Descrizione del Codice

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DESCRIZIONE DEL CODICE


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WADDESDON MANOR, 16 (GIÀ ROTHSCHILD 27) 1484-1487

Libro d’Ore

Membr.; cc. II, 234, II’; fasc. 18, 26, 310 (= 10+1-1), 4-910, 108, 1110 (= 10+1-1), 121510, 1610 (= 10+1-1), 1710, 186, 1910 (= 10+1-1), 2010, 216, 226 (= 6+1-1), 232, 24-2510, 264, 278; inizio fascicolo lato carne; 151,5 × 94,86 = 18,5 [4,86/ 72,29/ 5,36] 50,5 × 16,5/5,14 [41,79] 5,29/26,14; rr. 17/ll. 16; rigatura a secco. Littera antiqua attribuibile ad Alessandro Verrazzano. Complesso apparato figurativo e ornamentale attribuito da A. Garzelli e M. Levi D’Ancona alla bottega di Mariano del Buono; di mano del copista: in rosso parti del testo e titoli. Legatura moderna (forse del sec. XIX) in cartone coperto da velluto rosso (forse del sec. XVI). Taglio dorato e goffrato.

STRUTTURA CODICOLOGICA 1. Supporto Pergamena di ottima qualità, con lievissima differenza cromatica tra lato pelo e lato carne, priva di difetti. I fascicoli iniziano dal lato carne. 2. Consistenza e numerazione Carte di guardia cartacee e moderne, solidali fra loro, con numerazione a matita A-B per le anteriori e C-D per le posteriori. Tutte bianche, tranne Av dove è riportata la segnatura a matita «Ms. 27». Il verso di A e D è coperto di carta marmorizzata, come i contropiatti. Sul contropiatto anteriore è incollato un cartellino con la segnatura a penna «146 B». Numerazione recente a matita nel margine superiore esterno in cifre arabe, 1-231. Bianche le cc. 14v, 140v-142v, 194v, 211r-212v, 225r-226v. 3. Fascicolazione La tipologia fascicolare prevalente è costituita dal quinterno e di norma la presenza di fascicoli con ordinale minore è determinata da ragioni contenutistiche, in quanto tramandano le parti finali delle varie sezioni di testo. L’unica eccezione è rappresentata dall’Officio minore della Croce,

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tràdito alle cc. 195-202, dove le otto carte sono assemblate in due fascicoli (fasc. 22 ternione e fasc. 23 bifolio), anziché in un più comune quaderno. Sul margine interno del verso della carta finale dei fascicoli 3 (c. 24v), 11 (c. 102v), 16 (c. 152v), 19 (c. 178v) e 22 (c. 200v) si riscontrano ombreggiature o vere e proprie tracce di colla che fanno pensare all’aggiunta e alla successiva caduta di una carta all’inizio del fascicolo (cioè prima delle cc. 15, 93, 143, 169, 195): è verosimile che il miniatore abbia dipinto dei controfrontespizi su fogli singoli e poi li abbia inseriti in apertura di fascicolo incollandone il lembo interno sull’ultima carta. Questi fogli, che si prestavano facilmente a essere staccati, in epoca imprecisata furono tolti dal codice, forse per essere venduti separatamente. Nel margine interno di alcuni frontespizi (es. cc. 93r, 169r) si intravedono tracce di colore che potrebbero essere state lasciate dai controfrontespizi asportati.1 4. Segnature Richiami verticali, di regola di una parola (in quattro casi di due parole e in un caso di tre parole), preceduti e seguiti da un punto (in tre casi senza punti e in altri tre casi con solo il punto finale), tipo Derolez 5 (entro il colonnino interno), scritti dall’alto in basso. In rosso a c. 8v. Assenti in nove fascicoli (fasc. 2, 10, 15, 18, 21, 23, 24, 26, 27), poiché finali di sezione e spesso con l’ultima carta bianca. 5. Foratura e rigatura Totalmente rifilati i fori. Calendario e Offici Schema di rigatura Derolez n. 36 ; rr. 17/ll. 16; scrittura below top line

Rigatura a secco, manuale, eseguita a bifoglio aperto, sul lato pelo secondo lo schema (per i quinterni): ≤ ≥ ≤ ≥ ≤ ≥ ≤ ≥ ≤ ≥. Nella squadratura sono tracciate prima le righe verticali e poi le orizzontali.

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Nel codice di Waddesdon (W), diversamente da quanto accade negli Offizioli Laurenziano Ashburnham 1874 (L) e Monacense lat. 23639 (M), non si predispone un apposito schema di rigatura per il calendario. 6. Dimensioni e mise en page Dimensioni: 151,5 × 94,86 = 18,5/4,86 [72,29] 5,36/50,5 × 16,5/5,14 [41,79] 5,29/26,14; rr. 17/ll. 16; taglia: 246; proporzione foglio: 0,626; proporzione specchio: 0,507; UR: 5,50. Le dimensioni ridotte sono tipiche dei libri d’Ore, che dovevano essere facilmente trasportabili per consentirne la lettura durante il giorno, e in alcuni casi la taglia, cioè il semiperimetro, può anche ridursi ad appena 15 cm (così per es. i mss. BML, Ashburnham 938, 939, 940). Come si è visto nelle Ricordanze di Andrea Minerbetti, si tendeva a distinguere tra libriccini grandi e piccoli (cfr. supra, p. 00).2 Con la sua taglia di 24,6 cm il volume di Waddesdon evidentemente rientrava nella prima categoria, a maggior ragione considerando che è stato abbastanza rifilato. Le sue dimensioni originali forse si avvicinavano a quelle del codice M per Lucrezia de’ Medici (172 × 108) e a quelle del ms. BL, Yates Thompson 30 per Laudomia de’ Medici (180 × 120). La proporzione della pagina (ovvero il rapporto tra l’altezza e la larghezza) è relativamente ‘stretta’: il suo valore di 0,626, equivalente a un rettangolo di 5:8, si allontana da quello invariante (0,707), cioè dalla proporzione più comunemente usata nei codici. Al pari dei due Offizioli L e M, l’esigenza funzionale, ossia la leggibilità, si combina qui magistralmente con l’estetica propria del manoscritto umanistico di pregio: l’occhio è aiutato e gratificato dalla presenza di uno specchio abbastanza stretto (la sua proporzione, di 0,506, è inferiore a quella della pagina) circondato da ampi margini – in origine ancora più estesi – che occupa meno di un quarto dell’intera superficie della pagina (ne costituisce infatti il 24%). Inoltre la scrittura si distribuisce nello specchio su sedici righe ben spaziate, che perciò facilitano la lettura (l’unità di rigatura – UR, cioè spazio interlineare – è 5,16). Può essere utile stabilire un confronto tra il ms. W, copiato da Alessandro da Verrazzano, e alcuni Offizioli medicei vergati in littera antiqua; ovvero i mss. Laurenziano [L], Monacense [M], Yates Thompson 23 [B], BL, Additional 33997 [S], BL, Additional 19417 [N], Cambridge Additional 4101 I [CI] e II [CII]. I primi quattro furono scritti da Sinibaldi e il quinto [N] da Niccolò da Mangona. Gli ultimi due attendono attribuzione. 3 A ogni modo si tratta di prodotti di copisti diversi che presentano tuttavia

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discrete affinità sotto il profilo materiale, come si desume dalle tabelle sottostanti. Dimensioni4 N: 127,50 × 91,00 = 14,60 [5,20/63,40/5,20] 39,10 × 12,70/5,50 [44,30] 5,30/23,20; rr. 15/ll. 14 CI: 128,71 × 86,50 = 16,71 [67,50] 44,50 × 17,36 [44,57] 24,50; rr. 14/ ll. 13 CII: 129,43 × 87,07 = 19,64 [66,50] 43,29 × 18,21 [41,57] 27,29; rr. 14/ ll. 13 S: 133,43 × 96,79 = 15,71 [74,36] 43,36 × 16,29 [47,14] 30,64: rr. 14/ll. 13 W: 151,50 × 94,86 = 18,5 [4,86/ 72,29/ 5,36] 50,50 × 16,5/5,14 [41,79] 5,29/26,14; rr 17/ll. 16 L: 152,50 × 101,50 = 26,00 [69,80] 56,70 × 18,70 [44,6] 38,20; rr. 14/ll. 14 B: 152,79 × 101,93 = 24,86 [69,64] 58,29 × 18,79 [45,07] 38,07; rr. 14/ll. 14 M: 172,36 × 108,36 = 22,64 [5,79/76,43/5,93] 61,57 × 18,64/5,86 [42,00] 5,64/36,21; rr. 16/ll. 15

Taglia, proporzioni del foglio e dello specchio e unità di rigatura Mss.

Taglia

Mss.

Prop. Foglio

Mss.

Prop. specchio

Mss.

UR

CII CI N S W L B M

215 217 219 230 246 254 255 281

W M L B CII CI N S

0,626 0,629 0,665 0,667 0,671 0,673 0,714 0,725

M W N CI S L B CII

0,476 0,506 0,600 0,625 0,634 0,640 0,647 0,660

CI W CII N B L S M

5,12 5,16 5,19 5,27 5,36 5,37 5,72 5,88

Nel campione preso in esame la taglia, oscillante tra i 21,5 e i 28 cm, sembrerebbe non far rientrare i testimoni nella definizione di ‘libriccino piccolo’. La proporzione del foglio (in maggioranza sotto 0,68) e soprattutto quella dello specchio (al massimo 0,66), risultano abbastanza ‘strette’; il codice di Waddesdon e il Monacense costituiscono gli esemplari con i valori più bassi, ossia quelli in cui la forma sia della pagina sia dello specchio è maggiormente oblunga. Il testo è sempre distribuito a piena pagina, secondo lo schema Derolez 13 o Derolez 36 (come in W); il numero delle righe tracciate varia da 14 a 17, la scrittura è indifferentemente, anche per lo stesso copista, below o above top line. L’unità di rigatura si mantiene in tutti i codici tra 5,12 e 5,88. Quanto al procedimento adottato per realizzare la mise en page, sei codici concordano approssimativamente con la cosidetta ricetta Monacense del XV sec., che una verifica sperimentale sui codici latini del Quattrocento ha dimostrato avere avuto estesa applicazione. Due manoscritti, L e B, entrambi di Sinibaldi, per certi aspetti si allontanano da quella ricetta e

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sembrano invece accostarsi a un’altra, di epoca carolingia. Applicando una forchetta di tolleranza del 10%, risulta che il manoscritto di Waddesdon non si adegua mai alle prescrizioni della ricetta carolingia; tra i sei avvicinabili alla ricetta del XV sec. è peraltro l’esemplare meno conforme, forse perché risente più degli altri della rifilatura. 5 Margini Ricetta sec. IX ex. L B Ricetta sec. XV CI S CII M W N

int/sup 0,75 0,71 0,76 1 0,93 1,04 1,04 1,08 1,17 1,25

int/est 0,50 0,49 0,49 0,66 0,67 0,53 0,71 0,59 0,69 0,64

int/inf 0,50 0,33 0,32 0,50 0,42 0,38 0,39 0,40 0,43 0,47

sup/est 0,66 0,68 0,65 0,66 0,72 0,51 0,68 0,54 0,59 0,51

sup/inf 0,66 0,46 0,43 0,50 0,45 0,36 0,38 0,37 0,37 0,37

est/inf 1 0,67 0,65 0,75 0,63 0,71 0,55 0,68 0,62 0,73

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LEGATURA L’attuale legatura, di epoca moderna (secolo XIX per Delaissé), ha i piatti in cartone rigido rivestiti di velluto rosso ed è corredata da un segnalibro rosso a più nastri. Il velluto sembra antico e secondo Delaissé risale al sec. XVI;6 è consunto e a tratti manca del tutto, lasciando scoperta la tela che copre i piatti. Al centro del piatto anteriore, in alto, si intravede un’impronta circolare, compatibile con una placca, poi asportata. Il dorso è parzialmente distaccato dal piatto anteriore. Dell’originaria coperta non si hanno informazioni, ma si può tentare di farsene un’idea, sebbene in via esclusivamente ipotetica. Le descrizioni dei libri d’Ore presenti negli inventari parlano spesso di libriccini «forniti d’ariento»: quasi sicuramente i «serrami» del codice di Waddesdon, cioè i fermagli, le bindelle, erano d’argento, essendo questi assai comuni negli Offizioli delle famiglie agiate. Ma la famiglia Medici era più che benestante; si può pertanto credere che il rivestimento del codice per Maddalena sia stata improntato all’estremo lusso e che possa aver avuto analogie con alcune legature di Offizioli medicei – e non solo medicei – che sono sopravvissute fino a noi. Prima fra tutte, quella del codice Monacense lat. 23639 (M) realizzata per la sorella di Maddalena, Lucrezia. 7 Sopra la stoffa rossa che copre i piatti lignei M esibisce una sovraccoperta in argento dorato di fine lavorazione: sui piatti metallici, uniti fra loro da cinque cerniere mobili sul dorso, sono montati dieci smalti, cinque per parte, tra i quali due grandi centrali romboidali con le raffigurazioni dell’arcangelo Gabriele (piatto anteriore) e della Vergine Annunziata (posteriore); l’emblematica medicea è presente nella cornice esterna dei piatti, dove un cartiglio recante il motto laurenziano «le temps revient» si attorciglia attorno al broncone (v. TAV. 00). Gli smalti del Monacense presentano una forte affinità stilistica con quelli che impreziosiscono la legatura del ms. BNCF, Banco Rari 242, un volume che fu realizzato per la famiglia Girolami secondo quanto denuncia lo stemma che compare sul frontespizio della Vergine (d’argento, alla croce di sant’Andrea nera). Insieme a piccole placche smaltate anche qui spiccano sui piatti due smalti figurati a scomparto romboidale con la Nunziata e l’arcangelo Gabriele, che vennero attribuiti da A. Garzelli a Paolo di Giovanni Sogliani;8 sono perdute le piccole perle che ornavano la cornice (v. TAV. 00). Placchette smaltate e smalti centrali, ancora con la Vergine e l’Angelo annunciante, ma stavolta di forma quadrilobata, tornano nell’Offiziolo BAV, Barb. lat., 382, allestito per l’unione tra due prestigiose famiglie, Ginori e Capponi, i cui rampolli, Bartolomeo di Lorenzo Ginori e Selvaggia di Neri Capponi, si sposarono nel 1492; secondo A. Garzelli tanto

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gli smalti quanto la miniatura del codice furono opera di Francesco Rosselli.9 Di commissione medicea sono invece le legature dei due libriccini BNCF, Banco Rari 326 e 328, entrambi destinati, stando agli stemmi, alla coppia Lorenzo Medici e Maddalena de la Tour d’Auvergne, le cui nozze avvennero nel 1518. 10 Il Banco Rari 326 conserva ancora i cantonali originali in argento dorato, sui quali è riprodotto l’anello mediceo diamantato con le tre piume (v. TAV. 00); della primitiva legatura del Banco Rari 328 restano sia i cantonali in argento dorato sia le pietre dure, sulla centrale delle quali è intagliata una figura femminile (v. TAV. 00). Anche i piatti dell’Offiziolo Laurenziano Ashb. 1874 erano ornati di pietre dure (lapislazzuli e quarzi rosa) incastonate in valve d’argento dorato filigranato (v. TAV. 00).11 Nell’inventario dei beni di Lorenzo redatto alla sua morte (1492) furono registrati otto libriccini da donna, i più lussuosi dei quali si trovavano nello scrittoio del Magnifico nel palazzo di Via Larga insieme a cammei, anelli, pietre e altri oggetti preziosi. Tra essi ve n’è uno descritto come «un altro libriccino di donna, piccino, choll’asse d’oro smaltate, una Nuntiata da l’uno lato et dall’altro uno san Giovanni Battista et una santa Maria Maddalena smaltata».12 La tipologia della legatura, con assi metalliche e smalti figurati, è identica a quella di M, con la sola sostituzione del Battista e della Maddalena all’arcangelo Gabriele. La raffigurazione della Maddalena inevitabilmente fa pensare alla destinataria del codice di Waddesdon; tuttavia, oltre al fatto che la precisazione ‘piccolo’ mal si attaglia al manoscritto inglese, difficilmente si può credere che il libro di Maddalena possa essere rimasto ancora nella biblioteca del padre quattro anni dopo il suo matrimonio. Non si può appurare se la coperta del codice di Waddesdon sia stata impreziosita con smalti, come è assai probabile, 13 pietre dure o le più comuni e quasi immancabili perle, simbolo di purezza e verginità e perciò attributo delle spose; è comunque plausibile che, oltre a recare bindelle d’argento, in alcune parti, sui piatti o sui cantonali, fossero contenuti i riferimenti alla famiglia Medici che la commissionò. Di tutta questa ipotetica magnificenza il codice di Waddesdon non conserva al presente alcunché e l’unico vestigio di lusso, che peraltro risalta solo a volume chiuso, è costituito dalla doratura e goffratura del taglio.

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CONTENUTO (cc. 1r-12v) Calendario; segue (cc. 13r-14r) il prologo del Vangelo di s. Giovanni (1, 1-14); bianca c. 14v (cc. 15r-89r) Officio della Vergine secondo l’uso romano; segue (cc. 89v92v) la Messa in onore della Vergine (Salve sancta parens; cfr. Leroquais, I, pp. 123, 136 e Messale 1512, cc. 236ra-236va: Missa de beatam Virginem a Purificatione usque a Pascha)

(cc. 93r-140r) Officio dei Defunti; bianche le cc. 140v-142v (cc. 143r-165v) Salmi penitenziali, Litanie e Orazioni; segue (cc. 166r-168v) il Credo di s. Atanasio (Quicunque vult; cfr. Leroquais, I, pp. 124, 136, 251, II, pp. 147, 230, 287)

(cc. 169r-194r) Officio maggiore della Croce; bianca c. 194v (cc. 195r-202v) Officio minore della Croce (cc. 203r-209v) Officio dello Spirito Santo; segue (209v-210v) l’Orazione di s. Anselmo (Domine deus meus si feci ut essem; cfr. Leroquais, I, p. XXIX); bianche le cc. 211r-212v (cc. 213r- 224v) Salmi graduali; bianche le cc. 225r-226v (cc. 227r-234v) Orazioni Ai Sette gaudi della Vergine (cc. 227r-228r; cfr. Leroquais, I, pp. XXVI-XXVII e Chevalier, n. 7017) segue l’Orazione Deus qui beatissimam et gloriosam virginem (cc. 228r-229v; cfr. Wordsworth, p. 64). Inizia poi una sequenza dedicata a Cristo, con l’Orazione Dulcissime atque piissime Domine Yhesu Christe (cc. 203r-v) e le Sette (qui soltanto sei) orazioni di s. Gregorio (cc. 231r-232r; cfr. Leroquais, II, p. 346), grazie alle quali si otteneva l’indulgenza per ben quattordicimila anni. Chiudono il ms. altre tre Orazioni: all’angelo custode (Angele Dei qui custos es mei, cc. 232r-v; cfr. Chevalier, n. 22954), alla Madonna (Te matrem Dei laudamus, cc. 232v-234v; cfr. Chevalier, n. 20158) e a Dio (Omnipotens sempiterne deus qui gloriose virginis, c. 234v; cfr. Wordsworth, p. 63).

Destinati all’uso privato dei fedeli e non alla liturgia della Chiesa, i libri d’Ore si sottraevano al controllo dell’autorità ecclesiastica. Venivano costruiti con una certa libertà e quindi variavano sia per numero e successione delle sezioni liturgiche (eccezion fatta per il calendario, sempre collocato in apertura del codice) sia anche per l’eventuale presenza di preghiere più o meno lecite (dalle orazioni in raccomandazione del destinatario a quelle di carattere superstizioso fino alle composizioni più bizzarre). In mancanza di una verifica ecclesiastica la correttezza del testo poteva spesso lasciare a desiderare. 14 Se pertanto gli Offizioli necessariamente contenevano l’Officio della Vergine, che ne era il nucleo centrale e la cui scansione in sette Ore canoniche dava nome al volume stesso, l’inserimento degli altri Officia era demandato all’esigenze della

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committenza. Quanti più testi comprendeva, tanto più il codice era prestigioso; quanti più riferimenti al destinatario venivano aggiunti, tanto più il libro assumeva la connotazione di manufatto personalizzato ed esclusivo. Il ms. di Waddesdon da un lato spicca per la dovizia di testi, dall’altro si fa notare per la totale assenza di richiami al destinatario; quest’assenza, che pesa ancor più a confronto con Offizioli a esso molto vicini, potrebbe far supporre che, quando il copista allestì il manoscritto, la destinataria non era stata ancora individuata (cfr. supra, pp. 00-00). In rapporto ad alcuni libri d’Ore riconducibili alla cerchia medicea e ai ceti dirigenti della Firenze di fine Quattrocento, il codice di Waddesdon [W] risulta il più completo sotto il profilo testuale. Se infatti quasi tutti recano l’Officio della Vergine, dei Defunti, i Salmi penitenziali e le Litanie, nonché l’Officio della Croce maggiore e spesso quello della Croce minore (questi, per esempio, sono gli unici testi tràditi nel Monacense lat. 23639 [M] e nel Laurenziano Ashb. 1874 [L]), W contiene anche i Salmi graduali e l’Officio dello Spirito Santo, oltre ad alcuni scritti accessori inframezzati negli Officia (Messa in onore della Vergine, Credo, preghiera di s. Anselmo) e ad alcune orazioni finali. Non sono questi testi inusuali; ma trovarli raccolti tutti insieme rende conto dell’opulenza del codice.15 Ne offre conferma il calendario, che registra in totale 221 festività: 24 a gennaio, 20 a febbraio, 14 a marzo, 12 ad aprile, 19 a maggio, 15 a giugno, 18 a luglio, 27 ad agosto, 17 a settembre, 16 a ottobre, 20 a novembre, 19 a dicembre. Il numero è considerevole, tenuto conto che i calendari dei codici L e M ne contengono circa un centinaio ciascuno (93 L, 100 M). La collazione effettuata su otto calendari di codici prodotti a Firenze nell’ultimo ventennio del Quattrocento (L, M, W, B [Yates Thompson 23], N [Add. 19417], R [Rouen 366], S [Add. 33997], T [Torino, Varia 89]) ha del resto confermato la ricchezza del calendario di Waddesdon, assegnandogli il secondo posto entro il campione preso in esame: W è preceduto da R, con 333 festività, ed è seguito dappresso da T, con 219 festività, e da S, con 208 festività iscritte, oltre a otto annotazioni di carattere astrologico e astronomico. Si avvicinano invece alle proporzioni di L e M i calendari di B, con 99 festività, e di N, con 145 registrazioni. Già sul piano quantitativo si colgono dunque le differenze tra W da una parte e L con M dall’altra. Negli otto calendari 96 festività sono registrate dalla totalità o dalla maggioranza degli esemplari (60 sono le festività comuni a tutti, 36 quelle comuni a tutti tranne uno o due codici), ivi compreso il ms. W, eccetto che in un caso.16 Il calendario di W contiene 120 festività che mancano nei calendari di L e M e che denotano chiaramente l’assenza di un comune antigrafo. I due codici L e M sono infatti testualmente molto più vicini a B anziché all’Offiziolo per Maddalena: oltre ad alcuni errori

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esclusivi di L e M, 17 si riscontrano 23 omissioni condivise da L, M e B contro tutti gli altri testimoni. Le affinità che legano il calendario di W a quello di T (sul ms. T cfr. meglio infra, p. 00) sono invece tali da far supporre la discendenza dei due testi da uno stesso exemplar. Non solo dei calendari, ma di tutta la sezione introduttiva degli Offizioli: in entrambi i volumi essa è costituita dal calendario e dall’inizio del prologo del Vangelo di s. Giovanni (in T alle cc. 17v-19r), le cui lezioni sono identiche tranne che in un luogo (T 19r: voluntate carnis, W 14r: voluptate carnis). Le divergenze tra i calendari di W e T sono soltanto 15 e quasi tutte si possono facilmente spiegare come errori del copista, che per distrazione tralasciò le festività iniziali o finali del mese o quelle per cui occorreva cambiare colore dell’inchiostro; oppure che sbagliò il giorno della registrazione. Spesso le omissioni nell’uno o nell’altro calendario (7 in T, 6 in W) riguardano alcune festività maggiori di norma evidenziate nei calendari usando inchiostro rosso, oro o blu (come S. Marco il 25 aprile e S. Caterina il 25 novembre, omessi in T; oppure l’Ottava di S. Giovanni Battista il 1 luglio, omessa in W); in altri casi è la prima o l’ultima festività del mese a essere stata tralasciata (così S. Petronilla il 31 maggio, omessa in W; oppure S. Pietro martire il 29 aprile, omesso in T); altrove invece alcuni santi sono citati due volte (è il caso di Donato, ricordato in T sia il 4 sia correttamente il 7 dicembre; oppure di Tommaso Becket, festeggiato il 29 dicembre, che in W è ripetuto anche sette giorni prima). 18 I calendari di W e T presentano inoltre 27 festività comuni totalmente assenti nei restanti testimoni e sono congiunti da altre tre occorrenze: S. Margherita è registrata in entrambi i calendari il 19 luglio anziché il 20; il 22 gennaio è festeggiato soltanto S. Vincenzo, mentre negli altri codici è ricordato anche a S. Anastasio; il 7 marzo c’è la memoria della sola S. Perpetua, menzionata nei rimanenti esemplari con S. Felicita. Le affinità presentate da W e T nei confronti degli altri testimoni si riscontrano principalmente rispetto a S e a R: 40 festività sono comuni ai quattro calendari contro i restanti manoscritti. Nonostante la sua densità, il calendario di R è in accordo con W e T in opposizione agli altri soltanto per cinque festività; il calendario di S è unito a quello di W e T contro gli altri, e dunque anche contro R, per otto ricorrenze. In particolare, il calendario di W appare più vicino a S che non a R: nei confronti di R si riscontrano circa 165 differenze, tra omissioni e varianti, cui si deve aggiungere una ventina di festività comuni iscritte in giorni diversi. Si limitano invece a circa 65 le diversità tra W e S; il calendario di quest’ultimo si distingue comunque da tutti gli altri sia perché spesso nello stesso giorno sono registrati due o più santi sia perché viene segnato l’inizio delle stagioni e l’ingresso del sole nei segni zodiacali. Quasi irrilevante è poi l’accordo di W e T con N, limitato a

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tre sole festività (una delle quali comune anche a R); nessun legame infine mostrano W e T con gli altri testimoni. In conclusione, l’analisi testuale condotta sui calendari, oltre a smentire l’attribuzione a un’area perugina del calendario di S, riconducendolo invece con certezza a Firenze (cfr. supra, p. 00), stabilisce un forte parallelo tra W e T. Il ms. T, cioè il codice conservato nella Biblioteca Reale di Torino con la segnatura Varia 89 (TAV. 00), fu vergato dallo stesso copista di W, Alessandro da Verrazzano; la sottoscrizione compare in calce di c. 76r: «Alexander Verrazanus escripsit». L’Offiziolo di Torino, costituito da appena 76 carte che tramandano il calendario, i due Offici della Croce e quello dello Spirito Santo, è evidentemente mutilo. Probabilmente venne smembrato in almeno tre parti: della prima, con l’Officio della Vergine, non si è rintracciata notizia, mentre la seconda era già nota agli inizi del ’900. P. D’Ancona, descrivendone la miniatura che attribuiva ad Attavante, 19 segnalava infatti la presenza di un codicetto di 102 carte con l’Officio dei Defunti e i Salmi penitenziali nella libreria di T. De Marinis. Quest’ultimo, sulla base del monogramma YC ripetuto più volte nella decorazione, riteneva che il manoscritto fosse appartenuto a Ippolita Sforza, moglie di Alfonso II d’Aragona, re di Napoli.20 Non ci sono dubbi che quei 102 fogli oggi proprietà di anonimi privati21 in origine fossero uniti ai 76 di Torino;22 ma è ancora da verificare se l’Offiziolo sia stato davvero scritto per Ippolita (1445-1488). Se così avvenne, certo non fu realizzato per il suo matrimonio del 1465, poiché all’epoca Verrazzano aveva solo dodici anni. Stante la presenza di stilemi grafici del copista riconducibili alla sua fase matura, si può proporre per il codice una datazione non anteriore alla fine degli anni ’80 (attorno o dopo il 1487; cfr. anche infra, p. 00). Se la parte introduttiva (calendario e prologo di s. Giovanni) degli Offizioli W e T sembra discendere direttamente da un comune antigrafo, non altrettanto può dirsi per l’Officio della Croce maggiore: le numerose lezioni singolari portate dai due manoscritti non sono riconducibili a uno stesso exemplar. Se ne possono dare alcuni esempi: in apertura dell’Officio manca in W (c. 169r) il salmo 94 Venite exultemus dell’invitatorio che è presente in T (c. 22v). Al principio delle Laudi in W (c. 171r) è trascritto un notandum per avvertire che in ogni ora si dovrà dire l’antifona Attendite universi, che perciò viene omessa nel resto dell’Officio; in T il notandum è invece assente e l’antifona è ripetuta. Al contrario di T mancano in W responsori e versicoli finali di ciascuna Ora e i versetti iniziali dell’Ora seguente. Infine W termina l’Officio della Croce maggiore con due orazioni (Precibus et meritis e l’ «Oratio pro mortalitate» Deus qui non mortem, cc. 193v-194r) entrambe non copiate in T.

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Nella Croce minore le differenze sono meno significative, anche se si può rilevare che W, pur precisando subito, come T, che l’Orazione Domine Iesu Christe fili Dei vivi si dice a tutte le ore, in seguito la ripete per intero ogni volta, mentre T si limita a darne l’incipit. In quella stessa orazione, inoltre, W scrive sempre (cc. 196r, 197r, 198r, 199r, 200r, 201r, 202r) «inter iudicium et animam meam nunc et hora mortis meae. Et mihi largire…», mentre T «inter iudicium tuum et animam meam nunc et in hora mortis meae. Et largire…» (c. 62r). La lezione di T è attestata anche da L (c. 229v) e M (c. 220v), ma con il verbo largiri anziché largire. È probabile dunque che pure per l’Officio della Croce minore l’antigrafo di W e T sia stato diverso, sebbene forse entrambi siano appartenuti alla stessa famiglia. L’orazione infatti continua identica in W e T: «Et largire digneris gratiam et misericordiam vivis et defunctis requiem et veniam ecclesiae tuae pacem et concordiam et nobis peccatoribus vitam et gratiam sempiternam». In L invece si legge «Et largiri digneris vivis misericordiam: gratiam et gloria defunctis requiem et veniam: ecclesie pacem et concordiam et nobis peccatoribus vitam et letitiam sempiternam»; M concorda con L, ma omette ecclesie pacem et concordiam: «et largiri digneris vivis misericordiam, gratiam et gloriam: defunctis requiem et veniam: et nobis peccatoribus vitam et letitiam sempiternam». Anche in altri luoghi W e T sono in accordo fra loro contro L e M. Per esempio nell’Inno della Prima: W (c. 196v) e T (c. 63r) hanno «testibus multum accusatum: colaphis percutiunt», mentre L (c. 230v) reca «testimoniis multum accusatum in collo percutiunt» e altrettanto M (cc. 221r-221v), salvo l’errore accusatus per accusatum. Oppure nell’Inno della Sesta, W (cc. 198v-199r) e T (c. 64v) scrivono «agnus crimen diluens», contro L (c. 231r) e M (c. 222r) che riportano «agnus crucem diluit». L’Officio dello Spirito Santo manca in L e M e il confronto si può fare soltanto tra T e W. Essi mostrano, come già nella parte introduttiva, una forte vicinanza: tranne il fatto che il Gloria, il Qui vivis et regnas e l’antifona Veni Sancte Spiritus sono scritti per intero in W e abbreviati in T, le varianti tra i due testi sono minime. Escludendo quattro omissioni di una o due lettere (et in tre casi e una t finale a potuit) e una sostituzione di et a atque, gli unici due luoghi difformi sono nell’Inno della Nona («spiritalis […] charisma vocatus» in T, c. 72r; «spiritualis […] carissima vocatus» in W, c. 208r) e in quello dei Vespri («Dextera Dei digitus virtus spiritalis» in T, c. 73r; «Dextre Dei digitus spiritus» in W, c. 208r). Entrambi i codici inoltre tramandano alla fine dell’Officio dello Spirito Santo la preghiera di s. Anselmo in una versione identica, tranne che per due divergenze irrilevanti (una omissione di et e l’errore tuus per tuum). Nel testo dei due Offizioli W e T si riscontrano dunque sia punti di contatto (nella parte introduttiva e nell’Officio dello Spirito Santo), che

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potrebbero provenire da un comune ascendente, sia divergenze (nell’Officio della Croce maggiore), che escludono la derivazione diretta dal medesimo antigrafo. Si affaccia pertanto l’ipotesi che per allestire un libro d’Ore non necessariamente il copista si servisse di un solo exemplar. Le unità modulari, cioè le sezioni contenutisticamente e codicologicamente indipendenti che tramandavano i vari Offici, potevano essere trascritte non soltanto in un ordine diverso da quello poi affidato all’assemblaggio, bensì anche traendo il testo da diversi antigrafi. Le modalità di produzione degli Offizioli sono ancora tutte da indagare; ma, almeno per la Firenze dell’ultimo ventennio del Quattrocento che richiedeva numerose copie anche manoscritte di questi libriccini, non andrebbe forse esclusa la possibilità che abbia avuto corso un procedimento grosso modo simile a quello seguito in epoca precedente entro l’ambito universitario. Così come i manoscritti ‘peciati’ erano il risultato di un’operazione di copia fondata su un antigrafo che veniva smembrato per affidarne i fascicoli simultaneamente a più copisti, lo stesso magari è valso per alcuni Offizioli. Potrebbe darsi che i copisti rivolgendosi ai cartolai ottenessero un’unità modulare, cioè un Officio, alla volta, che trascrivevano e poi restituivano ricevendone in cambio un’altra; e altrettanto potrebbero aver fatto suore e frati, avvalendosi di exemplaria sfascicolati presenti nel monastero. Altra ipotesi da tenere in considerazione a proposito degli antigrafi degli Offizioli è che questi, unici o molteplici, sfascicolati o legati che fossero, potessero anche essere stampati; benché per altro genere di volume, Antonio Sinibaldi dà testimonianza sicura che si trascrivevano codici ricavandone il testo da esemplari a stampa.23 Sembra tuttavia che non sia questo il caso del ms. di Waddesdon, poiché qui compare un indizio tale da far credere che il copista si sia servito, almeno per l’Officio della Vergine, di un exemplar manoscritto. A c. 74 r infatti si trova «regna […]t vocem suam» e lo spazio bianco, corrispondente a qualche lettera, lasciato prima di quell’isolata t sembra riconducibile a una difficoltà di lettura: se il copista non riuscì a leggere «dedi», che il testo riportava prima di «t», verosimilmente ciò accadde perché quelle lettere erano state malamente tracciate a penna.

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SCRITTURA Il codice fu vergato nella littera antiqua restaurata dagli umanisti. Forse a Bartolomeo Sanvito, il grande calligrafo padovano, si deve il merito di aver adottato per primo la littera antiqua nei libri d’Ore 24 e a partire dall’ultimo quarto del secolo la novità fu accolta con entusiasmo a Firenze dai copisti più valenti e alla moda; primo fra tutti probabilmente Antonio Sinibaldi. In ambienti maggiormente conservatori, come quelli monastici, si continuavano tuttavia a produrre Offizioli seguendo la tradizione che prescriveva l’uso della littera textualis, ovvero la gotica. Nella scrittura, così come nella decorazione (cfr. infra), il codice di Waddesdon abbandona dunque la veste consueta del libro d’Ore per aprirsi alle acquisizioni moderne. 1. Attribuzione e datazione Il codice di Waddesdon Manor è un volume di alto livello, la cui scrittura si presenta nella pagina con assoluta regolarità in un flusso costante quanto a modulo, allineamento sul rigo di base, spessore dei tratti, rapporti tra aste e corpi, spaziatura tra le lettere e le parole. Si caratterizza inoltre per la sostanziale uniformità del lessico grafico sotto il profilo della morfologia e del ductus: il campionario delle varianti usate non è infatti dei più estesi e per lo più il copista limita la variatio alle maiuscole, personalizzando le capitali con qualche tratto esornativo (cfr. N, F, G, M), oppure alternando alla forma capitale quelle onciali o semionciali (cfr. E e A); molto raramente si trovano nessi epigrafici (cfr. ND cc. 13r, 108r) e una sola volta L capitale che include la lettera seguente (c. 193v). Del tutto assente C che include le lettere successive, che è generalmente frequente alla fine del ’400 e avrà un uso continuo anche nel ’500. In altri termini, il valore della scrittura del codice risiede nella sua regolarità anziché nelle sue particolarità. Ciò detto, potrà apparire singolare l’attribuzione al più estroso copista fiorentino del Quattrocento, Alessandro da Verrazzano.25 Ma «tutti i grandi sono stati bambini una volta»: anche Verrazzano, prima di raggiungere la maturità professionale che lo portò a creare prodotti riconoscibilissimi per la ricercatezza del repertorio grafico, conobbe un periodo di apprendistato. Probabilmente sotto la guida di Antonio Sinibaldi, Alessandro da Verrazzano mosse i primi passi da copista sul finire degli anni ’70. 26 In realtà l’attività di copista era per lui forse poco più di un passatempo, il portato naturale del talento di una mano che riusciva a riprodurre i segni con assoluta precisione.

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Il più antico codice datato di Verrazzano che si conosca, il BNCF, Magliabechiano VII. 1140, è del 1477 e contiene il suo volgarizzamento della Vita di san Zanobi di Lorenzo arcivescovo di Amalfi (sec. XI), dedicato a Francesco di Zanobi Girolami, di cui reca lo stemma a c. 1r (v. 27 TAV. 00). La prima prova conosciuta di Alessandro, all’epoca ventiquattrenne, è dunque letteraria e grafica, poiché lo presenta nella duplice veste di traduttore 28 e copista; ma dal codice si intravede di lui anche qualcosa in più, cioè l’orgoglio di discendere da una famiglia che una lunga tradizione faceva risalire a s. Zanobi, il primo vescovo e patrono di Firenze.29 La madre di Alessandro, morta lasciando i figli ancora piccoli, era infatti Contessina Girolami, sorella di Francesco, dedicatario del codice.30 Il Magliabechiano VII. 1140 è un codicetto di piccolo formato, di appena 180 × 113 mm, scritto con estrema accuratezza in una littera antiqua già perfettamente formata e priva di vistose incertezze, che tuttavia è piuttosto sobria nella scelta delle varianti e mostra qua e là una pur minima rigidità. Del repertorio della maturità grafica di Alessandro il codice Magliabechiano dà solo timide anticipazioni, confinate per lo più entro citazioni eccezionali: in tutto il ms. un’unica volta compaiono M onciale (c. 22r) e tre litterae inclusae (O che include L, c. 4r, C che include i, c. 7r; L che include o, c. 20v); solamente tre volte si trova d onciale (nel titolo alle cc. 5v e 7r e a c. 27r). Accenni di quell’estrosità che sarà tipica di Verrazzano affiorano però in piccoli particolari: gli allungamenti dei tratti finali di alcune lettere (le capitali G, N, I, che si prolungano sotto il rigo, e le minuscole x, i e comunemente t, r, e, a, quest’ultima soprattutto in fine di rigo) o del trattino di stacco in basso dell’asta di p; l’uso delle lettere soprascritte, qui ancora sobrio nel numero, nella scelta e nell’esecuzione delle varianti (soltanto o, e, a, queste due talvolta con l’ultimo tratto allungato) e limitato alla fine del rigo, in quanto funzionale al risparmio di spazio; l’impiego di alcune varianti in sedi particolari, come v per u entro parola o più frequentemente alla fine del rigo. Anche il Magliabechiano, come il codice di Waddesdon, trova la sua virtù principale nella precisione e nella regolarità della catena grafica piuttosto che nella varietà morfologica. Inoltre alcune varianti devono ancora acquistare la fluidità che sarà tipica dei prodotti più avanzati. Così, per esempio, le aste sono ben diritte e non hanno quel leggero movimento sinuoso, tra l’altro attinto da Sinibaldi, che conferisce leggerezza allo scritto; la legatura sp, con s diritta, è eseguita compitamente, ma la curva della s è troppo ampia e crea tra le due aste uno spazio leggermente più esteso del dovuto, oppure il punto di attacco tra s e p non scende lineare ma è spezzato; nella doppia g la pancia della seconda lettera è talvolta irregolare e schiacciata; la a onciale allungata (con il primo tratto obliquo e l’occhiello ridotto), che è quasi una firma di Sinibaldi e che il suo

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allievo riprende e più avanti esegue con stessa eleganza del maestro, è ancora abbastanza contratta. Moltissimi dei tratti finora rilevati accomunano il ms. Magliabechiano all’Offiziolo di Waddesdon. L’aspetto generale della scrittura e la regolarità del tratteggio sono simili, come buona parte del campionario delle varianti. Fatta eccezione per le litterae inclusae, per d e M onciali (assenti nel ms. di Waddesdon, tranne L che include i), in entrambi i volumi si possono rilevare, per esempio, più forme di E maiuscola (spesso in legatura con la t che segue); la Q con la lunga coda (comunque molto frequente alla fine del secolo e nel successivo); la F con il secondo tratto obliquo e curvo alla fine (usata anche da Sinibaldi e altri); l’uso della v tagliata per ver e della i come riempitivo in fine rigo. I codici sono inoltre uniti da due tratti peculiari che non verranno mai meno nella scrittura di Alessandro da Verrazzano: & con l’ultimo tratto che si annoda e si prolunga in alto e il segno abbreviativo alla greca; entrambi sono quasi costanti nel ms. di Waddesdon e abbastanza rari nel Magliabechiano. Un terzo tratto frequentissimo e perciò distintivo del codice W, ovvero il segno ondulato che inizia e finisce con un punto e taglia la Q, non può ovviamente comparire nel Magliabechiano, essendo il testo in volgare. Per errore si trova tuttavia il dittongo ae («aeterna», c. 1v, per sovrapposizione della forma latina) che, come nel codice di Waddesdon, è rappresentato da e caudata, benché in un’esecuzione leggermente diversa (nel ms. Waddesdon la cediglia forma una curva stretta e quasi si chiude). Magliabechiano

Waddesdon

Magliabechiano

Waddesdon

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Il secondo manoscritto noto allestito da Alessandro Verrazzano e recante una datazione certa è il London, BL, Additional 23773, del 1487. Il codice contiene la traduzione latina di Poliziano delle Historiae di Erodiano dedicata a Innocenzo VIII, ovvero al suocero di Maddalena Medici; nonostante sia corredato dello stemma Cybo nel frontespizio (c. 4r; v. TAV. 00), non fu l’esemplare di dedica, ma una copia eseguita per Pierfrancesco Medici, come ricorda il copista nella sottoscrizione. 31 Dieci anni dopo la Vita di s. Zanobi sono già presenti molti degli stilemi di Verrazzano (più varianti di A, E, M, N, Q; H alla greca; T di forma capitale eseguita minuscola in fine di parola, in foggia di tau greco; r minuscola usata come maiuscola etc.), benché l’uso dei nessi epigrafici (es. TR), degli svolazzi dei segni abbreviativi, delle lettere soprascritte e delle lettere che ne includono altre (es. Co, Ca, Cv) resti abbastanza misurato. Per il dittongo ae si usano anche nella stessa pagina e in due parole contigue (v. c. 19r r. 14) entrambe le forme, estesa e con e caudata. La scrittura ha inoltre una leggera tendenza a svilupparsi in verticale piuttosto che in orizzontale; e nelle aste, sebbene tendano lievemente a flettersi, permane una certa impostazione dura. In un decennio, tra il 1477 e il 1487, la scrittura di Alessandro Verrazzano è andata dunque arricchendosi di varianti e affinandosi in regolarità, conservando tuttavia una lieve rigidità. In altre parole, il Verrazzano del 1487 si avvicina notevolmente a Sinibaldi; a quell’epoca non ha però raggiunto la fluidità del maestro e per compensare ne ha esasperato il lessico grafico, facendo proliferare le varianti, anche se non ancora i tratti esornativi. Il ms. di Waddesdon, con quella rigidità che emerge pur nella rigorosa precisione del tratteggio, non può pertanto essere ricondotto a Sinibaldi32 ed è invece accostabile alle prime prove datate di Alessandro da Verrazzano: si può quindi cronologicamente situare tra il 1477 e il 1487. Per meglio precisare la datazione dell’Offiziolo inglese occorre istituire un altro parallelo grafico, stavolta con il Plut. 77.24 della Laurenziana (TAV. 00). Il codice, nel quale già Albinia de la Mare riconobbe la mano di Verrazzano, 33 è databile attorno al 1484. Il volume infatti contiene il De moribus di Giovanni Nesi, dedicato dall’autore – che tra l’altro nel 1491 diventerà cognato del copista – 34 a Piero di Lorenzo Medici. Poiché il dialogo di Nesi risale al 148435 e il manoscritto ne costituisce la copia di dedica, la sua datazione è di poco posteriore a quella dell’opera. Al pari del Magliabechiano e del codice di Waddesdon, il repertorio delle varianti del Pluteo è ancora in via di definizione: come il codice di Waddesdon il Pluteo ha, per esempio, la e caudata per il dittongo ae, che in anni successivi Verrazzano userà raramente, preferendole ae per esteso (qui comunque già attestata); oppure, eccezionalmente, come nel ms. di Waddesdon, si trova la nota tachigrafica per con, in seguito piuttosto trascurata dal copista. I punti

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di contatto che si possono individuare tra il Pluteo e l’Offiziolo sono vari: il titulus è alla greca; la legatura et ha il solito movimento a nodo ed è usata anche in fine di parola; il segno abbreviativo che taglia Q è il medesimo; la A è di forma capitale, onciale e rustica; la V capitale può avere il primo tratto diritto (come nel Magliabechiano) oppure ondulato; il secondo tratto di F oltre che a ricciolo (cfr. supra) può essere anche diritto e diagonale; la p minuscola, spesso con il prolungamento del tratto di stacco sotto il rigo, serve pure da maiuscola (altrettanto si verifica nel Magliabechiano); la R capitale è usata come minuscola non solo in fine di rigo, ma anche in fine di parola entro il rigo. Comune è il sistema abbreviativo con la prevalenza, per rum, di R tagliata di forma capitale anziché di r tonda in nesso con o (pur attestata in entrambi i codici). Nel Pluteo inoltre, al pari del ms. di Waddesdon, non si trova la C che include le lettere seguenti (è comunque utile segnalare che la C in entrambi i manoscritti sovente si prolunga in basso fin quasi a legarsi con la lettera seguente) e c’è una sola attestazione di nessi epigrafici (TR a c. 136r); il sistema delle letterine soprascritte è ancora limitato alla fine del rigo, ma la varietà delle lettere è maggiore (a,e, i, l, o, s, t). Nel ms. di Waddesdon e nel Magliabechiano si usa come riempitivo di fine rigo esclusivamente i tagliata, nel Pluteo invece è adottata anche la o, benché prevalga sempre la i; più avanti nel tempo Verrazzano avrà per regola l’alternanza tra i e o. N capitale, infine, oltre ai già visti allungamenti del terzo tratto, ha di frequente il primo tratto curvo: tale forma diventerà poi abituale nella produzione di Verrazzano. Nel ms. di Waddesdon questa variante di N non si manifesta mai; si riscontra tuttavia una H di identica costruzione, in un’unica citazione a c. 201v: nella H di «Hymnus», lemma che tra l’altro viene trascritto usando un inchiostro diverso (cfr. anche infra, p. 00). Plut. 77.24

Waddesdon

Plut 77. 24

Waddesdon

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Rispetto al Magliabechiano nel Pluteo fanno la loro comparsa le varianti alla greca per H

eM

, la variante di Q in forma di 2

, la

r minuscola usata come maiuscola : il lessico grafico del 1484 è più ricco, anche se non completamente perfezionato. Queste nuove varianti, del tutto assenti nel ms. di Waddesdon, costituiscono pertanto il discrimine per collocare l’Offiziolo inglese prima del Pluteo. Per aspetto generale la scrittura del libro d’Ore si avvicina del resto a quella del Pluteo e perciò tra la stesura dei due codici forse non dovette passare troppo tempo; nell’Offiziolo la citazione eccezionale di H con il primo tratto curvo, analoga a N – mai attestata nel Magliabechiano –, sembra ascriversi a un intervento di correzione più tardo, collocabile appunto a ridosso del matrimonio di Maddalena, ovvero nel 1487 (cfr. supra, p. 00 e infra, p. 00). Ricondotto ad Alessandro da Verrazzano, il codice di Waddesdon si aggiunge all’elenco dei 25 manoscritti già individuati da Albinia de la Mare come opera del copista. 36 Sempre qualitativamente ragguardevole, la produzione di Verrazzano fu tuttavia sicuramente più vasta. Al momento si possono per esempio indicare altri quattro esemplari che, a mio parere, sono a lui attribuibili: la porzione iniziale e finale del Lattanzio BML, Conventi Soppressi 249 (cc. 1-24, 181-214; con la data «MDX» a c. 214r); il ms. Oxford, Bodleian Library 488, contenente gli Statuti dell’Ospedale di Santa Maria Nuova; il codice con gli Statuti della Confraternita della Misericordia (Firenze, Archivio della Misericordia, Statuti 2); un volume con la Vita di s. Giovanni Gualberto conservato dell’Archivio di Stato (ASF, S. Cassiano di Montescalari, s.s.). Nel settore dei libri d’Ore copiati da Verrazzano l’Offiziolo di Waddesdon affianca i tre già noti del copista. Due sono stati attribuiti da A. de la Mare (Harvard University, Houghton Library Typ. 275H e Oxford, Keble College 60-62, in tre volumi) e attendono datazione paleografica; 37 il terzo, l’unico di cui mi è stato possibile verificare la scrittura, è il codice di Torino, Varia 89, firmato da Verrazzano (TAV. 00). Si è già visto che il ms. di Torino, il cosiddetto Offiziolo per Ippolita di Calabria, presenta alcune affinità testuali con quello di Waddesdon (supra, pp. 00-00). Si può ora aggiungere che sotto il profilo grafico il codice si accosta maggiormente all’Erodiano Additional 23773 del 1487 anzichè al ms. di Waddesdon. Nelle Ore di Torino tornano le varianti dell’Additional osservate in precedenza; anche questo volume è improntato alla sobrietà, forse ancor più dell’Erodiano. I virtuosismi grafici sono dosati entro la pagina, aderendo a una scelta di misura già di Sinibaldi e dalla quale

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Verrazzano più avanti nel tempo si discosterà. Così, per esempio, sono contenuti in numero ed estensione gli allungamenti dei tratti finali di alcune lettere e si riducono a poche ma significative occorrenze la T in forma di tau legata a e (

,

,

,

nei titoli o nel testo: ND

,

), i nessi epigrafici (che compaiono

a c. 30r, TR

a c. 30v, HR

a c. 41r,

IHE a c. 41v) e la variatio delle maiuscole (costituita da forme onciali, capitali eleganti, capitali rustiche, capitali modificate in senso calligrafico – come le già viste F e N – , varianti alla greca e varianti minuscole, come p e r, impiegate come maiuscole); una sola volta in tutto il volume, a c. 76r, si affaccia C che include o al suo interno . Il sistema delle lettere soprascritte non si limita più alla fine del rigo (dove spesso si trova a onciale), ma si estende anche, in rari casi, al suo interno, ponendo in esponente l’ultima lettera della parola (s di us

) o l’uscita dell’abbreviazione (mi

,

me ). In alternanza si usano e caudata e la forma estesa ae per il dittongo e le lettere i e o tagliate come riempitivi di fine rigo. Sulla base di questi elementi, che compaiono anche nell’Additional 23773 del 1487, si può proporre per il codice di Torino una datazione che si aggira alla fine degli anni ’80, vicina appunto a quella dell’Erodiano. Per il confronto con le Ore di Waddesdon è da segnalare anche il sintagma etcetera, di identica esecuzione: nel ms. di Torino come

e

, nel ms. di Waddesdon

come

e . I virtuosismi calligrafici, cui si accennava poco fa, sono invece evidenti nei prodotti di Verrazzano degli inizi del Cinquecento, come il Riccardiano 891 (TAV. 00) e l’Additional 9770 di Londra (TAV. 00), sottoscritti da Alessandro rispettivamente nel 1500 e nel 1506.38 In entrambi, e soprattutto nell’Additional 9770, la scrittura è abbastanza pesante e le capitali hanno il portamento lapidario di quelle della stampa. La pagina prende tuttavia movimento attraverso una molteplicità di elementi che rompono la monotonia della catena grafica, insita nella regolarità di esecuzione: gli allungamenti dei tratti finali delle lettere e dei segni abbreviativi (es. ), le uscite delle abbreviazioni poste in esponente entro la riga, le lettere iniziali che includono le successive (Q, C, R, L, z), la ripetizione del nesso vr con il tratto finale della r prolungato sotto il rigo (

) e in generale l’alternanza morfologica delle varianti e delle legature

(tra cui risalta st: ). Per avere un’idea dell’eccentricità del copista è sufficiente dare un’occhiata alla carta finale del Riccardiano (c. 143r, v. TAV. 00), con quattro varianti di E, due forme per il dittongo ae (con cediglia ed esteso), gli svolazzi di a onciale e la prima delle due a (rigo 4) con l’ultimo

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tratto allungato che include L, la p minuscola che funge da maiuscola (Pauli), M onciale e M alla greca (Matthaei e Marci), L che include u (Lucae), N con il primo tratto curvo e l’ultimo allungato (Nicomacum), r tagliata e allungata (Aethicorum). Sempre dal Riccardiano si possono aggiungere altre tre citazioni ‘stravaganti’: in fine di parola Verrazzano usa , c. 75v), le una r minuscola ingrandita come una maiuscola ( legature spesso non sono funzionali ma esclusivamente ornamentali (cfr. R in legatura con t a c. 31r ) e vi sono forme di lettere inventate ex novo. Verrazzano infatti non si limita a usare varianti insolite, come per esempio la t in forma di tau, comunissima in legatura con e

anche sovrascritta

, ma le integra nel sistema e le combina dando vita a creazioni originali: è il caso dell’inquit di c. 35v

, dove la t è in nesso con il segno

abbreviativo della q, o dell’inquit a c. 102r , dove la Q è ha forma capitale; ma è anche il caso di quid, che può essere reso con una Q capitale tagliata (ancora usata come minuscola) in nesso con d ( ). Sono queste ‘creazioni’, che spesso prendono le mosse da recuperi antiquari, come i nessi epigrafici, che costituiscono una delle peculiarità del copista. Per combattere la concorrenza della stampa, che produceva libri a basso costo dai caratteri costantemente perfetti, gli scribi dovettero ricorrere a espedienti in grado di impreziosire la pagina facendo risaltare l’unicità della scrittura a mano; in tal senso Sinibaldi e Verrazzano furono i più originali tra i copisti fiorentini di littera antiqua dell’ultima generazione. Alcune delle loro innovazioni vennero accolte anche da altri e negli anni ’90 divennero parte di un patrimonio grafico comune: è per esempio il caso di T in forma di tau in legatura con e o il caso della legatura st con il tratto di unione che avvolge t.39 Questi due stilemi compaiono anche nel frammento di Cambridge per Maddalena de’ Medici ( , , ) insieme a una vera e propria invenzione grafica, molto simile a quelle escogitate da Verrazzano: si tratta di za, costituita da z in nesso con a onciale, due volte ripetuta, a c. 258r e a c. ). Nel frammento di Cambridge, la cui scrittura è rotonda, 276r ( regolare e tracciata con assoluta precisione, risaltano un’elegante g eseguita sull’ultimo rigo ( , , ) ed elementi già osservati nei codici verrazzaneschi quali inserti calligrafici (litterae inclusae: C che include o, r, u, a , , , , ed L che include i ; allungamenti dell’ultimo tratto delle lettere finali di rigo e dei segni abbreviativi ( , , , ) e altre caratteristiche (come la calligrafica a onciale , usata anche soprascritta , la variatio per r tagliata , , , più forme di

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, , , N con il primo tratto curvo e così via). Per un saggio E d’insieme della scrittura si possono osservare le cc. 252v-253r (TAV. 00). La ‘fioritura’ e l’originalità (cfr. za, supra) mostrate dal frammento di Cambdrige se non si possono forse ricondurre direttamente a Verrazzano, 40 paiono perlomeno risentire delle acquisizioni maturate dal copista sul finire degli anni ’80: talune morfologie, che sono recuperi o creazioni ex novo, e l’esuberanza degli allungamenti esornativi che compaiono nel frammento di Cambridge sembrano perciò rimandare a una datazione collocabile negli anni ’90. Oltretutto il frammento presenta una certa affinità con un codice che risale almeno alla seconda metà dell’ultima decade del Quattrocento, cioè con il Pluteo 61.3 della Laurenziana, che tramanda la Vita di Lorenzo il Magnifico, scritta da Niccolò Valori, nell’esemplare di dedica per Leone X (papa dal 1513 al 1521), di cui reca lo stemma. La decorazione, attribuita a Monte di Giovanni,41 potrebbe essere stata realizzata anni dopo l’allestimento del volume; comunque sia, esso è successivo al 1494, poiché a quella data Valori iniziò a comporre il testo.42 Come il frammento di Cambridge il Plut. 61.3 è un manoscritto di ottimo livello caratterizzato da inserti calligrafici: basti per esempio vedere c. 1v (TAV. 00), dove compaiono C e L che includono le lettere successive, uscite delle abbreviazioni soprascritte, allungamenti esornativi sotto il rigo (P, T, f), varianti onciali (E), v per u entro parola. Anche nel Pluteo inoltre, accanto alla frequente ricorrenza di T in forma di tau in legatura con e ( , ), risalta la presenza di una morfologia originale: si tratta della legatura sa a c. 13r, dove s si lega ad a onciale .43 Il ms. di Waddesdon era già stato dubitativamente ascritto ad Alessandro da Verrazzano in una sede abbastanza insolita per un’attribuzione paleografica. Trattando della decorazione del codice Annarosa Garzelli scriveva infatti che la mano del copista era «forse» quella di Verrazzano, senza però fornire alcun riscontro o precisazione. 44 Attraverso l’analisi condotta fin qui l’ipotesi avanzata nelle pagine della Garzelli può quindi avvalersi di nuovi elementi che non solo la confermano, mutando il dubbio relativo all’attribuzione in una quasi certezza, ma ne precisano anche i limiti temporali, situando il codice nel periodo attorno o immediatamente prima il 1484. 2. Tipologia della scrittura Calendario Littera antiqua. In capitali, a lettere alternate in rosso e nero, il nome del mese e le litterae dominicales che indicano i giorni della settimana (in

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rosso la A, in nero le restanti lettere); in rosso e in minuscola i numeri aurei e le festività principali, tranne l’indicazione delle Vigilie, in capitali. L’inchiostro rosso delle due lettere capitali nel nome del mese di c. 7r (L e seconda V di «[I]VLIVS») ha diversa tonalità. Offici Pagine di frontespizio degli Offici (cc. 15r, 93r, 143r, 169r, 195r, 203r, 213r): titoli e incipit in capitali, in oro, forse non di mano del copista. Testo: littera antiqua. - Partizioni principali (Ore della Vergine seguenti al Mattutino, cc. 26r, 38v, 44r, 48v, 52v, 56v, 65r e Messa della Vergine, c. 89v): titoli in rosso, in capitali (talvolta nell’ultimo rigo della carta precedente). Incipit con il primo rigo (a c. 89r solo la prima parola) in capitali, a lettere alternate in rosso e nero. - Partizioni secondarie (Ore degli altri Offici, Inni, Salmi, etc. entro gli Offici; Vangelo di s. Giovanni, c. 13r; Orazioni finali, c. 227r): titoli in rosso, in capitali o talvolta in minuscola (alcune orazioni nell’Officio della Vergine, cc. 24v, 30r, 35v, 62v; le partizioni della Messa della Vergine, cc. 90r-92r; alcune Ore dei Defunti e della Croce, cc. 101r, 109v, 117r, 170r, 180v, 189r; il Credo, c. 166r; le Preghiere di s. Gregorio, c. 231r). Incipit con la seconda lettera in capitali, a inchiostro del testo. In minuscola, in rosso, i restanti titoli (es. antifone, versicoli e responsori) e i notanda. 3. Dimensioni, proporzioni e rapporti notevoli Il campione di otto codici già preso in esame a proposito delle dimensioni e della mise en page (infra, pp. 00) è costituito da esemplari che si caratterizzano per la regolarità della scrittura. Il dato, che si percepisce immediatamente sfogliando i manoscritti, può essere visualizzato attraverso le tabelle sottostanti, nelle quali la scrittura viene scomposta e analizzata nelle sue componenti numericamente rilevabili: altezza e larghezza delle lettere e percentuale di nero, ovvero di caratteri scritti, in relazione allo specchio e all’intera pagina. Sotto questi aspetti i codici presentano notevoli somiglianze, che evidentemente sono legate alla tipologia del prodotto e non al copista che ne fu artefice. Così, per esempio, i mss. B, L, M e S pur essendo tutti di Sinibaldi, non costituiscono un gruppo compatto rispetto agli altri, bensì spesso occupano posizioni diverse – talvolta agli antipodi – nella scala dei valori di ciascun parametro. Nel campione esaminato la scala di valori non mostra forti oscillazioni. I corpi delle lettere sono alti circa 2-2,7 millimetri (da 1,89 a 2,69) e la loro altezza costituisce il 37-47% dello spazio entro il quale sono scritti, cioè

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l’interlinea (UR); in tutti i volumi le aste superiori (da 3,12 a 4,35 mm) sono più corte delle inferiori (da 3,67 a 5,35 mm), mentre l’altezza della lettera g (da 4,70 a 5,98) supera quella delle altre lettere dotate di asta inferiore. Quanto alle proporzioni della lettera, in tutto il campione i corpi sono più stretti che lunghi (la larghezza è il 78-95% dell’altezza) e molto simili sono le proporzioni tra larghezza e altezza nelle lettere con aste superiore (larghezza 42%-58%), in quelle con asta inferiore (dal 34% al 48%) o nella g (dal 30% al 42%). Contestualizzata nell’interlinea la lettera occupa una superficie che varia tra il 12% e il 18%. All’interno dello specchio il nero (concepito come area della lettera moltiplicato per la media delle lettere dentro la pagina) costituisce il 32-43%; ma se viene visto in relazione all’intera pagina, diventa appena il 7-12%. Rispetto al bianco totale della pagina (inteso come somma del bianco rappresentato dai margini e dal bianco presente dentro lo specchio) il nero si aggira tra il 7% e il 13%; rapportato al bianco all’interno dello specchio è invece più variabile, dal 48% al 75%. Se tuttavia escludiamo i due valori più alti (il 63% di N e il 75% di S), il nero all’interno dello specchio si attesta tra il 48% e il 59%. Ciò dunque significa che in questi volumi i copisti hanno compiuto, in modo consapevole o istintivo, delle precise scelte in relazione al riempimento della pagina e hanno adattato il modulo alle dimensioni dello specchio e al numero delle righe per ottenere un simile effetto visivo: lo specchio è quasi bipartito tra bianco e nero, mentre all’interno della pagina il bianco predomina vistosamente (tra il 90% e il 93%) 3.1. Lettera45 I.

Altezza media della lettera

Altezza assoluta

Altezza relativa

Mss

h corpo

Mss

h asta sup.

Mss

h aste inf.

Mss

hg

Mss

h corpo/ UR

W L CII CI B N M S

1,89 2,03 2,05 2,16 2,17 2,25 2,32 2,69

W CII CI L N M B S

3,12 3,57 3,58 3,60 3,72 3,91 4,07 4,35

W CII CI N L M B S

3,67 4,29 4,31 4,41 4,45 4,70 5,00 5,35

W CI CII L N B M S

4,70 4,88 5,22 5,30 5,40 5,78 5,90 5,98

W L CII M B CI N S

0,367 0,378 0,394 0,395 0,406 0,422 0,426 0,470

Le dimensioni della lettera nell’Offiziolo di Waddesdon sono le più piccole entro il campione degli otto mss. presi in esame. La scrittura del codice W tocca infatti i valori minimi sia in senso assoluto sia relativo, ossia contestualizzato nell’interlinea. All’estremo opposto si colloca S; negli altri

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codici non si riscontra invece un’analoga uniformità. L’altezza relativa delle lettere, ovvero l’altezza di un corpo in rapporto all’unità di rigatura, non differisce molto all’interno del campione. II.

Numero e larghezza media della lettera

Larghezza lettera

Composizione riga

Composizione pagina

Mss.

Largh. lettera mm

Mss

Lettere per riga

Spazi per riga

Parole per riga

Mss.

Lettere per pagina

Spazi per Parole pag. per pagina

W B L CII N CI M S

1,70 1,71 1,76 1,78 1,92 2,06 2,13 2,14

CI M S N W B L CII

17,7 17,8 20,0 21,0 21,5 21,8 22,2 22,3

2,7 2,7 2,8 3,2 3,5 3,2 3,2 3,7

3,7 3,7 3,8 4,2 4,5 4,2 4,2 4,7

CI S M CII N B L W

229,7 260,0 267,5 290,3 294,0 305,7 310,0 344,0

34,7 36,8 40,0 47,7 44,3 44,3 44,2 56,0

47,7 49,8 55,0 60,7 58,3 58,3 58,2 72,0

Anche sotto il profilo della larghezza della lettera i codici W e B si situano agli estremi della scala di valori. Il ms. di Waddesdon spicca inoltre, com’era ovvio attendersi, per il numero di lettere contenute nella pagina: le ridotte dimensioni dei caratteri consentono di inserire nella pagina un numero maggiore di lettere. III.

Proporzioni della lettera e nero

Proporzioni e rapporti della lettera Mss.

Prop. corpo

Mss.

B S N L CII W M CI

0,785 0,798 0,855 0,867 0,870 0,903 0,918 0,953

B L S CII N M W CI

corpo/ Mss. asta sup.

0,419 0,489 0,493 0,499 0,516 0,545 0,548 0,576

B L S CII N M W CI

Nero assoluto e relativo corpo/ asta inf.

Mss.

Corpo/ G

Mss.

Area lettera (nero assoluto)

Mss.

Area lettera/ UR2 (nero relativo)

0,341 0,396 0,401 0,415 0,436 0,453 0,466 0,478

B L CII N S M W CI

0,295 0,332 0,341 0,356 0,359 0,361 0,364 0,422

W L CII B N CI M S

3,24 3,57 3,64 3,71 4,32 4,45 4,94 5,76

W L B CII M N CI S

0,122 0,124 0,129 0,135 0,143 0,155 0,170 0,176

Ai vertici della scala dei valori relativi alle proporzioni della lettera si collocano i mss. B e CI. Nel codice B il corpo della lettera è leggermente allungato, mentre nel ms. CI altezza e larghezza all’incirca si equivalgono; il che si traduce, per esempio, in una lettera o tracciata come un cerchio quasi perfetto. Lo stesso vale nel rapporto tra corpi e aste: la scrittura di B ha uno

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sviluppo verticale maggiore rispetto a quella di CI, che è più schiacciata. Per ciò che riguarda il nero, ovvero la superficie coperta dall’inchiostro, gli estremi sono rappresentati dai codici W e S: sia la superficie della lettera come valore assoluto sia la superficie della lettera vista in relazione allo spazio interlineare che la contiene sono rispettivamente le più basse e le più alte dell’intero campione. 3.2. Scrittura (rapporti nero/bianco) Nero

Nero su bianco

Mss.

Nero specchio/ area specchio

Mss.

nero specchio / area pagina

Mss.

Nero specchio/ bianco pagina

Mss.

Nero specchio/ bianco specchio

W CII L M B CI N S

0,323 0,352 0,356 0,357 0,361 0,370 0,388 0,427

M L B W CI CII N S

0,071 0,072 0,073 0,077 0,091 0,095 0,109 0,116

M L B W CI CII N S

0,076 0,077 0,078 0,084 0,100 0,105 0,123 0,131

W CII L M B CI N S

0,477 0,542 0,553 0,556 0,565 0,586 0,634 0,747

Ancora il codice S di Sinibaldi presenta i valori più alti: dato che in S la superficie della lettera è, in senso assoluto e relativo, la più ampia di tutte, S ha anche la maggior quantità di nero (entro lo specchio, 42,7% , ed entro la pagina, 11,6%) e il più elevato rapporto tra nero e bianco sia entro la pagina (13,1%) sia entro lo specchio (74,7%). W invece, che si è visto all’estremità opposta di S riguardo alla superficie della lettera, ha i valori più bassi soltanto nei rapporti del nero all’interno dello specchio (32,3 % in rapporto all’intera area dello specchio; 47,7 % in relazione al bianco dello specchio). Il Monacense è il codice con la minore percentuale di nero nella pagina poiché è anche il meno rifilato; probabilmente se il codice di Waddesdon avesse conservato le dimensioni originali avrebbe avuto valori assai vicini a quelli di M.

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MINIATURA Quando il codice uscì dalla bottega cui fu affidata la decorazione verosimilmente sfoggiava un corredo iconografico di tutto rispetto: i primi cinque Offici erano forniti di un controfrontespizio miniato a tutta pagina, che in seguito è stato asportato (cfr. infra, p. 00); gli ultimi due Offici ne erano invece privi fin dall’origine. A oggi l’apparato illustrativo consta di sette miniature a piena pagina con iniziali figurate di 7/8 righe nei frontespizi degli Offici maggiori (Vergine c. 15r, Defunti c. 93r, Salmi c. 143r, Croce maggiore c. 169r, Croce minore c. 195r, Spirito Santo c. 203r e Salmi graduali c. 213r; i primi quattro Offici recano pannelli istoriati nel bas de page); otto pagine con bordura floreale e iniziali figurate di 4/6 righe (Ore della Vergine successive al Mattutino e frontespizio della Messa della Vergine a c. 89v); dodici scenette nel calendario; una bordura laterale realizzata a c. 195v (sul verso della carta che contiene il frontespizio della Croce minore). Le iniziali decorate, con corpo in oro e fondo a colori, sono 1700: 263 iniziali di 2 righe (10/11 mm) × 10/14 mm ca. all’inizio delle partizioni minori e nel calendario (tranne gennaio di 3 righe × 15 mm) e 1437 iniziali di 1 riga (5 mm ca.) × 4/8 mm ca. all’interno del testo; non tutte vennero però realizzate con la stessa accuratezza. Benché quantitativamente rimarchevoli, le iniziali si adeguano a una gerarchia progettata dal copista decisamente semplice. Prescindendo dalle iniziali dei frontespizi, l’articolazione conosce infatti tre sole gradazioni (iniziali maggiori di 5/6 righe, medie di 2, minori di 1) che non rendono appieno la differente rilevanza dei testi; il contrario accade, per esempio, nel Laurenziano Ashb. 1974 che, come il Monacense lat. 23639, ha una gerarchia più complessa che permette di distinguere l’importanza tra le Ore della Vergine (di 6/7 righe) e quelle della Croce e delle Litanie (di 5 righe). Diversamente dai due Offizioli L e M, per i quali si fa uso dell’oro e del blu, nel ms. di Waddesdon il copista si limita al rosso (cfr. infra, p. 00); sembrano infatti attribuibili al miniatore le lettere a caratteri d’oro dei frontespizi che, recando titolo e incipit, furono vergate in orizzontale o in verticale su sfondi di vari colori (blu alle c. 15r e 143r; blu e rosso alle c. 93r, 169r, 195r; blu e marrone a c. 203r; marrone in due sfumature a c. 213r). Nonostante l’asportazione dei controfrontespizi, restano i riferimenti alle famiglie Cybo e Medici. Della prima sopravvive lo stemma a c. 169r e, più volte ripetuta, l’impresa del pavone, la principale insegna dei Cybo, peraltro condivisa anche dai Medici. 46 Il pavone non solo compare nelle cornici delle cc. 15r e 143r, dove si mescola ad altri animali e ha forse valenza meramente esornativa, ma campeggia nei luoghi tradizionalmente

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riservati all’araldica, cioè nello spazio centrale del bas de page delle cc. 195r e 203r; torna inoltre negli angoli di c. 213r, tre volte accompagnato da un cartiglio, che tuttavia resta vuoto, e due volte contornato dal broncone. Vuoti sono pure gli scudi sorretti da putti alle cc. 169r e 213r. L’emblematica medicea si declina nell’anello diamantato, da solo (c. 5r) o con le tre piume (quattordici volte riprodotto a c. 195r), e nel broncone: dritto, fiorito e parzialmente verde nei margini laterali di c. 203r; oppure ricurvo, senza foglie e talvolta intrecciato a incorniciare le immagini del bas de page delle cc. 203r e 213r o a racchiudere due pavoni a c. 213r. La scenetta di agosto a c. 8r, con la stessa raffigurazione di L e M, è anch’essa riferibile alla famiglia Medici. Inoltre, secondo Garzelli e Delaissé, nelle due immagini della Maddalena a c. 169r si potrebbe trovare un’allusione alla santa patrona di Maddalena dei Medici, alla quale il codice venne destinato. 47 1. Attribuzione Nell’apparato illustrativo Delaissé individuava la collaborazione di più miniatori, almeno cinque. 48 Il frontespizio della Vergine (c. 15r) era ritenuto opera di una prima mano, «apparently the most accomplished of all, but not necessarily the most appealing»; le carte incipitarie dell’Officio dei Defunti (c. 93r) e dei Salmi graduali (c. 213r) erano attribuite a un secondo miniatore dal temperamento vivace; c. 143r, con cui si aprono i Salmi penitenziali, era assegnata a un terzo artista, caratterizzato da uno stile più lineare e da un uso convenzionale dei colori. Nei frontespizi dell’Officio della Croce maggiore (c. 169r) e minore (c. 195r) e nelle sette miniature delle Ore della Vergine Delaissé riconosceva poi un quarto miniatore, vicino al primo, seppure qualitativamente inferiore; mentre un’ultima mano, distinguibile per la predominanza delle tinte tenui, avrebbe miniato il frontespizio dello Spirito Santo (c. 203r). Quanto al calendario, se le scenette di Gennaio, Aprile, Maggio e Agosto erano per Delaissé attribuibili al primo miniatore, quelle di Febbraio, Giugno e Ottobre da un lato e le restanti (Marzo, Luglio, Settembre) dall’altro erano opera di diversi artisti, che per tecnica e uso dei colori non potevano essere identificati nei miniatori delle carte principali. In sostanza, per Delaissé il codice fu il prodotto di una bottega ben organizzata, nella quale vari artigiani collaborarono tra loro, spartendosi la pagina a seconda del proprio livello di specializzazione. Sul nome dell’atelier Delaissé non avanzava ipotesi, limitandosi a notare come i miniatori da lui individuati risentissero degli influssi di maestri quali Filippo di Matteo Torelli (nella decorazione di c. 195r) e Attavante (nelle cc. 143r e 169r). È stata Annarosa Garzelli a identificare la bottega dalla quale uscì il codice di Waddesdon in quella di

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Mariano del Buono.49 Mirella Levi D’Ancona, che già nel 1962 tracciava il profilo biografico di Mariano e grazie al ritrovamento del pagamento per due volumi da lui miniati nel 1477-1478 riusciva ad attribuirgli numerose opere, 50 concorda nell’attribuzione, riconoscendo nelle figure dei medaglioni, delle vignette e dei capilettera i volti allungati propri di Mariano. 51 Il miniatore, che «non ha grande levatura artistica, ma ebbe grande produttività»,52 fu molto attivo nel settore dei libri d’Ore. Tra i suoi prodotti giovanili, precedenti il 1477 e spesso realizzati con altri maestri, Garzelli annoverava cinque Offizioli e ne ricordava altrettanti realizzati dall’artista nella sua fase matura.53 Tra questi dieci non era tuttavia incluso il foglio singolo Additional 35254 R conservato alla British Library (v. TAV. 00), riguardo al quale Delaissé notava una somiglianza con il codice di Waddesdon.54 La carta, di mm 152 × 97, è il controfrontespizio dei Salmi penitenziali di un libro d’Ore, su cui è raffigurato Davide, inginocchiato in attesa di ricevere la visione di Dio, entro un tabernacolo circondato da una cornice floreale. Già J. Alexander ha ricondotto il foglio a Mariano del Buono sulla base del confronto con il ms. BL, Additional 19417, c. 167v. 55 A conferma dell’attribuzione si può aggiungere un’altra scena analoga: quella miniata a c. 7r del Messale BML, Acquisti e Doni 237, che A. Garzelli ascriveva a Mariano del Buono (v. TAV. 00).56 La stretta conformità, che giunge quasi alla totale sovrapponibilità, è percepibile nella roccia traforata dietro David, nel paesaggio verdeggiante attraversato dal fiume con le colline sullo sfondo e una città che si affaccia alle pendici, nella posizione e nell’atteggiamento di Dio, che discende dall’alto a braccia aperte. Altre evidenti affinità con la produzione di Mariano attestata dal ms. di Waddesdon e dal codice Yates Thompson 23 si possono cogliere nella cornice del foglio di Londra, sulla quale un broncone attorcigliato, emblema mediceo, offre sostegno a svariati putti e delimita i medaglioni che contengono figure di profeti e di animali. Mariano del Buono sembra infatti qui riconoscibile in più di un particolare: nelle fattezze dei profeti e dei putti, nei musi affusolati dei cerbiatti, nella lepre con la zampa alzata (quarto medaglione margine esterno) e nel cerbiatto seduto (quarto medaglione margine interno), entrambi speculari a identici animali raffigurati a c. 169r del codice di Waddesdon (margine superiore, a sinistra; v. TAV. 00) e a c. 1r del ms. Yates Thompson 23 (margine esterno, quarto medaglione dall’alto, v. TAV. 00); anche la composizione di cervo e cerbiatti del bas de page del foglio di Londra ricorda per esecuzione un gruppo simile nel margine esterno di c. 143r del ms. di Waddesdon (terzo medaglione dall’alto, v. TAV. 00) e richiama per impostazione del disegno i due cerbiatti contornati dal broncone nel margine inferiore di 213r dello stesso Offiziolo (v. TAV. 00). I tre gioielli nel bas de page del foglio singolo sono inoltre identici a quelli del codice di

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Waddesdon (c. 143r, margine esterno, TAV. 00) e molto simili a quelli delle Ore Yates Thompson 23 (c. 1r, TAV. 00). Se l’attribuzione a Mariano del Buono è già un primo punto di contatto tra il foglio di Londra e il codice di Waddesdon, l’anello di congiunzione più forte è rappresentato dagli elementi araldici. In primo luogo il broncone mediceo che corre attorno alla cornice, quindi il pavone, quattro volte ripetuto nei margini: auspicio di concordia e fecondità del matrimonio nella simbologia nuziale, il pavone è anche e soprattutto il principale emblema della famiglia Cybo, assunto pure dai Medici tra le proprie imprese in quanto simbolo di resurrezione e di immortalità. 57 Lo stemma Cybo che spicca sotto la scena di Davide costituisce infine il rimando più cogente al codice di Waddesdon e rende manifesta la destinazione del foglio di Londra. È dunque possibile che quest’ultimo, le cui dimensioni (152 × 97) combaciano quasi perfettamente con quelle del codice (151,5 × 94,9), sia stato estrapolato dall’Offiziolo per Maddalena, ovvero che ne sia stato il perduto controfrontespizio dei Salmi penitenziali. Non si può tuttavia omettere di rilevare che, affiancandolo al frontespizio dei Salmi di c. 143r, l’effetto che sortisce è disarmonico, almeno per l’occhio moderno, sia per la struttura dell’impaginato, poiché la cornice è suddivisa in rettangoli nel codice e fluisce invece libera nel foglio, sia per la diversa resa coloristica delle due pagine. È pur vero che nella miniatura del codice di Waddesdon, benché riconducibile a una sola bottega, l’omogeneità pare non essere stata un imperativo categorico; non si sono infatti avuti scrupoli a inserire in mezzo a pagine con identica cornice una di tipologia diversa, come quella del frontespizio della Croce maggiore a c. 195r, la cui cornice scorre senza soluzioni di continuità, centinata da tondini aurei e inframezzata da una moltitudine di putti, spesso funzionali a sostenere l’anello mediceo con le tre piume. Le stesse considerazioni valgono riguardo all’accostamento al codice di Waddesdon di un altro foglio singolo, conservato nel Cleveland Museum of Arts con la segnatura 1953.280 (v. TAV. 00). Il foglio di Cleveland, contenente un’Annunciazione che è «una copia con varianti secondarie dell’Annunciazione del codice di Monaco»,58 venne attribuito da A. Garzelli a un miniatore che fiancheggia Mariano del Buono ed è datato dal Museo al 1485 circa. Le dimensioni del foglio sembrano assai simili a quelle del codice di Waddesdon (secondo il Museo il foglio misura mm 180 × 160, cioè è leggermente più grande rispetto a l’Offiziolo; secondo M. Evans,59 è invece mm 151 × 92, ovvero pressocché identico). Nel foglio ricorre otto volte lo stemma mediceo a sei palle e nel margine superiore campeggia il pavone. Se dunque è evidente che si tratta del controfrontespizio dell’Officio della Vergine di un Offiziolo mediceo, realizzato negli stessi anni dei codici per le figlie di Lorenzo, ancora da verificare è se possa essere messo in relazione con il ms. di Waddesdon. Le probabilità che sia

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stato il suo primo controfrontespizio non sembrano elevate, poiché la diversità tra il foglio e c. 15r del codice indurrebbe a non affiancare queste due carte, specie in apertura dell’Officio più importante; si rimanda tuttavia agli studiosi di miniatura il compito di appurare se esso, così come quello di Londra, possa aver fatto parte del ms. di Waddesdon. Tornando alla produzione di libri d’Ore di Mariano del Buono, occorre infine ricordare un codice sfuggito ad Annarosa Garzelli. Mediceo e secondo I. G. Rao realizzato per una delle figlie di Lorenzo, Lucrezia, è conservato nella prima sezione del ms. Cambridge, Additional 4101.60 La miniatura è stata attribuita a Mariano del Buono;61 volendo rintracciare un parallelo nella produzione di Mariano documentata dalle riproduzioni offerte dalla Garzelli, il rimando potrebbe andare all’Offiziolo della Downside Abbey: nel ms. di Cambridge la Vergine con il Bambino (capolettera c. 2r, v. TAV. 0) e la Deposizione (capolettera c. 238r, v. TAV. 00), ma soprattutto la Crocifissione, con il Cristo affiancato dalle due donne (capolettera c. 196r, v. TAV. 00), ricordano infatti analoghe scene del codice della Downside Abbey (cc. 14r, 145v, 175v).62 La somiglianza è ravvisabile anche nelle cornici: c. 214v di Downside Abbey,63 con i festoni nel margine superiore, i fiori ai lati e il tondo riservato all’araldica in basso, sembra accostabile al controfrontespizio della Vergine, a c. 1v, del ms. di Cambridge (TAV. 0). L’Offiziolo della Downside Abbey fu ascritto da A. Garzelli alla produzione giovanile di Mariano, ovvero a quella fase nella quale non erano state ancora introdotte le innovazioni presenti nel codice di Waddesdon. Con interventi autografi di Mariano e facendo tesoro delle acquisizioni di Gherardo e Monte, almeno sul piano della grafica, il manoscritto di Waddesdon segna il culmine artistico di Mariano del Buono nel settore degli Offizioli: è il suo libro d’Ore più importante.64 Il codice attesta di fatti la profonda trasformazione dell’impianto della pagina che è maturata a Firenze a metà degli anni ’80. Scomparse le divagazioni floreali gli spazi sono divisi in regioni o sotto aree ed inquadrati secondo gli avvii del Messale di Sant’Egidio [di Gherardo e Monte] (…). C’è ormai, nella nuova pagina, una destinazione stabile a ciò che è fregio, ciò che è quadro, ciò che è tondo con figura. Nei minii di apertura alle sezioni del libro anche la scrittura è ricondotta al formato rettangolare con effetto tra lapide e didascalia. In questo incontro di modernità e di echi di esperimenti si caratterizza il nuovo libro d’Ore che, nel caso specifico, registra effetti esplorativi anche nei sondaggi sulla figura e sulla scena.65

2. Descrizione

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Calendario (TAV. 00) Nel calendario le dodici scenette che decorano il bas de page contengono raffigurazioni delle attività tipiche nei vari mesi dell’anno, come di consueto. Le scene sono per lo più iscritte in quadrati o rettangoli contornati da fogliame a oro o colore. Le composizioni sono ricche, quasi sempre animate da più persone e spesso valorizzate da dettagli che conferiscono vivacità e amplificano il realismo. A gennaio (c. 1r) un uomo è in atto di scaldarsi le mani al focolare di casa; un gatto è seduto vicino ai suoi piedi e una civetta si affaccia da una finestrella sopra la sua testa; da una sbarra alla destra del camino penzola a testa in giù un maiale, che tradizionalmente si macellava a dicembre; nel calendario dei due Offizioli medicei Laurenziano Ashb. 1874 [L] e Monacense lat. 23639 [M], per esempio, proprio a dicembre è raffigurata l’uccisione dell’animale.66 Anche la scena di febbraio (c. 2r) è ambientata in un interno, in questo caso un mulino. Un contadino attende alla macina del grano trainata da un bue; un altro uomo dietro di lui porta un sacco sulle spalle, mentre un terzo assiste all’operazione; la luce del giorno filtra dalla porta e attraverso una finestra, che apre uno scorcio su una collina verdeggiante. La raffigurazione non trova analogia in quella dei calendari di L e M, dove è illustrata la vangatura della vigna. Viceversa a marzo (c. 2v) la scena è identica nei tre codici: è questo il mese in cui si pota la vigna e due contadini attendono al lavoro, intenti a spuntare i tronchi nodosi, ricurvi e spogli che si ergono sul primo piano di una campagna altrettanto brulla. Nelle illustrazioni di aprile (c. 4r) e di maggio (c. 5r), quando la natura si risveglia, l’iconografia tradizionale abbandona i lavori faticosi dei contadini e i protagonisti diventano uomini e donne dell’alta società che si dedicano allo svago. Il tema è ripreso non solo nei calendari di L e M, ma anche in quello di Waddesdon. Ad aprile un signore su un cavallo bardato di rosso si appresta alla caccia, reggendo un falcone sul braccio e facendosi scortare da un servitore, che guida due cani impegnati a fiutare tracce sul terreno; il gruppo sembra muoversi in direzione di un fitto e lussureggiante bosco. Un’esplosione di gioiosa vitalità trionfa poi a maggio, dove otto bionde fanciulle dagli abiti variopinti, in parte sedute su un prato verde e in parte in piedi, si dilettano nelle danze, accompagnandosi con dei cembali e altri strumenti. La scena è raffigurata entro un tondo delimitato per la prima e unica volta in tutto il calendario dall’anello mediceo con il diamante; forse è semplice casualità, ma si tratta della sola miniatura con personaggi esclusivamente femminili. Motivi zoomorfi costituiscono invece la cornice dell’illustrazione di giugno (c. 6r), che segna il ritorno alle attività dei contadini. Con un falcetto

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in mano e bianche vesti leggere, quasi trasparenti, due contadini stanno mietendo il grano: incedono davanti a spighe alte e mature e lasciano dietro di sé due fascine già pronte. La mietitura a giugno e la successiva trebbiatura a luglio sono raffigurazioni ricorrenti nei calendari, attestate anche negli Offizioli L e M. La scena di luglio (c. 7r) è ambientata in uno spazio aperto e popolata da cinque persone. Il contadino alla destra ha terminato la battitura del grano e riposa appoggiandosi allo strumento che ha appena usato, il correggiato, mentre un forcone e una pala giacciono a terra; una donna sta arrivando da sinistra portando una brocca in mano e una cesta sul capo; al centro della scena un contadino, dalla corta veste bianca, separa con un setaccio (anziché con il tradizionale ventilabro) il grano dalla pula, che cade a terra. All’operazione sovrintendono due signori in abiti colorati, uno dei quali sembra dare il proprio assenso al lavoro. Un covone si staglia sul fondo della campagna in fiore. L’iconografia di agosto (c. 8r) non è molto consueta, anche se attestata in alcuni codici medicei tra i quali L e M.67 La raffigurazione è quella di un medico in abiti rossi al capezzale del malato, in atto di tastargli il polso; due figure conversano sul limitare della soglia, una suora e un giovane ben vestito, forse un assistente del medico, poiché sembra tenere in mano un recipiente con le urine. M. Evans associava la scena al nome della famiglia Medici e in particolare ai loro santi patroni, Cosma e Damiano, entrambi dottori; 68 gli onomastici di Lorenzo e Giuliano cadevano appunto ad agosto. Nel solco della tradizione e dei due Offizioli L e M si inseriscono le raffigurazioni di settembre e ottobre (cc. 9r, 10r), dedicate alla produzione del vino. A settembre due uomini e una donna vendemmiano: la donna si occupa di raccogliere l’uva da una vite bassa, mentre un giovane in piedi su una scala stacca i grappoli da un traliccio attorcigliato su un pergolato di legno, facendoli cadere in una grande cesta sorretta in basso da un altro giovane; eccettuata la presenza femminile, la scena è identica a quella ritratta a c. 9r del ms. Holkham Hall 41 destinato a Clarice Orsini, moglie del Magnifico.69 A ottobre il vino è pronto e l’illustrazione mette in scena tutto il processo di fabbricazione: a sinistra un uomo e una donna pigiano l’uva in una botte, facendo defluire il mosto in un tino già pieno; al centro un contadino è intento alla colmatura delle botti, cioè al travaso del vino; a destra sotto due botti impilate sta un piccolo recipiente, che probabilmente allude alla spillatura del vino; dietro le botti un uomo si gode il risultato della fatica bevendo da un fiasco. A novembre una delle occupazioni è portare al pascolo i maiali affinché si ingrassino a dovere e la scena raffigurata a c. 11r è prettamente toscana: i cinque animali che rovistano il suolo alla ricerca di cibo hanno infatti una cinghiatura bianca sul mantello che permette di riconoscerli come

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della razza cinta senese.70 Un contadino scuote una quercia con un lungo bastone, procacciando le ghiande ai suini; il paesaggio entro cui si svolge l’azione ha il suolo arido e i colori soffusi dell’autunno. Né questa, né la raffigurazione seguente hanno un parallelo nei codici L e M, dove a novembre si rappresenta l’aratura e a dicembre, come già accennato, l’uccisione del maiale. Il calendario del codice di Waddesdon si chiude con la raccolta delle olive a dicembre (c. 12r). Lo scenario agreste, con l’albero il primo piano, il terreno brullo e le colline sullo sfondo, è identico a quello di novembre, ma i protagonisti sono qui tre contadini: uno tiene con due mani uno scuotitore e si appresta a battere i rami dell’olivo, un secondo chinato raccoglie le olive cadute a terra e un terzo regge la cesta in cui vengono deposte. Completano la decorazione del calendario dodici iniziali di 2 righe (a c. 1r tuttavia di 3 righe), con corpo in oro pieno, bicolori o, in tre casi, in combinazione di tre colori (rosso e blu; rosso e marrone; rosso, blu e marrone), con motivi filigranati in oro nel campo, dove spesso si aggiungono anche un fiorellino o dei tondini argentei. Officio della Vergine Il frontespizio dell’Officio della Vergine, a c. 15r (TAV. 00), presenta una significativa novità rispetto all’impostazione iconografica tradizionale: lo spazio destinato all’araldica, di norma riservato al bas de page, è venuto meno e al suo posto si è introdotta un’ulteriore raffigurazione dell’episodio sacro; lo stesso si verifica nei frontespizi delle cc. 93r, 143r e 169r. Se da un lato ciò va a discapito della ‘personalizzazione’ del manufatto, dall’altro ne accresce la valenza devozionale, poiché la narrazione della storia sacra può in tal modo avvalersi di una rappresentazione supplementare. In due sole pagine affrontate si può così rievocare l’Annunciazione, verosimilmente illustrata nel perduto controfrontespizio, sottintendere la vicenda del Battista, raffigurandolo fanciullo mentre tende la mano a Cristo, e quindi celebrare la nascita del Messia (probabilmente ancora nel controfrontespizio o comunque implicita) e il riconoscimento della sua divinità da parte dei re Magi. Entro l’iniziale D, di 8 righe (39 mm) × 41 mm, il consueto motivo della Madonna con il Bambino è arricchito e sviluppato mediante l’inserimento di altre figure: la Vergine, con la lunga e bionda chioma sciolta, è assisa su un trono dallo schienale verde brillante ed è affiancata da due angeli abbigliati di rosa; in grembo alla Madonna il Bambino Gesù, nudo e paffuto, si protende verso il Battista che gli è vicino in piedi, in figura di ragazzino vestito di pelli. Nell’Adorazione dei Magi riprodotta nel bas de page la scena è affollata da numerosi personaggi. Entro la capanna, dal tetto di legno e dalle pareti in pietra diroccate, c’è la sacra Famiglia, con Giuseppe in posizione defilata sulla destra e la Vergine che tiene il Bambino

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sulle ginocchia; davanti a Cristo sta il più anziano dei Magi che, deposto il copricapo a terra e portate le braccia al petto, lo onora genuflesso. Dietro di lui gli altri due Magi, reggendo le pissidi che contengono i doni, attendono il loro turno per rendere omaggio al Messia: il primo, toltosi il berretto e tenendolo in mano, è nell’atto di inginocchiarsi; l’ultimo è ancora in piedi, con la corona sulla testa. Un nugolo di personaggi di varia estrazione sociale, stando alle vesti, si accalca attorno ai protagonisti e due signori a cavallo muovono dal fondo, ove si staglia un paesaggio verdeggiante. La cornice del frontespizio è ripartita in tre spazi rettangolari, due ai lati e uno in alto, che ospitano formelle mistilinee e medaglioni tondi. Agli angoli sono raffigurati gli Evangelisti mentre scrivono: tre di loro sono affiancati dal proprio simbolo (nell’angolo superiore destro Marco con il leone, nel superiore sinistro Giovanni con l’aquila, nell’inferiore destro Matteo con un giovane angelo che gli sostiene il libro); al centro, in alto, Dio padre benedicente. Teste maschili, un cerbiatto e l’Agnus Dei sopra un libro azzurro sono riprodotti nei tondi dei margini laterali. Su uno sfondo rosso nel margine esterno e verde in quello interno, numerosi putti rallegrano la pagina: suonano vari strumenti, tra cui cornamusa, liuto, violino e cembali, sorreggono medaglioni o stanno seduti sulle formelle, talora cingendo un uccello. Ritratti nell’atto di giocare e di salire in groppa ad animali che riposano su un prato verde sono i due putti effigiati nel margine superiore, la cui vivace presenza alleggerisce la severa figura di Dio ospitata nella formella centrale. Arricchiscono i margini interno ed esterno gioielli (una pietra preziosa incastonata in oro e circondata da quattro perle), cornucopie, figure fantastiche (come i due fanciulli dal busto umano e dalla coda di pesce in alto a sinistra), uccelli di più specie (tra cui due pavoni) e due animali dall’atteggiamento forse un po’ irriverente, come la lepre e l’orso ai lati del terzo medaglione del margine esterno. Le sette Ore dell’Officio della Vergine successive al Mattutino si aprono con un’iniziale figurata di 5/6 righe (26/31 mm) × 23/30 mm, avente corpo e contorno in oro e campo blu o rosso, con filigranatura in oro nel campo. La figura ritratta è sempre quella della Vergine: con le mani giunte in atto di preghiera (cc. 26v, 44r, 52v, 65r) o con una mano sollevata e l’altra al petto mentre rivolge lo sguardo al cielo (cc. 39r, 56v) o infine con la destra alzata e la sinistra che regge un libro (c. 48v). Non soltanto le pose, ma anche l’abbigliamento della Madonna – e talvolta le sue stesse fattezze – assumono connotati diversi, che potrebbero rimandare a differenti esecutori: la Vergine ha veste rossa e mantello blu (cc. 39r, 44r, 52v), solo veste rossa (cc. 48v e 65r – qui con maniche verdi), veste rossa, mantello e velo color lilla (c. 26v) o veste lilla (c. 56v); il suo volto è rotondo alle cc. 39r, 48v, 52v e affusolato nelle altre immagini. In ogni carta l’iniziale è affiancata da una bordura floreale che dal margine laterale si allunga leggermente nel

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superiore (cc. 39r, 52v e, con un prolungamento che tocca tutto il margine superiore, 65r), nell’inferiore (c. 48v) o su entrambi (cc. 26v, 44r); oppure si dispiega completamente sui tre lati (c. 56v). Nelle bordure si inseriscono, in mezzo a fiori variopinti e tondini aurei, candelabre (cc. 26v, 39r, 48v, 52v, 56v), putti alle estremità (seduto tra i racemi in alto o in basso alle cc. 39r e 65r; ritto in piedi in basso che sostiene una cornucopia o una candelabra alle cc. 44r e 52v), frutta (cc. 26v, 44r, 48v, 56v, 65r; a c. 56v anche entro un vaso con effigiate teste di putti), uccelli (c. 65r) e monili (una collana di corallo alle cc. 39r, 52v, un gioiello a c. 48v). In chiusura dell’Officio della Vergine il codice tramanda la Messa della Vergine, il cui frontespizio, a c. 89v, è decorato in modo simile alle pagine incipitarie delle Ore. L’iniziale S di 4 righe (21 mm) × 24 mm, con corpo e contorno in oro, su campo rosso con filigranatura oro, ospita la Madonna con il Bambino; la bordura si estende nel margine esterno, riprendendo tutti gli elementi già visti: in mezzo a fiori variopinti e tondini aurei, tra mele gialle e una collana di coralli, un putto nel basso sorregge sulla testa una candelabra, mentre in alto due farfalle chiudono il fregio ai lati. All’inizio di ogni partizione secondaria del testo (Inni, Salmi, Capitoli etc.) l’Officio della Vergine reca iniziali medie decorate di 2 righe con corpo in oro pieno. In totale le iniziali sono novanta. Quasi sempre di due colori (marrone/rosso e rosso/blu; soltanto una volta, c. 51r, il blu è nel campo, altrimenti è nello sfondo); in otto casi a tre colori (rosso/blu/marrone) e in due casi monocromatiche (rosso); hanno sempre motivi filigranati in oro nel campo, spesso affiancati da piccoli fiori d’argento. Le iniziali minori dentro il testo di 1 riga, con corpo in oro pieno, sono 470: monocromatiche (rosso/blu/marrone, in totale 245) o bicolori (rosso/blu oppure rosso/marrone e in due casi marrone/blu); quasi sempre con filigranatura d’oro. Non realizzate alle cc. 15v e 24v (mancano tutte le iniziali) e alle cc. 21r, 26v, 27v, 74r (manca un’iniziale in ciascuna carta); l’iniziale mancante a c. 53r fu aggiunta in seguito, a inchiostro . Nel Vangelo di s. Giovanni, che precede l’Officio della Vergine, non venne eseguita l’iniziale maggiore del titolo (I) e la decorazione si limita all’iniziale media dell’incipit. Nella Messa della Vergine, al termine dell’Officio della Vergine, le iniziali medie sono tre, tutte a due colori (marrone/rosso e rosso/blu), con filigranatura e quasi sempre fiori argentei; otto sono le minori, di cui la metà monocromatica. Officio dei Morti La struttura della pagina incipitaria, a c. 93r (TAV. 00), riprende quella del frontespizio della Vergine, con gli spazi ripartiti in rettangoli e la narrazione che si snoda da una figurazione all’altra. Nella D iniziale, di 7

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righe (36 mm) × 46 mm, la Morte, sotto forma di scheletro alato con la falce in mano, miete le sue vittime senza alcuna distinzione di classe: tra i caduti sotto di lei si scorgono soldati, re, popolani, donne, ecclesiastici; sullo sfondo un albero spoglio sottolinea la drammaticità della scena. Con la venuta di Cristo tuttavia il Trionfo della Morte è divenuto effimero, poiché il sacrificio del Messia ha assicurato la resurrezione dei defunti. Ma occorre ben comportarsi, scegliere la strada indicata da Cristo e abbandonare le glorie mondane per meritare il Paradiso. Un monito in tal senso è appunto rappresentato dal pannello istoriato nel basso della pagina. Tre sarcofagi aperti accolgono tre defunti; dalla tomba centrale il corpo, già divenuto scheletro diversamente dagli altri due che hanno ancora sembianze umane, prende vita e si alza a sedere. La folla assiste: due religiosi alla destra e quattro signori a sinistra con un cane, mentre altre persone stanno arrivando, alcune delle quali a cavallo. Entro lo scenario naturale il bruno dei monti sfuma nel verde dell’erba e nell’azzurrino dei massi. Garzelli interpretava la scena come la Resurrezione di Lazzaro («con un Lazzaro uscente da una tomba di tipo monumentale come nel libro d’Ore di Monaco»); 71 la descrizione tuttavia si attaglia più al codice Laurenziano che a quello di Waddesdon, poiché non pare proprio che si possa identificare Cristo nel personaggio riccamente vestito in primo piano, né Lazzaro, morto da poco, nel defunto ormai ridotto a scheletro; né compaiono tra la folla personaggi femminili nei quali scorgere le due sorelle di Lazzaro. Si crede invece, insieme a Delaissé, 72 che il tema del codice di Waddesdon sia quello dell’Incontro dei tre vivi con i tre morti, che riprendeva una leggenda molto diffusa nel Medioevo anche a livello iconografico (ne è un esempio l’affresco di Buffalmacco nel Camposanto di Pisa).73 Secondo la leggenda tre giovani nobili, mentre andavano a caccia con il loro seguito (alla caccia potrebbe alludere il cane che annusa il terreno nell’angolo inferiore destro del codice), si imbatterono in un eremita, s. Macario, che mostrò loro tre tombe aperte (in abiti monastici è il personaggio alla destra del pannello con la mano alzata). I tre cadaveri, che si trovavano in diverso stato di decomposizione (nel codice un fumo giallastro – forse l’anima? – esce dal defunto in abiti blu, mentre quello vestito di rosa ne è privo), raccontarono così le loro passate glorie e ammonirono i vivi, ovvero i morituri, sulla caducità dell’esistenza terrena: è quanto risuona nell’adagio popolare e in numerosi epitaffi quel che noi siamo voi sarete, quel che noi fummo voi siete. La stessa iconografia si riscontra nel ms. New York, Pierpont Morgan Library M. 14, c. 130v, miniato da Attavante. La cornice di c. 93r è più sobria e improntata al gusto classico rispetto a quella del frontespizio della Vergine. Le teste maschili sono tutte ospitate entro medaglioni tondi e vi è un’unica formella mistilinea, in alto, che raffigura s. Girolamo con il libro e il teschio in mano in funzione di

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memento mori. Lo sfondo ai lati è di un solo colore, oro; nel margine superiore, in un paesaggio identico a quello di c. 15r, tornano gli animali seduti; ma sono scomparsi i putti che giocavano con loro. Anche i putti nei margini laterali non hanno il movimento e il brio dei musicanti di c. 15r, bensì posano in mezzo ai tralci floreali o tra le cornucopie. I gioielli hanno ceduto il posto a due candelabre in pietra, sulle quali trovano spazio alcune citazioni classiche, come il saltero a sinistra o i due profili mitologici a destra, oppure qualche animale, in forma di uccelli variopinti e delfini rossi e rosa, a sinistra e a destra. La decorazione dell’Officio dei Defunti è completata da quarantuno iniziali medie, di 2 righe, della stessa tipologia e dagli stessi colori (rosso/blu/marrone) di quelle del Calendario e dell’Officio della Vergine; quasi sempre bicolori (rosso/blu e rosso/marrone), soltanto in sei casi hanno i tre colori insieme. Le iniziali minori di 1 riga sono 324: tutte bicolori (in un solo caso marrone/blu), tranne 173 monocromatiche. Non realizzate le iniziali minori alle cc. 113r, 120v, 124r (due iniziali), 130r, 132v; sbagliata un’iniziale a c. 106r. Salmi penitenziali La ricchezza della cornice del frontespizio della Vergine, così come l’impostazione della pagina, torna nel frontespizio dei Salmi penitenziali, a c. 143r (TAV. 00). Nel capolettera D, di 7 righe (37 mm) × 48 mm, Davide, monumentalmente assiso con il saltero fra le mani, attende la visione di Dio, simboleggiata dal sole con i raggi dorati che fa capolino dall’angolo superiore sinistro. Nel paesaggio il prato verde si alterna a balze rocciose, mentre il fiume si sviluppa alle spalle del protagonista e alcuni tetti di un centro abitato si intravedono sullo sfondo, occupato dalle montagne. Due spunti ravvivano la scena: una lepre sbuca alla destra di Davide; alla sua sinistra, dietro di lui, un fanciullo (forse lo stesso re da ragazzo?) è seduto su una roccia. Due testine alate di cherubini, che emergono dal contorno dell’iniziale, completano la decorazione. Per inciso può essere utile segnalare la vicinanza (specialmente nella postura e nelle vesti) tra il Davide orante del capolettera a c. 143r e l’analogo, ancora opera di Mariano del Buono, a c. 8r del ms. BNCF, Banco Rari 326 (v. TAV. 0). Nel bas de page di c. 143r il tema è quello di Davide vincitore di Golia: Golia, la cui fronte sanguinante è stata appena colpita dalla pietra di Davide, giace scompostamente a terra a bocca spalancata, con l’elmo da un lato e dall’altro lo scudo, su cui è effigiata una testa d’uomo. La sua lunga spada è brandita da Davide, in veste rosa e calze verdi, che con essa si appresta a recidere la testa del gigante. Dall’accampamento fortificato simile a una città che si intravede sullo sfondo a destra arrivano tre uomini armati,

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costeggiando il fiume che ha lo stesso corso sinuoso di quello della scena precedente. Nel margine superiore non ci sono raffigurazioni umane, ma due cerbiatti seduti alloggiano nell’ovale centrale, affiancato all’esterno da due piante in vaso. Nei margini laterali, su uno sfondo di due colori (rosso a destra e verde a sinistra), tondi e formelle accolgono vari personaggi, tra i quali profeti come Daniele e animali (tre cerbiatti a destra e un orso che mangia delle pere a sinistra). In mezzo a fiori, frutta e gemme si inseriscono numerosi putti, per lo più musicanti con liuto, violino, flauto e cembalo (a destra), oppure in compagnia di uccelli, fra cui il pavone (a sinistra). I sei Salmi penitenziali successivi al primo, le Litanie che li seguono e infine le Orazioni e il Symbolum Athanasii, posti in chiusura della sezione, sono introdotti da iniziali medie, di 2 righe. Diciotto in totale, di identica tipologia e colori delle precedenti (corpo in oro, colori rosso/blu/marrone, con filigranatura d’oro e spesso fiorellini in argento), sono quasi sempre bicolori (rosso/blu e rosso/marrone) e soltanto in due casi hanno tre colori. Sono infine 291 le iniziali minori, di cui 178 monocromatiche e due a tre colori; non realizzate due iniziali minori alle cc. 147v e 166v. Officio della Croce Maggiore Nella D dell’incipit della Croce maggiore, a c. 169r (TAV. 00), di 8 righe (40 mm) × 47 mm, compare la Maddalena ai piedi della Croce, con lunghi capelli biondi, veste rosa e sopravveste blu. Il suo sguardo è rivolto al cielo, dove svetta la nuda croce che campeggia in primo piano; dietro si staglia un albero spoglio e sullo sfondo si apre un paesaggio verde, digradante nell’azzuro delle montagne. La Maddalena, stando ad A. Garzelli, è protagonista anche della scena nel basso della pagina. Si tratterebbe infatti di una «rarissima allegoria della Sequela Christi»,74 nella quale l’imitazione di Gesù si attua portando in prima persona lo strumento del supplizio. Vestita di rosso la Maddalena con la croce sulle spalle si avvicina a un corteo di armati e nel frattempo volge la testa indietro per guardare la Vergine che sta uscendo da una porta. Due uomini barbuti riccamente abbigliati commentano la scena; dietro di loro sta la folla, con servitori e cavalli. Chiosando l’illustrazione A. Garzelli scriveva: «inevitabile pensare per queste immagini, che forse traggono spunti d’ispirazione dalle leggende e dalle storie apocrife della Maddalena, ad un riferimento alla santa patrona di Maddalena de’ Medici».75 Per la prima e unica volta in tutto il codice, o almeno nelle carte che oggi restano, la cornice reca uno stemma della famiglia Cybo: di rosso, alla banda scaccata d’argento e d’azzurro di tre file, in capo la croce in campo argento. 76 Spiccando nel tondo del margine superiore, affiancato da due lepri, lo stemma riporta l’attenzione sullo sposo, quasi a voler

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controbilanciare il riferimento alla sposa contenuto nelle immagini. Nei margini laterali, su uno sfondo a due colori, rosso e verde, i medaglioni, soltanto sei e sempre a sagoma tonda, ospitano cammei con teste classiche, figure umane e un animale bianco dai lunghi orecchi, forse una capra.77 I tralci floreali, esuberanti e rigogliosi, sorreggono putti variamente atteggiati, tra i quali un musico con violino (in alto a sinistra) e una coppia che gioca con degli uccelli; altri uccelli, tra cui una civetta, sbucano dal fogliame. Due putti sono seduti sui tralci del margine esterno, in basso, e sorreggono due scudi a forma di testa di cavallo; gli scudi tuttavia sono coperti d’oro, ovvero vuoti. Le iniziali miniate dell’Officio della Croce maggiore hanno tipologia e colori come quelle dei precedenti Offici. Quaranta sono le iniziali medie, di 2 righe, tra cui una monocromatica rossa e tre di altrettanti colori. Le iniziali minori di 1 riga sono 144, tra cui 91 monocromatiche e una che per errore ha soltanto il corpo in oro; un’altra iniziale, a c.189r, è sbagliata e sei non furono realizzate (cc. 170r, 171v, 180v, 185v, in quest’ultima carta mancano tre iniziali). Officio della Croce Minore Nel frontespizio della Croce minore, a c. 195r (TAV. 00), si dissolve la rigorosa geometria nella suddivisione degli spazi, che si è vista finora e che tornerà anche in seguito. La pagina segna così il ritorno a soluzioni già sperimentate da Mariano del Buono negli anni giovanili, con il fluire della cornice floreale tutt’intorno allo specchio di scrittura e il luogo per l’araldica riservato nel bas de page. La narrazione della storia sacra è pertanto confinata esclusivamente nel capolettera dove, entro una D di 8 righe (46 mm) × 47 mm, è raffigurata la Deposizione, o meglio il momento successivo, poiché Cristo è già stato calato dalla croce. La Vergine, con il manto blu scuro, sorregge sulle ginocchia il corpo rigido e senza vita del figlio ed è assistita dalle tre pie donne – una delle quali in atto di pregare – che erano presenti alla Deposizione, ovvero le tre Marie, Maria Maddalena, Maria di Cleofa e Maria di Salomè. Nella cornice, quasi per una sorta di horror vacui, tutta la superficie viene coperta dalle figure e dai tondini aurei, diffusi a profusione. Tredici medaglioni, tondi o mistilinei, accolgono santi, sante, profeti (tra cui Isaia, Tobia, Daniele) e il ritratto maschile, a mezza figura e di tre quarti, di un giovane con barba e capelli biondi in atteggiamento di preghiera. Tra il fogliame compaiono qui per la prima volta i festoni di ghirlande, carichi di frutta e pigne; il festone del margine inferiore è inframezzato da un gioiello e altri due grandi gioielli decorano il margine interno. Disseminata ovunque una gran varietà di variopinti uccelli. Oltre a quattro teste di cherubini nel basso della pagina, tutta la cornice è costellata dagli immancabili putti,

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alcuni dei quali musici o cavalcanti uccelli; spesso poi i putti assumono anche un ruolo funzionale, poiché vengono investiti del compito di sorreggere l’anello mediceo. Nei margini laterali è infatti riprodotto sei volte l’anello con il diamante e le tre piume, affiancato da una coppia di putti. Nel bas de page l’anello torna altre otto volte, fungendo da collegamento tra i gioielli che contornano il tondo centrale. Anziché uno stemma, com’era lecito attendersi, il tondo accoglie il pavone mentre fa la ruota, impresa – lo si è visto – tanto dei Medici quanto soprattutto dei Cybo. Nel ripetersi degli anelli diamantati e nel pavone il corredo emblematico trova dunque in questa carta una delle sue migliori espressioni. Sul verso del frontespizio dall’iniziale P, di 2 righe, con corpo oro, sfondo blu e campo azzurro, si diparte un fregio floreale che, contornato da tondini aurei, si prolunga in tutto il margine esterno. Potrebbe essere stato realizzato per errore oppure, come accennato in precedenza (infra, p. 00), potrebbe costituire la testimonianza di un progetto decorativo che in seguito venne mutato. La decorazione dell’Officio comprende poi altre trentasei iniziali, quasi sempre miniate nello stesso modo di quelle dei precedenti Offici: venti le iniziali medie, di 2 righe, bicolori in diciassette casi; sedici le iniziali minori, di 1 riga, monocromatiche in dieci casi. Le tre iniziali medie monocromatiche (due blu e una rossa) si concentrano sul recto e sul verso di c. 201 (per c. 201v v. TAV. 00). In questa carta, la prima di fascicolo, l’uniformità decorativa e grafica che percorre il codice subisce un’interruzione. L’inchiostro rosso usato dal copista non ha la nuance arancio che ricorre in tutto il manoscritto, bensì è di un cupo vinaccia. I titoli hanno quell’aspetto monumentale e lapidario che è tipico del Verrazzano della maturità; l’ultimo di essi, «Hymnus» a c. 201v, non solo ha tipologia diversa dall’usuale (in minuscola anziché in maiuscola), ma esibisce, per la prima e unica volta in tutto il codice, una H di forma capitale con il primo tratto curvo e l’ultimo allungato costruita come la N che rientra tra gli stilemi verrazzaneschi dal 1484 in poi (cfr. infra, p. 00). La decorazione delle iniziali, specialmente di quelle a c. 201v, è inoltre dissimile dal resto del manoscritto. Tutte le iniziali sono monocromatiche e il blu della prima iniziale media a c. 201v è di una tonalità scura che non si rinviene altrove; la filigranatura (che fra l’altro manca in un’iniziale minore) è del tutto peculiare sia per tipologia (cfr. per es. il segno a forma di s nel campo delle iniziali D) sia per esecuzione, giacché si caratterizza per un’estrema accuratezza che in linea di massima è assente nel codice. Titoli e decorazione di c. 201 furono dunque realizzati in un momento diverso rispetto a tutti gli altri e, stando alla scrittura, forse a distanza di qualche tempo; ritenendo poco probabile che il codice sia stato riportato al miniatore solo per qualche iniziale, verrebbe da pensare che la decorazione di questa

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carta sia ascrivibile al copista. L’inchiostro rosso usato da Verrazzano per i titoli di c. 201 compare anche in due lettere (L, V) dell’incipit a capitali alternate di c. 7r; ancora a c. 7r la miniatura dell’iniziale I si distingue dalle altre (nel codice i due colori stanno ai lati dell’iniziale, qui invece sono nel campo e nello sfondo) e trova un parallelo in tutto il volume soltanto nell’iniziale di c. 1r: i due capilettera delle cc. 1r e 7r, così come le due lettere L e V omesse a c. 7r, sembrerebbero quindi rientrare nella presunta revisione svolta dal copista successivamente alla trascrizione (cfr. anche infra, p. 00). Officio dello Spirito Santo La struttura della pagina incipitaria dell’Officio dello Spirito Santo, c. 203r (TAV. 00), risente della geometrizzazione degli spazi già attuata nei frontespizi dei primi quattro Offici; allo stesso tempo si conforma alla tradizione, dedicando il margine interno all’emblematica dei destinatari. Come riscontrato nel frontespizio della Croce minore e come si vedrà in quello dei Salmi graduali, la storia sacra si riduce a un solo passaggio nel capolettera, dove è raffigurata la Pentecoste. Entro la D, di 8 righe (38 mm) × 42 mm, la Vergine a mani giunte, in primo piano, attende la discesa dello Spirito Santo insieme agli apostoli riuniti intorno a lei. La colomba dello Spirito Santo non compare nell’iniziale; è tuttavia sufficiente sollevare lo sguardo per individuarla poco sopra nella formella del margine superiore, mentre cala ad ali spiegate dal cielo sulla terra. Quasi nella necessità di sottolineare la centralità dell’episodio biblico e al contempo a voler superare i confini tracciati dalle linee di delimitazione dell’illustrazione, i personaggi delle due formelle in basso paiono essere spettatori della discesa dello Spirito Santo. Le due figure a destra e le tre a sinistra non hanno infatti la consueta fissità dei ritratti presenti nei medaglioni (come i due agli angoli superiori), ma la vivacità e lo stupore di chi assiste e commenta un evento miracoloso; in tal modo fanno anche da contrappunto al silenzio che si percepisce nell’assorta meditazione della Vergine e degli apostoli. Altri spunti di gioiosa vivacità si colgono nei festoni con frutta e pigne e nelle figurazioni che vi ruotano attorno. In alto i festoni, con un gioiello pendente al centro, offrono ricetto a due coppie di uccelli che vi stanno accovacciate sopra. In basso due grandi festoni decorano insieme ai gioielli lo spazio bianco esterno all’illustrazione. Essi forniscono inoltre la struttura ove agganciare due collane di corallo su cui si arrampicano due putti; sopra questi una seconda coppia di putti prosegue la scalata, servendosi di funi rosse attaccate ad altri festoni. Sui margini interno ed esterno campeggia, qui per la prima volta, il principale emblema mediceo e soprattutto di Lorenzo, cioè il broncone. I due rami fioriti si distendono per tutta la lunghezza dei riquadri laterali, interrotti soltanto da due gioielli

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sopra i quali si affacciano altrettanti busti d’angelo; secondo A. Garzelli i busti sono il motivo-firma di Mariano del Buono. 78 Sulle foglie o sui ramoscelli del broncone stanno appollaiati uccelli (a sinistra) o trovano alloggio putti variamente atteggiati, molti dei quali musici. Un altro broncone, stavolta spoglio, delimita il tondo centrale nel bas de page che ospita, come già quello di c. 195r, il pavone mentre fa la ruota. Le partizioni dell’Officio dello Spirito Santo e l’Orazione di s. Anselmo, che è posta alla fine, sono introdotte da ventuno iniziali medie di 2 righe, miniate come al solito; venti sono bicolori (in un caso marrone/blu) e una è monocromatica (blu). Le iniziali minori, di 1 riga, sono diciassette, tra cui otto monocromatiche. Salmi graduali La mise en page dell’illustrazione del frontespizio dei Salmi graduali (c. 213r, TAV. 00) è analoga a quella dell’Officio dello Spirito Santo, con le griglie a delimitare la nuova grafica, ma al contempo lo spazio inferiore lasciato all’emblematica. Nel capolettera A, di 8 righe (40 mm) × 45 mm, è raffigurata la Presentazione di Maria al tempio di Gerusalemme. L’episodio sacro viene inserito in un’architettura originale, che ripropone in forma innovativa la scala su cui sale la Vergine bambina, elemento centrale nell’iconografia tradizionale del tema. A riguardo scriveva infatti A. Garzelli: «scaturisce dalla nuova geometrizzazione della pagina la formula piramidale di Maria al tempio, con l’utilizzo del taglio triangolare della A per accentuare l’ascensione della scalinata ed isolare in alto il gran sacerdote, presso un tempio di impianto poligonale». 79 Nella scena, oltre al sommo sacerdote in alto e alla Vergine fanciulla (secondo gli apocrifi aveva all’epoca tre anni) sul primo scalino, compaiono sulla sinistra i genitori di Maria, Anna e Gioacchino, verso i quali è rivolto lo sguardo della figlia, a prendere commiato da loro, e un anziano barbuto sulla destra. Lo sfondo azzurro dell’iniziale è arricchito da una decorazione floreale con due cornucopie e festoni carichi di frutta e pigne. Nella cornice le figure umane si limitano alla sola presenza della Vergine e di s. Giuseppe, ritratti nel tondo centrale del margine superiore; ai lati del tondo stanno due uccelli affrontati, appollaiati su altrettanti festoni. Nei margini laterali, su un uniforme sfondo rosso, si slanciano due ricche candelabre in metallo dorato e parti a colore, dalle quali pendono collane e ghirlande. Sul margine esterno la candelabra ospita due coppie di putti che nel progetto originario dovevano essere funzionali a supportare la declinazione araldica, come già i putti di c. 169r. Se nel frontespizio della Croce minore trionfava l’emblematica medicea, questa è la volta di quella dei Cybo: il pavone, sempre riprodotto mentre fa la ruota, torna quattro volte negli angoli, contornato in due casi (margine esterno) dal broncone. La

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decorazione non fu comunque portata a termine in tutti i dettagli, lasciando così imperfetto il ruolo di depositari delle insegne affidato ai putti: una prima coppia di putti sorregge un cartiglio, posto sotto il pavone nell’angolo superiore destro, che doveva contenere il motto familiare ma che è rimasto vuoto; 80 altri due putti, seduti sulla candelabra poco più in basso, tengono due scudi di forma rinascimentale che, come quelli di c. 169r, sono coperti d’oro e del tutto privi di stemmi; vuoti sono anche i cartigli posti alla base dei pavoni nell’angolo inferiore destro e superiore sinistro. Escludendo l’ultima citazione della committenza medicea, insita nel broncone che delimita l’ovale centrale del margine del bas de page, il corredo araldico si esaurisce qui: l’ovale accoglie al suo interno due cerbiatti seduti ed è arricchito all’esterno da quattro putti in postura simmetrica, dalla valenza puramente esornativa. I quattordici Salmi graduali successivi al primo e le due orazioni incluse nella sezione sono introdotti dalla consueta iniziale media di 2 righe; in totale le iniziali medie sono sedici: quattordici bicolori e due con tre colori (caso eccezionale, nell’iniziale a c. 215r il marrone è nel campo e non nello sfondo). Ricchissimo il corredo di iniziali minori di 1 riga: in appena dodici carte se ne contano 119, tra cui settanta monocromatiche; a c. 222v ne fu saltata una, in seguito realizzata a penna. Orazioni finali La sezione conclusiva dell’Offiziolo è priva di illustrazioni e l’ornamentazione si limita alle iniziali miniate, che riprendono colori e tipologia già visti. Nel frontespizio (c. 227r) il titolo non è introdotto da un’iniziale maggiore, ma da una modesta iniziale minore di 1 riga. L’incipit reca invece un’iniziale media di 2 righe e altre dodici iniziali medie, tra le quali due con tre colori, compaiono nelle carte successive. In tutta la sezione le iniziali minori di 1 riga sono in numero ragguardevole, poiché in otto carte se ne trovano quarantotto, trentacinque delle quali monocromatiche e due a tre colori.

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STORIA DEL CODICE Si è già osservato (supra, pp. 00-00) che il manoscritto, verosimilmente scritto da Alessandro da Verrazzano (1453-1510/1514) entro o attorno al 1484, fu decorato e illustrato e dalla bottega di Mariano del Buono presumibilmente nel 1487. La miniatura, che nel suo apparato include araldica e emblematica delle famiglie Cybo e Medici, venne realizzata su commissione di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), intenzionato a donare il codice alla figlia Maddalena (1473-1519) in occasione del suo matrimonio con Franceschetto Cybo (1449-1519), figlio del pontefice Innocenzo VIII (1432-1492, papa dal 1484). Il ruolo del Magnifico nell’allestimento del codice non è tuttavia altrettanto certo. Nel testo non vi è alcun riferimento alla destinataria e perciò non sembra molto probabile che il manoscritto sia stato commissionato appositamente per Maddalena. Si può quindi supporre che Lorenzo abbia incaricato il copista di scrivere un Offiziolo senza ancora conoscerne la destinazione, oppure che abbia acquistato un volume già pronto. Si può inoltre credere che il codice, completo di minii e fornito di una ricca legatura, sia stato inserito nel corredo nuziale di Maddalena e che abbia seguito la giovane nella sua nuova dimora romana. Sulle vicende occorse al manoscritto fino all’età moderna non c’è alcuna documentazione. Se ne può tuttavia tentare una generica ricostruzione sulla scorta di una nota del possessore Edmond de’ Rothschild (1845-1934), che secondo Delaissé rese noto di aver acquistato il codice dal principe Doria.81 All’epoca si diceva che papa Innocenzo VIII avesse avuto numerosi figli e che li mantenesse tutti spacciandoli per suoi nipoti;82 ufficialmente però ne riconobbe soltanto due, Franceschetto e Teodorina (1455-1508). Teodorina sposò nel 1477 il patrizio genovese Gherardo Usodimare, tesoriere generale della Chiesa, e da quell’unione nacque Peretta Cybo Usodimare (1478-1550). Peretta convolò in prime nozze con il marchese di Finale Alfonso I del Carretto, che morì nel 1523, e poi con Andrea Doria, primo principe di Melfi (1468-1560). La relazione tra i Cybo e i Doria si instaura dunque in tempi remoti, molto vicini a quelli dell’allestimento del codice. Si potrebbero allora supporre i seguenti cambiamenti di proprietà: il codice passò da Maddalena de’ Medici alla cognata Teodorina Cybo, da Teodorina a sua figlia Peretta Usodimare e da quest’ultima venne infine lasciato alla famiglia del secondo marito, Andrea Doria. Oppure, come forse è più probabile, si potrebbe pensare che da Maddalena il codice sia arrivato direttamente alla nipote Peretta.

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Sembrerebbe pertanto che la successione matrilineare, che si è vista abbastanza frequente per i libri d’Ore (supra, pp. 00-00), in questo caso non sia stata seguita. Sicuramente può destare qualche perplessità il fatto che Maddalena de’ Medici abbia tramandato il codice di Waddesdon non a una delle sue figlie (dopo la morte delle prime due nel 1492 le restavano Caterina, nata nel 1501, e Ippolita, nata nel 1503), ma alla sorella del marito o alla figlia di questa. Quanti altri Offizioli, oltre al frammento di Cambridge (e anche oltre al codice BL, Add. 33997?),83 abbia posseduto Maddalena e quale valore affettivo e simbolico abbia attribuito al ms. di Waddesdon non è appurabile; né si potrà mai sapere, qualora sia in effetti avvenuta la consegna del manoscritto alla cognata o alla nipote, se ciò sia dipeso da una sua libera scelta o piuttosto dalla volontà del marito dispotico, inetto e scialacquatore. Fin dai primi anni di matrimonio Maddalena si lamentava per le disagiate condizioni economiche in cui versava a causa degli sperperi di Franceschetto. Scrivendo al fratello Piero nel 1494, biasimava il marito così: «io veghi el signore senza entrata o poca [et spendere assai del capitale] senza profitto alcuno et tiene ciò che gli à a mano, [senza sapere lui me]desimo di quell che se ne abia a fare, overo facto […] Bisogna che voi, Piero mio, habiate del cervello ancora per lui». 84 Non è dunque difficile credere che, nella contingenza di una qualche occasione sociale che comportava l’obbligo di un dono (matrimonio o nascita), Franceschetto possa essersi servito di un oggetto proveniente dal corredo della moglie. Del resto, una circostanza del genere si verificò proprio poco dopo che Franceschetto e Maddalena si erano sposati e riguardò appunto Peretta Cybo, la figlia di Teodorina. Alla fine di maggio del 1490 furono infatti celebrate le nozze tra Peretta e il marchese di Finale;85 la presenza di Maddalena a quella cerimonia fu motivo di un certo attrito tra il Magnifico e il genero. Maddalena, reduce dalla travagliata gravidanza di Lucrezia (nata nel dicembre del 1489) e affranta per la recente scomparsa della madre (morta il 29 luglio 1489), era all’epoca nuovamente incinta, debole e sofferente. Già ad aprile il padre la rivoleva a Firenze, affinché si potesse rimettere in salute nella quiete di una delle ville di famiglia; ma Franceschetto temporeggiava. 86 Scrivendo a Lorenzo il 15 maggio 1490, adduceva a pretesto la mancanza di soldi per farla partire («benché vada a casa sua, al grado mio et vostro bisogniano multe cose, et per l’andata et per la dimora, che non si ponno fare con sole parole»); e soprattutto opponeva ai voleri del Magnifico una precisa richiesta del papa: «Nostro Signore vorria se ritrovasse a fare honore a le noze de la marchesa del Finale […] et non so come giustamente se possa diniegare». 87 Nuovamente il 22 maggio Franceschetto, forse pressato dal suocero, tirava in ballo gli intendimenti dell’augusto genitore: «io ero già in su la expeditione de Madalena per

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mandarla a Fiorenza et Nostro Signore me ha facto soprastare, volendo se ritrovi e qui ale noze del marchese del Finale, maxime che, Dio gratia, è multo megliorata; et esse scoperto la causa de la sua deboleza essere la gravidanza. Tuctavolta, facte le noze et parendo a mastro Pier Leone li sia utile, etiam non parendoli, pur per satisfare al desiderio de Vostra Magnificentia vi si mandarà per II mesi».88 Soltanto dopo la celebrazione del matrimonio di Peretta, il 13 giugno 1490 Franceschetto lasciò andare la moglie a Firenze, non curandosi del caldo che le rese ancor più faticoso il viaggio; e comunque con l’intenzione di farla tornare a Roma il prima possibile. 89 Lorenzo dovette quindi cedere alle pretese dei Cybo e Maddalena fu costretta a partecipare alle nozze di Peretta; 90 se anche l’Offiziolo di Waddesdon abbia fatto parte di questa resa fiorentina alle volontà romane ovviamente non si può dimostrare. Giunto il codice a Peretta Usodimare, la supposizione più economica è che sia stato trasmesso da lei al figlio Marcantonio (15131578), nato dal primo marito, ma in seguito adottato da Andrea Doria, cui successe come principe di Melfi. Marcantonio potrebbe aver lasciato il libriccino alla figlia Zenobia (1541-1590), sua erede del principato di Melfi, che in seconde nozze aveva sposato Giovanni Andrea Doria (1540-1606). Da Zenobia in poi il codice si sarebbe tramandato in linea diretta, come bene patrimoniale familiare, ai vari principi Doria fino all’acquisto di Rothschild. Quali passaggi siano realmente intervenuti non è possibile dirlo; si potrebbe per esempio includere tra le ipotesi che Peretta abbia affidato il volume non al figlio Marcantonio, ma alla figlia Benedetta (1506-1551) e che da quest’ultima sia passato alla nipote Zenobia. Giovambattista Cybo (Innocenzo VIII) Franceschetto (1449-1519) sposa 1488 Maddalena Medici (1473-1519)

Teodorina (1455-1508) sposa 1477 Gherardo Usodimare

Peretta (1478-1550) sposa a), b) a) 1490 Alfonso I del Carretto marchese di Finale († 1523) b) 1527 Andrea Doria I principe di Melfi (1468-1560)

Marcantonio (1513-1578) adottato da Andrea Doria, gli successe come principe di Melfi

Benedetta (1506-1551)

Zenobia (1541-1590) sposa in seconde nozze (1558) Giovanni Andrea I Doria (1540-1606) Andrea II (1570-1612) [Pagano] Giovanni Andrea II (1607-1640)

Giovanni Andrea III (1653-1737) Giovanni Andrea IV (1705-1764) aggiunge il cognome Pamphili [Giorgio] Andrea IV (1747-1820)

Principi di Melfi

Andrea III (1628-1654) aggiunge il cognome Landi

Luigi Giovanni Andrea (1779-1883) Filippo Andrea V (1813-1876) Giovanni Andrea VI (1843-1890) Alfonso (1851-1914) 1882 sposa Lady Emily Augusta Mary Pelham-Clinton

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Nel 1914 D’Ancona registrò la presenza dell’Offiziolo nella biblioteca parigina di Edmond de Rothschild; si potrebbe perciò supporre che il barone l’abbia acquistato da Alfonso Doria Pamphili Landi (18511914), la cui moglie, lady Emily Augusta Mary Pelham-Clinton, era tra l’altro inglese. D’Ancona si limitò ad «accennare a due mirabili codicetti» che gli erano noti solo tramite fotografie. La descrizione è singolare e merita di essere riportata: «Trattasi di due libri d’ore, riccamente miniati a piena pagina all’inizio dei vari Offici: uno di essi, scritto dal Sinibaldi, rientra nei comuni prodotti della miniatura fiorentina della fine del ‘400; l’altro invece è opera importante e sicura del Boccardino vecchio che forse la eseguì, come pensa il dott. Coggiola sulla base dei due stemmi che vi appaiono, in occasione di nozze tra i membri delle famiglie Baroncelli-Bandini e Guadagni»91

Il primo Offiziolo è verosimilmente il ms. che è rimasto a Waddesdon, il secondo invece è purtroppo irrintracciabile dopo la vendita all’asta del 1977; A. de la Mare ebbe però occasione di vederlo e vi riconobbe la mano di Sinibaldi.92 L’attribuzione di uno dei due codicetti a Sinibaldi formulata da D’Ancona è quindi corretta, sia pure invertendola tra i due manoscritti; risulta inoltre degna di nota in quanto proveniente da uno storico dell’arte attivo in anni in cui la figura del copista attendeva ancora di essere delineata con precisione.93 Alla morte del barone Edmond Rothschild (1934) la sua raccolta di manoscritti pervenne al figlio maggiore James Armand Edmond (18781957). Questi, che aveva ereditato il castello di Waddesdon Manor dalla cugina Alice de Rothschild (m. 1922), lasciò il maniero e buona parte del suo contenuto al National Trust inglese. I manoscritti non vi erano tuttavia inclusi: quattordici codici, tra i quali l’Offiziolo di Maddalena, vennero consegnati dalla vedova, Dorothy Pinto (1895-1988), come pagamento delle tasse di successione e altri dodici furono lasciati in seguito da lei stessa al National Trust.94

BIBLIOGRAFIA

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D’ANCONA 1914, II, p. 886 n. 1716; DELAISSÉ 1977, pp. 324-347 n. 16; GARZELLI 1980, pp. 478, 498-499; GARZELLI 1985, I, pp. 211, 213-214, II fig. 769-770; EVANS 1991, pp. 177, 198-200, 209, 216, 219, 221-222, 225, 263 nota 62, 265 nota 98, 266 nota 114; LENZUNI 1992; GALIZZI 2004a, p. 729; DI DOMENICO 2005, p. 117; REGNICOLI 2005b, pp. 161, 165; REGNICOLI 2005b, pp. 184-187, 190-199, 202, 206-213, 215-219; RAO 2008, pp. 335-337; VAN DER SMAN 2010.

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Note 1

Cfr. anche DELAISSÉ 1977, p. 342. Anche riguardo ai due Offizioli presenti nell’inventario di Domenico Massimi di Arezzo si precisa che il primo è grande e il secondo è piccolo (ASF, MPAP 176, c. 141, cit. in VERDE 1987, p. 94; cfr. infra, Appendice, tabella b, n. 60). Per altre testimonianze sulla distinzione tra libriccini piccoli e grandi cfr. infra, Appendice, tabelle a-c, nn. 82, 124 (libriccini grandi) e nn. 3, 33, 79, 130, 137, 158, 161, 164 (libriccini piccoli/piccini). 3 Il frammento CII, se non è riconducibile a Verrazzano, potrebbe comunque ascriversi a un copista a lui vicino; per CI si potrebbe, in via ipotetica e provvisoria, avanzare il nome di Niccolò da Mangona. 4 Le dimensioni sono costituite dalla media risultante da sette misurazioni effettuate a distanza regolare nei codici. 5 Per le due ricette, la Monacense rinvenuta nel codice lat. 7775 del XV sec. e quella di Saint-Remi presente nel ms. Paris, BNF, lat. 11884, cfr. MANIACI 2002, p. 179 e segg. (in part. per la diffusione delle ricette, pp. 194-201; per la verifica sui codici latini, pp. 197, 199). Con una forchetta di tolleranza del 10%, le sei prescrizioni delle ricetta di Saint-Remi non trovano soddisfazione nei codici W, CI, CII, M, S (cinque o sei insuccessi per ogni ms.), mentre i mss. B e L registrano tre successi. Applicando la stessa forchetta di tolleranza, la ricetta Monacense riscontra quattro successi nel ms. CI, tre nei mss. CII, L, M, due nel ms. S e soltanto uno in W. 6 Cfr. DELAISSÉ 1977, p. 333. 7 Sulla legatura del codice Monacense cfr. SEELIG 1991. 8 GARZELLI 1984, p. 698 e tav. LXIV, figg. 1-2. 9 Ibid., p. 696 e tav. LXII. Sul codice cfr. anche MORELLO 1988, n. 152, pp. 116, 118, tav. XIX a p. 91 e ill. 48 a p. 125. 10 Nel Banco Rari 328 sul controfrontespizio dell’Officio della Vergine, c. 13v, si trova lo stemma dei Medici (d’oro, a cinque palle di rosso e una palla d'azzurro, posta in capo, caricata di tre gigli d'oro) e sul frontespizio, c. 14r, lo stemma dei de La Tour d’Auvergne, conti di Boulogne: inquartato, nel primo e nel quarto lo stemma de La Tour (d’azzurro seminato di gigli la torre al naturale), nel secondo e nel terzo lo stemma d’Auvergne (dovrebbe essere d’oro al gonfalone rosso a tre pendenti; qui tuttavia sono riprodotte tre frecce rosse in palo), al centro lo scudetto di Boulogne (d’oro a tre palle di rosso). Per lo stemma, usato anche dalla figlia di Maddalena d’Auvergne, Caterina de’ Medici, cfr. PINOTEAU 1982, p. 00. I due stemmi tornano congiunti nel frontespizio, c. 8r, del ms. Banco Rari 326: nello scudo sovrastato da una corona, forse comitale, a sinistra sta lo stemma dei Medici e a destra quello dei de La Tour d’Auvergne. Si potrebbe supporre che i mss. 326 e 328 del Banco Rari siano stati decorati, se non anche allestiti, a breve distanza di tempo: per un’ipotesi sull’origine dei due codici cfr. infra, p. 00. 11 D. Liscia Bemporad, che ha studiato la legatura del codice Laurenziano, suppone che nel progetto originario, non attuato o in seguito modificato, fossero presenti stemmi medicei e smalti figurati; cfr. LISCIA BEMPORAD 2005, in part. pp. 232-233. 12 ASF, MAP 165, c. 27r, ed. in PICCOLOMINI 1875, p. 133, n. 14. Benché molto noti, può essere utile ricordare gli altri sette libriccini (cfr. anche infra, Appendice, tabella II, nn. 1012). Tre erano nello scrittoio di Lorenzo nel palazzo di Firenze, insieme al codice citato a 2

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testo: «uno libriccino d’uficitii di nostra Donna, di charta di chaveretto, choperto di velluto [segue, cancellato, chonis] paghonazo, miniato di più sorte, uno serrame d’ariento»; «uno libriccino delli offitii di donna, choll’asse d’ariento, segnaletti di perle et l’asse traforate d’ariento dorate, chon rubini in luogho di borchie, per faccia carte azurre e lettere d’oro, schritto con più mini, et nel mezo delle dette choverte una lapida di christallo dipintovi sette mini»; «uno libriccino di donna, chon più ufitii, choperto di quoio paghonazzo schuro, serrami d’ariento niellati, traforati, giarde (sic)» (cc. 26v-27r, ed. in PICCOLOMINI 1875, p. 133, nn. 10, 13, 17). Nello scrittoio del figlio di Lorenzo, Piero, si trovava un quinto codice: «uno libriccino di donna, co’ coperchi d’oro smaltati di roggio et altri smalti et diverse fighure di libro, di stima di 400 in 500 fiorini» (c. 29v, ed. in PICCOLOMINI 1875, p. 134, n. 35). Due volumi di minor valore erano poi nello scrittoio della villa di Careggi: «uno libriccino di donna, vechio, scritto in penna» e «uno libriccino di donna, carta bambagina e lettera di forma» (c. 73v, ed. in PICCOLOMINI 1875, pp. 136-136, nn. 79, 85). Infine, l’ultimo esemplare fu rinvenuto nella casa di Alfonsina Orsini, moglie di Piero: «uno libriccino di donna, in forma, choperto di charta pechora» (c. 97v, ed. in PICCOLOMINI 1875, p. 136, n. 103). È probabile che alcuni di questi manoscritti fossero già appartenuti al padre del Magnifico o alla moglie Clarice. Sono quattro gli Offizioli registrati nell’inventario dei libri di Piero di Cosimo Medici compilato nel 1456: «[uno] libriciuolo di donna, coperto di velluto paonazzo, con affibbiatoi d’ariento, [uno] libriciuolo di donna, minore, coperto et legato similmente», «[uno] libriciuolo di donna, di lettera anticha, con affibiatoio d’ariento, [uno] libriciuolo di donna, guernito d’ariento» (ASF, MAP 162, c. 17r, ed. in PICCOLOMINI 1875, pp. 120-121, nn. 113-114, 116-117; cfr. anche infra, Appendice, tabella II, n. 5). Clarice Orsini possedette almeno due Offizioli: uno è il prezioso codice (oggi Holkham Hall, Coll. Viscount Coke 41) che secondo A. Garzelli (1980, p. 478) le fu regalato dal marito in occasione di un anniversario, dell’altro, che è invece perduto, resta solo una testimonianza letteraria. Donato dal vescovo Gentile Becchi quando Clarice si sposò con Lorenzo (1469), era un «libriccino di donna maraviglioso … scritto a lettere d’oro in carta d’azzurro oltremarino» (BONAMICI 1870, p. 13, cit. in MIGLIO 2008a, p. 90 e nota 56, e EAD. 2008b, p. 232 nota 32); vista la descrizione, è verosimile identificarlo in quel volume presente nello scrittoio di Lorenzo che era sontuosamente coperto d’argento, rubini e perle e che aveva «per faccia carte azurre e lettere d’oro». 13 Cfr. GARZELLI 1984, p. 700: «Legature con smalti erano solo per i Medici o per poche famiglie del ceto dirigente, come attesta l’inventario mediceo del 1492 che tra le gioie presenti nello scrittoio di Piero annovera ‘un libriccino di donna coi coperchi d’oro smaltato di roggio e altri smalti’». 14 La letteratura sui libri d’Ore è assai ampia; cfr. almeno lo studio di LEROQUAIS 19271943. 15 Per esempio, nel ms. BL, Yates Thompson 23 si trovano i Salmi graduali, l’Officio dello Spirito Santo e i Gaudi della Vergine; nelle Ore Baroncelli-Bandini, già Sotheby, i Salmi graduali e l’Officio dello Spirito Santo; nella sez. I del ms. Cambridge, UL, Additional 4101 soltanto l’Officio dello Spirito Santo; nel ms. BL, Additional 19417 solo i Salmi graduali e nell’Additional 15528 (Ore Alessandri-Taddei) la Messa in onore della Vergine. 16 È il caso dell’Ottava di S. Giovanni Battista, che cade il 1 luglio, registrata da tutti i testimoni tranne W.

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Sia in L sia in M tre volte la registrazione è sfasata di un giorno: nel mese di luglio le festività di S. Margherita, S. Maria Maddalena e S. Giacomo sono rispettivamente segnate ai giorni 21, 23 e 26 anziché alle date del 20, 22 e 25. 18 Le lezioni singolari di W e T sono le seguenti. In T sono assenti sei festività presenti in W: tre ad Aprile (22 S. Gregorio martire, 25 S. Marco, 29 S. Pietro da Verona), una a maggio (3 Santa Croce), una a luglio (9 Ottava della Visitazione di Maria), una a novembre (25 S. Caterina). In cinque giorni di W mancano le registrazioni di festività annotate in T (24 gennaio S. Feliciano, 31 maggio S. Petronilla, 1 luglio Ottava di S. Giovanni Battista, 31 luglio S. Fantino, 18 dicembre S. Graziano) e per altri due giorni sono omessi due santi (Donato, registrato in T con Giustino il 4 dicembre, e Giovita, ricordato in T con Faustino il 15 febbraio). S. Melchiade, segnato correttamente in W il 10 dicembre, è iscritto in T al giorno precedente; Tommaso Becket, la cui festa ricorre il 29 dicembre, è registrato due volte in W, il 22 e il 29 dicembre. 19 D’ANCONA 1914, II, n. 1552, pp. 762-763. 20 Cfr. Librairie De Marinis 1911, p. 139, n. 392 e tav. XIX (che riproduce le cc. 1v-2r, 70v71r). Nel catalogo si afferma che le iniziali YC sono dipinte in oro su sfondo verde; nelle piccole fotografie in bianco e nero non si riescono tuttavia a scorgere le iniziali e gli stemmi riprodotti sui medaglioni appaiono erasi. Stessa sorte condivisero vari medaglioni presenti sulle carte miniate che restano a Torino e soltanto in due di essi, alle cc. 21v e 61r, si può intravedere il monogramma YC che De Marinis attribuiva a Ippolita di Calabria (v. TAV. 00). In entrambe le porzioni dell’Offiziolo, quella di De Marinis e quella di Torino, è invece ben visibile l’impresa della corda intrecciata, che viene più volta ripetuta nella decorazione su sfondo rosso pieno o azzurro punteggiato d’oro (v. ancora TAV. 00). 21 Nel 1978 il codice era registrato in un catalogo d’asta (Witten Catalogue 1978, n. 95, pp. 94-95) e nel 1985 A. de la Mare (p. 595) lo segnalava entro una collezione privata di Stoccarda. 22 In tal senso anche DE LA MARE 1985, p. 481, n. 14. 23 È per esempio il caso del Properzio di Oxford (Bodleian Library, Canon. Class. Lat. 31), copiato dall’edizione romana del 1481. Cfr. anche DE LA MARE 1985, p. 486, n. 39. 24 Cfr. DE LA MARE-NUVOLONI 2009, pp. 149, 168: il primo libro d’Ore del Sanvito (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Sala Prefetto ms. 13), risale alla fine del 1464 o al massimo al 1466 ed è già scritto in littera antiqua. 25 Su Alessandro da Verrazzano (1453- 1510/1514) cfr. per il momento DE LA MARE 1984, pp. 266-268 e EAD. 1985, pp. 472-473, 480-481; ho in preparazione la biografia del copista. 26 Per la biografia di Antonio Sinibaldi cfr. REGNICOLI 2005b; in part. per il rapporto con Verrazzano, pp. 154-155. 27 Il codice fu sottoscritto e datato a c. 32v: «Scripto di mano di me proprio Alexandro da Verrazano et finito questo dì XXV di maggio MCCCCLXXVII. Laus Deo». 28 Rivolgendosi a Francesco Girolami, Verrazzano scrive nel proemio: «Et però inteso tuo desiderio et voluntà chi translati questa historia del nostro dignissimo et invocato pastore san Zenobio te la mando: non qual si richiederebbe tradocta, ma secondo che le mie debile forze hanno potuto in epsa exercitarsi la prendi» (cc. 4r-4v). Non sembra che la traduzione di Verrazzano abbia riscosso fortuna oltre l’ambito familiare. Un volgarizzamento ben più noto della Vita di san Zanobi fu invece quello di Clemente Mazza, scritto nel 1475 e

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dedicato a Filippo Girolami, fratello di Francesco, che a partire dalla princeps del 1487 fu più volte ristampato nel corso del tempo (cfr. MORENI 1805, II, pp. 58-59). Una copia manoscritta, forse quella di dedica, dell’opera di Mazza era presente nel 1483 nell’abitazione di Filippo Girolami: tra i beni rinvenuti alla morte di quest’ultimo si trovò infatti «un libro che trata della Legenda di sancto Zanobi con l’arme di casa» (ASF, MPAP 176, c. 255r, cit. in VERDE 1987, p. 100). 29 La famiglia Girolami perpetuava da generazioni il culto e la fama di s. Zanobi e al primogenito, all’epoca Francesco (1441-1515), spettava il privilegio di custodire il miracoloso anello del santo (cfr. BNCF, Passerini 46, pp. 42-43). 30 Cfr. BNCF, Passerini 156, ins. 9, tav. III. Contessina di Zanobi Girolami e Bartolomeo di Ludovico da Verrazzano si sposarono nel 1452 (cfr. Gabella del contratti, cit. in BNCF, Poligrafo Gargani 2124, cc. 93-95); sette anni dopo Contessina era già morta, poiché nel 1459 Bartolomeo aveva già preso in moglie la diciassettenne Nannina (cfr. ASF, Catasto 809, c. 477r). 31 C. 146v: «Alexander Verazanus Laurentii Medici Petri Francisci filii accurate transcripsit MCCCCLXXXVII». Secondo D. Gionta (1998, p. 437 nota 25) il manoscritto di dedica della traduzione di Poliziano è il V.E. 2005 della Biblioteca Nazionale di Roma, che venne scritto dal copista che si firma Omnium rerum e consegnato al pontefice nel luglio 1487, come informa la lettera di Lorenzo del 22 luglio a Giovanni Lanfredini (MAP 56, c. 66, ed. in BULLARD 2003, pp. 451-455: 454; sul ms. cfr. anche DE LA MARE 1985, p. 523, n. 27). I codici di Londra e Roma, insieme al fiorentino BML, Plut. 67.3, allestito per il Magnifico, recano ritocchi dell’autore – diversi in ciascun esemplare – che testimoniano la cura con cui Poliziano revisionava i marginali (cfr. GIONTA 1998, p. 438 nota 27). Per gli altri codici contenenti la traduzione latina di Poliziano cfr. ibid., pp. 438-439 nota 27. 32 Avendo visto solo alcune riproduzioni, qualche anno fa attribuivo il codice a Sinibaldi, pur prendendo in considerazione la possibilità che si trattasse di Verrazzano (REGNICOLI 2005c, p. 223 nota 1). 33 DE LA MARE 1985, p. 481, n. 19. 34 Per il matrimonio di Maria di Francesco Nesi con Alessandro da Verrazzano cfr. BNCF, Poligrafo Gargani 2124, cc. 52-54. 35 Cfr. BONFANTI 1971, p. 203 e nota 1: nella prefazione, c. 5v, si ricorda il matrimonio di Lucrezia Medici e Iacopo Salviati avvenuto «superiore anno» (gli sponsali sono del 13 settembre 1481 – cfr. ASF, Notarile antecosimiano 14099, c. 72r; ma le nozze, come risulta anche dalla dedica del Rusticus di Poliziano, avvennero poco prima dell’ottobre 1483); inoltre, nel proemio al terzo dialogo Piero, nato nel febbraio 1472, è indicato come «tertium decimum vix ingressus annum» (c. 111v). 36 DE LA MARE 1985, pp. 480-481. 37 Il ms. di Harvard, recando le armi Nasi e Salviati, forse fu destinato a Bernardo Nasi e Fiammetta di Alamanno Salviati, il cui matrimonio avvenne nel 1515 (cfr. le genealogie dei Salviati, in HURTUBISE 1985, p. 498, e dei Nasi in BURKE 2004, p. 195). 38 Firenze, Biblioteca Riccardiana 891, c. 141v: «Alexander Verazanus escripsit MD»; BL, Additional 9770, c. 146v: «Alexander Verazanus escripsit MDCVI». 39 La T in forma di tau in legatura con e compare già nei codici di Sinibaldi del 1485 (cfr. per es. Laurenziano Ashburnham 1874, cc. 21v, 49v, 55v etc.) e torna nel Plut. 16.18

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terminato nell’aprile 1490 da Martino Antonio presbyter (cfr. cc. 19r, 23v, 26r etc.) e nel Plut. 12.7 scritto nel 1490-1492 da Niccolò da Mangona (cfr. per es. c. 299v). La legatura st con il tratto di unione che avvolge t si trova nel Plut. 21.17 del 1489 di Sinibaldi (cfr. per es. c. 17v) e poi nel Plut. 12.7 di Niccolò da Mangona (cc. 14v, 18v, 26v etc.) e nel Plut. 21.18 completato nel 1490 dal carmelitano frater Jacobus Johannis Alamanus Crucennacensis (cc. 1r, 11r, 12r etc.). 40 Tra il frammento di Cambridge e i codici di Verrazzano a fronte di alcune coincidenze morfologiche (cfr. supra, a testo) si registrano anche significative assenze: nel frammento mancano le varianti onciali (M, d), rustiche (A), le forme alla greca (M, H), i nessi epigrafici, la r minuscola usata come maiuscola e i tre stilemi verrazzaneschi, già rilevati nel Magliabechiano del 1477, che compaiono nel ms. di Waddesdon (titulus alla greca, & allungata a nodo, Q tagliata). In altre parole, il ms. di Cambridge riprende soltanto una parte del campionario grafico di Verrazzano. Inoltre, anche a livello di esecuzione, del resto impeccabile nel frammento, si avvertono delle leggere differenze rispetto alla produzione di Verrazzano: per esempio nell’estensione delle curve dei tratti superiori di s e f, che è più ampia nel frammento inglese di quanto non lo sia comunemente nei codici di Verrazzano. 41 GARZELLI 1985, I, pp. 301-302, e II, pp. 586-587 figg. 957-958 42 Cfr. FANTONI 1994. 43 Nel Pluteo ricorrono poi di frequente stilemi già visti in Verrazzano, come per esempio il titulus alla greca, le uscite delle abbreviazioni soprascritte, v per u entro parola, H con uno dei due tratti verticali più alto dell’altro e una simile B con il primo tratto più alto. Tuttavia, al pari del frammento di Cambridge, nel Pluteo non c’è alcuna traccia del polimorfismo verrazzanesco; mancano qui anche gli esuberanti allungamenti esornativi che costellano i codici di Verrazzano. 44 GARZELLI 1985, I, p. 213. Considerato che lo studio della scrittura non rientrava fra gli interessi di A. Garzelli, verrebbe da credere che l’attribuzione sia stata suggerita da Albinia de la Mare, il cui lavoro sui copisti fiorentini (DE LA MARE 1985) venne pubblicato nel volume della stessa Garzelli; la studiosa inglese tuttavia non citò mai l’Offiziolo di Waddesdon nel suo contributo. 45 L’altezza assoluta della lettera è costituita dalla media di cinque misurazioni effettuate di regola sul recto che segue al frontespizio o su carte limitrofe. È stata cioè rilevata l’altezza di cinque o, m, n per le lettere costituite solo dal corpo, di cinque p e q per le lettere con asta inferiore e di cinque b, d, f, h, l, s per le lettere con asta superiore; l’altezza della lettera g, solitamente più elevata rispetto a quelle di p e q, è stata rilevata individualmente. La larghezza media della lettera è desunta su un campione di sei righe sommando per ciascuna riga la larghezza delle parole (tranne la lettera finale dell’ultima parola, che dovendo giustificare il testo può essere più larga o più stretta del solito) e dividendola per il numero delle lettere contenute, a esclusione della finale. 46 Sul pavone come emblema Cybo cfr. VIANI 1808, p. 70 nota 23. G. Viani riporta le affermazioni di Francesco Maria Cybo († 1575), storico e genealogista della famiglia (su di lui cfr. SFORZA 1895), che sfatano l’opinione comune secondo cui l’impresa del pavone sarebbe stata concessa dal re di Napoli Renato d’Angiò al padre di Innocenzo VIII, Arano Cybo (1377-1457). Per il genealogista, quest’ultimo avrebbe soltanto aggiunto il motto francese «leaultè passe tout» a un emblema già di famiglia. Così infatti scriveva Francesco

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Maria Cybo: «questo valoroso cavaliero [Arano Cybo] adattando lo antiquo cimero delli nobili Cybo quale sempre fu il pagone con la coda spiegata in rota – come si ne vedono diverse memorie autentiche – con quel vago detto et motto francese et a quella natione molto familiare che già disse il sermo re Renato di Napoli in sua lode, cioè Leaultè passe tout, ne fece con rarissimo giudicio la sua impresa, conservando la memoria de’ suoi illustri Maggiori et uno evidente segno di sua propria virtù». Il pavone era effigiato anche su varie monete coniate nella zecca di Massa dai Cybo Malaspina (cfr. ibid. pp. 175, 179, 212, 214). Sul pavone come emblema Medici cfr. AMES LEWIS 1979, p. 133. 47 Cfr. GARZELLI 1985, I, p. 213, e DELAISSÉ 1977, p. 329. 48 DELAISSÉ 1977, pp. 344-345. 49 Cfr. GARZELLI 1985, I, p. 213. Su Mariano del Buono (1433/4-1504) cfr. LEVI D’ANCONA 1962, pp. 175-181; GARZELLI 1985, I, pp. 189-215, e II, pp. 341-343; GALIZZI 2004a. 50 I due volumi miniati nel 1477-1478 sono il codice con gli «Ordini degli Octo di guardia e balia della città di Firenze» (ASF, Otto di guardia e balia, Repubblica 226) e un Breviario per l’Ospedale di Santa Maria Nuova (Firenze, Museo Nazionale del Bargello 68); cfr. LEVI D’ANCONA 1962, p. 177. 51 Ringrazio la prof. Levi D’Ancona per la consulenza che mi ha gentilmente fornito nell’ottobre del 2010. 52 LEVI D’ANCONA 1962, p. 177. 53 I cinque Offizioli che rientrano nella produzione giovanile di Mariano sono: Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. III. 103 (in collaborazione con ser Ricciardo di Nanni); New York, Pierpont Morgan Library M. 315; Stratton on the Fosse Sommerset, Downside Abbey, s.s.; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Chigi C. IV. 114; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Banco Rari 320. I libri d’Ore della fase matura sono: Rouen, Bibliothèque municipale, 366; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 319 e 326; London, British Library, Yates Thompson 23; Oxford, Bodleian Library, Buchanam e 7. Per essi cfr. GARZELLI 1985, I, pp. 212-214, e II, pp. 441 fig. 746 (Venezia); 447 fig. 755 (New York); 446 fig. 752 (London); 447-448 figg. 756, 758-759 (Downside Abbey); 452 fig. 766 (BAV). Stando alle didascalie delle illustrazioni poste a corredo dello studio della Garzelli, se ne dovrebbero poi aggiungere altri. A Mariano è infatti ricondotto con certezza il ms. London, Victoria ad Albert Museum L 1722-1921 (Ore Serristori), p. 451 fig. 764, mentre è dubbia l’attribuzione del ms. Firenze, Riccardiano 458 (pp. 447-448 figg. 754, 757; PINI 2001 lo assegna a Bartolomeo Varnucci e aiuti, tra i quali il Maestro del Lattanzio Riccardiano, seguace di Mariano) e di due codici del Fitzwilliam Museum di Cambridge, Mc. Clean 69 e 336, per i quali Garzelli oscillava tra Mariano e il Maestro del Lattanzio Riccardiano (pp. 442-443 figg. 747-748). 54 DELAISSÉ 1977, p. 346. 55 ALEXANDER 1988, p. 125 e nota 15 a p. 133. 56 GARZELLI 1985, II, p. 426 fig. 728. 57 Cfr. supra, nota 00. 58 GARZELLI 1980, p. 498. 59 EVANS 1991, p. 176. 60 Cfr. supra, p. 00.

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RAO 2008, p. 343; tace a riguardo RINGROSE 2009. Si vedano le riproduzioni delle cc. 14r, 145v, 175v in GARZELLI 1985, II, pp. 447-449 figg. 756, 759, 758. 63 Nella didascalia della fig. 763 in GARZELLI 1985, II, p. 450, la decorazione di c. 214v è tuttavia attribuita al Maestro del Riccardiano 231. L’angelo dell’Annunciazione a c. 1v del ms. di Cambridge è del resto avvicinabile a quello miniato in un medaglione a c. 1v del ms. della Yale University, Beinecke Rare Book and Manuscript Library Marston 409, che Garzelli (ibid., p. 424 fig. 722) attribuiva allo stesso Maestro del Riccardiano 231. 64 «altri libri d’Ore miniati da Mariano non pervennero, per inventiva e ricchezza dei corredi, apertura al moderno, all’altezza del codice mediceo» (GARZELLI 1985, I, p. 214). 65 Ibid. GARZELLI 1985, I, p. 213. 66 Per la decorazione del codice Monacense cfr. EVANS 1991, pp. 209-253; per la decorazione del codice Laurenziano cfr. DI DOMENICO 2005. 67 Per altri codici, tra cui il ms. Holkham Hall 41 posseduto da Clarice Orsini, cfr. EVANS 1991, pp. 222-223. 68 EVANS 1991, p. 224. 69 Cfr. riproduzione in EVANS 1991, p. 211. 70 Devo il suggerimento a Laura Alidori, che ringrazio. 71 GARZELLI 1985, I, p. 213. 72 DELAISSÉ 1977, p. 331. 73 Forse di origine orientale, il tema dell’Incontro tra i tre vivi e i tre morti comparve in Europa nel XII secolo: prendendo avvio dai sermoni dei predicatori, si sviluppò poi nella tradizione narrativa e iconografica (cfr. MARINETTI 1996). 74 GARZELLI 1985, I, p. 213. 75 Ibid. 76 La croce dovrebbe essere rossa; qui invece è argento, un po’ più chiara dello sfondo e potrebbe essere stata sovradipinta. 77 In DELAISSÉ 1977, p. 329, è citata l’opinione di J. Shearman secondo la quale l’animale di c. 169r, che compare anche a c. 15r, potrebbe essere messo in relazione con il dono di animali esotici che giunse nel 1487 a Lorenzo de’ Medici da parte del sultano d’Egitto. 78 GARZELLI 1985, I, p. 213. 79 Ibid. 80 Il pavone si accompagnava al motto «leaultè passe tout» (lealtà vince ogni cosa) già nell’impresa di Arano Cybo, nonno di Franceschetto (cfr. infra, nota 00). Franceschetto usava anche, insieme all’impresa della botte ardente, il motto tedesco «von guetten in besser» (dal buono in meglio); cfr. VIANI 1808, p. 20 e p. 173 nota 66. 81 DELAISSÉ 1977, p. 334: «According to Baron Edmond de Rothschild’s notes, this manuscript came from the collection of Prince Doria». Sul codice non c’è traccia di queste note, che evidentemente Delaissé attinse da altra fonte. 82 La pasquinata che circolava sul pontefice verseggiava così: «Lode a Innocenzo rendere, o Quiriti si debbe, / ché dell’esausta patria la prole ei stesso accrebbe. / Otto bastardi ed otto fanciulle ha generato / Nocente e della patria padre sarà chiamato» (cit. in RENDINA 2004, p. 595). Nelle trattative che avevano condotto al matrimonio tra Maddalena e Franceschetto era rientrata la nomina a cardinale per Giovanni Medici; anche in occasione dell’elezione 62

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del tredicenne figlio del Magnifico la satira popolare fu graffiante: «Per congiunger la Medici / al figlio Franceschetto / Innocenzo la porpora / donava a un ragazzetto. / Se è ver che il Santo Spirito / fa il papa sovrumano, / in questa il Santo Spirito l’ha fatta da mezzano». (ibid. p. 597). 83 Cfr. supra, p. 00. 84 ASF, MAP 100, c. 135r, cit. in PIERACCINI 1986, I, pp. 235-236; a testo, tra quadre la trascrizione di Pieraccini, oggi non più leggibile sul documento. Sui primi, infelici anni di matrimonio di Maddalena cfr. anche STAFFETTI 1899, pp. 5-17. 85 Sul «parentado de la figliuola di monna Theodorina» Lorenzo si era già espresso favorevolmente l’8 agosto del 1488 (cfr. ASF, MAP 59, doc. 201, c. 211bis r). 86 Rispondendo a Lorenzo il 27 aprile 1490 Franceschetto prometteva la partenza della moglie per «li XV de questo mese che vene» (cfr. ASF, MAP 18, c. 542r); di fatto la lasciò andare a Firenze soltanto il 13 giugno. 87 ASF, MAP 26, c. 546r (cit. – con segnatura 18, c. 551 – in STAFFETTI 1899, p. 10 nota 1). 88 ASF, MAP 26, c. 548r (cit. – senza indicazione di segnatura – in STAFFETTI 1899, p. 11). 89 Pier Filippo Pandolfini, ambasciatore fiorentino a Roma, scrivendo al Magnifico il 12 giugno 1490, criticava il comportamento di Franceschetto, che l’indomani avrebbe sottoposto Maddalena a un disagiato viaggio nella calura: «ho facto quello ho potuto perché la lasci, non mi parendo tempi da ciò rispecto a’ caldi. Non s’è lasciato intendere, et credo infine la menerà con intentione di rimenarla qui seco». Il giorno successivo l’ambasciatore ribadiva: «el signor Francesco com madonna Magdalena partì stamani di buona hora. Dispiacemi, come vi scripsi hiersera, che in questi chaldi habbi menato madonna con intentione di rimenarla in qua. Dissuasilo quanto seppi, et nulla giovò. Comfortovi, poiché ha voluto pigliare questo disagio di venire a vedervi, a fargli ogni buona dimonstratione, perché la natura sua si contenta assai di simile cose, et acciò che al suo ritorno possi riferire al papa quanto è conveniente» (ASF, MAP 41, cc. 510v e 511r, cit. in STAFFETTI 1899, p. 10 nota 1). 90 Anche per le nozze della nipote Peretta, come già per quelle del figlio Franceschetto, Innocenzo VIII aprì il Vaticano a una fastosa cerimonia. Secondo C. Rendina (2004, p. 597) un cronista dell’epoca avrebbe commentato che fu «grave scandalo vedere il Santo Padre partecipare al banchetto in compagnia di alcune belle dame». 91 D’ANCONA 1914, II, p. 886, n. 1716. 92 Sotheby’s Catalogue 1977, n. 90, pp. 111-113 e tavv. In part. per l’attribuzione, p. 112. 93 Lo stesso De Marinis, autore nel 1952 del primo studio organico su Sinibaldi, gli assegnava codici sicuramente scritti da altri (cfr. DE MARINIS 1952, I, pp. 52-55 e II, passim). 94 Cfr. BLUNT 1977, pp. 10-11.

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