freakout
giugnoluglioagosto2006
Freak Out magazine # 40 N°6 della testata giornalistica registrata al tribunale di Torre Annunziata il 17/07/2003 n° 9 Freak Out Magazine C.P. 166, 80059 Torre del Greco (Na) Italia per la pubblicità info@freakout-online.com Direttore editoriale e di redazione: Giulio Di Donna Capo redattore: Daniele Lama Segreteria organizzativa: Sara Ferraiolo, Antonio Ciano Redattori: Roberto Villani, Luca M. Assante, Gerardo Ancora, Roberto Calabrò, Fausto Turi, Francesco Raiola, Guido Gambacorta. Redattore Cinema: Sandro Chetta Collaboratori: Vittorio Lannutti, Roberto Urbani, Pasquale Napolitano, Francesco Postiglione, Pierpaolo Livoni, Alfonso Tramontano Guerritore, Luigi Ferrara, Lorenza Ercolino, Lucio Carbonelli, Ciro Calcagno. direttore responsabile: Roberto Calabrò Distribuzione Nazionale garantita da : Wide, Audioglobe, Family Affair, Self, Venus, Eaten by Squirrels. Roma: Disfunzioni Musicali, Brancaleone, La Palma, Rinascita Milano: Supporti Fonografici, La Cueva, Rolling Stone, Bologna: Il Covo, Disco D’oro, Undeground, Link, Estragon Reggio Emilia: Maffia Firenze: Tenax, Auditorium Flog Torino: Barrumba, Zoo Catania: Zo,
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Stavolta tocca al football. Com’era e com’è. C’era il mundial in Spagna e oggi in Germania. C’era il calcioscommesse e ora c’è la splendida collezione di scheletri nell’armadio del calcio italiano, quello più bello del mondo. Videogiochi. “Soccer” era un gioco del commodore 64: verso la metà degli anni 80 si giocava in casa di chi ce l’aveva. In genere si trattava del compagno di classe col padre che faceva o il rappresentante (di che?) o il gioielliere. Il monitor lampeggiava giallo e la cassetta per caricarsi ci metteva dai 20 ai 65 minuti. Allora si apprese malgrado tutto il significato del termine inglese “load” (caricare). Da moderni l’abbiamo poi fatto nostro, parlando ogni giorno con gli amici di Matrix re-loaded e con la polizia postale di “download”. Ciò che più impressionava la fantasia nelle partite al computer del 1984 era la mancanza di destrezza del portiere: nonostante il chiaro movimento di joystick equivalente a “vai, para”, tutto quello che avevamo in porta erano tre pixel e mezzo con l’ernia. Quanti gol presi così. Con la playstation ipervitaminica la prospettiva è cambiata. Quello con l’ernia sei tu. Calciomercato. Venti anni fa molti di noi credevano che i calciatori si comprassero come si acquistano le carte del mercan-
cloachetta di Sandro Chetta
te in fiera. Oppure come faceva Oronzo Canà-Lino Banfi a Mirafiori. Tipo: voglio Galderisi, ti do due miliardi (di lire) più la comproprietà di Lory Del Santo. Ti garba un Alemao? Dammi cinque miliardi più una fornitura di erba albanese non tagliata per sei mesi. Adesso non si fa più così. Il giro è più largo, ci sono interessi grossi in ballo, altro che la compravendita di post-adolescenti in mutande che battono calci d’angolo. Esempio di “giro largo”: per opzionare Eto’o del Barcellona devo prima quotare in borsa la ditta traslochi del quartiere, rivenderne due milioni di azioni a una srl di Bombay controllata al 52% dal procuratore del cugino di quarto grado di Eto’o e – contemporaneamente - promettere al giocatore due mesi da tronista a “Uomini e Donne” con assicurazione via mail di Confalonieri. Figurine. Non come oggi che ti capita due volte a doppione Simone Inzaghi che ha messo incinta la Marcuzzi e devi stare pure zitto. No: negli anni 80 c’erano facce da manovali come Magnocavallo della Lazio e Pusceddu, a volte Udinese altre Ascoli. I calciatori
non andavano a vallette sostanzialmente perché molti guadagnavano quanto un metronotte e inoltre, a differenza degli anni 70, erano tutti brutti. Quasi tutti: nel campionato 88-89 si confrontavano a distanza di poche pagine (le squadre nell’album erano in ordine alfabetico) Milan e Napoli. Sulle figurine i rossoneri, già television oriented, presentavano volti da reclàme dell’acqua di colonia: Costacurta, Maldini, Colombo, Van Basten. Gli azzurri invece precipitavano nell’abisso estetico sfoggiando calibri quali De Napoli, Sola, Ferrario, Bruscolotti: uno tra questi 4, ma non diciamo chi, sembrava un reduce dall’assedio di Stalingrado.
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interviste
Tying Tiffany “Undercover”, disco di debutto di Tying Tiffany, è un concentrato di electrodisco-punk ballabile, sexy e divertente. Tiffany, già bassista/cantante in rock band dai nomi improbabili (Il Forno del Buon Pane, Prek, Kyoto-Nua’), è un po’ la risposta italiana a personaggi come Peaches, Lesbians On Ecstasy e Chicks On Speed. Alcuni di voi avranno avuto anche modo di ammirarla sul sito Suicidegirls.com, o nel film “La lingua del santo” di Carlo Mazzacurati. Nessuno, in ogni caso, potrà mettere in dubbio che (ricordate la canzone del trashissimo duo Sabrina Salerno/Jo Squillo?) “oltre alle gambe c’è di più”…(n.b. l’intervista “integrale” la trovate sul nostro sito) Ho letto nella tua biografia che suoni da un bel po’ di anni, ma non so quante persone lo sappiano. Non ti da’ fastidio pensare che la gente possa considerarti come l’ennesima bella ragazza che si fa “passare lo sfizio” di fare un disco? Penso sia normale non avere tutti dalla propria parte, se qualcuno la vede in questo modo è un problema suo, non mi va di dimo-
strare ciò che ho fatto o ciò che sono solo perchè qualcuno lo mette in dubbio. Il tempo poi dimostrerà che non è uno sfizio. Da dove nasce l’infatuazione per l’elettronica (ho letto che hai suonato in delle band punk rock, prima di “diventare” Tying Tiffany)? C’entra qualcosa il fatto che sia un tipo di musica realizzabile più facilmente in totale autonomia da altre persone? Sicuramente l’elettronica ti consente di lavoraci sopra autonomamente, in qualsiasi momento che tu abbia una ispirazione, ma poi comunque per quanto mi riguarda il lavoro successivo, cioè il completamento di un pezzo, lo svolgo assieme alle persone che poi suonano con me nei live, Mi ha sempre stimolato l’idea della band, forse proprio per le esperienze passate. Come stanno andando i concerti? Come reagisce il pubblico? Conoscono la tua musica o credi siano più interessati a qualcos’altro? Com’è il tuo live? Quale aspetto della tua musica viene maggiormente fuori? Quello “punk” o quello più “danzereccio”? I concerti stanno procedendo molto bene, ho suonato in locali diversi tra loro e il consenso c’è stato, cantano anche le canzoni, questo è bello! Chi viene ai miei concerti lo fa per un insieme di curiosità, chi per la musica chi per altro, alla fine rimangono comunque entusiasti e si divertono, e questo è quello che mi interessa maggiormente. Il live si presenta con una band, l’approccio è sicuramente più punk’n’roll rispetto all’album, ma non manca la parte più “danzereccia”, soprattutto nei brani finali, c’è una sorta di elettronica che sfiora la psichedelia. Ti consideri una provocatrice? Ha ancora senso parlare di provocazione? Molti dicono di no, ma poi si assistono a fenomeni come i milioni di libri venduti da Melissa P… che ne pensi? Non mi considero una provocatrice, quello che faccio e quello che dico, è quello che sono, la provocazione c’è per chi ne vuole subire il fascino. Per quanto riguarda Melissa P, non l’ho letta. Ho seguito un po’ le polemiche e come sempre parlare di sesso come cosa sensazionalistica sembra essere una delle cose più interessanti per tv e media vari, probabilmente perché molti non riescono ancora a viverlo tranquillamente, ma lo vedono con morbosità. www.tyingtiffany.com Daniele Lama
Controller.Controller Molti li considerano una delle promesse della nuova stagione musicale. I Controller.Controller arrivano dal Canada, e col recente disco d’esordio ‘X-Amounts’ sono riusciti a fondere spessore e divertimento un po’ à là Franz Ferdinand. Parliamone con il chitarrista della band, Scott Kaija.
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La musica dei Controller.Controller sembra un concentrato di chitarre indie rock e dance music: due attitudini difficili da sintetizzare. Vi piace far ballare la gente? Naturalmente! Ci piace il modo in cui il suono riesce a provocare un’autentica reazione fisica nelle persone. Può capitarti di non resistere, di muovere i piedi e dondolare la testa al ritmo di una musica che magari neanche ti piace... Questa è la nostra grande ambizione: far ballare persino chi non vuole! Mi pare che abbiate fatto un primo tour europeo, senza date italiane, in Aprile; cosa potete raccontarmi di questa esperienza? Si... ora invece stiamo attraversando il Nordamerica; devo dirti che gli europei trattano gli artisti con più rispetto di quanto non si faccia qui. C’è una sacrosanta considerazione per le piccole o grandi cose che sai fare, e che sul palco possono fare la differenza. E’ stato un po’ frustrante ricominciare a suonare a casa nostra: qui le r’n’r bands sono carne da macello... Preferite suonare dal vivo, o vi considerate un gruppo rock che da il meglio di sè in studio? La vostra musica
sembra fatta apposta per le grandi arene, con un mucchio di gente sotto un palco... Probabilmente rimaniamo prima di tutto una live band: c’è un’energia nei nostri show che non siamo mai stati capaci di riprodurre perfettamente in un’incisione. E ciò indipendentemente che suoniamo in un microscopico club o in un’arena. Ora però desideriamo ritornare in studio a registrare roba nuova, dopo esser stati in giro per due anni a suonare sempre le stesse canzoni del disco d’esordio. Spesso i vostri testi parlano di romantiche, problematiche storie d’amore con crisi e litigi finali; chi scrive i testi, nei Controller.Controller? La maggior parte dei testi li scrive Nirmala, e non ti so dire molto dei contenuti, ma so che le piace mantenere una certa ambiguità nelle cose, così che ognuno potenzialmente possa relazionarsi alla canzone in un modo personale. In Italia, al momento, il più famoso gruppo rock alternativo canadese sono i più “seri” e sofisticati Broken Social Scene... Beh, i Controller. Controller in effetti sono più
energici e rock’n’roll... Loro sono dei grandi, e pensa che esordirono per la nostra stessa etichetta canadese. Adesso hanno sfondato, ovviamente, ed è una gran cosa la visibilità internazionale che da loro, di riflesso, arriva a gruppi come noi. Tu e l’altro chitarrista Colwyn LlewelynThomas, sembrate avere una grande attitudine rock; avete ascoltato molta grunge music, nel passato? Ovviamente siamo stati presi da tante cose differenti, nel corso degli anni: dal blues alla dance music... ma quando andavamo a scuola, all’inizio degli anni 90 ascoltavamo molto grunge, e questo ha avuto qualche effetto, sul nostro modo di suonare. Attualmente però non ne ascoltiamo più. Ho letto in internet che un anno fa, dopo la tragedia dello tsunami nell’Oceano indiano, la vostra cantante Nirmala Basnayake si impegnò molto per raccogliere denaro esibendosi in vari benefit concert, in Canada. Forse avverte qualche legame, con le suo radici indiane? è nata in Canada, Nirmala? Nirmala è una ragazza canadese di origini cingalesi; le piace aiutare la gente in generale, e non si fa coinvolgere solo dalle proprie radici etniche. Noi qui abbiamo tutti differenti radici etniche, e di ciò siamo molto orgogliosi, anche perchè è proprio questo che ci rende ancor più tipicamente canadesi. i Controller.Controller sono un mosaico culturale in miniatura. Fausto Turi www.controllercontroller.com
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cinema 4
Si vendette la collezione di francobolli e divenne Nanni Moretti Quasi trent’anni fa esplose il fenomeno di “Io sono autarchico”. Un film che non aveva una distribuzione d’alto profilo ma, anzi, era stato girato grazie all’ostinazione dell’autore che si privò della sua collezione di francobolli per comprare una super8. Fu quello il principio di una delle carriere più significative per il cinema italiano che si trovò a fare i conti con Nanni Moretti, spigoloso personaggio animato da una vena autoriale ipertrofica e totalizzante. Il binomio pubblico/privato fomenta la figuratività di Moretti che fin dagli esordi ha sempre voluto legare impeti personalissimi con sistemi estranei ed alieni. Escluso “Io sono Autrachico”(1976), il suo cinema attanaglia le trame narrate con debordante protagonismo, si chiami esso Apicella, Don Giulio o, infine, Giovanni. In stato embrionale “Ecce bombo” (1978) dà la possibilità di scrutare lo stile morettiano sganciato dal resto della produzione filmica dell’Italia, anche se quest’ultima non ravvisò queste distanze siderali. Già dal suo secondo lungometraggio il conflitto tra bisogni propri ed altrui non suggerisce pedagogicamente dibattiti di carattere sociale, ma traspone la vacuità ideologica di quelle generazioni di transizio-
Pillola retrospettiva sul regista italiano meno amato e più ammirato ne, grazie ad amari giochi parodistici. I movimenti di macchina, rari, preludono ad un dibattito post-sessantottino, ma ciò svia dalla strada maestra di un cineasta assolutista ed irriducibile agli schemi politici. Allora ci si chiedeva se il talento del capellone Nanni dovesse innervare la celluloide politica di quegli anni tribolati, ma già il seguente “Sogni d’Oro” (1981) non sfruttò questa aspettativa mostrando interdipendenze con ben altre concezioni autoriali. Sbugiarderà queste attese anche il Moretti di “Bianca” (1984), un film poliziesco-giallo in cui il protagonismo dell’autore, insano (ma burlesco), spinge a sondare una personalità con morbosa complicità. “Mi sa che mi troverò d’accordo sempre con una minoranza di persone”, così il Nostro recita in “Caro Diario” (1994) parlottando imprudentemente con un automobilista al semaforo: in verità il regista mente, con le sue pose bofonchione, smentendo la problematicità ravvisabile in tutta la sua produzione. L’affanno spigoloso di Moretti si vivacizza quando vuole dimostrare la propria fiducia nelle persone, negli altri, magari intraprendendo paturnie corre-
date di ultimativi giudizi – vedi il finale tenebroso de “Il Caimano” (2006). Ulteriore testimone di questa tensione è Don Giulio, ultraviolento prete de “La messa è finita”(1985), figura che sbugiarda il proprio aspetto curiale rivendicando una irrimediabile fisicità. Il parroco si delegittima da officiante della funzione religiosa ammettendo il disfacimento del proprio “contratto con la minoranza” («Non vi ho saputo aiutare»), primo scalino per una fantomatica salvazione non connotata religiosamente. Il recupero della collettività, non intesa come società nella sua bieca globalità, si sviluppa in maniera spietata con “La stanza del figlio” (2001). Il Giovanni psicologo, padre e marito registra il sabotaggio della propria organizzazione vitale in un triangolo di sembianze speculari. Falliscono la sua giuntura coniugale, i raffronti filiali ed, infine, il mestiere di aiutare e ascoltare i suoi clienti psicotici. Il protagonista del film, premiato a Cannes con la Palma d’oro, azzarda la parossistica accusa al paziente Silvio Orlando tant’è vero che in lui individua il principio del proprio sfascio totale ( la morte del figlio, appunto). Quando si
accenna un aggancio identitario tra il proprio sistema autoriale e quello esterno, l’accettazione forzosa del circostante lascia il posto al rifiuto autarchico. Non a caso in “Bianca”, gli amici che s’appressano all’ondivaga vita amorosa di Michele devono essere puniti per la loro disobbedienza; come d’altronde Don Giulio sprezza chi imita il suo chiuso anacoretismo e chi, scimmiottando i suoi intendimenti filantropici, tenta di aiutarlo. Anche in “Palombella Rossa”(1989) c’è l’esplicitazione di questo progetto, non scevro di slanci politici, da cui parte il viaggio smemorato dell’ultimo Apicella. Il pretesto è la pallanuoto, sport di squadra in cui è determinante il gesto individuale (il rigore, il pallonetto a foglia morta del titolo), vero elemento caratterizzante di qualunque evento morettiano. In questa pellicola, si riprende uno squarcio di un datato cortometraggio del regista (“La sconfitta”) in cui afferma :«Ma che ci frega a noi dei desideri delle masse?» Roberto Urbani
intesvista
artensembleofchicago scoltare il fluire fermo delle parole dell’ leader dell’Art Ensemble of Chicago ha qualcosa di sciamanico. La gioia disincantata espressa dal suo furore è fedele rappresentazione dello stato di salute di una band al suo trentanovesimo anno di attività, ed alla sua ennesima mutazione, prima di partire per un lungo tour europeo. Nel buen retiro di Pomigliano d’Arco, loro patria adottiva, ci parla del futuro, non senza qualche remora. Com’è che siete così affezionati a Pomigliano d’Arco? Una domanda che non mi hanno mai fatto! [smorfie di scherno]: pubblico simpatico, ricette gastronomiche, un Jazz Festival con un bel programma. Poi è un posto tranquillo, dove possiamo lavorare concentrati, tentando di essere disciplinati. Che tipo di rapporto instaurate con gli artisti con i quali collaborate? C’è cooperazione e condivisione, nessun atteggiamento di gelosia. Non ci sono ruoli determinati, come “il sassofonista vero” o “il percussionista vero”, io posso dire al sassofonista “fai così” [mima] e lui può dire a me “fai bum bum bum” [mima ancora]. Uno stato di totale condivisione. C’è qualche musicista con cui hai suonato che ti è rimasto partico-
A
larmente nel cuore? [rivolgendosi al promoter]: Franco, hai portato la lista di tutti i musicisti con cui ho suonato?!, è una lista lunga così [quantifica con un gesto delle mani]. Uno che di recente mi è piaciuto è Paolo Fresu, ha un grandissimo quartetto, ed anche con Roberto Gatto alla batteria è grandissimo. Di internazionali... la lista è lunghissima! E qualche musicista in particolare con cui vorresti collaborare? Ho già abbastanza problemi a suonare con tutti quelli che conosco! Comunque riempirebbero un’altra lista altrettanto grande. Ci saranno novità in questo quarantesimo tour mondiale? Bisognerà che tu veda il concerto, non posso parlare di queste cose. Perché poi se lo dico prima ai giornalisti, loro cambiano sempre quello che dico: se io dico “bla bla bla”, loro scrivono “blablablablabla blabla bla bla”. Non mi sembra una buona idea. Tornerete a Pomigliano dopo il tour? Torneremo a Pasqua, a mangiare la pastiera, e poi al prossimo Pomigliano Jazz. Abbiamo già parlato di Art Ensemble of Chicago più Art Ensemble of Soccavo, un grande meeting. Proprio a Pomigliano impegnato da anni nell’ insegnamento della musica ai bambini. Cosa in parti-
colare vuoi insegnargli? Il ritmo e poi? Solo il ritmo! [mi sgrida]. Con loro è facile, perchè non sono distratti da pensieri troppo “reali”, dalla varie imposizioni sociali. Sono pù aperti. Mi hanno insegnato che la musica è facile, la vita è difficile. Che cos’è lo swing? E’ un sentimento, Non un modo di vivere. Il ritmo è il mio modo di vivere. Pino Daniele è swing, Peppe Barra è swing... la tammurriata nera: ritmata senza essere jazz... come Vivaldi. In cosa, nell’attuale suono degli Art Ensemble, è rimasta l’impronta di Lester Bowie? In ogni nota. Ogni nota si riferisce alla storia. anche in memoria di Malachi Favors. [bassista storico del gruppo, scomparso l’anno scorso]. Qual’ è il rapporto tra la vostra musica e quella etnica africana? Per esempio nelle esibizioni live insieme a percussioni jazz, ne utilizzi altre di tradizione afro... Anche afghane, giapponesi, indiane... È un misto. Perciò ti domando del tipo di relazione che c’è con la tra-
dizione afro. Devi ascoltare questo! [Il disco insieme a Marco Zurzolo, da poco edito dall’etichetta di Pomigliano Jazz ] Come vi siete conosciuti con Marco Zurzolo? Per me Marco è “the best rithm of Napoli”. L’ho conosciuto nell’edizione 2001 del Pomigliano Jazz. L’Art Ensemble è un pezzo di storia della musica, e durante questa storia sono cambiate molto le tecnologie... In peggio Perché? Più macchina e meno umano. Quello che gli altri chiamano postmoderno io la chiamo disumanizzazione. Appresso alle macchine si perde il sentimento, la realtà del suonare. La musica fatta con le macchine è per quelli che non vogliono studiare. Qual‘è il tuo rapporto con quello che è normalmente definito jazz d’avanguardia? Non ci consideriamo musicisti jazz. La nostra è la musica classica nera americana. Come quella di Charlie Mingus. PasQuale Napolitano http://artensembleofchicago.com/
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A
nostro. Ciò si evince facilmente dal fatto che per registrare il primo album ci abbiamo impiegato due anni, al contrario dell’ultimo che è stato concepito in sei mesi… La vostra formazione è abbastanza nutrita, vi si potrebbe definire quasi una piccola indie-orchestra.
Che tipo di organizzazione vige al vostro interno, specie in termini di songwriting? C’è voluto del tempo per raggiungere la nostra identità. Quando ci siamo formati, circa sei anni fa, non avevamo ancora le idee ben chiare sul sound che volevamo ottenere. La situazione si è fatta più nitida all’epoca del nostro primo album
configurazione stessa degli AIH che non a precise scelte artistiche… In parte è così. Per il nuovo disco siamo comunque partiti con l’intenzione di creare un suono che fosse il più possibile “orchestrale”. Aggiungici il fatto che ascoltiamo musica d’ogni tipo e siamo ben otto persone ad avere quest’attitu-
dine ed avrai un quadro più chiaro della situazione… Avete mai pensato che forse un’eccessiva varietà stilistica avrebbe potuto confondere i vostri ascoltatori? Sicuramente chi ci ascolta per la prima volta può avere una simile sensazione….Dal nostro punto di vista, però, ciò che ci spinge ad essere dei musicisti è proprio la voglia di sperimentare continuamente nuove soluzioni musicali e non abbiamo nessuna intenzione di cambiare atteggiamento… Il titolo dell’album, “ In Case We Die” sembra una sorta di prematuro “testamento”: non vi sentite troppo giovani per una siffatta eventualità? Oddio, in verità, non ci siamo posti il problema…siamo tutti sopra i vent’anni e ci auguriamo di vivere ancora a lungo… In realtà non so cosa risponderti, forse avresti dovuto rivolgere questa domanda a Cameron (Bird, voce, chitarra e synt degli AIH, ndr.) che lo ha scelto… LucaMauro Assante www.architectureinhelsinki.com
johnparish
a per quale ragione un musicista/produttore del calibro internazionale di Parish -che ha collaborato in passato con PJ Harvey, Giant Sand, Sparklehorse, Eelspuò rimanere stregato dall’Italia e dalla Sicilia in particolare, al punto di realizzare qui da noi (il resto in Inghilterra e Danimarca) buona parte del suo nuovo album? Beh, lui sostiene che qui ha trovato un modo nuovo di lavorare: senza pressioni, calcoli, tecnologia invasiva e senza la sensazione opprimente di controllo assoluto su tutto che c’è in certi grandi studi d’incisione, che soffoca la creatività.
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(“Finger Crossed”, ndr.), quando siamo definitivamente diventati otto elementi nel gruppo. Allora abbiamo capito meglio che strumentazione avremmo potuto usare. In generale, ci piace attingere dai più disparati tipi di musica e non fossilizzarci su di un preciso genere. Evolverci è una costante per noi anche se nulla di ciò che abbiamo fatto è stato granchè premeditato. Quindi i tanti riferimenti musicali presenti nelle vostre canzoni sono dovuti più alla
architectureinhelsinki
special
intervista
rchitecture In Helsinki: i “canguri” venuti dal freddo? Non sono particolarmente amanti dell’arte né nord-europei gli Architecture in Helsinki. Già dal nome, però, si evince la loro natura bizzarra, come dimostra il loro ultimo album “In Case We Die”. Il “corposo” (ben otto elementi) gruppo di Melbourne ama creare simpatici “divertissement”, il cui patchwork sonoro rasenta la schizofrenia. A detta del loro bassista, Sam Perry, ciò è dovuto in massima parte alle diverse influenze musicali in seno alla band. Una constatazione quasi lapalissiana, difficile da contraddire…: Quanto siete cambiati tra il primo ed il secondo album? Col primo disco abbiamo cercato semplicemente di capire dove volevamo andare a parare musicalmente. Per noi quello è stato un momento molto delicato… Attualmente ognuno di noi si sente assai più sicuro come strumentista ed anche Cameron è stato capace di perfezionare il suo modo di cantare col tempo… Prima andavamo avanti per tentativi mentre ora siamo più sicuri del fatto
Senz’altro la cricca catanese di Cesare Basile, Hugo Race e Marta Collica lo ha introdotto molto bene nell’ambiente della musica indipendente italiana mettendolo a suo agio, così questo disco può uscire per la nostrana etichetta Mescal, e si va ad aggiungere ad una serie ormai considerevole di recenti collaborazioni tra artisti italiani e stranieri. ‘Once Upon a Little Time’ (Mescal) è prodotto in maniera superlativa, e del resto cos’altro attendersi da uno che ha dato l’impronta in studio a dischi impeccabili quali ‘To Bring you my Love’ di PJ Harvey, ‘Chore of Enchantment’ dei Giant Sand o ‘Gran Calavera Elettrica’ di Cesare Basile?
Elegante dalla prima all’ultima traccia, qua e là persino troppo ‘classic rock’, con un appeal maturo che a me ricorda -in primis per la voce, sarete daccordo- il Lou Reed dandy e cinico di ‘Coney Island Baby’, annata 1976 (ascoltate le ballate ‘Choice’ e ‘Glade Park’), ma anche inevitabilmente Howe Gelb, amico di Parish, in special modo negli episodi veramente folk del disco. ‘Once Upon a Little Time’ decolla per davvero nella seconda metà: qui troviamo ‘Kansas City Electrician’, ‘Nobody Else’ ed il lo-fi ‘Even Redder than that too’, che sono poi gli episodi più ‘sporchi’ e rugginosi grazie agli incisi di chitarra di Hugo Race; ma a dirla tutta è anche nelle (troppe?) arie notturne d’atmosfera che Parish si rivela quale compositore e chitarrista di qualità: lo strumentale ‘Stranded’, o la splendida conclusiva ‘The Last Thing I Heard her Say’ (che per forma e lirismo decadente avrebbe fatto la sua bella figura sugli ultimi lavori in studio di Bob Dylan) mettono i brividi, anche se sono pronto a scommettere che chi del folk americano ama le cose più ritmiche e movimentate rischia di non restare sodisfatto da un lavoro cesellato e malinconico come questo ‘Once upon a Little Time’. Metterà invece tutti daccordo ‘Even Redder than that’, proposta in duplice
veste: all’inizio del disco in versione acustica, ed alla fine in versione elettrica lo-fi: una scelta curiosa che in ogni caso diverte. Agli strumenti John è sostenuto da un’affiatata e prestigiosa band di amici: Marta Collica, Giorgia Poli (ex Scisma), Jean-Marc Butty (Venus) ed Hugo Race (ex Bad Seeds): in pratica Parish compreso- la line-up del progetto ‘Songs for other Strangers’ che nell’Inverno del 2004 girò l’Italia in tour con Manuel Agnelli e Cesare Basile (e che finora non si è concretizzato in un’uscita discografica). Non è un cantante, John: lo sa e dunque non azzarda al microfono linee vocali complesse e tonalità troppo alte; piuttosto sussurra, racconta, descrive con voce poco aggraziata immagini di vita quotidiana e retroscena interiori, in cui noi esseri umani siamo dipinti come pugili (‘Boxers’), e così “troviamo nobilitazione nella violenza” e di continuo “finiamo al tappeto e veniamo contati”. Se poi vi state chiedendo cosa rappresenta il vulcano che erutta sulla copertina del disco, beh: in ‘Even Redder than that’ John paragona ad un vulcano la donna: “si sa che la donna è come un vulcano, faresti meglio, amico, a pregare che non si svegli”. www.johnparish.com Fausto Turi
intervista
matmos Matmos rappresentano probabilmente lo stato dell’arte dell’elettronica, nonché una delle compagini più vitali e ben costruite. In questo disco di ritratti fanno suonare rose, macchine da scrivere, lumache, secondo un’idea di suono raramente così consapevole. E’ interssante il filo conduttore che unisce i vari personaggi (artisti, pensatori, pornografi, scrittori) che avete scelto di omaggiare in questo concept album. Perchè privilegiate in modo evidente la forma del concept album?
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M.c. Schmidt: Penso che tutti i musicisti partano da un concept, anche quelli che lavorano su una canzone alla volta. Noi usiamo l’espediente del concept per superare la “sindrome della pagina bianca”. Si potrebbero fare album di canzoni sul NIENTE, ma significherebbe non sapere da dove cominciare, così usiamo il concept come linea guida...ma non credo proprio che sia il nostro UNICO modo di comporre! E’ particolarmente illuminante la scelta di alcuni di questi personaggi. Wigtenstein in particolare con il “Tractatus” è tra i primi studiosi a concepire forme di classificazione dei materiali secondo dei principi d’ordine, proprio come un dj che avesse a che fare con un sequencer e la scelta dei campioni. E Bourroghs, teorico del cut-up, è un riferimento essenziale di tutta la cultura elettronica. Sono due “pensatori elettronici” ante litteram. Questi i motivi che vi hanno portato a riflettere su di loro? E Quali i motivi per cui scelta è caduta su tutti gli altri? Drew Daniel: Quella di Wittgenstein è stata un’ossessione per molti anni della mia vita. Poco prima della laurea abbandonai filosofia per letteratura, in parte perché credevo fermamente nelle posizioni del primo Wittgenstein per cui il linguaggio era l’aspetto fondamentale del comportamento umano. Ero convinto delle sue idee, in modo piuttosto patologico. Ora ho
acquisito una certa distanza critica, ma questo pezzo è stato una chance per ritornare alla mia infatuazione. Allo stesso modo, ci siamo formati con molte delle idee di Bourroughs - è sua la prima descrizione del sesso gay che io abbia mai letto, in Soft Machine, così ho cominciato a pensare anche ad una sessualità modulabile, tramite il cut-up. Per ciascun personaggio c’è un differente livello di condivisione e di personale empatia. In questo disco compaiono numerosi ospiti. Come avete scelto ognuno di questi e come siete arrivati al tipo di lavoro che ognuno ha fatto sul disco? M.C: Molto spesso dobbiamo risolvere problemi legati al fatto che non sappiamo esattamente come suonare gli strumenti che abbiamo pensato possano essere i più rappresentativi per i personaggi del concept...Per esempio in “Public Sex for Boyd McDonald” un riff di un chitarra funky sarebbe stato esattamente quello che ci voleva: Il nostro amico Mark Lightcap ci venne immediatamente in soccorso. Altri sono corsi da altre parti del mondo come Antony (di Antony and the Johnson), quando stavamo lavorando al pezzo “Semen Song for James Bidgood” la sua voce ci venne in mente come perfetta “voce vogliosa”, e siamo stati deliziati dal fatto che Antony fosse felice di farlo. Ogni vostro lavoro si distingue per una particolare “messa in forma” dei suoni. In questo sembrate attestarvi ad una forma di “artigianato elettronico”, rispetto alla “chirurgia musicale” per esempio di A Change for a cut..., ad ogni modo verso un suono molto materico, che evoca la musica concreta, giusto? Drew: Si, per noi è fondamentale riuscire ad ottenere una musica che sia sempre oscillante tra un suono grezzo ed uno modulato, c’è bisogno di entrambi gli aspetti per avere il tipo di movimento desiderato. Abbiamo attinto al grande bagaglio di ispirazione dalla musica concreta. Un punto fermo per il nostro costruire strutture musicali con oggetti della vita di tutti i giorni. Il prossimo anno faremo una performance all’ INA/GRM di Parigi sull’invito di Christian Zanesi ed è un grande onore per noi. Anche noi pensiamo che l’esperienza della musica concreta pervada molti aspetti della cultura digitale. Infatti tutti i film, i programmi tv e le canzoni pop sono fatte tramite il taglia e incolla di unità minime. Così in senso lato l’intera industriale consiste dei principi della musica concreta, se guardi a fondo. I Matmos hanno spesso fatto musica utilizzando le più disparate fonti rumorose: Come avete deciso que-
sta particolarissima gamma sonora? E quali processi compositivi avete attivato nell’assemblarli? Drew: Certe volte per le ragioni poetiche o estetiche non ci rendiamo conto di quanto possa essere difficile ottenere un suono da campionare, per esempio con le rose. I primi tentativi sono stati basati semplicemente sullo sventolare mazzi di rose in aria e producendo suono attraverso lo sfregamento dei petali tra loro, un rumore soft, non particolarmente promettente. Bagnando i petali e facendoli scontrare pesantemente, c’è stato un miglioramento. Spesso prendiamo in considerazione la possibilità di utilizzare un oggetto come strumento in primo luogo per il suo valore concettuale, cosi in un secondo momento bisogna lavorare sodo per costruire un suono ben articolato. Certe volte idee di suono ci vengono per somiglianza. Una volta per esempio pensavamo che in qualche modo avremmo voluto usare una lumaca e questo ci ha fatto pensare all’uso del corno francese, perchè sentivamo che questo strumento la evocava formalmente - così da un ‘idea visiva si può tirare fuori un suono. Ma è musica elettronica? M.c: Beh, abbiamo interamente assemblato elettronicamente, se l’assemblaggio digitale è considerato “elettronico”.... c’è anche un piccolo fairly sintetizzatore analogico sul disco, una parte di ARP 2600 in un paio di pezzi, l’ SH101... Senza elettricità questo sarebbe stato un disco DAVVERO QUIETO! Penso che la musica concreta come la intendi tu è una influenza sul nostro modo di pensare. Cosa dobbiamo aspettarci dai vostri concerti futuri? Drew: Espanderemo la nostra line-up per includere molte più persone di talento che possano sviluppare I brani. Parlo di Zeena Parkins, the So Percussion guys, Nate Boyce, Mark Lightcap, Jay Lesser.... Siamo stati veramente fortunati che tutti abbiano accettato di viaggiare insieme a noi per aiutarci a realizzare live la nostra musica. Abbiamo già suonato uno show in San Francisco con venti musicisti che hanno percosso lastre di acciaio con mazzi di rose sopra le nostre teste ed intorno a noi, quando stavano piovendo petali di rose sulle nostre teste...cominciammo a suonare. E’ divertente essere parte di questo gruppo! PasQuale Napolitano
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top3
exit music Songs With Radio Heads (bbemusic/rapster)
tool
Che cosa accade se alcuni dj, insieme a musicisti veri e propri, si mettono a incidere qualcosa che è indefinibilmente a metà tra la cover e il remix? Beh, accade che il risultato è un promo cd interessantissimo come Exit music – songs with Radio Heads (BBE & Rapster Records), un progetto compiuto di diversi artisti provenienti da settori e generi musicali disparati, tutti uniti dall’intento di rileggere la musica targata Radiohead. Progetto interessante: perché si tratta di uno sconfinamento fra generi che alla musica fa sempre tanto bene; poi perché le canzoni originali sono dei Radiohead, e non di gente qualunque. E perché si tenta di conciliare quel sound così caratteristico dei Radiohead, elettronico, ma anche molto molto rock, con suoni e sperimentazioni di natura diversa, che cercano di trasformare il pezzo in qualcosa di assolutamente altro. Gli artisti sono qualificati: da Sa-Ra a Randy Watson Experience, da Shawn Lee a The Bad Plus, da Mark Ronson a Cinematic Orchestra, parliamo di gente abituata a vivere di collaborazioni, progetti, esperimenti, alchimie di ogni tipo. Quanto si salva dell’originale? Poco o niente, ed è un bene. E’ il segno che il progetto di traslare il sound allucinato dei Radiohead in un
altra atmosfera è riuscito. La track iniziale, No Surprises, più cover che remix, resta ancora troppo scopertamente legata all’originale, anche se è da apprezzare il tentativo di calare il pezzo in un’atmosfera quasi soul, che però riesce meglio in High and Dry, ma soprattutto in Just, con un sound malizioso e suadente. Veri e propri remixes tra dub e dance sono invece Everything in Its right Place e in Limbo, dove la riscrittura del sound originale è davvero creativa, alla Chemical Brothers per intenderci. Bellissima anche Airgbag, ipnotica e suggestiva, dove si ricostruisce la melodia della voce di Thom Yorke con il sintetizzatore con effetti straordinari. Ma il meglio del disco è in Exit Music e in Karma Police, dove il computer lascia spazio agli strumenti per un’interpretazione jazz del radiohead-pensiero che è notevole per originalità e riuscita. Il disco è tutto un esperimento, per andare oltre i limiti della cover e del remix, per mostrare che è possibile il remix creativo e la cover costruita al computer, insomma una bella via di mezzo che rappresenta una novità affascinante. www.bbemusic.com/data.pl?release=RR0047CD Francesco Postiglione
10.000 days (Bmg)
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La prima nota è una lente in 3-D per suggestioni da abbinare all’ascolto, attraverso i meandri sonori e visuali di un progetto cervellotico, asfittico e claustrofobico: cinque anni dopo “Lateralus”, quest’ulteriore pezzo a nome “10.000 days” completa un trittico di grande suggestione, pregno di varchi, accessi e porte. Le connessioni sono disseminate in un oscuro dedalo, proteso verso una rete di anfratti percorsi da antichi respiri tribali, tra echi di tamburi lontani e mantra percussivi che tolgono il fiato. La prospettiva tridimensionale richiamata dai disegni di Alex Gray in copertina (da guardare con gli appositi occhiali!), si diceva, è la prima nota a margine del nuovo lavoro dei Tool, ma l’artwork-gadget segue l’idea di una musica complessa, strutturata, intesa come strada, alveo, contesto da cui farsi compenetrare, come un liquido dove immergersi poco per volta. Il progetto prosegue con decisione lungo le rarefatte code della forma canzone, resti simili all’appendice di un rettile, che seppur mozzata ancora scuote e vibra le sue estremità nervose. L’attacco è un subitaneo approdo, con le ampie bordate elettriche a delineare un nucleo disturbante, solido e soprattutto aperto: il crescendo di “Vicarious” raggiunge il climax e prosegue come un animale in corsa, per poi delineare il passo imponente di “Jambi”, una mandria indistinta lanciata nell’oscurità, con una cadenza avvolgente, spettacolare, costruita su inneschi micidiali e ossessivi di basso e chitarra: il risultato è impressionante. Fermi i punti salienti del suono Tool, le canzoni trascinano l’ascolto in un magma di pulsazioni e fili elettrici dal diametro ampio: non c’è spazio per distrarsi, nel buco d’un impervio tunnel dell’orrore. Gli angoli e le direttrici s’inabissano tra fine e principio, le metastasi vischiose avvinghia-
no senza scampo verso una distanza impossibile da scorgere: “Wings for Marie (pt 1)” lascia sospese le atmosferiche fasi di avvicinamento, destinate a colpire alla gola le pareti inebetite del silenzio. Pochi colori, tutti virati all’oscuro, con il nero dominatore incontrastato che quasi abbaglia, mentre ampie sfere baritonali ed ancestrali caratterizzano le esoteriche performances vocali di James Maynard Keynaan. Passeggiare non è lecito nell’antro: il suono non accompagna né carezza, ma scuote, s’insinua sottile solo per il tempo di respirare dall’interno, sulla bocca dello stomaco, rimasto inevitabilmente fuori dalla prevista onda: sussulti non convenzionali, ingigantiti, che spiazzano. Il risultato ridisegna, seppur con ampie previsioni anticipate fin dai tempi di “Ænima”, l’idea stessa del metal. Aleggia un’atmosfera psichedelica, unta di scuro slancio progressive, come dei Pink Floyd postmoderni sprofondati da qualche parte tra l’approccio potente dei Nine inch nails e l’umido infetto di qualche madido stige; questo però non è l’inferno, siamo in un incubo perfetto, luna park architettato con passione e cura dove le apocalissi hanno un assurdo groviglio temporale, sorta di timer interno, dove tutto è lugubre e mistico come da copione. La botta allo stomaco, però, quella è vera, come le colate sonore che si assemblano in un edificio immaginifico di rara compattezza, pieno di passaggi e strettoie, riti e sortilegi esasperati nell’ottica di un metal profondo e labirintico, al limite con certo rock alto da sentire in stati d’attenzione estrema e da guardare a occhi chiusi. Ovviamente, è d’obbligo astenersi per i profeti dell’ascolto origliato: sono presenti forti rischi di macchie di suono, tracce di musica densa e livida difficili da controllare . www.toolband.com/ Alfonso Tramontano Guerritore
schneider TM Skoda Mluvit (City Slang)
Quelli della sua etichetta (la “premiata” City Slang) lo definiscono affettuosamente il “nostro electronerd”, per me è soprattutto l’autore di una delle più belle cover di sempre (quella di “There’s a light that never goes out” degli Smiths in chiave electro), per gli appassionati di elettronica è senza dubbio uno dei nomi più influenti del cosiddetto filone “indie-tronico” degli ultimi anni. Dirk Dresselhaus, mente del progetto Schneider TM, dimostra – con questo suo nuovo, ottimo, “Skoda Mluvit”, di essere artista ben più ispirato, curioso e “coraggioso” di tanti (troppi?) colleghi che si cimentano con la fatidica contaminazione tra indie-rock ed elettronica. La sua musica è una costante, avvincente esplorazione tra generi e stimoli diversi, sovrapposti e riletti con straordinaria naturalezza e spontaneità. Le algide strutture elettroniche sono costantemente affiancate da percussioni etniche, incursioni hip-hop, dolci note di violoncello, chitarre, folgoranti melodie pop (“Cataractact” è una super-hit, tra le mura della mia stanza), scanzonati riferimenti al kraut-rock (l’iniziale “More time”) e alla psichedelia, scampoli funk e calore soul. “Skoda Mluvit” potrà sembrare caotico e incostante, e molto probabilmente lo è. Nessuno lo potrebbe mai definire un disco noioso, in ogni caso. Personalmente lo trovo geniale. Nel suo genere è sicuramente la migliore uscita degli ultimi duemila secoli. www.schneidertm.net Daniele Lama
Final Fantasy He Poos Clouds (Tomlab) Owen Pallet (in arte Final Fantasy) ha un
chiodo fisso: fare canzoni pop con gli strumenti di un’orchestra di musica da camera. Ambizioso e anche un tantino presuntuoso, direte voi. Forse. Ma il ragazzo è un arrangiatore eccelso (ne sanno qualcosa gli Arcade Fire, per i quali ha arrangiato gli archi in “Funeral”; e l’ha scoperto anche sir David Bowie, che si vocifera lo voglia a tutti i costi al suo fianco), ha un gusto indiscutibile e una sensibilità rara. Inevitabile, quindi, che le canzoni di “He poos clouds”, tutte per voce, quartetto d’archi, clavicembalo (!) e poco altro (piano, percussioni…), siano a dir poco meravigliose. Linee melodiche imprevedibili, repentini cambi di ritmo e di umore, destabilizzanti contaminazioni tra musica classica e briciole di new wave (scommettiamo che Owen è un fan degli XTC?), minimalismo, sperimentazione ed un’innata predisposizione a partorire canzoni memorabili (“This lambs sells condos” su tutte): questi sono, in sintesi, gli elementi di uno dei dischi più interessanti dell’anno. Final Fantasy: ecco il vero nome da tenere d’occhio per i prossimi mesi. Daniele Lama Belle Orchestre Recording a Tape of the Colour of the Light (Rough Trade) Suggestioni cinematiche e percorsi sonori immaginifici, colonne sonore per fiabe d’altri tempi ed inquietudini contemporanee. La musica dei Belle Orchestre, ennesima perla partorita dalla fertile scena musicale canadese, con due membri degli Arcade Fire in formazione (Richard Reed Parry e Sarah Neufeld), racchiude in sé raffinate atmosfere neo-classiche, tentazioni minimaliste e “perturbazioni” avant-rock; soffici, intime melodie ed implacabili cavalcate soniche. Una strumentazione ricchissima (violino, trombe, corni, campanelle, synth, percussioni, contrabbasso, organo etc.. etc..), un approccio per molti versi affine a quello degli Arcade Fire (ma qui non si mostra lo stesso interesse verso la
“forma canzone”, tant’è vero che tutti i brani sono strumentali), per un disco che non annoia mai, ma che anzi suona “leggero” in maniera quasi insospettabile, considerando che si tratta in ogni caso di un lavoro che in molti definiranno “colto” ed “impegnato”… Daniele Lama Loose Fur Born Again In The USA (Drag City) Per chi ancora non lo sapesse, dietro la sigla Loose Fur si celano tre indie-rockers più “in” della recente storia statunitense: Jeff Tweedy e Glenn Kotche (entrambi membri dei Wilco) oltre che Jim O’Rourke (apprezzato solista/produttore nonché, per qualche tempo, fino a poco tempo fa componente dei Sonic Youth). Dopo l’omonimo esordio, “Born Again In The USA” segna il secondo capitolo della loro estemporanea(?) collaborazione. Come nel caso di un buon cocktail, gli ingredienti in esso presenti, sono facilmente individuabili. Eppure il comun denominatore dell’intera operazione sembra il caro e vituperato rock con ascendenze, talvolta folk e, vagamente, di ricerca. Segno che i nostri non hanno voluto calcare più di tanto la mano, lasciandosi andare al puro piacere di suonare assieme, come forse non era accaduto in occasione del primo album. Sicuramente pop non è un’accezione che ben si addice ad un siffatto lavoro, però, d’altro canto, bisogna ammettere che il tempo impiegato ad entrare in sintonia con questa manciata di canzoni è relativamente breve. Un pregio più che un difetto se si tiene in considerazione che, orecchie allenate ad ascolti “alternativi”, non faticheranno a riconoscere i riferimenti qui presenti mentre i neofiti potranno magari risalire alle fonti originali, scoprendo nuovi mondi. Non un disco epocale o che farà gridare al miracolo i “segaioli” delle sette note. A suo modo, tuttavia, questo lavoro trasmette quella sensazione di
piacere con cui è stato assemblato e, a conti fatti, è giusto così. www.dragcity.com/bands.html LucaMauro Assante Fiery Furnaces Bitter tea (Rough Trade) Dai fratelli Friedberger bisogna aspettarsi sempre disinvolte riletture dei territori pop, attuate con una prassi e una capacità innovativa abbastanza insoliti per il panorama musicale odierno. I Fiery Furnaces sono dei musicisti inaffidabili che non si stancano mai di fare e disfare melodie a volte cacofoniche a volte celestiali, magari prendendo a schiaffi apertamente lo sciagurato fruitore. E “Bitter Tea”, il loro nuovo lavoro, rispetta questi assunti senza mai cercare percorsi ritmici compromissori, infatti la dimensione che arriva all’orecchio risulta multiforme ed inafferrabile. È In My Little Thatched Hut che dà l’abbrivo al cd con una tenacia accattivante e già si possono rintracciare gli stilemi degli album precedenti, nei quali le scorribande elettroniche tracciavano dinamiche scanzonate salvo poi spezzarsi bruscamente in lineari stacchi di chitarra acustica. Anche le seguenti I’m In No Mood e Black-Hearted Boy , legate da un ideale enjambment, sono figlie delle produzioni scorse pur se contaminate da una mestizia ridanciana ben rappresentata dal canto melodioso di Eleanor. Dominano però ingombranti effetti di riverbero e reverse che prima potenziano le suggestive cadenze classiche del pianoforte, ma poi oppongono resistenza allo sbocco delle idee (tante) messo in gioco. Non solo dirompenti dissonanze da clown impazziti, perchè Teach Me Sweetheart e Waiting To Know You sono letargici pezzi amorosi con i quali i Fiery affrontano al loro modo la love song, preservandosi la parte finale come detonatore per le solite sbandate imprevedibili fatte di sincopati pattern e plettrate animate da fantasmagorici feedback. Forniscono una personale versione dell’insipida canzoncina pop con Oh Sweet Woods, memore in qualche modo di Michael Jackson, ma traboccante di piani sonori tra i quali si scorgono frammenti di radio impazzite e fraseggi di chitarre classicheggianti. Di nuovo con Borneo si ostinano a recuperare le atmosfere altalenanti di “Blueberry Boat” con la giunta di significative filastrocche di carillon riprese da insane marcette operistiche. La più giocosa di tutte tracce, Police Sweater Blood Vow, è non a caso la più breve ma acquista un tono martellante che in più occasioni si risolve in uno straniante motivetto compitato come un facilone ritornello. La più convincente dell’album è però The Vietnamese Telephone Ministry che, eterea e ripetiti-
recensioni
Circo Fantasma I Knew Jeffrey Lee (Lain Records) E’ davvero singolare l’idea con cui è stato concepito il nuovo album dei Circo Fantasma. Il tutto parte da “I Knew Buffalo Bill”, disco del 1986, messo su da una sorta di gruppo estemporaneo, comprendente Jeffrey Lee Pierce (Gun Club), Nikki Sudden e Epic Soundtracks (Swell Maps), Jeremy Gluck (Barracudas) e Rowland S. Howard (Birthday Party). In quei solchi, il concetto di blues veniva destrutturato e rielaborato in chiave moderna, sottraendolo all’usura della semplice riproposizione delle 12 battute… I Circo Fantasma, in compagnia di una nutrita schiera di colleghi/amici (tra gli altri, Amaury Cambuzat, Nikki Sudden, Steve Wynn, Manuel Agnelli, Emilio Clementi, Mauro E. Giovanardi, Cesare Basile) hanno ripreso tale intuizione, dandole nuova linfa, attraverso la scelta di brani altrui (tranne uno, “My Heroine”, per altro assai pregevole) che esprimessero un mood appropriato. Soprattutto le canzoni vengono “interpretate” non tanto come mere cover ma, idealmente, “suonando” assieme ai loro autori, tipo aggiungere a “Bluebird” di Nick Cave, piano e cori. Così lo scorrere di pezzi come “Looking For A Place To Fall” dell’originario “I Knew Jeffrey Lee”, “Sex Beat” dei Gun Club, sino a “River Of No Return” dalla colonna sonora dal film “la Magnifica Preda”, assume un fascino particolare, ben sottolineato anche dall’attenta produzione di Cambuzat. Va dato merito ai Circo Fantasma, dunque, di aver concepito un “puzzle” perfettamente funzionale a ciò che voleva rappresentare sia sotto la veste contenutistica nonchè emozionale. LucaMauro Assante http://www.circofantasma.it/
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va, sgancia insondabili riff a cui le seviziate percussioni non sanno porre argini: in questo marasma desolato emergono canti sconnessi dei Friedberger, probabili retaggi allucinati di un villaggio vietnamita che sembra attendere impotente un imminente attacco americano. Per lenire le ferite di quest’ultima traccia gli scalmanati di Chicago imbastiscono la distensiva Benton Harbor Blues, senza dimenticare di farcirla con solenni frasi di tastiere indebitate, per inattese e sfuggenti mediazioni, con sentieri soul da Motown. www.thefieryfurnaces.com Roberto Urbani Gotan Project Lunatico (Ya Basta) Tra amore per la magia del tango e moderni raffinati tocchi di studio, i Gotan Project, si sono creati nel tempo un suono tutto loro. Consapevoli che la riconoscibilità diventa presto cliché. Allestito tra Parigi e Buenos Aires, dove sono state registrate le parti orchestrali, il terzo e nuovo lavoro, è un disco di sentimenti ben strutturati con la voce fintofragile di Juan Carlos Càceres in primo piano e melodie che stanno fra il romanticismo fluido dei Calexico (collaborano in “Amor Porteno” ) e la nevrosi poetica dei Wilco (accentuata in “Mi Confesiòn” dal rapper Koxmoz). La notturna “Notas”, giostra bene le sue atmosfere, legate alla sensualità e malinconia struggente della milonga, con le suggestioni desertiche della cover “Paris, Texas” di Ry Cooder che qui diventano uno spazio della mente, un neoesotismo da colonna sonora. Con “Diferente” e “Celos”, occorre solamente farsi cullare dagli arrangiamenti sofisticati e dalle armonie vocali di Cristina Vilallonga, per poi toccare con struggente fisicità le emozioni accese degli incedere orchestrali di “Criminal”. Tutto scivola sulla pelle, trasmettendo immagini che, senza che ce ne accorgiamo, diventano vere passioni. Si gioca ancora con i colori tenui, gli sguardi accesi, i bandoneon che fanno innamorare nella efficace ”Lunàtico”. Le ovattate, a tratti eteree, “Celos” e “Tango Canciòn”, ci permettono, con il succedersi dei brani; di lasciarci avvolgere da un suono malinconico dall’incedere lento. Il tutto facendo affiorare, a tratti drammaticamente, la tradizione, la cultura e la storia della immortale Argentina. “Arrabal” e “Domingo” sembrano infine il riflesso immediato, semplice e coinvolgente, dell’energia della capitale. Insieme, accompagnati dagli archi soffusi di una piccola orchestra, si parla di amori e di spazi infiniti; dilatando i confini di un immaginario che non è più parte della nazione ma incontra melodie struggenti, alcune persino scoperte nel nostro passato remoto.
L’incedere della cinematografica “Criminal”, trasforma in un sogno le nostre vite quotidiane. Dolce, malinconico atto d’amore nei confronti dei romanzi di Jorge Luis Borges che diventano, nella sua poetica, il luogo delle passioni. Arte pura, vero incanto, sensualità estrema, equilibrio fra la testa e il cuore per “La Viguela” che scivola tra le pieghe dei sentimenti con la sensibilità dei tangeros e la passione impetuosa di Astor Piazzolla. Nulla da dire. L’Argentina, è il caso di dirlo, stavolta ce l’abbiamo in casa. Con questo terzo lavoro, i Gotan Project, meritano il successo che hanno. www.gotanproject.com Marco Ligas Tosi Morningwood s/t (Capitol) Pare sia stato il loro amico Sean Lennon a scoprirli, e magari a persuadere l’etichetta britannica Capitol a dar loro una chance, così questo bislacco quartetto newyorkese di nome Morningwood giunge ora all’esordio, guidato dalla procace e simpatica cantante Chantal. Sia il simpatico ed autocelebrativo videoclip di ‘Nth Degree’, che gira di continuo su MTV in questi giorni, sia la copertina dell’album in cui ciascun componente del gruppo stigmatizza un genere musicale, sembrano promettere autoironia, bubblegum pop e magari poco altro, ed invece con piacere scopro che questo disco di 40 minuti nasconde delle sorprese: freschezza, malizia glam, varietà di idee ed un “tiro” rock’n’roll niente male; mi piace, poi, la voce di Chantal che graffia ed accarezza a seconda delle esigenze. In alcuni frangenti i quattro si danno al cazzeggio rischiando di perdere il timone, ma quando fanno sul serio riescono a distinguersi, e mi hanno colpito certe rasoiate veloci (‘Jetsetter’, ‘New York Girls’), la simpatica invettiva punk rock contro le fighette che infestano New York (“you sure got the style, but you ain’t got the soul”, in ‘Nü Rock’), il look “glam” giocoso, i numerosi e caserecci rifacimenti degli AC/DC, nei quali ad ogni modo danno una lezione ai mediocri Darkness, e la tenera ‘Ride the Lights’ in coda al disco. Il disco è stato inciso in Gran Bretagna, ma dal blog di Chantal apprendiamo che il gruppo è in questi giorni in tournèe attraverso gli Stati Uniti. Presto saranno in Europa. www.morningwoodrocks.com Fausto Turi volcano! Beautiful seizure (Leaf) Non ci stancheremo mai di dischi come “Beautiful seizure”. Dischi che solleti-
cano la curiosità dell’ascoltatore, il suo desiderio di scoperta, di avventura. Uno di quei lavori di cui ad un primo ascolto percepisci soprattutto il senso di caos, di oltranzismo sonoro, di spigolosità e poco altro. Ma poi lo ascolti, e lo riascolti, e lui (il disco) inizia a poco a poco a rivelarsi. Come per magia cominci a de-codificarne il linguaggio complesso e ostico, a familiarizzare col suono, e con i brani. I volcano!, da Chicago, sono senza dubbio una delle punte più avanzate dell’attuale panorama del rock di ricerca, sperimentale e tendenzialmente avanguardistico (ecco perché non sfigurano nel catalogo Leaf, dov’è cosa più unica che rara trovare formazioni basso/chitarra/batteria). Rumorosissimi e intensamente drammatici, straordinariamente aggressivi e poi improvvisamente delicati, frastagliati e cacofonici, e poi subito dopo lineari, quando non addirittura inaspettatamente melodici, i volcano! recuperano il concetto di “post rock” dalla palude creativa dove s’era arenato, lo traghettano verso lidi di esasperata emotività (ricordando talvolta i Xiu Xiu, o dei Radiohead meno lamentosi e decisamente più ispirati), flirtano con l’elettronica senza farsi tentare da suoni pre-confezionati, si muovono tra ritmiche impossibili e infuocati accenni di groove (impossibile resistere al ritmo in levare della potentissima “Apple or a gun”), tra scampoli freejazz e blues de-strutturati, con l’anima contesa tra un radicalismo esasperato e una mal celata sensibilità “romantica”. Magnifici! www.volcanoisaband.com Daniele Lama Swayzak Route de la Slack (!K7) 13 anni, 4 dischi e circa 30 singoli dopo, è giunto il momento per gli scozzesi Swayzak di autocelebrarsi con una doppia raccolta che da una parte sintetizza la loro attività di remixatori su brani altrui e dall’altra va ad esplorare gli scaffali d’archivio pescando 10 brani completamente inediti. Non siamo perciò di fronte al vero e proprio successore di “Loops from the Bergerie” splendido disco del 2004 focalizzato su raffinate strutture deep-house elaborate in mai banali pop-songs avvolte da ipnotici dance-grovees - ma questa valida antologia colma l’attesa in maniera quanto mai appagante. Tra i dieci remixes segnalo il trattamento electro riservato ad “Acoustiques paralleles” dei Quark, “Tic toc” di Will Saul ed Ursula Rucker trasformata da una serie infinita di strappi e spasmi, gli innesti techno su “Random access memory” dei tedeschi Bergheim 34, sfaccettature di
dub bianco per “People of the book” dei Systemwide. Le “rarities” incluse nel secondo cd, anch’esse dieci, sono state composte tra il 1994 e il 2005: dal corpo mutante di “I love Lassie” fino al vortice house di “Mike up your mind”, passando attraverso l’atmosfera spacey di “If I didn’t care” e la struttura geometrica di “Wavemail”, viene documentata una vicenda artistica di sicuro spessore. www.swayzak.com Guido Gambacorta Tanakh Ardent Fevers (Alien8recordings) Pur facendo base a Firenze, i Tanakh sono uno dei numerosi gruppi italoamericani che non si fanno tanti problemi ad attraversare l’Oceano per autopromuoversi in tournèe – a Maggio hanno suonato in Usa e Canada – o incidere un disco – ‘Ardent Fevers’ è stato registrato da Bryan Hoffa (Royal Trux, the Kills, Labradford) a Richmond, Virginia. Nati come collettivo aperto più o meno estemporaneo, con questo secondo disco il gruppo si definisce bene attorno alle personalità di Jesse Poe (che produce, scrive, canta e suona la chitarra) ed Umberto Trivella (che firma le musiche e sta anch’egli alle chitarre) e mira più al sodo abbandonando malìe sperimentali ed agganciandosi al filone neofolk di Nourallah, Great Lake Swimmers, Shearwater, non riuscendo purtroppo a suonare originale. Dietro la copertina sfocata, che lascia intravedere 4 ombre che attraversano sulle strisce pedonali una strada illuminata che potrebbe esere Broadway st. di notte, ‘Ardent Fevers’ alterna composizioni corali, in cui i numerosi ospiti – una decina, tra cui una valida sezione fiati, e poi violino, organo ed un prestigioso contributo di Isobel Campbell al violoncello –, pur nella prevedibilità, almeno possono mettere in mostra le proprie doti accademiche, a nude ballate notturne stile Giant Sand, in cui la voce di Poe e l’acustica di Trivella mirano a suggestionarci e si fanno apprezzare di più: ‘Over your Consistency’, ‘Take and Read’ e ‘Winter Song’ hanno il giusto ‘spleen’ spiritato. Interessante anche i 7 minuti e più di ‘Still Trying to Find you Home’: inizio come inizierebbero i Giant Sand, fine come finirebbero i Grateful Dead... bella idea! www.myspace.com/jessepoetanakh Fausto Turi Mudhoney Under A Billion Suns (Sub Pop) Sette album in diciotto anni di carriera, non è proprio una media da guiness dei primati. I
de quasi il sopravvento in una canzone quale “Blindspots”, col suo finale pressoché free-jazz. Piccoli dettagli che, ad ogni conto, non portano a nessuna svolta epocale ma fanno da semplice corollario ad un songwrinting che oltre certi limiti non si spinge e forse, visti i risultati, è meglio così... www.mudhoney.org LucaMauro Assante Chris Brokaw Incredibile love (Acuarela) Chris Brokaw è, nel mondo underground, un’istituzione. Uno di quei musicisti col quale tantissimi artisti vorrebbero collaborare. Stima che è frutto principalmente di anni e anni di onorata carriera nei Codeine, uno dei gruppi fondatori di quello che si è ormai soliti catalogare come post-rock, e successivamente nei Come, e nei New Year, tanto per fare qualche nome, rivoltando il mondo indie come un calzino e approdando (forse) definitivamente al molo solista. Era il 2001, infatti, quando uscì col primo ep solista, seguito l’anno successivo da “Red Cities”. Insomma, a leggere la sua biografia, si nota soprattutto come l’artista newyorkese abbia accompagnato nella fase di sviluppo la scena indie, facendone parte da protagonista e non solo da comprimario. Passato da una collaborazione all’altra e da un’ etichetta all’altra, dalla Subpop alla Touch and go, passando per la Thrill Jockey, per questo nuovo album solista, però, Brokaw sceglie “Acuarela”, etichetta del primo ep
solista. E quello che ne esce fuori è racchiuso in “Incredibile love”. Brokaw impacchetta un ottimo album indie rock in circa quaranta minuti. Non più post rock, ovviamente, ma un rock raffinato, che si mescola al folk (Blues for the moon), alla malinconia di “X’s for eyes” con viola, violino e violoncello, con una “Whose blood” che pare uscita da un album di un Elliott Smith un po’ più solare, piuttosto che l’incalzante “Cranberries”. Una capacità tecnica e una voce delicata che l’accompagna e che fa di quest’album un progetto riuscito (e d’altra parte c’era da aspettarselo) che si rafforza anche grazie ai testi e alla cover dei Suicide “I remember”, ma che a volte suona un po’ troppo piatto. Una filo rosso, appunto, dal quale a volte ci si discosta troppo poco. Ma tutto ciò non leva che questo di Brokaw sia più di un gradito ritorno, e sebbene non sia la perfezione, lo si perdona facilmente. Francesco Raiola www.chrisbrokaw.com The Ian Fays The Damon Lessons (Homesleep Music) ‘The Damon Lessons’ dura 32 minuti e sciorina ‘pop giocattolo’ di matrice Matador music; le Ian Fays ve le potete comodamente immaginare come le sorelline minori delle Cocorosie, senza alcuna consapevole coscienza folk americana e tuttavia
ugualmente alla ricerca del pezzo pop incantato perfetto, con un filo di maliziosa vocina teenager che inevitabilmente suona sexy da morire. E in effetti c’è del voyeurismo (provocato ad arte?) nell’ascoltare queste canzoni ‘coccolone’ che parlano di quando Julia, Lena, Lizz e Sara la sera mettono la testa sul cuscino e pensano malinconiche a cosa mai starà facendo in quel preciso istante il compagno di scuola per il quale hanno perso la testa e che non s’è mai accorto di loro (‘All the Phones are Broken in this House, Sir’), in un clima generale da telefilm americano tipo ‘O.C.’. Tutto ciò senza disprezzare, per carità: malgrado decisamente acerbo, il disco è valido sia nella prima metà – splendida ‘I Lifted myself up’ – ricca di tastierine, sampling, batteria elettronica, xilofono, e tazze, sia nelle ultime canzoni ancor più casalinghe per voce e chitarra acustica al limite del demo: simpatica ‘It’s Okay’. A cantare sono le due sorelline gemelle Lizz e Sara; dalle foto che ho sembrano due cloni imbronciati di P.J.Harvey ai tempi del liceo. Le Ian Fays, col supporto della Homesleep, hanno di recente fatto qualche passaggio live in Italia di spalla agli YuppieFlu. Esilaranti, sul loro blog, due episodi: il racconto dell’arrivo nel nostro Paese con la scoperta del gelato ‘pistaccio’ e crema, e la decisione di barricarsi tutte e quattro, dopo i concerti, dietro il bancone del mechandise, per dirottare le avance dei focosi ragazzi italiani sull’acquisto del disco. www.myspace.com/theianfays Fausto Turi
recensioni
Mudhoney, però, nel loro percorso artistico quasi mai si son sentiti in obbligo di ottemperare le leggi non scritte del music-biz. Tanto è vero che anche nel momento di maggior popolarità, legato indissolubilmente al fenomeno “grunge” e al relativo contratto major, i nostri non hanno cambiato di una virgola la loro cifra stilistica. Figurarsi ora che, tornato all’ovile della “Sub Pop”, il quartetto di Seattle è completamente libero di esprimersi come sa. Perso il treno del successo, i Mudhoney si trovano nella condizione di non dover dar conto a nessuno se non a loro stessi. Leggermente autoreferenziali, comunque, Mark Arm & soci lo sono stati sempre. Inutile, quindi, attendersi delle imprevedibili virate che sarebbero state poco in linea con i soggetti in questione. A partire dall’iniziale “Where Is The Future” ci si imbatte nel classico monolite sonoro pieno di fuzz che il gruppo statunitense ama con sconfinata passione. Individuato il concetto base, i quattro non fanno altro che rallentare (“I Saw The Light”) o accentuare (“On The Move”) il ritmo, a seconda dei casi. Le uniche parziali novità sono rappresentate da una decisa presa posizione contro l’establishment politico “made in USA” (“Hard On For War” o la stessa “Where Is The Future”) mentre sul versante strettamente musicale, in più di un episodio i Mudhoney sono accompagnati da una sezione fiati (operazione, per altro, già effettuata sul precedente “Since We’ve Become Translucent”) che ben si amalgama al sound virulento della band e pren-
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live report 12
Black Heart Procession + Lomè Firenze, Auditorium Flog, 13.05.2006 L’arrivo dei primi veri caldi coincide ogni anno con la chiusura della stagione della FLOG: ultimi fuochi d’artificio nel mese di maggio con i concerti di Mogwai e dEUS e un arrivederci al prossimo autunno affidato alla musica dei californiani Black Heart Procession. Antipasto della serata servito dai Lomè, quartetto piemontese (voce, contrabbasso, piano, batteria) che segue la scia degli Avion Travel muovendosi con una certa disinvoltura tra sinuosità jazz e pop cantautorale; a parte il fatto contingente che da sotto il palco dove mi trovavo, con una cassa piantata nell’orecchio destro, non sono riuscito a distinguere una sola parola dei testi, ho comunque trovato un po’ irritante il tentativo del cantante di scimmiottare a più riprese le modulazioni vocali dell’inarrivabile Demetrio Stratos… …Ma poi bastano le primissime note - la sega che si flette sotto l’archetto del violino - per far riaffiorare immediatamente vecchie emozioni e bellissimi ricordi…: un concerto dei Black Heart Procession alla Corte dei Miracoli di Siena - era il luglio del 2001 - pochi intimi seduti per terra con gli occhi catturati da quell’ombra barbuta seduta su uno sgabello con una sega piegata sopra le ginocchia…, melodie laceranti illuminate dalle stelle, il cuore palpitante in mano…… Ed è stato bello e in qualche modo familiare rivedere dal vivo i Black Heart Procession a distanza di un lustro - barbe e capelli lunghi, lo sguardo di Pall Jenkins nascosto dietro occhiali scuri per tutta la prima parte del concerto, l’espressione quasi smarrita di Tobias Nathaniel - artefici di un suono immutabile perché inconfondibile, eppure in continua fermentazione: una formazione a cinque per canzoni che suonano non così crude e scure come in passato, che forse toccano un po’ meno in profondità ma che sanno graffiare di più in superficie attraverso continue sovrapposizioni delle due chitarre, linee di basso che amplificano l’ineffabilità dei silenzi e un ottimo lavoro della batteria ad aprire e chiudere spazi di fronte al cantato vibrante di Pall Jenkins. Un live che a me è sembrato consumarsi troppo in fretta - e certo una ventina di minuti in più con altri 3-4 pezzi sarebbe stata assai gradita – articolato tra i brani del nuovo “The
spell” (splendida “The letter”) e classici della band che sono dolci carezze per spiriti solitari malati di rimpianti e nostalgie… Nelle gole dei componenti del gruppo scivolano per tutto il concerto lunghe sorsate di birra e whisky; sui volti dei presenti scorre qualche lacrima blu…. Fuori, del tutto inattesa, inizia a cadere la pioggia….. Guido Gambacorta Xiu Xiu + Larsen Galleria Toledo Napoli 10.05.2006 Uno strano concerto questa sera, mutante e cangiante come un gioco a incastro dove pezzi simili compongono figure sempre nuove. Il palco della Galleria è ricolmo di strumenti e cavi che disegnano labirinti degni dell’ingegno di Dedalo, e come davanti a uno specchio gli spalti sono gremiti di membra intricate: non amo i luoghi affollati, e adoro i venticinque spettatori, ma non posso che rallegrarmi del giusto riconoscimento tributato dal pubblico all’impegno di coloro che qui lavorano con passione. I Larsen già stanno suonando, quattro elementi neri come la notte e la prima anarchia, oscuri nella loro musica ermetica e ripetitiva, egotisticamente strumentale, che sul palco formano un piccolo crocchio da cui posso spiare ma non guardare: sinceramente non rimpiango le mozzarelle impanate che mi hanno fatto arrivare in ritardo. Poi arrivano loro, si prendono molti applausi e un piccolo angolo del palco che trabocca di cianfrusaglie sonore, e attaccano (saranno anche un gruppo, gli XXL, ma lo spartiacque è netto come la cresta appenninica). Non posso esimermi dal paragone, imprevedibilità e freschezza sono ora tangibili, c’è calore empatico, nelle picchiate improvvise la voce trova un obiettivo alle circonvoluzioni della musica che a tratti pareva smarrirsi nella sterilità. Ma quando rimangono soli capisco perché sono qui stasera, le note degli Xiu Xiu mi assalgono come ricordi dimenticati che si fanno vividi, una scossa di adrenalina che mi riporta nella piena consapevolezza, finalmente la voce limpida squarcia le quinte nere per ricadere a brandelli su di noi assetati di emozioni. Pescano a piene mani dal loro
repertorio, timidi e vicini - si sfiorano continuamente -, sembra una lotta con la vita quella che inscenano: scatti e urla, si batte sui piatti, i muscoli tesi e la chitarra tirata, si suda il male che abbiamo dentro come una tossina. E quella voce che giunge dalla notte ancestrale, quella voce che mescola angoscia e passione, impotenza e desiderio. Il signor Stewart è un tramite che porta fino a noi quel suono puro e tagliente, come diamante, che squarcia la sua gola e ne trasfigura il volto: non importa il testo, la gioia e il dolore superano gli idiomi, è un rito antico che ci purifica e rimette a tutti noi un po’ dell’innocenza che avevamo smarrito. Pierpaolo Livoni dEUS + The Millionaire Flog, Firenze 03.05.2006 Sul palco della Flog i dEUS non hanno deluso le aspettative: tanta energia, un ottimo feeling con il pubblico, la personalità di Tom Barman in bella evidenza e i nuovi componenti del gruppo all’altezza nell’affrontare una scaletta che ha spaziato attraverso tutto il repertorio della band. Personalmente avrei apprezzato un pizzico di follia in più, quella per intenderci sprigionata in questo live da un
pezzo come “Fall out the floor, man”: atmosfera blues caracollante, voce sorniona, melodia spezzettata e ricucita dalle chitarre sul tartagliare della batteria… chissà com’erano i dEUS dal vivo ai tempi di “Worst case scenario” e “In a bar under the sea”, mi sono chiesto, nonostante io non appartenga alla schiera di chi storse un po’ il naso di fronte a “The ideal crash”, anzi, quello fu per me un disco da vera folgorazione, perfetto in ogni sua singola canzone (e tuttora lo considero tale), costante colonna sonora - insieme a “Metaversus” dei 24 Grana - delle giornate trascorse a scrivere la mia tesi di laurea nella primavera/estate del 1999: ore e ore davanti al pc e due dischi dai quali non riuscivo assolutamente a staccarmi, “Metaversus” - “The ideal crash” -
“Metaversus” - “Metaversus” - “The ideal crash” - “Metaversus” - “The ideal crash” - “The ideal crash” - “The ideal crash”… nel luglio di quell’anno riuscii pure a incorniciare questa vera fissazione per l’ultimo dei dEUS assistendo al loro concerto ad Arezzo Wave… allora in verità rimpiansi un po’ il fatto di averli visti all’aperto davanti ad una folla variegata piuttosto che nell’intimità di un club riempito dai soli appassionati di stretta osservanza, questa volta invece avrei avuto voglia di un set un po’ più imprevedibile e sregolato… questione di personali sensazioni del momento certo, la prova dei dEUS fu buona allora così come lo è stata, lo ripeto, in questa serata di maggio: un inizio abbastanza composto ma sotto sotto scalpitante (…“Stop-start nature”, “Instant street”…) ed un crescendo rappresentato agli opposti dalla dolcezza cullante di “The real sugar” e dall’elettricità coinvolgente di “Sun Ra”. Tom Barman, dalla seconda metà del concerto in poi con una sigaretta dietro l’altra costantemente accesa, ha introdotto brevemente alcuni pezzi nel suo italiano elementare – questa è “una canzone d’amore” dice dando il via a “Nothing really ends” – ogni tanto ha ringraziato i presenti sempre in italiano e nel finale, questa volta in inglese, è andato a presentare tutti i singoli musicisti del gruppo. Quando è stato il turno del violinista e tastierista Klass Janzoons, unico sopravvissuto insieme a Tom Barman dell’originaria formazione del 1994, è partito quell’inconfondibile zigzagare del violino: primissime note dell’inno “Suds & soda” accompagnate immediatamente dal pogo sotto il palco e Tom Barman a saltellare senza controllo tra asta del microfono e batteria con lo sguardo invasato di chi se lo ricorda bene come suonavano i dEUS ai tempi di “Worst case scenario”… In precedenza erano stati protagonisti i The Millionaire dell’ex chitarrista dei dEUS Tim Vanhamel: ottima personalità per una band che colloca il proprio nome in quella famiglia allargata che dai Black Sabbath arriva ai Queens of the Stone Age passando per Kyuss e Corrosion of Conformity, con accoppiata tuonante di basso/batteria e riff possenti di chitarra bruciati in combustioni stoner e lava psichedelica. www.deus.be Guido Gambacorta
interviste
ossono convivere la lezione di Grand Master Flash e la scuola classica del cantautorato italiano rappresentata da sua maestà Mogol? Gli Amari vi risponderebbero sicuramente di sì, dato che le loro canzoni sono proprio questo: un allucinante frullato di cultura hip-hop e immediatezza pop, che li ha resi una delle band più amate dal popolo indie italico. Ne parliamo con Pasta e Dariella. (L’intervista “integrale” la trovate su www.freakout-online.com). “Grand Master Mogol” è uscito ormai da un bel po’. Dopo decine di concerti e centinaia di passaggi dei vostri videoclip, gli Amari non sono più una realtà conosciuta esclusivamente agli “addetti ai lavori” (per fortuna). Vi va’ di fare un “bilancio”, di “tirare le somme” di quanto (vi) è successo in questi ultimi mesi? Pasta: Noi suoniamo assieme da molti anni, Grand Master Mogol è il nostro quinto disco: dalla sua pubblicazione è stato bello vedere un sacco di gente nuova che ci scopriva per la prima volta, è quasi suonare in una nuova band, finalmente un tour serio su e giù per la penisola… Si, sicuramente alcune soddisfazioni ce le siamo tolte, non ti nego però che, essendo degli eterni insoddisfatti, in furgone stiamo continuamente a bor-
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amari
hippoprevolution bottare buoni propositi!! Molte canzoni di Grand Master Mogol sembrano concepite appositamente per diventare delle pophits: dite la verità, speravate finalmente di essere invitati a “Top of the pops” o al Festivalbar? P: E pensa che noi stiamo tutto il giorno a perderci dietro suonini, samples, suonacci, arrangiamenti contorti, evidentemente il concetto di pop è davvero elastico. Fico. Dariella: No guarda a quanto mi risulta a “top of the pops” e al “festivalbar” non ti invitano, al massimo ti inviano dentro un pacco, hai presente quei cattivoni delle major?. .ecco son loro che fan i pac-
The Gossip soul-punk explosion!
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Sono in giro da più di sei anni, ormai, ma in Italia sono conosciuti ai più soprattutto grazie all’ultimo, fulminante disco, “Standing in the way of control” e all’omonimo, potentissimo, singolo. The Gossip è un trio: Brace Paine (chitarra), Hannah Billie (batteria) e la carismatica Beth Ditto alla voce. La loro musica è una miscela esplosiva di chitarre punk rock, pulsare funk e soul bollente. Come essi stessi ci raccontano, si sono formati ad Olympia, dove sbarcavano il lunario lavorando da McDonald’s o nella metropolitana. Sono “cresciuti tra i boschi del sud degli U.S.A”., dove hanno “trovato conforto nell’arte, nel femminismo, nelle chitarre noise, in John Cage, nella musica soul e i Ramones” Alla domanda: “Chi, tra Blondie, ESG, Aretha Franklin e The Slits pensate abbia influenzato di più il vostro suono?”, ci rispondono: “Tutti questi! Forse giusto Blondie un tantino meno…era un po’ troppo scontata. Ma il giro di basso di Rapture resta il migliore di sempre in assoluto!”. Il disco è stato prodotto da Guy Picciotto (che giustamente essi stessi considerano una “punk legend”) e Ryan Hadlock (già al lavoro con Strokes, Malkmus, Blonde Redhead e altri), che hanno “offerto ispirazione e un’enorme competenza tecnica: noi abbiamo portato in studio i nostri suoni, e loro c’hanno aiutato a…girare le manopole del mixer nel giusto modo!”.
chi! Chi sono quelli “tremendamente belli” (titolo di una loro canzone, n.d.i.)? P: Siamo tutti noi che andiamo a vedere i concerti, a ballare, alle serate gggiuste, che ci lasciamo la barba o ci spettiniamo per far i finti trasandati, che sbandieriamo il nostro mal di vivere quasi fosse una spilla sulla giacchetta, ogni razza ha i suoi simboli per farsi riconoscere no? Sarà anche per colpa di questa “generazione che le rivoluzioni le pensa sul divano” (da un verso di “Bolognina Revolution”, n.d.i.), che abbiamo rischiato seriamente di
doverci accollare il Silvio nazionale per altri quattro anni, alle recenti elezioni? D: Assolutamente si, quando il troppo pensare sul divano fossilizza il senso della politica reale, per molte persone è più comodo non votare, ad esempio, come se non prendere parte ad un dibattito democratico possa rappresentare una forma di dissenso. Non sopporto chi si lamenta sul divano e poi non partecipa alla vita politica del paese. Ogni volta che ascolto il vostro disco, i miei coinquilini mi dicono che sembrate gli Articolo 31 (o i Sottotono, non ricordo) in versione indie. Cosa gli devo rispondere? P: Che è vero?!? Quanto hip hop c’è nella vostra formazione musicale? P:Moltissimo, è stato uno dei primi generi al quale ci siamo avvicinati, tuttora presente nei nostri ascolti, e sicuramente a livello compositivo una enorme influenza. Domanda di rito: progetti per l’immediato futuro? P: Stiamo lavorando ad alcuni inediti per la compilation Riotmaker prevista per fine anno e per il singolo di “Conoscere gente sul treno” che uscirà in autunno, e naturalmente ci stiamo preparando psicologicamente per girare il prossimo video; ah certo, per il resto una marea di concerti! www.farraginoso.com Daniele Lama
Va segnalato che l’artwork del singolo “Standing in the way of control” è stato curato da Kim Gordon dei Sonic Youth. Una collaborazione che, per quanto non abbia sicuramente avuto ripercussioni sulla musica della band, ha emozionato non poco Beth e compagni: “il semplice fatto che abbia posato i suoi occhi sui nostri nomi c’ha fatto venire i brividi lungo la schiena. Lei, assieme a Yoshimi (dei Boredoms, n.d.r.) sono delle vere dee dell’arte”. “Standing in the way of control” è senza dubbio uno dei dischi più ballabili usciti negli ultimi anni. Ma, conoscendo le tipologie di pubblico che solitamente affollano i concerti “indie”, mi sono preoccupato di chiedere alla band come reagisce quando il pubblico è troppo “imbalsamato” e non si abbandona – come ci si aspetterebbe – alle danze. “Semplice: se loro non ballano, allora saremo noi a ballare sul palco molto più del solito. In ogni caso speriamo sempre che la gente si diverta” – ci dicono – ma ci tengono anche a precisare che se ora hanno pubblicato un disco “ballabile” (cosa che molto probabilmente ripeteranno in futuro), non è detto che prima o poi non faranno uscire un 7’’ di musica d’avanguardia per solo piano. “Chi lo sa? Cambiamo col tempo e con l’età”. Non vogliono porsi limiti, i Gossip. Ma nel frattempo ci dicono che è prevista, a breve, la pubblicazione di una serie di remix di loro brani, realizzati da Trevor Jackson (della Output records), Erol Alkan (Trash club), Mstrkrft (del giro DFA records), Tronik Youth e Arthur Baker (uno che nella sua carriera ha lavorato con personaggi del calibro di Afrika Bambataa, New Order, Kraftwerk). Saranno dei “remix-killer, un miscuglio di roba dance e funk in stile punk. Un mix di Misfits e Kylie Minogue, Aretha Franklin e ESG!”. In ogni caso i Gossip non ci stanno, ad essere “inquadrati” in una scena musicale definita. Per loro l’unica scena di cui sentirsi parte è quella che ha a che fare con “progresso, cambiamento, arte, design e …femminismo a go-go”. www.gossipyouth.net Daniele Lama
intercity
kampala l “mal d’Africa” è un sentimento, una sensazione, una nostalgia che riaffiora ogni volta che ti ricordi di quei luoghi bellissimi del continente. Non puoi dimenticare dall’oggi al domani i colori e gli odori di un paesaggio al tramonto nel Parco Nazionale delle Murchinson Falls o la semplicità delle persone dell’incantevole Uganda definita da Churchill la “Perla d’Africa”. L’aeroporto internazionale di Kampala è situato ad Entebbe, ex capitale del regno Buganda. Già al momento dell’atterraggio ti rendi conto di essere in un posto dove la natura incontaminata e la civiltà moderna s’incontrano: si atterra letteralmente sul lago Vittoria (questo immenso bacino d’acqua che dà i natali al fiume più lungo del mondo, il Nilo), sotto lo sguardo silenzioso e meravigliato di fenicotteri, anatre ed altri uccelli. Kampala è costruita su sette colli, anche se probabilmente si trascorrerà la maggior parte del tempo su uno soltanto, Nakasero, nel centro della città. La metà superiore di questa collina è una sorta di città giardino, con strade ampie e tranquille delimitate da alberi in fiore, villette nascoste dietro imponenti recinzioni (con tanto di filo spinato) e siepi. Qui si trova la maggior parte delle Ambasciate, delle organizzazioni umanitarie, degli alberghi di lusso e delle case dei benestanti (i funzionari governativi). Tra Nakasero e la parte inferiore della città si snoda la principale arteria della capitale, Kampala Road; lungo questa strada si trovano le banche principali, l’ufficio delle poste e alcuni alberghi e ristoranti. Al di sotto di Kampala Road, verso il fondovalle, c’è un altro pezzo di città completamente diverso dalla parte appena descritta. Si tratta della parte più autentica della capitale, un dedalo di vie, viuzze e strade secondarie dove si trovano moltissimi negozi e piccole imprese commerciali, alberghi e ristoranti locali ed economici, gli immensi templi della comunità indiana, il Nakasero Market ed il parcheggio disordinato dei taxi. È proprio in questa zona che si concentra l’attività economica dell’intera città. Non si può non sperimentare una giornata al Nakasero Market dove, passando attraverso piccolissimi negozi e bancarelle sui marciapiedi, si trova di tutto, dalla frutta ai lacci per le scarpe, fili di rame, timbri di gomma e ricambi per le radio anni ’60. E poi i venditori di biglietti della lotteria con i loro variopinti ombrelli e cabine telefoniche mobili (sono sistemate su delle biciclette) della MTN, una delle tre società (tutte sudafricane) che gestiscono il traffico cellulare del paese (sembra strano ma tutti posseggono un cellulare). È una città nella città dove agli orari di punta il traffico impazzisce, l’aria diventa irrespirabile ma è un’esperienza da vivere, perché ti ricorda tanto le nostre super-congestionate metropoli occidentali. Verso est, oltre il campo da golf (ebbene sì, la globalizzazione è pure questo) c’è Kololo, altro quartiere residenziale piuttosto esclusivo, dove si concentrano la maggior parte delle residenze private degli Ambasciatori occidentali e la famosa piazzetta di Kisementhi (Cooper Road), dove la sera è tutto un via vai di persone che si riuniscono al Fat Boyz, locale “in” della città. La vita notturna è molto viva, la popolazione dell’Uganda è molto giovane (anche se la speranza di
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vita complessiva del paese arriva ai 46 anni) e di conseguenza sono tantissimi i locali dove si Nile bevono Special, Tusker, Pilsner e Club (ottime birre locali)
Quanto cosa una pizza: la pizza si mangia al “Mammamia”, al “Cafè Roma” e a “Pizzeria Italia”, i tre ristoranti italiani di Kampala. Il prezzo varia dai 4 ai 7 euro. Quanto costa un cd: i cd si acquistano per strada, naturalmente non sono originali e sono soprattutto congolesi, vista la numerosa comunità congolese rifugiatasi in Uganda. Il costo è di 4 euro Quanto costa una corsa in autobus: i principali trasporti pubblici sono tre: il “matatu” o taxi collettivo il cui costo parte dai 10 centesimi di euro e dipende dalla destinazione; il “boda-boda”, una moto che ti porta in giro a partire da 25 centisimi di euro; c’è poi lo “special”, il classico taxi che costa dai 2 euro in su. È fondamentale contrattare sul prezzo! Le tre cose da fare/vedere assolutamente: 1.I parchi nazionali, 2. la dimostrazione della forza di gravità all’equatore (a nord dell’equatore l’acqua gira in senso orario, a sud in senso antiorario, e sulla linea dell’equatore non gira per niente!) 3. Mangiare chapati (una sorta di tortilla) e sambusa/samosas (involtini di carne, verdure o di pesce) per strada e la tilapia fritta (pesce di lago) sul lago Vittoria. Qualcosa da evitare assolutamente: tutti i locali esclusivamente per bianchi! Qualche sito interessante: nonostante Kampala sia ancora fuori dai circuiti del turismo classico (forse è meglio così), c’è www.visituganda.com, l’Uganda Tourist Board dove ci sono informazioni “convenzionali” ma cmq valide e utili.
e si balla esclusivamente musica africana (soprattutto musica congolese, dato il numero elevato di rifugiati dal Congo che negli anni ’90 sono scappati in Uganda). La caratteristica migliore di Kampala è che, a differenza di altre metropoli dell’Africa sub-sahariana, come ad esempio Nairobi in Kenya, è abbastanza sicura di giorno e di notte, è una moderna capitale di uno dei paesi con il più alto tasso di crescita del continente e offre, insieme al paese tutto, attrazioni naturali tra le più suggestive della regione. Un consiglio? Visitarla prima che “le orde dei turisti” la scoprano. Francesco Calcagno