Sulle ali del Condor. Fiabe dal Cile

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SULLE ALI DEL CONDOR fiabe dal Cile

Luigi Dal Cin




A Eloisa e Celeste, stelle appena nate sotto il cielo del Cile.

Ad Annachiara, Jacopo e Matilde, immagini di fantasia e di bellezza.

Questo libro è stato realizzato in collaborazione con la Fondazione Štěpán Zavřel. Le illustrazioni sono tratte dalla 34ª edizione di “Le immagini della fantasia” Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia di Sàrmede (TV).

Responsabile editoriale:  Antonella Vincenzi Art Director: Monica Monachesi Redazione: Giulia Calandra Buonaura Proprietà letteraria e artistica riservata © 2016 Franco Cosimo Panini Editore S.p.A. Via Giardini, 474/D - 41124 Modena www.francopaniniragazzi.it Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione anche parziale dei testi e delle illustrazioni senza il consenso scritto del titolare del copyright. Finito di stampare presso Papergraf S.r.L. - Piazzola sul Brenta (PD) Ottobre 2016


SULLE ALI DEL CONDOR fiabe dal Cile

Testi  –  Luigi Dal Cin Illustrazioni della copertina e dei risguardi  –  Paloma Valdivia La creazione del sole e delle stelle (Incas)  –  Laura Berni Il terribile Cherufe (Mapuches)  – Maria De Los Angeles Vargas Mamma pehuén (Pehuenches)  – Simona Mulazzani La ragazza venuta dal cielo (Incas)  –  Paloma Valdivia L’uovo della vita (Rapa Nui)  –  Pati Aguilera Il grande guanaco bianco (Diaguitas)  – Anna Forlati Kai Kai e Treng Treng (Mapuches)  –  Francesco Chiacchio Elal, il primo bambino (Tehuelches)  – Maya Hanisch


La creazione del sole e delle stelle Dopo aver modellato l’universo, Viracocha, il dio creatore, lo contemplò e si accorse che era troppo buio: la luce non c’era ancora e gli uomini vivevano nelle tenebre. Viracocha allora fece un cenno e Inti, l’uccello sacro, si posò alla sua sinistra. Poi fece un altro cenno e Titi, il puma dagli occhi di rubino, si accucciò alla sua destra. Viracocha accarezzò Inti che custodiva sotto le palpebre il giorno e la notte: «Volgi il tuo sguardo sulla terra» gli disse, «perché si alternino la luce e il buio.» L’uccello sacro spalancò gli occhi: le sue pupille brillavano di luce dorata e di blu intenso. Fu così che una faccia della terra venne inondata dalla luce del sole mentre l’altra rimase immersa nel buio della notte. Allora Viracocha accarezzò Titi che nascondeva sotto le ciglia la luce del fuoco: «Volgi il tuo sguardo verso la parte oscura della terra e accendi le stelle.» Il puma rivolse gli occhi di rubino verso le stelle sparse nel cielo buio, e le accese una a una. Da allora, la terra cominciò a produrre fiori e frutti. Da allora, gli uomini ebbero cibo per la vita dal sole e conforto nella notte dalle stelle.



Il terribile Cherufe C’era una volta un vecchio sudicio stregone dalla barba puzzolente e dal ventre gonfio che procedeva verso la montagna in groppa a una capra. Lo precedeva, sul sentiero scosceso, una giovane bella ragazza che lo stregone aveva rapito. Appena il sentiero svoltò, la ragazza fece un ultimo tentativo per salvarsi: balzò agile come un cervo e si nascose in un canneto lì vicino. Sentiva la voce minacciosa dello stregone che la cercava ovunque e avrebbe voluto farsi piccola come un insetto per scomparire sottoterra. Si accoccolò tremante di paura, poi appoggiò la testa alle ginocchia e si mise a piangere. «Non piangere, sorellina: guarda cosa ti ho portato!» d’improvviso sentì sussurrare. Si voltò e vide suo fratello che l’aveva seguita di nascosto per consegnarle il suo cane e diciotto piume bianche dell’uccello della montagna. «Quando avrai bisogno di me, mandami una di queste piume. Abbi fiducia: non ti abbandonerò mai!» le sussurrò ancora e scappò tra le rocce.


Subito dopo lo stregone la ritrovò e così, seguiti dal cane, ripresero il cammino lungo il sentiero sempre più ripido. «Dove stiamo andando?» chiese la ragazza. «Andiamo a catturare un lama» rispose lo stregone: in realtà stavano salendo il pendio del vulcano nel cui cratere viveva il terribile Cherufe.



Il terribile Cherufe era il signore del vulcano: dal cratere minacciava con tremendi boati, lanciava fulmini che incendiavano i boschi e copriva i villaggi con la lava. C’era un solo modo per calmarlo: sacrificargli ogni mese una ragazza. Ormai giunti alla bocca del vulcano, lo stregone disse alla sua prigioniera: «Riposati un po’ qui che io torno subito» e andò a parlare con il Cherufe. Ma la ragazza lo seguì di nascosto e li ascoltò mentre tramavano un accordo, seduti tra i resti delle giovani già morte: lo stregone avrebbe ricevuto nuovi grandi poteri in cambio di colei che portava con sé. Allora lei mise in bocca al suo cane una delle diciotto piume bianche e lo inviò giù di corsa verso la valle. Più veloce di quanto si possa immaginare arrivò il fratello che si nascose tra le rocce. E quando lo stregone, soddisfatto per l’accordo con il Cherufe, passò sotto il suo nascondiglio, gli fece crollare addosso enormi rocce che lo seppellirono.


Poi si diresse verso il Cherufe che lo minacciò con i suoi tuoni, cercò di spaventarlo con i suoi lampi, fece tremare la montagna e aprì spaventosi crepacci. Allora il ragazzo estrasse il suo coltello: il Cherufe fece un passo indietro, perse l’equilibrio e gesticolando infuriato cadde in uno dei crepacci che lui stesso aveva creato. Venne così seppellito per sempre tra le rocce.


I due fratelli allora scesero dalla montagna seguiti dalla fila delle giovani ritornate in vita. E tutti gli abitanti della valle festeggiarono colui che aveva placato il vulcano e salvato le ragazze, colui che portava sul capo, come una corona di neve, le diciotto piume bianche dell’uccello della montagna.


Mamma pehuén Nelle fredde valli del Cile del sud circondate da boschi di pehuén, i pini araucaria, alzavano le loro tende i popoli dei pini, i Pehuenches, che da quei pini, così importanti per la loro sopravvivenza, avevano preso il nome. I rami dei pehuén offrivano loro prezioso riparo, mentre i profumati pinoli erano il loro cibo. Come ogni autunno, le donne e i ragazzi festeggiavano il ritorno degli uomini che si erano allontanati per settimane a caccia di cervi e guanachi, ma Kalfu-kir tardava ad arrivare.

Sua moglie era preoccupata: tutti gli altri cacciatori erano già tornati e l’inverno era alle porte. Dopo la prima nevicata la donna si decise: riempì una cesta con pinoli, tortillas di pinoli e una coperta, e mandò suo figlio Koná, che era quasi un ragazzo, a cercare il padre sulle montagne.



Con la cesta in una mano e le armi nell’altra Koná camminava solo nel bosco. Dopo qualche ora si ritrovò in una radura con un gigantesco pino. Allora si inginocchiò davanti all’albero sacro e pregò che non gli mancasse il coraggio per proseguire. E prima di riprendere il cammino, come offerta, appese le sue scarpe al ramo più basso. Il giorno dopo Koná incontrò un gruppo di uomini: «Avete visto mio padre?» chiese. Ma quelli ne approfittarono per rubargli la cesta e le armi, gli legarono le caviglie e le mani dietro la schiena, e lo lasciarono lì, indifeso e senza riparo. Koná conosceva tanti racconti sulla montagna: li aveva ascoltati dalle donne, quando si ritrovavano tutte insieme per lavorare, o da papà Kalfu-kir di ritorno dai suoi viaggi, quando gli insegnava a costruire le frecce.

E così sapeva della neve che cade silenziosa e ricopre la via del ritorno, del freddo che piano piano abbraccia di un sonno mortale chi rimane fermo, del puma che attacca all’improvviso nelle bufere di neve. Nel frattempo la madre, seguendo un triste presentimento, era già partita alla ricerca del figlio. Camminava nel bosco, a volte chiamando, a volte piangendo. Trovò il corpo freddo di Kalfu-kir, con una ferita nel petto somigliante al graffio del puma: la donna pianse a lungo su quel viso tanto amato. Poi con il coltello si tagliò due ciocche dalla lunga chioma nera, le sistemò sul petto del marito e riprese a cercare il figlio.




Koná intanto aveva passato la notte al freddo. All’alba sentì che la neve lo stava ricoprendo e che la vita se ne stava andando. Allora gridò impaurito: «Mamma!» e chiuse gli occhi. Li riaprì solo quando sentì che la neve non si posava più sul suo corpo: era al riparo del grande pino. Il sacro pino aveva risposto al suo grido, aveva disseppellito le radici, aveva camminato fin lì e aveva steso i suoi rami per proteggerlo dalla neve. Poco dopo arrivò la madre che aveva distinto nella bufera le scarpe di Koná appese ai rami. Piangendo abbracciò il figlio, lo slegò e gli soffiò il suo alito caldo sulle dita gelate. Poi si inginocchiò per ringraziare il grande albero, da madre a madre, e appese le sue scarpe accanto a quelle del figlio. Insieme iniziarono a scendere verso valle, lasciando sulla neve fresca le impronte dei loro piedi scalzi. Li seguiva il sacro pino che si fermò solo al limitare del bosco, quando la sua protezione non fu più necessaria. E da allora quello viene chiamato il bosco di “Mamma pehuén” dove i pini offrono ancora i loro doni a chi li sa vedere.


La ragazza venuta dal cielo C’era una volta un uomo che coltivava le migliori patate di tutto il paese. Un mattino andò a controllare il suo campo e si accorse che qualcuno aveva rubato le patate più belle: «Stanotte sorveglierai il raccolto» disse allora al suo unico figlio. La prima notte il ragazzo tenne gli occhi spalancati: solo all’alba, ormai stanco, li chiuse per un attimo, ma bastò perché i ladri rubassero le patate. «Per questa volta ti perdono» gli disse il padre alla mattina, «ma la prossima notte vedi di non dormire!» La seconda notte il ragazzo tornò al campo deciso a non cedere al sonno, ma a mezzanotte gli occhi gli si chiusero per un istante, e i ladri rubarono ancora le patate. «Se non la smetti di dormire dovrò punirti!» gli disse il padre alla mattina. La terza notte la luna splendeva e il ragazzo tenne gli occhi ben aperti. All’alba le palpebre gli si abbassarono ancora per la stanchezza, ma stavolta riuscì a rialzarle in fretta e vide così una moltitudine di ragazze vestite d’argento che raccoglievano le patate da portare agli dèi. Il ragazzo balzò in piedi e le inseguì: riuscì ad afferrarne una per i capelli, mentre le altre sparivano come stelle cadenti in cielo.




Il ragazzo fu subito ammaliato da tanta bellezza: «Vuoi essere mia sposa?» «Lasciami andare» gli rispose la ragazza, «ti restituiremo tutte le patate! Non posso restare sulla terra, ne morirei: io appartengo al cielo!» Ma il ragazzo non ascoltò i suoi lamenti: la condusse a casa dai genitori che l’accolsero felici. Tuttavia, per impedirle di andarsene, le tolsero i vestiti d’argento e non la lasciarono più uscire di casa. La ragazza celeste divenne ogni giorno più triste, finché un mattino, mentre gli uomini erano nel campo, chiese alla donna: «Ti prego, fammi indossare solo un’ultima volta il mio vestito d’argento, e per la prima volta mi vedrai felice.» La donna non seppe resistere a quelle suppliche ma, non appena la ragazza ebbe indossato il vestito, scomparve in cielo. Tornato a casa, il ragazzo si disperò e cominciò a cercarla fin sulle cime dei monti, dove incontrò un condor.


«Ti accompagnerò io nel regno del cielo» disse il condor, «ma in cambio voglio due lama: uno da mangiare subito e l’altro per il viaggio.» Il ragazzo prese i lama da casa e tornò dal condor che divorò il primo e uccise l’altro: «Ora sali sulla mia schiena reggendo bene il lama. Dovrai tenere gli occhi chiusi, e ogni volta che ti dirò “carne” dovrai mettermi nel becco un pezzo di carne di lama. Se non lo farai ti lascerò cadere.» Detto questo, si alzò in volo. Cominciò così un viaggio che durò un anno. Ogni volta che il condor diceva “carne”, il ragazzo gliene dava un pezzo, ma un giorno che erano ormai vicini al cielo la carne di lama finì. Il ragazzo aveva una tale paura di essere lasciato cadere che si tagliò un pezzo di polpaccio e quando il condor disse “carne” gli diede da mangiare un pezzo di sé stesso. Finalmente arrivarono, ma erano stanchi e invecchiati: così si bagnarono nelle acque limpide del lago celeste e ritornarono giovani e belli. «Sull’altra sponda» disse allora il condor, «sorge il tempio del Sole e della Luna. Le ragazze stelle ogni giorno vanno lì a cantare: ci sarà anche la tua amata, non potrai confonderla perché solo lei ti sfiorerà il braccio.»



Il ragazzo si avvicinò al tempio, ma quando giunsero in fila le ragazze con le vesti d’argento non riusciva a distinguerle tanto erano simili, finché una delle ultime ragazze della fila gli sfiorò il braccio: subito riconobbe la sua amata, e si abbracciarono. «Perché sei venuto in cielo, non sapevi che un giorno sarei tornata da te sulla terra?» gli disse la ragazza e lo condusse nella propria casa. Il ragazzo aveva freddo e fame, lei gli diede cibo caldo, nascondendolo ai genitori: «Non devono vederti, altrimenti ci cacceranno entrambi.» Il ragazzo rimase chiuso lì per un anno intero e divenne sempre più triste, finché la ragazza stella gli disse: «È la terra la tua vera casa, devi tornare laggiù, altrimenti ne morirai.» Il ragazzo, nel frattempo stanco e invecchiato, si recò al lago dove trovò il condor che gli disse: «Vieni, bagniamoci un’altra volta nelle acque del lago. Poi ti riporterò sulla terra, ma appena arrivati dovrai darmi due lama.» Anche il viaggio di ritorno durò un anno, e i genitori del ragazzo lo riabbracciarono felici. Il condor venne ricompensato con due lama e la famiglia riprese la vita di sempre. Ogni tanto i genitori cercavano di convincere il figlio a prendere moglie, ma lui rispondeva sempre: «Posso amare solo la ragazza venuta dal cielo.» E ogni notte scrutava il cielo, sperando che una di quelle stelle cadenti fosse la sua amata che ritornava da lui.



L’uovo della vita Da molti mesi sull’isola di Pasqua pioveva a dirotto e soffiava senza sosta il vento dell’Oceano. I pescatori non potevano uscire in mare e le provviste di pesce secco stavano ormai per terminare: lo spettro della fame minacciava gli abitanti dell’isola. Un mattino, quando la pioggia sembrava farsi un po’ più leggera, Teao il pescatore decise di uscire con la sua piroga: «Il mare sembra più calmo, chissà che non riesca a catturare qualche grosso pesce!» «Che Make Make, il dio della vita, ti protegga!» gli augurò la moglie. Teao, armato di arpione, attese invano per ore e ore, ed era già il tramonto quando afferrò i remi per ritornare verso l’isola a mani vuote. All’improvviso, dalla cresta di un’onda, gli apparve una figura luminosa che gli parlò: «Teao, il mio cuore è triste perché la mia gente è minacciata dalla fame. Quando gli uccelli Manutara torneranno a fare il nido sull’isolotto qui di fronte, raccogli il primo uovo e portalo in cima alla scogliera rocciosa che si alza sopra le grandi statue costruite dai tuoi antenati. Allora per dodici lune sarai il mio Tangata Manu, il mio Uomo Uccello: ti trasmetterò il mio potere, i raccolti saranno ricchi e la pesca abbondante, e il mio popolo finalmente sarà felice.» Detto questo, la figura luminosa scomparve tra i flutti.



Teao, spaventato, si era inginocchiato sul fondo della canoa e non poteva credere a quanto era accaduto: “Make Make è apparso a me, umile pescatore, per salvare la nostra gente!” Il giorno dopo andò dallo stregone dell’isola per raccontargli della missione che aveva ricevuto dal dio della vita. Lo stregone allora indossò la corona di piume di gallo e danzando, seguito dai guerrieri dell’isola, accompagnò Teao alla spiaggia. L’isolotto non era lontano, ma in quel tratto di mare nuotavano gli squali e le correnti erano molto violente. Teao si fece coraggio, si tuffò, e non smise di nuotare finché arrivò all’isolotto. Lì attese per lunghi giorni l’arrivo degli uccelli mentre dalla spiaggia lo stregone e i guerrieri cantavano inni a Make Make. Finalmente, il primo giorno di primavera, arrivò un uccello Manutara che depose il primo uovo. Teao prese l’uovo, lo legò alla fronte con un nastro di stoffa e nuotò senza mai fermarsi verso la spiaggia dove la gente lo incitava gridando di gioia. Arrivato a riva si inchinò di fronte allo stregone e disse: «D’ora in poi Make Make riceverà ogni anno l’offerta del primo uovo, simbolo della primavera e della rinascita dopo il lungo inverno. Il dio della vita, allora, ci proteggerà dalla carestia.» E così, da allora, ogni anno un uomo dell’isola rischia la vita per salvare quella della propria gente.



Il grande guanaco bianco Si racconta che, tanto tempo fa, un giovane pastore incontrò il dio Yastay. Chango era ancora un ragazzo, ma già conduceva al pascolo le sue capre. Non erano molte, erano solo cinque, ma lui le chiamava: “Il mio gregge”. A quelle cinque capre Chango dedicava tutte le sue attenzioni tanto che, nonostante abitasse in una regione arida, ogni giorno riusciva a trovare acque fresche e verdi pascoli. Gli altri pastori che possedevano greggi numerose lo prendevano in giro: «Non sbagliarti a contarle!» «Sei certo che ci siano tutte?» Chango rispondeva sempre con un sorriso: «Cinque sono più di una, una è più di nessuna, e ciascuna vale più di tutto!» Finché un giorno, per burlarsi di lui, i pastori gli dissero: «Dall’altra parte della grande montagna c’è una valle con un fiume d’acqua limpida e un immenso pascolo d’erba tenera: perché non porti là le tue amate capre?» «Perché voi non ci andate?» chiese Chango. «Io ho mal di schiena...» «Per me è troppo lontano...» «Io non mi sento tanto bene...» «Io invece ci andrò!» disse Chango. «Qui i pascoli sono sempre più magri e le mie capre sempre più deboli: per loro farei di tutto!» I pastori lo guardarono allontanarsi: «Scala la montagna per loro» sussurrarono, «e ci guadagnerai la gratitudine di cinque capre!» In breve Chango iniziò la scalata. A mano a mano che saliva, i fianchi della montagna si facevano sempre più ripidi, il paesaggio sempre più spoglio, i dirupi sempre più spaventosi, ma Chango non si dava per vinto. Finché, giunto sulla cima, poté vedere la valle e spalancò la bocca per lo stupore: «Non ho mai visto nulla di simile! Un pascolo così verde, un fiume così limpido: come mai nessuno frequenta questa valle? Eppure è tutto così grande, qui potrebbero pascolare molte greggi: dovrò dirlo agli altri!»



Scese correndo, seguito dalle sue capre che saltellavano impazzite di gioia: «Mangiate, mangiate a sazietà!» disse Chango che infine si coricò sull’erba. “Che bello il mio gregge” pensò osservando soddisfatto le sue capre. “E quando la mia piccola Morena avrà un capretto, saremo in sei!” «Tra un po’ dobbiamo rientrare a casa!» disse giunta la sera. Ma proprio in quel momento il cielo si fece scuro, l’aria divenne fredda e si alzò una tormenta di vento così forte che Chango dovette aggrapparsi alle rocce per non essere trascinato via.


Le capre cominciarono a correre impaurite alla ricerca di un riparo, ma per il forte vento sbandavano e cadevano. Chango le chiamava, ma l’ululato del vento copriva le sue grida. Alla fine riuscì a radunarle e le condusse in una grotta che aveva notato poco più in alto. Ma quando le contò si accorse che ne mancava una. «Morena!» gridò, mentre usciva di nuovo nella tormenta. «Dove sei? Sei caduta in un burrone?» Dall’alto vide nella verde vallata un gregge di lama guanachi così numeroso da sembrare infinito. Nonostante la tormenta, camminavano tutti ordinati e tranquilli, come se qualcuno li guidasse. Ma non c’era alcun pastore. “A guidarli dev’esserci Yastay, il re dei guanachi, il dio protettore degli animali della montagna!” pensò Chango. Allora cominciò a gridare: «Yastay, ti prego aiutami: ho perduto la mia Morena!» e si mise a correre verso il gregge nella valle finché, nella tormenta, notò qualcosa sulle rocce: «La mia Morena!»


Avvicinandosi vide che non era Morena. Il vento era d’improvviso cessato, e un grande meraviglioso guanaco bianco lo fissava in silenzio. «Sei ferito? Devi esserti perso!» disse Chango. «Il tuo gregge è là sotto: non temere, mi prenderò cura di te e ti riporterò da loro...» Non fece in tempo a dire quelle parole che il grande guanaco bianco era scomparso: al suo posto c’era Yastay, il piccolo dio con una mano morbida di lana, per accarezzare, l’altra mano dura di piombo, per castigare. Chango s’inchinò. «Hai il cuore buono, piccolo Chango: dimmi cosa desideri.Vuoi oro? Argento? Un gregge immenso?» «Ti ringrazio grande Yastay: voglio solo che mi aiuti a trovare la mia Morena.» Al piccolo dio luccicavano gli occhi per la commozione: «Torna nella grotta: là troverai quel che è tuo!» Detto questo,Yastay si trasformò in vento. Nella grotta Chango ritrovò la piccola Morena insieme alle altre e, lì accanto, un enorme sacco pieno di monete d’oro e d’argento. All’alba il giovane Chango, con il sacco sulle spalle, riprese il cammino verso casa seguito come sempre dalle sue cinque capre. Quella mattina spirava un vento sottile: Chango chiuse gli occhi per sentire meglio quel soffio dolce sul viso. Sentì che il vento lo accarezzava morbido, come fosse lana.



Kai Kai e Treng Treng Nella notte dei tempi si alzò dal mare un gigantesco serpente che cominciò a gridare sempre più forte: «Kai! Kai!» provocando così una pioggia che crebbe sempre più d’intensità e si trasformò in diluvio. Per salvarsi dalle acque che stavano inondando la terra, gli uomini cominciarono a salire sulle montagne, ma l’acqua continuava a crescere. Allora pregarono il dio creatore che, rendendosi conto del grave pericolo che stava correndo l’umanità, modellò con il fango un serpente buono: «Treng Treng è il tuo nome» disse, e con queste parole gli diede vita. Gli uomini, ormai giunti sulle cime dei monti, udirono una voce che proveniva dalle profondità della terra: «Treng! Treng!» Era il serpente divino che veniva in loro soccorso. Così cominciò una furiosa lotta tra i due giganteschi serpenti: mentre Kai Kai gridava sempre più forte e, con la pioggia, faceva crescere il livello delle acque, Treng Treng faceva tremare la terra e la sollevava sempre più in alto. Vedendosi sconfitto, Kai Kai si inabissò nelle profondità del mare. Da allora, quando piove forte e si alzano le acque dei fiumi e dei laghi, si può sentire il grido: «Kai! Kai!» Ma Treng Treng sta sempre all’erta e così, prima che Kai Kai sommerga tutto, lo caccia in mare con il suo potente verso: «Treng! Treng!» che fa sollevare la terra e scorrere via le acque.



Elal, il primo bambino Non appena ebbe formato il mare, il dio creatore si dedicò al suo capolavoro: fece emergere dalle acque un’isola meravigliosa e la abitò di tutti gli animali. Il Sole, il Vento e le nubi la trovarono così bella che si misero d’accordo perché la vita su quell’isola fosse dolce. Il dio creatore, soddisfatto, attraversò il mare e scese sotto l’orizzonte.



Nel frattempo, però, l’Oscurità fece nascere sull’isola i propri figli: i giganti. Un giorno, il loro terribile capo, Noshtex, rapì la nube Teo e la rinchiuse nella sua caverna. Allora le sorelle di Teo s’infuriarono e scatenarono sull’isola una grande tempesta. Subito il Sole volle sapere il motivo di tanta rabbia: «Noshtex ha rapito nostra sorella» dissero. Quella stessa sera, quando scese sotto l’orizzonte, il Sole raccontò tutto al dio creatore che disse: «Chiunque abbia rapito Teo sarà punito. Teo infatti avrà un figlio, Elal, che diverrà più forte del capo dei giganti.» Il Sole raccontò al Vento quella profezia, che in breve si diffuse su tutta l’isola. Noshtex allora ebbe paura: «Li mangerò entrambi: la nube e suo figlio!» disse. Così cercò il bambino all’interno della nube Teo, mentre dormiva: lo trovò e si preparò a divorarlo. Qualcun altro però, nella caverna, aveva ascoltato la profezia portata dal Vento. Era Terr Werr, una femmina di tuco-tuco, un roditore che aveva la tana in fondo alla grotta. Morse un dito del piede del gigante, prese il neonato e lo nascose nella sua tana.


Noshtex urlò per il dolore, e cominciò a cercare Elal nella caverna facendola tremare con i suoi passi giganteschi. Appena venne notte, Terr Werr riuscì a scappare, nascose Elal nel canneto di una laguna e chiese aiuto agli altri animali. All’alba Noshtex arrivò a grandi passi verso la laguna, ma fece appena in tempo a vedere un cigno con il bambino sul dorso prendere la rincorsa e alzarsi in volo. Dietro al cigno si levarono gli altri uccelli, lo seguirono le nubi, tra cui Teo fuggita dalla grotta, il Vento, il Sole, i pesci nell’acqua e, aiutandosi l’uno con l’altro nuotando nel mare, tutti gli animali dell’isola, che di colpo si svuotò. I giganti, rimasti senza cibo, morirono tutti, mentre il corteo guidato da Elal popolò una nuova terra che il dio creatore aveva formato prima di scendere sotto l’orizzonte.


Il cigno posò Elal sulla cima di una montagna innevata. Per tre giorni e tre notti gli uccelli gli portarono cibo e lo protessero con le loro morbide piume. Il quarto giorno, gli si fecero incontro due fratelli, il Freddo e la Neve: erano furiosi perché fino a quel momento erano stati loro i sovrani di quella terra. Elal li sconfisse facilmente inventando il fuoco. Poi Elal inventò l’arco e lanciò le sue frecce per allontanare il mare e allargare così la terra. Inventò le stagioni, rese mansueti gli animali, e modellando statuine di fango creò gli uomini e le donne: i Tehuelches. A loro insegnò a riconoscere le impronte degli animali, a fare richiami, a fabbricare armi, ad accendere il fuoco, a cucire mantelli, a preparare il cuoio per le tende, e tanti altri segreti che solo lui conosceva. Alla fine Elal, quando ritenne concluso il suo compito, riunì tutti i Tehuelches per congedarsi da loro: «Me ne vado, ma non voglio onori. Piuttosto trasmettete i miei insegnamenti ai bambini che nasceranno, in modo che i segreti dei Tehuelches non muoiano mai.»

Elal chiamò il suo vecchio compagno, il cigno. Salì sul suo dorso e insieme si alzarono in volo sul mare. Elal allora accarezzò il lungo collo dell’uccello e gli sussurrò: «Avvertimi quando sei stanco.» Così, quando il cigno si lamentava, Elal lanciava una freccia verso il basso e ogni volta emergeva dal mare un’isola dove il cigno poteva atterrare e riposarsi. Alcune di queste isole si distinguono ancora dalla costa, e in una di esse, molto lontano, vive Elal. Seduto di fronte a un fuoco che non si spegne mai, ascolta le storie che gli raccontano gli antenati dei Tehuelches che ogni tanto arrivano su quell’isola lontana per stare un po’ con lui.



Disegna le tue costellazioni nel cielo del Cile



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