche in Francia, è legata al saper fare; e questo saper fare oggi ha bisogno di altri saperi che incidono in modo sistematico e simultaneo sul governo dei processi interni, sulla filiera stessa (perché se devi essere veloce sul mercato anche i tuoi fornitori devono essere sincronizzati con tuo time to market). Un cambiamento non tanto eterodiretto ma agito dal basso. È questo l’approccio che abbiamo cercato di sperimentare nel nostro progetto Fse, con un approccio che puntava a coinvolgere le imprese. Può essere utile citare solo gli argomenti che abbiamo proposto alle imprese per interiorizzare nuovi saperi da affiancare al classico saper fare manifatturiero. Abbiamo preso gruppi di aziende della sub-fornitura d’abbigliamento e abbiamo lavorato sulle tecniche di miglioramento continuo. E i margini di miglioramento sono venuti fuori: le imprese, anche solo attraverso un meccanismo di attivazione cognitiva, hanno capito di non sapere e da lì hanno incominciato un percorso di cambiamento. Abbiamo affrontato il tema dell’innovazione, ma non come si usa solitamente con la retorica corrente “innovazione = creatività”, ma innovazione come metodi organizzativi a supporto della creatività; e su questo ritroviamo la cultura manifatturiera. Abbiamo portato falegnamerie a fare piani di marketing; abbiamo lavorato sull’organizzazione snella della produzione che ha generato anche cambi di fornitori. E infine abbiamo lavorato anche su temi immateriali, che sembrano distanti dalla concretezza presunta dei nostri imprenditori e, come può testimoniare Donatella Piatto, sono i workshop che hanno avuto il maggiore successo in termini di adesioni da parte degli imprenditori. Abbiamo lavorato sulla leadership del cambiamento, capace di coinvolgere anche i collaboratori e i lavoratori in queste sfide che generano angoscia e disagio. E abbiamo lavorato sulla capacità di prendere decisioni in contesti di incertezza. Abbiamo cercato, in sostanza, di fare tornare a scuola le imprese, farle tornare a imparare ad apprendere, sapendo che le sorti del manifatturiero hanno un sentiero molto stretto ma quello pensiamo sia da percorrere.

II Sessione

Politiche nazionale per cogliere le opportunità e gestire le sfide della globalizzazione Renzo Turatto (Economista, Unità di valutazione del Ministero dello sviluppo economico) Le politiche italiane per accompagnare la trasformazione industriale / Les politiques italiennes d’accompagnement des mutations industrielles Nel prepararmi a questo appuntamento ho cercato di fare ordine, di darmi una traccia per cercare di introdurre in una materia che molto ordinata non è. Ad esaminare le politiche industriali nel nostro Paese, soprattutto le politiche di accompagnamento a singoli ambiti tematici, corriamo il rischio di passare tutto il pomeriggio, data la numerosità degli strumenti in materia esistenti nel nostro Paese. Il primo dei problemi che dobbiamo affrontare quando si parla di politiche industriali nel nostro Paese è quello delle competenze. Si tratta di un problema complicato che si è andato via via ramificando nel corso degli anni e che in questo momento vede una serie di sovrapposizioni tra autorità centrali, regioni ed enti locali. Ho un amico che ogni anno fa un censimento degli interventi di politiche industriali in Italia, e tale censimento di solito da dei risultati strepitosi, nel senso che ogni anno risultano essere attivi qualcosa che va tra i 200 ai 300 interventi di politiche industriale. Dopo di che, se andiamo a vedere nel dettaglio come lavorano questi strumenti e quante risorse assorbono ci accorgiamo che, a fronte di 200-300 strumenti attivi, quelli che davvero hanno erogato risorse sono poche decine; quelli che davvero hanno avuto un qualche impatto significativo probabilmente si contano nelle dita di una mano.

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Tuttavia, con specifico riferimento alle politiche di delocalizzazione, nonostante abbia provato a rileggere in trasparenza una serie di lavori, di revisioni e di ricognizioni fatte sullo strumentario delle politiche industriali nel nostro Paese fino a ieri non ho trovato assolutamente niente di dedicato. Ho trovato qualcosa in relazione alle politiche di attrazione degli investimenti e un solo accenno alla delocalizzazione che riguarda un recente intervento con cui si sono modificati i benefici previsti (della Simest) per quanto riguarda la partecipazione a società all’estero. Comunque, proverò a render conto degli interventi di politica industriale nel nostro Paese, cominciando a parlare di competenze: chi interviene, chi ha potere d’intervento in materie di politiche industriali in Italia e come questa materia è evoluta nel corso degli ultimi anni. Le compentenze A partire dal 1997, dall’approvazione della Legge n.59 (la cosiddetta “Legge Bassanini”) le competenze in questa materia, tradizionalmente appannaggio statale, sono state attribuite anche alle Regioni. Gli interventi che riguardano lo sviluppo dei territori, ovvero tutti gli interventi a favore delle attività produttive e per lo sviluppo territoriale sono diventati di competenza delle Regioni. Da allora, quindi, in materia di politiche industriali, abbiamo una doppia competenza:  una competenza delle regioni e degli enti locali per quanto riguarda gli interventi che impattano direttamente con le singole realtà di competenza, e quindi sono interventi che impattano le economie e le produzioni locali, oltre che le promozioni (ad esempio all’estero) dei prodotti locali;  e abbiamo invece una competenza nazionale per quanto riguarda il coordinamento di questa batteria d’interventi e per quanto riguarda gli interventi di scala maggiore. In questo momento lo Stato sta gestendo in proprio solamente pochi strumenti di politiche industriali in senso stretto e incentivi alle imprese di maggiori dimensioni. Sta gestendo la legge 488 del ’92, che richiama i principali interventi di produttività industriale in Italia, e i contratti di programma, che sono operazioni di incentivazioni alle imprese che riguardano investimenti superiori ai 50miliardi di vecchie lire, adesso dovrebbero essere 25milioni di euro. Una situazione del tutto analoga a quella che ho qui appena descritto la ritroviamo anche quando parliamo non di politiche industriali in senso stretto ma di politiche di internazionalizzazione. Quindi politiche che riguardano il commercio con l’estero, e la promozione della presenza del sistema economico nazionale sui mercati esteri. Anche in questo caso, la ripartizione centroperiferia che vi ho appanna descritto viene replicata: al centro restano le funzioni di coordinamento e, anche se è materia dubbia, la promozione delle produzioni di rilievo nazionale; in periferia rimane tutta la competenza relativa alla promozione dei prodotti locali. Cosa è possibile fare con questi strumenti? La possibilità di intervento, data ai diversi livelli di governo, non è una possibilità sconfinata. Nel promuovere le proprie azioni di policy i diversi livelli di governo sono vincolati da una serie di regole imposte dalla Commissione europea e che in parte derivano espressamente dagli articoli relativi alla concorrenza presenti nel trattato istitutivo: in particolare, gli articoli 87 e successivi riflettono l’adesione della Ue agli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un approccio insolito, perché non sono gli Stati membri ad aderire alle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma vi aderisce la Commissione; e le regole adottate dalla Commissione vengono ribaltate sui comportamenti dei singoli Stati membri. In questo momento questi vincoli valgono per tutti i membri della Commissione dell’Unione Europea e impongono sostanzialmente delle obbligazioni ai singoli Stati per quel che riguarda l’impossibilità di elargire alle imprese aiuti che vadano a modificare gli scambi del mercato. Ovviamente vi sono delle deroghe a questi vincoli di intervento, deroghe che riguardano o alcuni settori o alcuni territori. Ma in generale la possibilità di intervenire con degli aiuti è strettamente regolata dalla Commissione. Tant’è che ogni aiuto con qualche rilievo che viene elargito dalla Commissione nei confronti del sistema economico, deve

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essere preventivamente notificato a Bruxelles e può essere operativo solo dopo una notifica di approvazione. Una situazione simile riguarda anche gli aiuti che attengono agli scambi internazionali. Anche in relazione al sistema import-export il fatto che la Commissione ha aderito agli accordi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio implica lo stabilirsi di un sistema di regole che impedisce agli Stati, agli operatori pubblici e ai governi di operare dei benefici a favore delle esportazioni oppure di mettere in atto pratiche di damping che vadano a sfavore del commercio internazionale. Che cosa è stato fatto in Italia in questi anni? Dividerei il tema in tre grandi aree: quello che è stato fatto a favore delle imprese; quello che è stato fatto a favore degli scambi con l’estero; le iniziative per l’attrazione degli investimenti. a) Interventi a favore delle imprese Tra ciò che è stato fatto a favore delle imprese per promuovere lo sviluppo del sistema produttivo escluderei fin da subito tutti gli incentivi che sono andati a favore di determinati territori. In effetti, il quadro delle politiche industriali italiane è in larga parte dominato da questo tipo di incentivi che riguardano le aree in ritardo di sviluppo, sostanzialmente il Mezzogiorno del Paese che ha livelli di reddito più bassi e uno svantaggio competitivo da parte delle imprese. Concentrerei l’attenzione sugli incentivi che sono stati direttamente collegati alla promozione dello sviluppo. Qui, l’azione è decisamente significativa: i dati a disposizione ci dicono che gli incentivi a favore delle imprese (tra erogazioni dirette e trasferimenti) per le attività di promozione, di ricerca e di sviluppo ogni anno in Italia ammontano sostanzialmente, più o meno, attorno al miliardo di euro. A questo importo vanno poi aggiunti gli incentivi specifici che riguardano il settore dell’aerospaziale che da solo assorbe un ammontare di risorse pari al 60-70% degli incentivi che vanno a tutto il resto dell’economia. Del resto il settore aerospaziale è fortemente incentivato in tutta l’Unione Europea e anche in Italia ci troviamo in una situazione di questo tipo. Gli strumenti che vengono usati per questa operazione a favore delle imprese sono sostanzialmente il fondo a favore dell’innovazione e della ricerca. Sono fondi gestiti dal centro per una quota pari all’80% delle risorse a favore del sistema industriale per operazioni di ricerca e sviluppo. Questo non vuol dire che l’unico soggetto attivo in questa materia sia l’amministrazione centrale; anche le regioni sono attive in questo sistema, con una serie di loro strumenti dedicati, sviluppati e gestiti a livello locale. La massa monetaria movimentata dalle regioni è tuttavia notevolmente inferiore rispetto a quella gestita al centro. Questo è il panorama della storia degli ultimi dieci anni. Con l’insediamento del nuovo governo questa situazione ha subito un’importante evoluzione perché, a seguito di un dibattito abbastanza intenso sui temi della competitività del nostro Paese, è stata avviata una serie di programmi volti a potenziare questo tipo di politica, primo fra tutti il fondo competitività. Il fondo competitività è uno strumento che non ha nessun precedente nel nostro Paese, con il quale il governo punta a focalizzare una massa importante di risorse - che al momento è stata stimata in oltre un miliardo di euro nei prossimi tre anni – a favore di alcuni ben specificati settore produttivi. Si tratta di un capovolgimento rispetto alla prospettiva prevalente in passato, quanto gli interventi erano guidati dal sistema delle imprese che in qualche modo decideva attraverso la strutturazione della domanda verso quali settori orientare i flussi di finanziamento. In questo caso abbiamo una situazione diversa: il governo dichiara a priori quali sono i tipi di attività e, soprattutto, i settori considerati prioritari per agire in modo significativo sulla competitività del sistema Paese; quindi le risorse disponibili vengono concretamente dedicate a favore di questi settori. In questo momento, proprio perché sono già stati individuati i settori – l’energia, l’ambientale, l’elettronica – l’amministrazione centrale sta lavorando per dare corpo a questa strumentazione. L’idea è quella di individuare dei macroprogetti, a forte connotazione tecnologica, per fare costruire all’interno di questi progetti delle aggregazioni di imprese in modo da poter poi di procedere con il sistema di incentivi. Da notare, tra l’altro, che in questo momento il governo non ha ancora individuato quale sarà la strumentazione tecnico-amministrativa dedicata a questo tipo di 5


operazioni. L’idea che si sta accentuando nei documenti ministeriali è quella di lasciare la massima flessibilità, di tenere molto aperta la strumentazione e di decidere solamente quando i progetti saranno definiti, in modo tale da adattare gli strumenti in funzione degli obiettivi e non, come invece succede frequentemente, quando gli strumenti in qualche modo vanno ad interagire sui sistemi degli obiettivi. Il fondo competitività non è l’unico fatto nuovo intervenuto negli ultimi mesi in materia di politiche industriali. Oltre ad esso la finanziaria 2007 ha dato vita ad altre tre operazioni decisamente rilevanti. La prima riguarda il credito d’imposta a favore della ricerca, uno sconto fiscale per le imprese che fanno ricerca, sconto che al momento non è ancora stato calcolato fino in fondo dal punto di vista della partita finanziaria ma che avrà delle importanti ripercussioni in termini d’impatto. Altri due interventi sono rivolti al settore dell’aeronautica e a quello militare. In effetti, a differenza da quello che succede in altri paesi, come la Francia ad esempio, in Italia non c’è una tradizione di orientamento delle politiche e di uso della filiera del militare come modo per intervenire sul sistema delle imprese. Con questa strumentazione si cerca quindi di ribaltare questa situazione. Tuttavia siamo ancora agli inizi e bisognerà attendere i prossimi mesi per vedere cosa succederà. b) Interventi a favore degli scambi con l’estero Una seconda area d’intervento riguarda la promozione dell’internazionalizzazione. Anche in questo caso abbiamo un doppio livello di competenza, Stato e Regioni, ma la numerosità degli strumenti è molto più contenuta. L’autorità nazionale gestisce pochi strumenti (meno di una decina) fortemente dominati dal sistema di incentivazione a favore della promozione dell’esportazione. Possiamo distinguere almeno due linee di azione:  il sistema dei crediti a favore dell’export, gestito dalla Simest, che ha un grande impatto; ogni anno viene erogato circa un miliardo e mezzo di euro;  ancor più importante dal punto di vista dell’impatto finanziario, visto che vale circa quattro miliardi e mezzo di euro, riguarda le garanzie fatte a favore sempre dell’export. Si tratta di interventi non particolarmente innovativi, non particolarmente complicati da gestire ma a cui accede un larghissimo numero di imprese. Parallelamente a questo sistema, sempre a livello nazionale vi è stata una serie di altri interventi, rivolti soprattutto alla sviluppo delle partecipazioni e della presenza del sistema di imprese italiane all’estero, che hanno avuto impatti meno significativi dal punto di vista quantitativo. Il riferimento è soprattutto alle leggi varate dopo il 1989-1990, leggi che promuovono e prevedono la partecipazione di capitale pubblico, nella misura del 25%, in imprese estere partecipate da capitale italiano; e parallelamente, la possibilità anche di finanziamenti a favore di imprenditori esteri che acquistano quote di capitale di imprese estere. Ovviamente i volumi finanziari in gioco sono molto più limitati rispetto ai contributi finanziari relativi ai crediti per l’export: in media negli ultimi anni arriviamo ad un totale di circa 300milioni di euro l’anno, valore comunque di certo rilievo. Vi è poi una serie di altri tre strumenti mirati alla promozione della presenza delle imprese estere all’estero:  uno strumento che favorisce la prestazione commerciale (la legge 394) che incentiva sostanzialmente lo sviluppo di reti commerciali all’estero;  una seconda legge, la l 300 del ’90, che incentiva le imprese italiane a partecipare a gare internazionali, riducendo sostanzialmente i costi della partecipazione a gare sul mercato internazionale;  una terza legge che invece interviene nel favorire lo sviluppo degli studi di fattibilità. Nel complesso questi tre strumenti assorbono circa duecento milioni di euro l’anno. Infine, vi sono l’ICE (l’Istituto nazionale per il Commercio Estero), che movimenta un fatturato di circa 100 milioni di euro l’anno, e qualche altro strumento minore, per un totale di altri 20-30 milioni di euro.

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Se sommiamo tutte queste diverse misura troviamo da un lato 5,5 miliardi di euro tra assicurazioni e finanziamenti, e più di 500 milioni di euro di interventi diretti dati al sistema delle imprese per la promozione industriale all’estero, per l’internazionalizzazione. Non stiamo parlando quindi di cifre modeste, ma di un volume di risorse di tutto certo rilevo. Oltre a questo, va tenuto presente che, data la competenza regionale in materia, anche le Regioni si muovono in questa direzione. Anzi, si muovono molto e la lista degli interventi è lunghissima (su questo vi è un lavoro, condotto da Raffaele Brancati, che offre una sorta di censimento dell’esistente). Ci sono regioni tipo il Piemonte che ha sei interventi specifici che riguardano la promozione della presenza estera del sistema produttivo locale; altre, tipo il Veneto e il Friuli Venezia Giulia che, pur non arrivando agli strumenti piemontesi, ne hanno comunque tre o quattro. Se li mettiamo tutti insieme arriviamo a circa 60-70 strumenti nell’ambito regionale, con un ammontare di risorse tuttavia ridicolo perché non arrivano complessivamente ai due milioni di euro l’anno. Si tratta quindi di tante piccole iniziative, probabilmente ad alto valore aggiunto, ma certamente non molto incisive. c) Iniziative per l’attrazione degli investimenti Anche in quest’area qualcosa si è mosso in questi anni, sia a livello regionale (Piemonte, Lazio) sia a livello nazionale. Penso all’esperienza sviluppata a partire dal 2001 con riguardo ai cosiddetti contratti di localizzazione e all’intervento di Sviluppo Italia, società a partecipazione pubblica, cui questo intervento è stato dedicato. Ma i risultati raggiunti in questo ambito non si possono dire particolarmente soddisfacenti. Quello che possiamo dire è che sia le Regioni che lo Stato hanno imparato che questo è un mestiere complicato. Ciò non toglie che il tema dell’attrazione degli investimenti rimane uno degli obiettivi dei nostri governi (sia del precedente che dell’attuale), come conferma anche il recente atto di indirizzo con cui il consiglio dei ministri ha dato alla società Sviluppo Italia un nuovo mandato per i prossimi anni su questo asse di intervento. Un ultimo tema cui è importante fare un accenno, parlando di interventi a favore dello sviluppo, è quello delle infrastrutture, e delle infrastrutture dedicate in particolare con riferimento ad esempio alla banda larga. Negli ultimi anni questo è stato un tema più volte rimarcato, sia in sede europea che in sede nazionale, per quanto i risultati finora raggiunti non sono particolarmente importanti. L’Unione Europea ha stanziato a favore di questi interventi una quantità relativamente importante di risorse, solo in parte spese e non tutte sono andate a finire in banda larga (molte sono state spese in sistemi di incentivazione). A livello nazionale sono state dedicate a questo tema risorse per qualche decina di milioni di euro e lo Stato italiano ha costituito una società per lo sviluppo di questo tipo di operazioni. Tuttavia la situazione è allo stato molto fluida e bisognerà aspettare ancora un po’ di tempo per disporre di un quadro più preciso delle direzioni effettive di spesa e intervento.

Jean-Pierre Aubert (Délegation interrministérielle au restructurations de défense (DIRD) au Ministère de la Défense) Le politiche francesi di fronte ai cambiamenti industriali / Les politiques françaises face aux mutations industrielles. On peut être surpris par le titre de k'auteur de cette communication sur la question des délocalisations et du territoire, mais j'espère que je pourrais dissiper les malentendus et que l'on verra qu'il s'agit d'une particularité française et que, après tout, nous n'en sommes pas à une originalité près.

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Quand on m'a proposé d'intervenir dans ce séminaire, j'ai eu un mouvement de recul devant le terme délocalisation car mes responsabilités récentes m'ont confronté à ce thème dans un débat national affligeant, où cette notion de délocalisation drainait, en France, toutes les angoisses et les inquiétudes vis à vis de l'avenir et au phénomène réel de la globalisation et de l'internationalisation. J'avais été chargé d'approfondir la question et je me suis rendu compte que c'était un fourre tout de nos angoisses où des mots comme désindustrialisation ou désertification se melangéaient avec des choses qui ne peuvent pas être mesurées. Délocalisation est un terme qui charrie beaucoup de choses qui ne font pas partie des réalités économiques, on ne peut la définir que formellement, en des termes abstrait, mais pratiquement, il est impossible de l'isoler du contexte car elle rst toujours prise dans le mouvement général de notre système productif. Il faut se dire que le changement présente, certes, des risques, mais aussi des opportunités et il n'y a pas lieux de considérer le passé comme meilleur, a priori. Depuis plusieurs décennies je me suis occupé de reconversions et restructurations dans beaucoup de secteurs et, depuis une dizaine d'année, je m'occupe du secteur de la défense qui, en France, est constitué par les forces militaires elles mêmes et par ce grand secteur productif des industries de défense, produisant des armements. Si on additionne les forces armées et les "Arsenaux" (structures aux statuts particuliers qui produisent les armements dans un cadre étatique), cet ensemble représente quelques 800.000 emplois. C'est un vaste secteur économique, social et territorial qui reste très puissant. Ce secteur a subi, en France, des mutation plus profondes que tous les autres secteurs confondus, avec la disparition d'un nombre considérable (plus d'une cinquantaine) de très gros site, soit de garnison, soit de production, avec une très vaste transformation de la localisation géographique de tout cet appareil militaro-industriel. Par exemple, fermer la base des sous-marins de Lorient cela signifie non seulement faire disparaître plusieurs milliers d'emplois directs et indirects et fermer un hôpital militaire, mais aussi laisser à la ville un bâtiment qui est une masse de béton, impossible à démolir, dans laquelle des alvéoles permettent d'accueillir des sous-marins. C'est des transformations considérables qui ont touché plusieurs ports militaires, des grandes villes comme Brest, Cherbourg, Toulon... mais aussi des villes rurales, villes garnison, organisées autour de la présence d'un régiment, dont le poids social, économique, symbolique rst considérable. Tout cela est la conséquence des mutation géostratégiques européennes et mondiales, ainsi que de la suppression du service militaire obligatoire. L'armée française embauche chaque année 25-30.000 jeune et en débauche aussi car il s'agit de contrats relativement courts, donc c'est un acteur important du marché du travail. Pour en revenir à la délocalisation je crois qu'il faut éviter d'en parle avec des images un peux frileuses par rapport à l'avenir. La politique française a consisté en un effort d'articulation entre les actions de type national qui s'inscrivent souvent dans un contexte, voire dans des modalités définies au niveau européen et qui s'articule avec des politiques territoriales. Le niveau territorial peut présenter différentes caractéristiques selon les particularités régionales ou selon -sans doute- les structures institutionnelles de chaque pays, mais c'est bien ce niveau là qui permet l'intégration concrète de politiques diverses au profit du développement politique et sociale : ce qu'on ne peut pas faire au niveau national peut être fait au niveau territorial. Ca présente certainement des avantage, mais aussi des inconvénients car un territoire peut être trop renfermé sur lui même et ne pas être disponible au changement; il faut éviter une vision mythique du territoire. Depuis des années que je suis en contact quotidien avec les territoires les plus divers je constate la grande différence entre acteurs locaux, quant à leur capacité à assumer une coopération, à avoir des projets, à s'associer pour les metttre en oeuvre; c'est pourquoi des territoires qui ont les mêmes moyens ne réussissent pas de la même façon, c'est pourquoi il y a des territoires qui ont plus de moyens et moins de dynamique. Pour pouvoir agir de façon efficace, toute politique nationale doit tenir compte de cette faculté locale à se déterminer par soi même. Ces politiques reposent toujours sur quatre axes qui supposent une définition nationale et locale : 8


le premier axe, qu'on considère souvent secondaire, mais que je considère capital, est celui des ressources humaines. "Il n'y a de richesses que d'hommes": c'est plus vrais que jamais. Les territoires ne s'en sortent que s'ils mènent des politiques très actives des ressources humaines. Nous ne ferons pas l'avenir avec le passé, il faut changer les compétences, il faut faire évoluer les capacité de mobilité d'un secteur à l'autre; ça suppose une très grande transformation de notre aptitude à gérer la ressource humaine existante et quand je dis ressource humaine je ne m'arrête pas aux ouvriers, mais j'englobe aussi le tissus économique des chefs d'entreprise car nous avons des secteurs entiers qui sont menacés par la succession des chefs d'entreprises qui arrivent en fin de vie professionnelle et qui vont disparaître, qui laissent une entreprise qui pourrait être reprise qui représente une richesse économique et sociale et qui vont disparaître faute de reprise. Donc la capacité entrepreneuriale fait partie de la gestion des ressources humaines d'un territoire. Cela suppose une aptitude à avoir une innovation organisationnelle permanente, en particulier -et c'est un facteur clef dans les régions qui réussissent- la capacité à entretenir cette ressource humaine, à la faire évoluer de façon continue grâce à la formation. Par exemple, aux chantiers navals de Saint Nazaire, on a mis en place une organisation appellée "Cap Compétence" (www.meretmarine.com), qui a permis de gérer la mutation de ces chantiers et a permis de réqualifier cette population, à un moment crucial de transformation du contexte. Cela exige un changement très important des attitudes locales, en particulier dans les vieilles régions économiques et industrielles qui ont tendance à penser que le déclin de la grande entreprise ou du secteur qui a fait leur richesse dans le passé, signifie qu'il n'y a plus de perspective et que tout est fini. C'est complètement faux et la plupart des régions qui ont réussi c'est parce qu'elles ont réussi à montrer que les compétences développées étaient susceptibles d'attirer des nouvelles entreprises et des nouvelles activités, dont beaucoup dans les services, assurant -ainsi- le développement d'un bassin d'emploi. Par exemple, à Roanne (où on fabriquait le char blindé de combat Leclerc) on a fortement réduit les productions d'armement terrestre, mais on a réussi à faire la preuve que, sur le plan local, il y avait les compétences nécessaires pour implanter l'activité d'un très grand centre d'appel de qualité, développé par Transcom Worldwide qui, en trois ans, a atteint 600 emplois, beaucoup plus qu'il n'en avait été détruit dans l'armement et qui a embauché des jeunes qualifié sur le marché de l'emploi local qui, autrement, n'auraient pas pu rester dans la région. Le deuxième axe c'est le développement économique, l'aptitude à créer des richesses qui implique le soutien à l'innovation. Dans ce domaine un premier type d'action, en direction du tissu de PMI (souvent épaulée par quelque grande entreprise) porte sur ce qu'on appelle l'intelligence économique, à savoir le fait d'aider les chefs d'entreprise des PMI à avoir l'aptitude à mieux connaître leur environnement et à développer la diversification de leurs marchés, y compris ceux qui s'ouvrent au delà des frontières et à s'associer à d'autres, à ne pas rester toute seule. À ce propos, on a des exemples très intéressants dans la filière aéronautique, de l'armement, de la mécanique, ainsi que dans d'autres secteurs. Une stimulation importante est venue du programme de l'A400M, l'avion de transport militaire développé et réalisé en coopération par plusieurs pays, avec les italiens, allemands, espagnols etc... qui nous a permis d'amener les entreprises à s'associer. Deux politiques importantes qui ont été développées depuis plusieurs années sont: la politique dite des SPL qui permet de mutualiser les efforts entre entreprises et en particulier dans le domaine des ressources humaines. On a quelques grappes d'entreprises extrêmement intéressantes car une PMI ne peut pas avoir la capacité de gérer l'évolution de ses compétences comme un grand groupe; quand vous mutualisez cette gestion des compétences, vous avez la possibilité de former la main d'oeuvre sur des nouveaux axes, dans des conditions très différentes : on a des beaux programmes nationaux qui s'appellent "gestion prévisionnelle de l'emploi et des compétences" qui s'appuient sur ces structures locales, mais qui nécessitent une mutualisation, car ils ne peuvent pas se faire entreprise par entreprise. Le troisième axe est celui des pôles de compétitivité, lancés par le gouvernement en 2004 qui visent d'abord à promouvoir un effort de R&D très important. En France on souffre d'une relative 9


faiblesse de la recherche privée, par rapport à la recherche publique et d'un manque de coopération entre ces deux grands secteurs. Dans les pôles de compétitivité il s'agit d'associer très étroitement, sur des projets coopératifs, appuyés sur des proximités locales, les grands laboratoires de recherche privés et publics, avec des constellations d'entreprises de petite taille qui, à leur tours, doivent trouver d'autres lieux de mutualisation, grâce à la complémentarité entre la politique des SPL et celle des Pôles. Un territoire est la composition d'entreprises de toutes tailles et de toute nature: la propre du territoire c'est justement d'intégrer ces différentes dimension, de gérer l'articulation entre les différents niveaux et non pas de les gérer de façon distincte. C'est pas toujours facile, dans certains cas, ça peut même s'opposer: les grands donneurs d'ordre -par exemple- peuvent avoir des politiques extrêmement restrictive vis à vis des sous traitants, mais on peut aussi construire des politiques de partenariat. En tout cas nous recherchons la plus forte intégration possible et même lorsque une grande entreprise est amenée à quitter un territoire nous la poussons à agir en amont pour réparer les dégâts que son démenagement peut infliger au territoire. Le dernier grand axe est celui des aménagements infrastructuraux qui, cependant, n'ont pas une importance aussi grande que celle de l'ingénierie (le mix de ressources humains et de développement économique) qui est infiniment plus important. On a cru souvent qu'il suffisait d'aménager des voies de communication pour que le développement économique suive; mais même si c'est très important- cela ne suffit guère. Il n'en reste pas moins, que nous nous intéressons beaucoup à l'aménagement physique et nous avons des gros programmes d'accompagnement des territoires pour le reaménagement des grandes zones qui ont connu des transformations importantes et nous participons, avec des politiques nationales et européennes, à la restructuration des grands sites urbains, des grandes zones industrielles, comme -par exemple- la base sou marine de Lorient. Mais on s'aperçoit que, plus finement dans le tissu économique, la résistance à certaines formes de délocalisation ou de transfert d'activité, suppose une transformation de tout l'environnement de l'entreprise, y compris l'environnement physique. Toutes ces politiques que j'ai décrit sont articulées au plan national, mais sont définies, adaptées, appliquées dans un échange avec chaque territoire, avec -bien sur- la préoccupation de la faculté locale à conduire ces politiques, face aux difficultés dont on a parlé en introduction, mais aussi, avec l'ambition de maintenir la dynamique locale, au delà de notre effort d'aide, puisque la finalité c'est justement que chacun ait sa propre capacité de développement économique et social. En conclusion, il y a trois termes qui sont apparus de plus en plus importants dans la définition de ces politiques : tout d'abord la capacité à anticiper les événements; cela est très difficile, on préfère attendre que celà survienne... En réalité toutes les opérations réussies sont celles où on a été capables, au fur et à mesure, d'apprécier de façon collective les dynamiques de façon à se donner le temps et d'avoir plus de marges de manoeuvre pour agir et pour ne pas subir les événements. Puis il y a la confiance : ce n'est pas une notion vague et loin de l'économie, mais l'ingrédient principal de la réussitec de toutes les politiques est qu'elles génèrent de la confiance entre les acteurs, pour pouvoir permettre, et c'est le troisième terme, une coopération vraie; faute de quoi on est dans le conflit, dans les oppositions, on fait la guerre de tranchée, au lieux que la guerre de mouvement et, même si on a beaucoup de moyens, même si on a les aides de l'État ou de l'Europe, on est sur d'échouer.

INTERVENTI

Roberto Grandinetti (economista, Università degli studi di Padova)

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Gli interventi della mattinata sono stati molto interessanti, soprattutto perché consentono di misurare le differenze su cosa vuol dire fare politica industriale in Francia e cosa vuol dire farla in Italia. La differenza è che in Francia, a livello centrale, c’è una politica industriale. Lì c’è una classe dirigente che analizza dei progetti e decide di realizzarli (non senza conflittualità): c’è un intervento forte dello stato. In Italia questo non c’è. C’è stata nel corso della prima repubblica, quando c’era un’idea forte che consisteva nel ritenere che non ci fossero le risorse private per una politica di investimenti industriali e quindi lo Stato dovesse intervenire: la politica delle partecipazioni statali. In seguito essa è stata molto criticata; effettivamente ha avuto anche delle derive sicuramente criticabili. Ma ha anche lasciato dei pezzi molto pregiati, come ad esempio Alenia, Finmeccanica, un caso di scuola da questo punto di vista, un giacimento straordinario di competenze tecniche, un bell’esempio di delocalizzazione al contrario visto che si cerca di costruire qui in Italia un cluster produttivo con sub-fornitori e risorse progettuali avendo i clienti principalmente in America. Altri interventi di quel tempo furono la costruzione di aree industriali nelle quali attrarre imprenditoria e, magari, la stessa imprenditoria dell’industria di stato. Quando viene abbandonata quella politica in Italia si sviluppa un sistema industriale basato sull’imprenditoria diffusa: questo sistema è quasi del tutto assente dalla politica industriale nazionale. Quando il legislatore scopre i distretti industriali fa una legge nell’81 e poi non succede nulla. Gli ultimi governi toccano di sfuggita i distretti: ne parlano nelle finanziarie con passaggi spesso indecorosi. Ma bisogna capire se lo stato si deve occupare dell’industria che c’è oppure no. Oggi è difficile trovare un’impresa, anche di medie dimensioni, anche dinamica e decentemente internazionalizzata che, a domanda, citi l’Ice quale soggetto al quale si era appoggiata per la realizzazione dei suoi progetti. L’Ice non viene mai fuori. Vengono più spesso citate le Camere di commercio e i loro uffici. E il fondo per l’innovazione? Come si concentra la spesa? Ho l’impressione che un gruppo come la Fiat assorba le risorse statali in maniera maggioritaria: più di quanto assorbano tre settori Istat di punta nel nostro sistema produttivo. La politica industriale è spesso una politica pro-Fiat (la rottamazione ne è stato un esempio). Ma non è possibile fare una politica industriale che ignora la stragrande maggioranza delle imprese di questo Paese che sono piccole e medie e che sono quelle che garantiscono i livelli occupazionali. Queste imprese sono escluse dall’impiego delle risorse destinate agli impieghi strategici (ricerca, sviluppo, sostegno all’internazionalizzazione). Bisogna decidere chi fa che cosa: bisogna decidere quali sono i compiti dello stato centrale e quali quelli delle regioni. Non ci possono essere per lo sviluppo locale sovrapposizioni di competenze e differenze tra regioni a statuto speciale e le altre. Un altro problema è la schizofrenia dei comportamenti legislativi: in un momento si prendono competenze e in un secondo si rilasciano, si trasferiscono altrove. C’è poi il problema di costruire il futuro, serve l’individuazione di un numero limitato di progetti e di settori innovativi nei quali si crede per investire le scarse risorse. E questo deve avvenire a livello centrale altrimenti ci si trova come ora con 10/15 finanziamenti regionali sulle nano tecnologie: ma noi pensiamo che ciascuna regione possa giocarsi una partita in questo campo? Forse non ce la può fare neppure l’Italia da sola, serve l’Europa. Un altro discorso: le buone imprese, quelle sane che hanno decentrato la produzione usano gli investimenti all’estero per espandersi, per creare piattaforme di penetrazione nei nuovi mercati. Il sistema del made in Italy avrà successo se saprà investire nelle attività ad alto valore aggiunto, e qui si devono orientare le politiche industriali a livello regionale, appoggiando ad esempio i progetti che privilegiano le aggregazioni industriali. Oggi per uscire dalla logica interna ai settori che non risponde ai nuovi processi di internazionalizzazione, bisogna favorire i processi intersettoriali con un’ottica nazionale che in parte è nei documenti di programma di questo governo nei quali, pur se non si parla di distretti si parla 11


almeno di cluster. Bisogna trovare un modo intelligente di coniugare il livello nazionale con quello regionale di governo dei processi e di politica industriale: ad esempio sulla nautica, e vale anche per altri settori, appoggiare un coordinamento tra le varie aree cantieristiche nazionali che consenta alle stesse di fare sistema e di affrontare ad un adeguato livello le sfide che vengono dal mondo esterno, senza disperdere risorse e massimizzando i vantaggi per ciascuna.

Stefano Micelli (economista, Università degli studi di Venezia, Tedis-Viu) I temi della delocalizzazione e dell’internazionalizzazione sono temi di grande attualità e importanza. I problemi che stiamo affrontando sono gli stessi in, Sono reduce da un viaggio negli Stati Uniti dove si dibatte dei medesimi problemi, come accade del resto in gran parte del mondo. I temi del rapporto tra innovazione, upgrade territoriale, delocalizzazione o internazionalizzazione produttiva sono temi che ci costringono a riflettere sia in Italia, Francia, Spagna e Portogallo ma moltissimo anche negli USA (outsourcing cinese). Rappresentano una sfida quindi anche per stati ricchi che si vedono rapidamente costretti a ripensare la loro struttura produttiva, i loro servizi e il loro modo di stare sul mercato. Venendo all’Italia vale la pena di sottolineare quanto sta succedendo e cioè che si è chiusa la stagione dei distretti industriali così come sono stati rappresentati storicamente: ovvero come insiemi omogenei, come sistemi di piccole e medie imprese in grado di contenere all’interno di un territorio dato un insieme di complesse e diversificate attività manifatturiere orientate all’internazionalizzazione, intesa quest’ultima nel senso di export, della vendita di manufatti di prodotti di servizi verso i mercati stranieri. Questa fase è in via di conclusione. I distretti non sono più sistemi ermeticamente chiusi con un confine ben definito; oggi siamo in un contesto più permeabile, internazionalizzato sia a valle, dal punto di vista delle strutture distributive che non sono più solo collegamenti con il mercato ma veri e propri presidi internazionali, sia a monte, attraverso processi di internazionalizzazione che oggi hanno una loro straordinaria complessità. Oggi molte delle aziende hanno imparato ad addomesticare sistemi di fornitura che sono simultaneamente presenti in Cina, Estremo Oriente, Paesi dell’Est, Africa Mediterranea. Questa trasformazione ha fatto sì che succedesse qualcosa dal punto di vista della natura dei distretti, ma soprattutto che si creasse una grossa differenza tra le imprese leader, che svolgono un rapporto di interfaccia tra territorio e mercato internazionale, e imprese più piccole, più confinate, per 1000 motivi, ai sistemi locali di riferimento. Queste aziende leader hanno strategie consapevoli, un vantaggio competitivo ancorato su funzioni di tipo terziario. Gestiscono sempre meno il così detto made in Italy nel senso tradizionale, mentre sempre più si appoggiano a piattaforme di manifattura, di outsourcing, di livello internazionale per tutto ciò che non è core business. Il core business oggi è legato prevalentemente a tre funzioni, a tre aspetti della vita aziendale: 1) ricerca e sviluppo; 2) design e comunicazione; 3) (terzo aspetto suffragato dai modelli econometrici presi in esame) utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Questi tre aspetti non sono polarizzati in maniera settoriale. In realtà, quello che si vede nei principali settori del made in Italy (metalmeccanico, sistema moda, sistema casa ovvero i tre grandi comparti di quello che chiamiamo manifattura leggera italiana) è che questi tre aspetti si saldano in un triangolo che ha una sua ricorrenza, anche se con minime differenze. Queste aziende sono un nuovo interlocutore per la politica industriale del nostro paese, un interlocutore che non ha avuto in passato un particolare appoggio, un sostegno da parte delle nostre autorità nazionali o locali. Sono un operatore dal quale oggi dipende in buona sostanza il futuro delle imprese più piccole radicate sul territorio, in particolare a livello industriale. 12


Mi piacerebbe approfondire con voi il tema di come cambiano i distretti, che politiche fare per questi nuovi interlocutori, dei loro fabbisogni, dei loro processi di internazionalizzazione a monte e a valle. Ma oggi preferisco parlare di un altro aspetto che mi sembra oggettivamente più nuovo e, almeno concettualmente, innovativo; sicuramente in Italia ma anche in altri paesi d’Europa, in ciò che chiamiamo “territori”. Ho citato tre saperi (design/comunicazione, ricerca e nuove tecnologie) che hanno caratteristiche strutturali diverse da quelli su cui la nostra impresa tradizionale (distrettuale) ha costruito la sua fortuna. Sono saperi e competenze che tradizionalmente non nascono e non si consolidano nelle comunità locali di piccola taglia ma, piuttosto, attecchiscono, si sviluppano, si espandono e si moltiplicano nei sistemi di qualità metropolitana. È un passaggio epocale per chi fa management del territorio, perché quella che è stata la storia e l’identità dei luoghi su cui abbiamo costruito il nostro successo industriale e imprenditoriale tende a mutarsi nel contrario: questa storia e questa identità tendono a diventare un freno se riproposti oggi, a confronto con una sfida che ha caratteristiche e natura completamente diverse da quelle del passato. La fiducia (lo diceva J-P. Aubert, l’amico francese che mi ha preceduto), quello che gli economisti hanno chiamato capitale sociale, è uno degli elementi su cui si è costruito il successo delle comunità. Sottoscrivo, non c’è dubbio che questo è un ingrediente; ma è utile però distinguere fra una fiducia, in senso lato la presenza di una classe dirigente, da quella che è stata l’idea di fiducia che le nostre comunità hanno saputo riproporre su scala industriale trasferendo saperi artigianali in saperi industriali. Nella divisione del lavoro manifatturiero, la fiducia delle comunità è stata una risorsa straordinaria, abbiamo valorizzato questa fiducia, questo capitale di relazioni finché questi distretti sono riusciti ad imporsi sul piano internazionale. Oggi non ce ne facciamo un gran che di questa fiducia e di questo capitale sociale. Oggi abbiamo bisogno di “meno capitale” sociale, di più fluidità sociale, di meno legami, di più varietà, di più capacità di confronto e di maggiore differenziazione. Abbiamo bisogno di spazi metropolitani. Ora per chi ha costruito il suo spazio, le sue politiche, la sua organizzazione territoriale sulla comunità, passare dalle comunità a spazi metropolitani è un’impresa complessa, difficile. Però se volgiamo fare moda, se vogliamo fare design, se vogliamo fare comunicazione, se vogliamo fare ricerca, se vogliamo fare ottima università delle piccole comunità ce ne facciamo relativamente poco. Voglio darvi, a braccio, qualche a numero su cosa significa organizzare spazi metropolitani inclusivi. Dal 1995 al 2005 alcune regioni del mondo (come la California) hanno cominciato ad accogliere, in spazi assolutamente metropolitani, decine di migliaia di studenti stranieri perché potessero essere integrati all’interno delle nuove imprese dell’itech americane. Voglio darvi l’idea del contributo che queste persone hanno generato in una logica di totale discontinuità sociale e culturale. Dal 1995 al 2005 il 25% delle aziende itech americane è stata creata da almeno un socio straniero (prevalentemente indiani). Il contributo generato nell’economia americana da queste aziende è di 52miliardi di dollari di fatturato, per 450mila dipendenti. Attualmente gli USA dipendono da manodopera straniera. di qualità in questo caso, per la proprietà intellettuale in maniera strabiliante. Nel 1998 i brevetti con almeno un innovatore straniero diplomato negli Stati Uniti era del 7%; nel 2004 è passata al 25% (prevalentemente cinesi). Cosa ci insegna la storia dell‘itech californiano, territorio americano per eccellenza? Che la cosa importante non è stato contare su comunità particolarmente coese e capaci di ribaltare la loro coesione in uno scenario di competitività industriale, ma quello di includere, attraverso tecniche anche abbastanza ovvie (penso alle Università, alla capacità di formare i giovani), grandi quantità di talenti inglobati in spazi che non sono omogenei da un punto di vista sociale. Anzi, sono tutt’altro che omogenei: sono spazi socialmente bizzarri, profondamente anomali rispetto all’esperienza di vita quotidiana che facciamo nel nostro contesto. Da questo punto di vista mi sento di dire che una delle sfide che noi italiani, e più in generale a livello europeo, dobbiamo affrontare è quella di passare dai distretti ai sistemi locali per l’innovazione. La sfida è una sfida grande e difficile, perché ci impone di ripensare alcuni degli aspetti che hanno qualificato tradizionalmente la nostra capacità di fare industria. Capacità di fare 13


industria che però, oggi, presenta (ad esempio in termini di gestione del territorio) anche una serie di limiti dai quali dobbiamo necessariamente affrancarci. D’altra parte, se andiamo a guardare bene, anche in assenza di una politica industriale esplicita negli ultimi 5 anni in Italia questo percorso è già stato intrapreso da non poche imprese. È ciò che cerchiamo di fare, di andare a vedere nel territorio italiano le imprese che hanno saputo, anche se con difficoltà, fare fronte alla competizione internazionale e diventare protagoniste, anche di mercati complessi e in assenza di una politica esplicita da parte del livello locale e del livello nazionale. Questo non significa che non servano i famosi “sistemi locali per l’innovazione”. Ma forse non dobbiamo più guardare al solo mondo delle imprese; per completare questo sforzo di razionalizzazione dobbiamo guardare invece al suo complemento a uno. E torno (questo voleva essere la conclusione del mio ragionamento di oggi) a un ragionamento più di carattere europeo, o meglio europeo-americano, proposto da Manuel Castells, famoso sociologo catalano molto legato alla commissione europea. Castells ha confrontato la competitività e la produttività dei sistemi nazionali europei e americani. Mi ha colpito perché ha enfatizzato il fatto che oggi molte imprese europee hanno modelli che esprimono una competitività che è simile alle imprese americane. Non è vero che le imprese americane sono tutte itech, ce ne sono anche di non itech, ma insomma i modelli sono convergenti. Per un produttore di borse coach (trolley), secondo negli USA per competitività nella classifica di Business Week, noi abbiamo Zara o H&M e questo mi sembra un parallelo interessante. Noi abbiamo Nokia loro hanno Google. Quello che è interessante è che, dice Castells, le condizioni di contesto rimangono condizioni di contesto che frenano l’Europa e mi sembra un tema questo su cui riflettere, anche perché sposta l’accento su più livelli che sono altrettante sfide di gestione del territorio. In particolare, i tre punti che Castells rimprovera alla comunità europea sono: a) la rigidità nella forza lavoro; non rigidità nel mercato del lavoro, ma una forza lavoro con poche competenze, troppo poco abile e troppo poco flessibile; b) un problema di management che non ha saputo trarre beneficio dalla rivoluzione informatica che invece negli Stati Uniti è entrata profondamente all’interno dei processi organizzativi aziendali; c) ultimo, e più interessante aspetto per chi fa gestione del territorio, la rigidità dei capitali e della formazione scientifica. In Europa non ci sono Venture Capital o Private Equity di livello commensurabile a quello americano, ma soprattutto le nostre università – dice Castells – sono mediocri, incapaci di produrre ricerca di alto livello, realtà che sono state rapidamente sorpassate dalle principali università asiatiche. Nella top 10 delle Business School è entrata l’università di Shanghai e tra i dieci politecnici più importanti sono entrati l’università di Seoul e il politecnico di Hong Kong. Noi entriamo sempre nelle prime trenta o nelle prime cinquanta con alcune eccezioni in Inghilterra e Svizzera. Il tema dell’università e dei capitali mi sembra ciò che oggi è il complemento a uno delle nuove politiche territoriali; noi non abbiamo a livello territoriale né Venture Capital né buone università. Mi sembra che oggi su questo sforzo di immaginazione siamo chiamati a riflettere. Può darsi che con il nostro sistema bancario e il nostro sistema universitario non riusciremo mai a fare politica industriale, perché la politica industriale rivolta al futuro non si fa lavorando sulle aziende ma si fa lavorando su quegli agenti di contorno che rendono le aziende, quelle che ci sono e quelle che ci saranno, più competitive. Chiudevo con questi riferimenti a Castells perché mi sembra che riportino il problema del rapporto tra competitività e territorio a un binomio che non è impresa e spazio (spazio geografico), ma è piuttosto il complemento a uno dell’attività di impresa e del territorio. Abbiamo a lungo guardato le imprese (anch’io sono un economista aziendale) ma oggi per vedere la competitività delle imprese sui territori è bene che cominciamo a guardarle un po’ di meno, perché le condizioni di competitività di queste imprese stanno in soggetti che hanno l’onere, il compito di diventare loro sì

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più imprenditoriali: parlo in primo luogo di banche e di università, se vogliamo che questi nostri territori tengano il passo con la sfida dell’economia globale.

III Sessione

Riflessioni sull’impatto della delocalizzazione esulle strategie di politica economica e sociale a livello europeo, nazionale e locale

INTERVENTI

Mario Volpe (economista, Università degli studi di Venezia) Il mio intervento verterà su due argomenti:  un’interpretazione “teorica” dell’internazionalizzazione in un contesto economico di piccola media impresa.  un’analisi del perché abbia senso un approccio internazionale su questo argomento e dei possibili sviluppo del progetto in corso. Partendo dal primo argomento, ci si deve chiedere che cosa vuol dire internazionalizzazione? Nel rispondere a questo quesito si è ovviamente vincolati a come questo concetto viene percepito in Italia e nella regione. La delocalizzazione dovrebbe essere vista come un fenomeno di cambiamento e un segnale di vitalità del sistema produttivo che si trova di fronte ad un scenario di competizione internazionale diverso da prima. Nel contesto locale e, soprattutto nel mercato del lavoro, viene invece percepito come un fattore di crisi. L’internazionalizzazione è un processo di ideazione, cambiamento e trasformazione. Non si tratta di perdere qualcosa, ma di dare una risposta competitiva. In particolare, il fenomeno della delocalizzazione può essere visto sotto due punti di vista: in primo luogo, può essere inteso come un ri-posizionamento della propria base produttiva capace di generare un abbassamento dei costi di produzione e un cambiamento dell’organizzazione della produzione; secondariamente, l’internazionalizzazione è un modo per inserirsi in un contesto globale e in nuovo sistema internazionale di divisione del lavoro. Rispetto al passato, non esistono più vantaggi comparati legati alla produzione di un bene, ma vantaggi comparati legati ad alcune fasi di produzione del bene stesso. Un territorio, quindi, non si specializza più nella produzione di un bene, ma si specializza, piuttosto, in alcune fasi della produzione. Tutto questo può avvenire grazie all’input tecnologico che sta alla base dei concetti di frammentazione, scomposizione e modularità della produzione. Di conseguenza, sistemi che prima avevano vantaggi comparati nello scomporre la produzione a livello locale (si pensi ad esempio ai distretti), si trovano ora ad avere vantaggi comparati nella scomporre la produzione a livello internazionale, grazie proprio alla frammentazione tecnica. Lo scenario della mono-competizione internazionale, i nuovi attori e i fattori monetari costringono i sistemi locali ad una risposta di cambiamento: ci si sposta dalla fase manifatturiera alle fasi di design, innovazione e creatività. È importante sottolineare, tuttavia, che riposizionamento non vuole dire necessariamente concentrarsi sull’ultima fase del processo produttivo – il marketing – ma anche posizionarsi su fasi intermedie, a volte risalendo all’indietro la supply chain. Ad esempio, il Veneto ha avuto una grandissima capacità di risposta in termini di esportazioni ri-specializzandosi sulla meccanica e sulle macchine dedicate. La varietà delle risposte al nuovo scenario internazionale è dunque molto 15


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importante. Un altro importante aspetto legato al riposizionamento, che comporta l’inserimento in catene internazionali, è la perdita del governo della filiera. Questo spostamento forzato o riposizionamento necessità però di input. Se da un lato la delocalizzazione viene vista come “perdita di lavoro”, è anche vero che c’è una carenza di input specifici, capitale umano e servizi utili a questo riposizionamento. La mancanza di servizi adeguati, in particolare, è un potenziale fattore di ostacolo a questo processo, perché la trasformazione terziaria non è vitale quanto la trasformazione manifatturiera. Questa situazione ha un doppio impatto: la forza lavoro espulsa dalla manifattura non è in grado di entrare nei servizi. per i servizi all’impresa c’è non solo il rischio di internazionalizzazione ma anche quello che la “testa” del processo si sposti altrove. Le imprese, ad esempio, delocalizzano a Milano perché c’è la piazza finanziaria, i servizi giuridici e così via. Un’ultima considerazione di carattere generale riguarda il fatto che, in Italia, il tema dell’internazionalizzazione è fortemente legato al tema del declino. In particolare, si sostiene che una delle cause del declino sia la scarsa apertura al contesto internazionalizzazione. Le esperienze che avete descritto dimostrano che invece questa apertura c’è. Passiamo ora alle considerazioni di policy. Un primo intervento necessario riguarda la gestione dei costi di breve periodo che il processo di delocalizzazione genera: perdita di fasi produttive, disoccupazione e espulsione dei lavoratori. In Veneto, tuttavia, il problema non sembra così drammatico, anche perché il processo di selezione industriale era già iniziato da qualche anno (si pensi, per esempio, al caso del tessile). Un secondo tipo di interventi dovrebbe riguardare l’attrattività, ossia sviluppare una politica del terziario che renda i territori attrattivi per i nuovi servizi qualificati richiesti dal processo di delocalizzazione. Infine, sono necessari interventi di politica industriale, anche se non è ben chiaro se di tipo locale o nazionale, che rafforzino la capacità delle piccole e medie imprese, coinvolte nel processo, di essere presenti sul mercato internazionale. Per concludere, vorrei ritornare su due temi discussi durante il Convegno. L’anticipazione è un concetto importante ma difficile da descrivere. Ad esempio, il “distretto” delle nanotecnologie che la Regione Veneto sta finanziando può essere visto come un tentativo di anticipazione. È infatti un distretto orientato verso la nanotecnologia dei materiali, ossia verso l’intensità manifatturiera di questa regione. Tuttavia, tanto più si anticipa e si “lavora al buio” tanto più forte dovrebbe essere la sinergia tra università, regione, centri di ricerca, imprese. Ma questo è un ancora punto dolente del nostro sistema produttivo. Inquadrare i processi in un contesto europeo: è un aspetto fondamentale e, in questo senso, il vostro progetto mette assieme in senso analitico diversi territori. Il passo successivo sarebbe un progetto internazionale che cerchi di mettere in evidenza le complementarietà tra territori europei, per poter poi pensare ad una ri-composizione produttiva all’interno dei confini europei. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che nel nuovo contesto europeo ci sono paesi, come ad esempio la Turchia, fortemente specializzati nel tessile e abbigliamento, che rischiano di diventare paesi in grado di generare costi elevatissimi, in termini di politiche del mercato del lavoro, per l’Unione Europea. Se riuscissimo ad inserire anche solo qualche “pezzetto” di queste filiere nella ridefinizione delle filiere europee potremmo, in qualche modo, diluire il costo di questo processo di transizione, proponendo, tra l’altro, alle filiere europee una soluzione diversa dal “guardare a Cina e India”.

Stefano Acerbi (Coordinatore dei servizi Internazionalizzazione ed Estero di Confindustria Veneto) Il parco industriale di Samorin

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Il caso di Samorin è un esperienza operativa di internazionalizzazione, promossa e guidata da parte Confindustria di Vicenza nel tentativo di rispondere ad alcune esigenze provenienti dalla propria base associativa. L’obiettivo era quello di creare le condizioni ottimali per le imprese che vogliono crescere e globalizzarsi, non in maniera autonoma e potenzialmente rischiosa, ma insediandosi in contesti attrezzati che possono godere dei vantaggi generalmente riservati ai grandi investitori. Si tratta quindi di affrontare i problemi dell’accompagnamento e del supporto a 360° al mondo delle piccole o piccolissime imprese vicentine, che costituiscono la componente prevalente del tessuto produttivo locale. Pochi dati bastano a documentarlo: tra i 2.300 associati a Confindustria circa 2.000 non superano i 100 dipendenti, c’è una diversificazione produttiva molto ampia e una tradizionale vocazione esportativa che fa di Vicenza la prima provincia del Veneto e una delle prime nel panorama nazionale. Il progetto di Samorin, dal nome della località della Slovacchia dove è stato fatto sorgere questo parco industriale, ideato nel 2002, puntava a creare un ambiente simile a quello della filiera/distretto produttivo tipico del nord est, dove le piccole e medie imprese, per lo più della meccanica e dell’elettronica (i comparti più numerosi rappresentati della Confindustria provinciale) potessero trovare un ambiente ideale per realizzare una strategia di implementazione delle loro basi produttive su scala internazionale. La scelta localizzativa La scelta della Slovacchia e della località di Samorin è stata fatta al termine di una ricerca abbastanza veloce (tenendo conto dei limiti di un’organizzazione come quella che rappresento) che ha cercato di mettere a raffronto due o tre ambienti dell’est europeo che potevano candidarsi ad ospitare questo progetto. La scelta è caduta sulla Slovacchia per numerose ragioni:  la posizione di centralità nel contesto di sviluppo dell’Europa Centro-Orientale;  la provata cultura professionale delle maestranze nel settore meccanico ed elettronico grazie alla tradizione storico-industriale di quel Paese (e negli anni della “cortina di ferro” per i tutti i paesi del Comecon);  l’avanzato stato del processo di integrazione del sistema Paese nell’economia internazionale;  il sistema fiscale competitivo;  i vantaggi della prevista integrazione nell’Unione Europea (maggio 2004). Quando abbiamo lanciato il progetto avevamo in mente due problematiche: a. almeno inizialmente queste iniziative industriali avrebbero dovuto ragionare in stretta correlazione di rete con la casa madre di Vicenza, e quindi l’integrazione con la comunità europea presentava dei vantaggi sotto il profilo burocratico e doganale che alla lunga avrebbero premiato iniziative industriali recepite dal parco; b. in secondo luogo, ragionando sul tema dell’internazionalizzazione delle pmi abbiamo dovuto tener conto di un fattore psicologico importante, la loro volontà di radicarsi all’estero con una strategia di lungo periodo che non è quella dei grandi gruppi multinazionali che spesso sono spinti da opportunità di fare shopping tra le agevolazioni fiscali e finanziarie che oggi le spingono in Slovacchia e un domani in un altro paese (esempio la “UStil” di Cosic in Ucraina). Tra l’altro questo è un fattore che abbiamo invano cercato di far capire alle autorità slovacche, negoziando tutta una serie di interventi e di supporti che speravamo di portare a vantaggio delle nostre imprese, secondo una logica che però non è molto ben capita dai paesi target di delocalizzazione che molto spesso – per problemi di impatto politico e di visibilità privilegiano il grande progetto di investimento capace di portare in poco tempo effetti occupazionali di rilievo, mentre non colgono appieno quello che può essere il volano attivabile attraverso iniziative più piccole ma che tendono a radicarsi sul territorio e a creare un clima favorevole alla crescita di un’imprenditoria locale. Samorin è stata scelta, tra una dozzina di località slovacche, per la sua vicinanza a Vratislava. Rispetto a località più lontane dalla capitale o con la disponibilità di un bacino di forza lavoro 17


ancora più favorevole (Samorin non presenta tassi di disoccupazione elevati), Samorin presentava una maggiore comodità logistica, elemento privilegiato degli imprenditori sia per fattori di mobilità (costi e tempi; sono già stati intensificati i voli low cost diretti) sia per la prossimità ad un ambiente urbano che può offrire opportunità di vivibilità per i manager o i tecnici che devono seguire le iniziative industriali. I principali vantaggi logistici della scelta localizzativi sono:  la vicinanza alla capitale Bratislava e ai confini con Ungheria ed Austria;  i collegamenti all’aeroporto con voli giornalieri verso le maggiori città europee;  i collegamento alla rete stradale e ferroviaria europea e al sistema di navigazione fluviale;  la condivisione di servizi di spedizione e magazzinaggio all’interno del Parco. Il consorzio e le attività di insediamento Per realizzare il progetto è stato creato, partendo dalle prime imprese aderenti, un Consorzio tramite il quale è stata negoziata l’acquisizione, l’urbanizzazione e la lottizzazione del Parco, con l’obiettivo di consentire alla pmi di internazionalizzarsi senza dimenticare la loro vocazione di fare impresa (riducendo così il peso dei problemi organizzativo, burocratico..). L’area presenta vantaggi logistici e una buona accessibilità urbana. Attraverso il Consorzio di urbanizzazione si è puntato ad una unicità del progetto urbanistico non solo per aspetti di decoro estetico ma anche nel tentativo di calmierare i costi e di raggiungere delle economie di scala. Una nostra associata è stata nominata project manager e ha guidato la cabina di regia di tutte le attività, commissionate quasi totalmente ad imprese del posto. I costi della superficie indicano ovviamente la convenienza dell’investimento (e della calmierazione dei costi perseguita): - nuda superficie: da 0,5 a 2,5 Euro/mq (prezzo simbolico pagato al comune di Samorin, con fasce differenziate di prezzo, perché si è poi deciso di ampliare l’offerta degli spazi del parco non solo alle imprese associate); - costi di urbanizzazione: circa Euro 15/mq (non tengono conto della rivalutazione della corona slovacca rispetto all’euro, pari un buon 20% in tre anni); - costi fabbricati industriali: circa Euro 450/mq (costi tenuti sotto monitoraggio grazie all’attività della project manager; dagli iniziali 350). L’accordo con il comune di Samorin prevede:  cessione quasi gratuita della proprietà dei terreni del Parco;  corsie preferenziali per l’ottenimento dei permessi di competenza del Comune ed assistenza all’ottenimento dei permessi di competenza di altre autorità (non solo, ovviamente con riferimento all’intervento urbanistico-immobiliare);  disponibilità gratuita di una sede (gratuita) provvisoria per il Consorzio ed i suoi servizi;  collaborazione nel collocamento e nella selezione del personale;  attivazione di corsi di lingua italiana negli Istituti scolastici locali (evoluta verso un’offerta formativa più mirata rivolta al personale assunto all’interno del parco). Le agevolazioni per chi investe all’interno del Parco In termini finanziari non si è stati capaci di ottenere gran ché. Ma sono stati comunque attivati tutta una serie di vantaggi collettivi apprezzati dagli operatori coinvolti: creato un network di servizi (avvocati, commercialisti, tecnici…), condivisi ed in lingua italiana; economie di scala negli appalti; formazione professionale quasi gratuita, anche svolte in Italia per tecnici slovacchi (grazie al contributo della Regione Veneto e della Cciaa di Vicenza); economie di scala nelle forniture di commodities; finanziamenti a tassi negoziati con le banche locali. Tra i servizi attivati possiamo richiamare la realizzazione di una banca dati per ricerca e selezione del personale; ricerca di sub-fornitori o potenziali partner; è prevista una mansa comune (aspetto importante nella tradizionale slovacca); alcuni servizi di supporto quotidiano delle imprese (alberghi, autonoleggio, sale riunioni, catering, ecc.); centro servizi comuni (in completamento entro luglio 2007 la palazzina direzionale realizzata ad hoc). 18


A regime il parco industriale di Samorin conterà almeno 500 nuovi posti di lavoro; da 15 a 20 nuovi insediamenti produttivi; 12 milioni di Euro di investimento complessivo. A tre anni dal varo del progetto abbiamo due aziende già operative all’interno del parco; quattro capannoni in corso di costruzione; l’avvio del Centro servizi e otto aziende operative al di fuori del parco. Nel prospetto che segue sono riportati alcuni dati indicativi raccolti (senza pretesa di scientificità) sulle performance di sei aziende coinvolte nel progetto, cercando di offrire qualche elemento di valutazione dell’impatto dell’investimento estero tanto in territorio slovacco che nel contesto della casa madre vicentina nel periodo 2004-2006: Fatturato Italia Slovacchia

Occupazione Italia Slovacchia

Azienda A - ellettronica Azienda B - meccanica (settore auto)

18,7

111,7

1,9

15,6

37,7

1,7

Azienda C - meccanica Azienda D - meccanica

-2,6 20,0

67,4 50,0

-27,0 2,8

Azienda E - elettronica

40,0

1.282,0

=

Azienda F - elettronica

15,8

157,0

10,1

Fattori di maggiore convenienza dell'operazione

200,0 Recupero di competitività e marginalità Migliore competitività e marginalità. Presidio del mercato 82,1 slovacco e dei mercati export Recupero competitività e reperimento manodopera 12,3 specializzata. Sopravvivenza delle attività imprenditoriali 50,3 Recupero di competitività e di margini economici Recupero di competitività, di margini economici e 329,0 rafforzata presenza sui mercati export Migliore competitività, recupero margini e possibilità di 183,3 espandere lo stabilimento (carenza aree in Italia)

Emerge come l’investimento estero ha portato in maniera generalizzata ad un recupero di competitività per le imprese coinvolte, associato ad un miglioramento del presidio dei mercati esteri (come nel caso dell’azienda B ed E); così come si è rivelato un’opportunità per la sopravvivenza dell’attività (azienda C) o una possibilità di risposta ai vincoli “fisici” posti all’espansione dello stabilimento in territorio italiano.

Valeria Fedeli (Presidente Etuf-tcl – European Trade Union Federation: Textil, Clothing Leather) Vorrei innanzitutto fare una dichiarazione all’avvio del mio intervento per dimostrare come sia stato influente e decisivo per la rappresentanza del mondo del lavoro del tessile-abbigliamento, cuoio e calzature che, lo ricordiamo, è fatto al 75% di lavoratrici, la prospettiva di genere. Quindi nei processi di cambiamento c’è una varabile, quella di genere, che implica delle politiche diverse per affrontare i cambiamenti. Questo è un elemento che non può mai, da parte di nessun operatore che vuole governare i cambiamenti e le trasformazioni essere ignorato, di fronte a qualunque platea di azione pubblica, di azione privata o di rappresentanza collettiva. Secondo elemento che considero molto importante, anche come dato di cultura sindacale, è che il sindacato tessile, sia a livello europeo che a livello italiano, ha esattamente cominciato nel 1994 (quando venne firmato l’accordo di Marrakech che stabilì per il 31 dicembre 2004 la fine dell’accordo Multifibre) a porsi il problema di come procedere per affrontare un cambiamento che avrebbe inciso profondamente su un settore manifatturiero importante in Europa ma soprattutto in Italia (dove ricordo eravamo e siamo pari a 1/3 del settore europeo del tessile-abbigliamento, non solo in base ad una leadership internazionale fondata sul made in Italy, ma soprattutto sulla base dei dati economici dell’occupazione e del sistema delle imprese). Noi abbiamo iniziato da lì a porci questo tema. Inoltre, non va dimenticato che nel 1995 si è costituita l’Organizzazione mondiale del commercio, apportando una modifica al contesto del commercio internazionale e di regole internazionali. 19


Perché ho dato questi due elementi? Perché il sindacato tessile, a differenza di altri sindacati, anche per le ragioni di contesto produttivo, ha dovuto da subito porsi il problema di come anticipare i cambiamenti, pur sapendo che un sindacato che rappresenta lavoratrici e lavoratori ha minor forza perché rappresentiamo la parte più debole dentro ai cambiamenti. Lo dico per farmi capire in un consesso di esperti… un’impresa può scegliere di chiudere e di andare altrove, o anche semplicemente di chiudere, di investire nella finanza e non più di reinvestire nell’industria ed ovviamente il problema per le lavoratrici ed i lavoratori è quale spazio, quale alternativa al lavoro… e quindi con un connotato molto diverso. Noi ce lo siamo posti, però abbiamo fatto molta fatica… Ma è stato importante perché anticipare e porsi il problema del cambiamento significa cambiare cultura, conoscenza, approccio soggettivo o collettivo e misurarsi con un contesto che dovrebbe sostenere questo cambiamento. Cioè il cambiamento non può essere fatto solo da chi rappresenta il lavoro perché ne ha l’impatto più forte. Lo deve fare l’impresa, che il soggetto di cui c’è più bisogno per gestire il cambiamento. Così come c’è bisogno di un cambiamento di cultura e di orizzonte da parte delle istituzioni pubbliche. Io penso che si collochi qui il difficile lavoro che noi abbiamo fatto come sindacato in Italia ed in Europa, arrivando in Italia ad avere il primo accordo concertativo sottoscritto da tutte le rappresentanze del sistema delle imprese industriali, dell’artigianato, della piccola e della grande impresa, in un tavolo governativo nazionale insieme a tutte le organizzazioni di rappresentanza del lavoro (e quindi unitario) nel 1997, con l’allora ministro Bersani. Fu il primo dato, e lì decidemmo le azioni che coinvolgevano le scelte delle imprese, la dimensione “internazionalizzazione” (noi abbiamo escluso la parola delocalizzazione già dal 1997), come e perché si modificano gli assetti produttivi… come, perché e dove. Secondo aspetto: abbiamo tenuto insieme le politiche conseguenti per l’impatto sul lavoro e quindi come si determinano, in una fase di riorganizzazione, salario e formazione insieme, ovvero la tutela sociale per le persone coinvolte nei processi di riorganizzazione. Terzo elemento: da subito abbiamo posto la necessità di politiche industriali, cioè l’insieme delle politiche di crescita che riguardano le parti produttive di un Sistema Paese; ma lo abbiamo fatto connotando già i livelli distintivi e le competenze di ruolo tra un Paese come l’Italia e la sua dimensione europea. Ciò ha significato coinvolgere l’insieme dei Paesi a maggiore densità di produzione e di presenza del tessile-abbigliamento, cuoio e calzature e ha portato ad una cosa ancora oggi unica nel panorama europeo: su pressione della Federazione europea abbiamo costruito la prima piattaforma di politica di cambiamento con la rappresentanza delle imprese a livello Ue. Inoltre, con l’allora Commissario al commercio estero della Ue nel 2003 mettemmo a punto la prima comunicazione della Commissione europea per il settore tessile-abbigliamento, per affrontare i cambiamenti necessari in vista della fine dell’accordo Multifibre e della conseguente liberalizzazione dei mercati. Lo facemmo in una sede concertativa e, in quella sede, si definì la costituzione del gruppo di alto livello composto da quattro Governi nazionali (Germania, Italia, Francia e Portogallo), dalle rappresentanze della Comunità europea, del sindacato europeo, dai rappresentanti di tutto il sistema delle imprese, con il presidente (di origine spagnola) dell’associazione dei comuni tessili europei. Anche in questo caso incrociando quindi tutte le dimensioni necessarie per coordinare le azioni e le politiche di cambiamento, e cioè il livello territoriale, il livello regionale, nazionale ed europeo. Si tratta di un passaggio fondamentale perché a seguito della liberalizzazione del mercato europeo, che orami è il mercato più aperto (con l’ingresso della Cina nel Wto del 2001, con il faticoso e quasi fallito negoziato di Doha), le politiche di intervento territoriale bisogna che abbiamo un’ottica globale, mentre le soluzioni vanno trovate con la costituzione degli stati uniti europei. Una dimensione europea, istituzionale, politica, economica e sociale e quindi sindacale, è il contenitore possibile per governare i cambiamenti dentro il nuovo secolo globale. Noi abbiamo lavorato così, producendo quindi – questa è la nostra valutazione – un governo più efficace e più efficiente per le persone che rappresentiamo, quindi per le lavoratrici e per i lavoratori, perché abbiamo coinvolto dall’inizio i soggetti che dovevano poi produrre politiche e 20


proposte di cambiamento del lavoro, di qualificazione del lavoro stesso dentro i processi di riorganizzazione. Tuttavia, anche qui, bisogna sempre distinguere tra cosa è possibile ottenere e la necessità di mantenere lucidamente una convergenza di analisi sui fattori strutturali di cambiamento della competizione internazionale. In questa sala può sembrare facile dire che noi abbiamo superato la parola delocalizzazione – intesa come paura – ma altri invece la vedono ancora… Alle persone che sono direttamente coinvolte nei processi di cambiamento, che non hanno immediatamente un’altra possibilità di occupazione… a quelle persone è complicato spiegare che si chiude o si cambia un’impresa! Un altro elemento di governo di questi processi che ci tengo a ricordare è questo. Io credo – e questa mattina ho sentito delle cose che mi hanno un po’ sostenuto e consolato, anche dal punto di vista della cultura e delle azioni che possono fare i soggetti interessati - che sia importante dire che una prima riorganizzazione che andrebbe fatta è una lettura diversa di come costruire nel cambiamento e nell’innovazione il nuovo concetto di industria europea. Noi stiamo risalendo una cima, da qualche anno a questa parte, in Europa – sapete che fino a tre anni fa si diceva che la società della conoscenza europea doveva essere fatta senza industria. Adesso finalmente si dice: non senza industria, non solo con l’industria. E già questo è un passo avanti. Ma il secondo passo necessario, e noi stiamo facendo questo sforzo anche come sindacato europeo, è dire qual è e com’è un’industria competitiva moderna in questo nuovo scenario globale. Allora, una delle cose importanti è dire che non esistono – e il tessile-abbigliamento in Italia e in Europa lo sta dimostrando con i dati – non esistono settori maturi. Maturi sono i prodotti, i modelli organizzativi delle imprese, le strategie d’impresa. Ve lo confermo con un dato incontrovertibile da cinque giorni a questa parte. La Cina è diventata il principale esportatore in Europa, non più di magliette e basta, o di pantaloni, o di abbigliamento a basso costo, ma di strumenti sofisticati di ingegneria tecnologica avanzata. Quindi, attenzione a quando diciamo che c’è una nuova divisione internazionale del lavoro. Come dire… fino a tre anni fa si diceva che tutta l’industria va di là e noi dobbiamo solo vivere di servizi o di turismo o di specializzazioni… questo presupponeva una selezione dentro il settore. No! La competizione del nuovo secolo è fatta su innovazioni a 360 gradi, specializzazioni e non ripetibilità o non imitazioni o non facili copiature che sono trasversali a prodotti, a processi, a sistemi di produzione, a contenuti della produzione, a contenuti dei servizi e dei prodotti. La qualità della competizione è qui. Ecco perché serve, a questo punto, una nuova politica sui processi competitivi che venga anche declinata con trasparenza, sostenibilità… e le parole trasparenza e sostenibilità sono una traduzione materiale, concreta, di che cosa si incorpora in ogni processo e prodotto… di un servizio, di una maglietta che può produrre tumore alla pelle se fatta con alcuni coloranti azotici…. Se messo in questi termini e se si condivide questo, la questione di anticipare i cambiamenti interessa chi rappresenta il lavoro, chi rappresenta l’impresa, chi rappresenta le istituzioni. Per l’impresa significa avere una visone lunga della possibilità di fare business… cioè stare su un mercato a redditività più alta e per più lungo tempo. Per un’istituzione riuscire a governare la trasformazione e le nuove missioni di sviluppo del proprio territorio. Per chi rappresenta il lavoro avere una partecipazione attiva e consapevole: non solo chiedere ammortizzatori sociali, ma determinare le condizioni per passare all’unica grande ricchezza di ogni persona, ovvero avere un lavoro dignitoso, sostenibile e credibile. Quindi ci sono interessi convergenti tra i soggetti e gli attori. Noi lo chiamiamo concertare e nello stesso tempo lo chiamiamo assumersi ciascuno la responsabilità di stare insieme in questo cambiamento complicato e difficile. Perché correggere le azioni industriali del lavoro di questi 10 anni del sindacato tessile europeo ed italiano? Perché noi crediamo che con avanzate ed innovative relazioni industriali e concertazione tra i soggetti economici e i responsabili della politica (e quindi le istituzioni ai diversi livelli)… io credo che ci sia più efficacia, più efficienza, più consapevolezza e quindi perfino maggiore produttività e competitività nel governare una fase dell’oggi che costruisce comunque un futuro (e non 25 futuri)… un futuro comunque che è uno, sia per le imprese, sia per i lavoratori che per le istituzioni pubbliche. Perché ormai le vere guerre commerciali in campo oggi sono fatte con le associazioni dei 21


consumatori e la globalizzazione vale anche per questo: si può decidere e si combatte per chi non fa produzione sostenibile, eticamente sostenibile, e su questo fronte, ovviamente, vorrebbe dire che ci si mette in una nuova forma di antagonismo… Più c’è consumo disponibile, anche di diversi prodotti a diversi prezzi, più ovviamente c’è consapevolezza da parte delle persone nella libera scelta di questi prodotti. Ecco, a me pare più efficiente puntare su relazioni industriali innovative e corrette e di concertazione di tutti i soggetti economici, sociali ed istituzionali per governare questo cambiamento che tocca noi perché ci siamo in questa epoca ed è davvero un cambiamento epocale. La consapevolezza ci aiuta.

Jean François Lebrun (responsable de l'unité F 3 à la DG EMPLOI, commission européenne) Réflexions conclusives Comme vous l'avez dit, je m'occupe d'une nouvelle unité, ai sein de la DG de l'Emploi et des affaires sociales qui a en charge la question de l'adaptation au changement et plus particulièrement de mettre en oeuvre une communication de la Commision de Mars 2005 sur l'emploi et les restructurations. Ainsi nous suivons avec le plus grand intérêt les travaux de l'article VI qui finance le projet DELOC, ce que nous faisons en collaboration avec ns collègues du Fond Social de façon à bénéficier des échanges des expériences qui y sont développés. Juste un petit rappel, mais je crois qu'on en a beaucoup parlé durant ces deux jours : si on regarde l'évolution des grands secteurs de l'activité économique, la mutation est un phénomène anciens, naturel et inévitable. Si on regarde les chiffres produits par une section de la fondation de Dublin qui est une agence européenne, les délocalisations "pures" si on peut les définir ainsi, ça représente 4 % de l'ensemble des grandes restructurations au niveau européen, mais elles ont un impact plus fort sur le territoire, sur la population et dans les medias. Il faut se garder d'en avoir une vision seulement négative : dans les quarante dernières années, l'industrie est passées de 40 % de l'emploi, à 25 % tandis que les services sont passés de 40 % à 72 %. Par ailleurs, entre 2000 et 2006, dans l'Europe des 27, on a créé 11 Millions d'emplois, mais on en a perdu également plus de deux, dans l'industrie et un peux plus de un et demi dans l'agriculture. Dans les services on en a crée, en réalité, presque 14 millions. Et quand on regarde de manière un peu plus fine les chiffres, on voit que c'est principalement dans les anciens pays de l'EU à 15 que ces créations ont été faites. Les nouveaux états membres ont à peine compensé les pertes qu'ils ont eu, suite à leurs importants changements de structure économique à la fin de la longue période communiste. Ma il est clair, aussi -et c'est tout le problème de la restructuration- que ça a des effets immédiats et concentrés sur les territoires et sur les personnes, alors que les avantages ne viennent que plus tard dans le temps et de manière très diffuse; c'est dire qu'il faut prendre en compte le coût humain qui est lié aux réorganisations. Au niveau de la commission, le problème n'est pas la réorganisation, la mutation, la restructuration, mais les conditions dans lesquelles elles s'opèrent. C'est pourquoi on a développé une approche en trois étapes qu'on appelle anticipation, préparation et accompagnement des mutations, dont le but est de faciliter l'adaptation aux changement, parce que le changement, dans notre monde actuel, est une nécessité. Petite définition de ce qu'on appelle chez nous anticipation, préparation et accompagnement. L'anticipation c'est d'abord et c'est ce que vous avez fait dans vos Autodiagnostics, connaître la situation, notamment des différentes régions. Il y a toute une série d'analyses possibles comme par exemple l'intéressante grille de lecture présentée ce matin par Thomas Regazzola; il s'agit de comprendre pour chaque territoire, quelles sont les forces, les faiblesses, quelles sont les craintes, les opportunités. Il faut aussi pouvoir anticiper les démolitions possibles, parce que il y a toute une 22


série de facteurs de changement qui sont encours et l'internationalisation est UN de ces facteurs, mais il y en a bien d'autres... La démographie : hier on parlait du vieillissement de beaucoup de chefs d'entreprises et du fait que parfois des entreprises disparaissent parce que il n'y a personne pour les reprendre. Les nouvelles technologies. Donc, il faut pouvoir anticiper ces évolutions possibles, les connaître et prévoir leur impact potentiel sur chaque situation concrète. Le deuxième élément c'est la préparation des hommes et des femmes, des entreprises et des territoires à ce que pourrait être demain, avec tout ce qui est nécessaire en matière de formation. Enfin, il s'agit d'accompagner les travailleurs dans la situation de crise qu'il faudra traverser de toute façon, même si on a eu une bonne anticipation et une bonne préparation. Quels sont les grands instruments du niveau communautaire (qui viennent s'ajouter aux instruments nationaux, régionaux ou autres) ? Pour ce qui est de la politique sociale qui comprend le droit du travail, les éléments de politique active de marché du travail, les éléments de protection sociale, les éléments de formation et les éléments de mobilité géographique, elle intéresse surtout la phase de préparation et d'accompagnement : comment peut-on commencer à requalifier les personnes et les aider, lors des crises, par des conseils pour leur permettre de retrouver un nouvel emploi sur place ou en se déplaçant. La politique industrielle est beaucoup plus présente à différents niveaux, parce que c'est elle qui peut initier un changement, par exemple, par une modification du cadre réglementaire; le marché intérieur -par exemple- constitue une immense politique industrielle, donc on la trouve au niveau de l'anticipation. On la trouve aussi au niveau de la préparation avec tous les élément liés à la R&D, mais la politique industrielle, que parfois on a du mal à définir, inclue aussi la politique commerciale, l'ouverture possible de marchés, mais elle se retrouve aussi au niveau de l'accompagnement pour essayer de reconvertir des territoires, de développer éventuellement des nouvelles activités, si on n'avait pas pu le faire plus tôt dans le temps. C'est aussi la politique nationale qui, finalement, est très mixée avec la politique industrielle puisque elle peut intervenir notamment dans la conception européenne- pour faire du béton, des infrastructures, pour attribuer des aides de plus en plus liés à l'innovation, à la recherche, au développement de clusters. Donc beaucoup de politiques européennes, quasiment toutes interviennent dans les processus de mutation industrielle. On a d'ailleurs dit que l'Union Européenne n'était qu'un immense mécanisme de restructuration et historiquement, quand on regarde la CECA, on voit que c'est vrai et on peut vraiment se demander que aurait été l'industrie de nos différents pays, sans l'Europe. Si on regarde les fonds structurels, à savoir les interventions financières... Le fond social est présent à travers les trois grandes approches car il peut financer des observatoire, financer des capacités d'anticipation, ainsi que la préparation des hommes et des territoires par des activités de formation, d'adaptabilité; il peut aussi accompagner par toute une série de mesures qu'on appelle les mesures passives soit la sécurité sociale, l'allocation chômage qui ne sont pas du domaine du fond social. C'est dire que avec ces fonds on est présents dans toutes les étapes. Il y a aussi le FEDER, le fond régional, qui intervient principalement au niveau de la préparation des investissements, pour des infrastructures, pour des nouvelles entreprises... Il y a aussi le FEM Fond d'ajustement à la Mondialisation, créé cette année, qui est là pour intervenir exclusivement en fin de parcours, après que les travailleurs aient été licenciés, il peut leur apporter une série d'acquis. Mais, en réalité, le Fond Social Européen peut faire exactement la même chose. On croit que c'est le seul fond qui peut intervenir : non! Les autres sont là avec des moyens beaucoup plus importants. Mais je crois que c'est un instrument qui est utile en termes de communication. Nous intervenons quand il y a des grosses crises, au niveau européen cela correspond grosso modo à mille licenciement et plus. Il y a aussi toute une série d'autres interventions financières qui peuvent entrer en jeu.

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Dans la réglementation des fonds structurels, il y a une obligation qui vise à limiter le shopping de subventions, à maintenir sur le site un investissement qui a été financé par un fond structurel durant cinq ans. A première vue, dans les différents programmes opérationnels proposés par les États membres à l'action du Fond Social, pour 2007-2013 -mais ce sont là des chiffres provisoires- en gros l'adaptabilité représente presque 20 %... toutefois, il faut aussi tenir compte d'autres mesures qu'on appelle "valorisation du capital humain". Il n'en reste pas moins que le Fond Social redevient ce qu'il était depuis le début, un instrument de gestion des restructuration. Avec l'histoire et les problèmes comme la question du chômage des jeunes, du chômage de longue durée, de l'inclusion sociale il avait été obligé d'ouvrir ses objectifs, mais on voit se ré développer maintenant un intérêt pour ces questions. J'en viens, maintenant, aux éléments réglementaires toujours au niveau de la commission, concernant ces trois étapes. Il faut que tous les acteurs fassent très attention au fait que, dès l'anticipation, des implications importantes sont liées, dès l'anticipation, au cadre réglementaire que la Commission fait évoluer, notamment au niveau économique. Deux exemples qui auront ou pourront avoir des impacts importants pour le futur : la réduction des émissions de CO2 par l'automobile et la restructuration du secteur viticole en Europe. Pour chacune de ces actions, la Commission doit produire des analyses d'impact, documents publics qui constituent une première base au niveau de l'anticipation, en s'efforçant de remonter le plus haut possible; ce sont déjà des signaux qui devront être approfondis, raffinés à différents niveaux. Deuxième élément, quand on parle de préparation et qu'on a les différentes politique possibles, il y en a une qui est une contrainte, et à juste titre, ce sont les règles de la concurrence qui vont limiter les aides de l'État, qui vont veiller à toute une série d'éléments. Le troisième élément, au niveau de l'accompagnement, ce sont les différentes directives qui concernent l'information et la consultation des travailleurs, aux quelles la Commission fait de plus en plus attention. Dans le cas Volkswagen, par exemple, ou dans celui d'un sous-traitant de General Motors au Portugal, le Commissaire a écrit au patronats respectifs pour s'assurer que le normes aient été bien respectées. Ce n'est pas à la Commission de prendre des sanctions, mais les lois nationales qui ont mis en oeuvre ces directives peuvent le faire. Cela est important car dans ces directives on retrouve la même philosophie : dès que le management pressent une nécessité de réorganisation, le plus tôt possible, il doit informer, consulter les représentants des travailleurs pour chercher avec eux des solutions alternatives et puis en informer les états membres (période de notification) pour que ce dernier puisse mettre en oeuvre les mesures de soutien social. Un élément qui apparaît transversal est celui que j'ai nommé "orientation de référence des partenaires sociaux", qui -cependant- n'est pas contraignant, qui reprend aussi cette même philosophie : il faut pouvoir informer, avoir un dialogue de confiance en temps utile, qu'il faut prendre en compte la dimension des PME, celle des territoires et des solutions alternatives etc... Enfin, quelles sont les actions que l'unité dont je m'occupe va réaliser, par rapport à ces différents sujets. J'ai lancé une séries d'études notamment sur la question de l'anticipation, en collaboration avec d'autres services de la Commission, j'ai animé des réseaux d'experts dans une tradition un peu vieillotte, parce que nous allons nous occuper de secteurs et non pas de clusters. La deuxième on va pouvoir accorder aussi des petites subventions, (1 million 800000 d'€ pour tous les projets pour un an) à des gens comme vous, qui travaillent dans le domaine des restructurations, pour faire ce que vous faites. J'ai aussi travaillé avec les partenaires sociaux, au niveau européen, avec un projet d'animer des séminaires internationaux sur ces sujets, dans un but d'échange de bonnes pratiques entre ce qui se fait dans les différents états : trois de ces grandes conférences, des forums de restructuration ont déjà eu lieu, une sur la politique industrielle sectorielle, une sur les fonds structurels et les territoires et la prochaine va être sur les méthodes d'anticipation qui sera très technique. Un deuxième forum assez sensible sur l'industrie automobile, en y invitant les producteurs, les syndicats, ainsi que des 24


représentants de grandes régions automobiles et le troisième sur les PME, parce que l'on parle beaucoup de PME, mais en réalité quand on parle de restructuration dans les PME, on parle de restructuration silencieuse, parce que on ne les voit pas, on n'en entend pas parler, malheureusement. Nous nous occupons aussi d'une task force restructuration, c'est à dire un groupe placé entre les différents services de la Commission, pour discuter notamment d'une série de cas, pour voir ce que les differents services pourraient faire pour appuyer une action communautaire et pour qu'on soit informés des différentes politiques pour améliorer la coordination. Enfin, à partir de 2008, nous contons publier un rapport annuel sur les restructurations. Pour finir, quelques considérations sur les conditions de réussite. Tout d'abord, la question du temps; en revenant sur ce que Madame Fedeli a dit tout à l'heure concernant l'anticipation et le changement culturel; il y a là un enjeu des plus difficiles, celui de pouvoir utiliser le temps. Quand le Commissaire Greughen, en charge de la politique industrielle demande à des chefs d'entreprise de grands groupes "combien de temps à l'avance connaissez vous vos plans, vos stratégies de développement" la réponse est entre trois et cinq ans. Cela veut dire que le temps il existe, mais on a du mal à l'utiliser, parce que on n'est pas encore culturellement prêts à accepter, tant du côté des employeurs et des politiques, que du coté des travailleurs l'existence de ce temps. La deuxième dimension est celle de l'implication locale, territoire, région, mais cette dimension là est celle où le choc sera concentré. Enfin il y a tout le domaine lié au partenariat, au dialogue qui doit commencer le plus tôt possible et qui doit être permanent; on ne pourra jamais conduire des actions partenariales dans une situation de crise si, auparavant, vous n'avez pas développé la confiance dans la durée. Enfin, c'est une coopération qu'il faut imaginer sur l'ensemble des niveaux de pouvoir, car souvent le plus étonnant c'est le nombre très important d'outils, de structures qui existent, financées par l'Europe, par l'État central, par la Région, etc. et le problème est de réussir à les combiner ces différents instruments... Je reviens sur la notion de confiance ou de culture... Monsieur Aubert et Madame Fedeli en ont déjà fait état... Pour que "la sauce prenne", parfois on a besoin de quelqu'un qui n'est pas nécessairement le responsable officiel du territoire, qui peut être aussi un chef d'entreprise, un syndicaliste ou n'importe qui, mais qui soit en mesure de fusionner ces différentes possibilités. Car le côté négatif c'est que tout ce dont on vient de parler ce sont des conditions nécessaires, mais que ce n'est pas suffisant. Toutefois, même si toutes ces conditions ne constituent pas une garantie de réussite, on doit essayer, à tous les niveaux de les mettre en oeuvre, parce que nous devons, je crois, dans ce monde, faciliter l'adaptation au changement.

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