freakout
ottobrenovembredicembre2006
Freak Out magazine # 41 N°7 della testata giornalistica registrata al tribunale di Torre Annunziata il 17/07/2003 n° 9
Freak Out Magazine C.P. 166, 80059 Torre del Greco (Na) Italia www.freakout-online.com info@freakout-online.com www.myspace.com/freakoutmagazine Direttore editoriale e di redazione: Giulio Di Donna Capo redattore: Daniele Lama Segreteria: Sara Ferraiolo, Antonio Ciano Redattore Cinema: Sandro Chetta hanno collaborato: Luca M. Assante, Roberto Calabrò, Fausto Turi, Francesco Raiola, Guido Gambacorta, Vittorio Lannutti, Roberto Urbani, Pasquale Napolitano, Francesco Postiglione, Pierpaolo Livoni, Luigi Ferrara, Lorenza Ercolino, Lucio Carbonelli, Ciro Calcagno, Umberto Di Micco. direttore responsabile: Roberto Calabrò marketing: Giovanna Montera Distribuzione Nazionale garantita da : Wide, Audioglobe, Family Affair, Self, Venus, Eaten by Squirrels, Goodfellas. Roma: Disfunzioni Musicali, Brancaleone, La Palma, Rinascita, Rialto Santambrogio, Circolo degli Artisti Milano: Supporti Fonografici, La Cueva, La Casa 139, Bologna: Il Covo, Disco D’oro, Undeground, Estragon Cesena: Lego Reggio Emilia: Maffia Firenze: Tenax, Auditorium Flog Torino: Spazio 211, Barrumba, Zoo Cosenza: B-Side Catania: Zo, Indigena, Mercati Generali Rimini: Velvet Faenza: Mei, Clandestino
Macerata: The Sound & Meccashop Roncade (Tv): New Age Siena: Sonar Senigallia (AN): Keo Records Bari Underground, Jagger’s music, Saturn, New record, Feltrinelli, Radioclash Villadose (Ro): Ass. Cult. Voci per la libertà. Freak Out lo trovate anche a : Verona, Reggio Calabria, Mestre, Potenza, Palermo, Venezia, Perugia, Pisa, Bolzano, Modena, Genova, Bergamo, Piacenza, Massa Carrara, Prato, Latina, Trani, Lecce, Cagliari, Sassari. In Campania: Napoli – Videodrome, Perditempo, Demos, Tattoo, Velvet, Mamamù, Vineria del Centro, Ostello La Controra, Kesté, Fonoteca Outlet, Fonoteca, Sputnik, Duel Beat, Jail, Fnac, Sanakura, Concerteria, Teatro Galleria Toledo, Loveri, Rising South, London, Mutiny Republic, Feltrinelli, Fonoteca Torre del Greco – Ethnos, Jah Bless C. di Stabia – Satori Pomigliano D’Arco – Spazio Musica Portici – Fabric Hostel & Club Salerno – Disclan, Mumble Rumble, Satori c/o festival Comunicativo Battipaglia – Akarma. Avellino - Garage records, Ananas&Bananas. Caserta – Volume records Aversa – Zoo Benevento – Mad House Frattamaggiore Audiozone VUOI COLLABORARE? METTITI IN CONTATTO CON NOI!
Chiuso in redazione il 10 Novembre 2006 Tiratura 10.00 copie Impaginazione e Layout: Mario Maratea Stampa: SBR Portici
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Stavolta si discute di momenti sacri. Ovvero l’acquisto di dischi e cd. Al tempo dei negozi di dischi C’è stato un tempo, quando la musica si vendeva nei negozi di dischi, in cui il commesso era dittatore tracotante. Un cliente si aggirava per gli scaffali alla ricerca di spunti, idee, copertine shock, e il commesso lanciava i primi sguardi. Insofferenti. Il cliente osava toccare la merce, perlustrare un album. Costo: trentamilalire. Vietato sbagliare acquisto. Se chiedeva: si può ascoltare? Il commesso rispondeva: la piastra è rotta. Ma come? e gli ZZTop che sta ascoltando adesso? E il commesso: sono i Rats ignorante! La soggezione di mostrargli il disco scelto era troppo grande. Non sia mai ti eri buttato su Elton John e l’inserviente amava Renato Zero. Come minimo della pena rischiavi una sputazzata sullo scontrino. Una volta, alla Flying Records di Napoli, per scegliere in fretta, tanta era l’ansia messa addosso da un noto venditore stronzetto, mi portati a casa un doppio di Mc Hammer. Ma ero andato alla Flying per comprare “Apocalypse 91” dei Public Enemy. Al tempo degli mp3 Tutto ciò accadeva prima di internet. Oggi negli store, dove non si vende più granchè, ti stendono il tappeto rosso. La situazione si capovolge. Se chiedi al commesso di ascoltare un
cloachetta di Sandro Chetta
cd, nessun problema. Te lo fa sentire tutto due volte, ti sgama anche le ghost track, se i testi sono in inglese li traduce in simultanea. È capace di raccontarti aneddoti per esaltare le gesta del gruppo. Cose tipo: “questi sono tostissimi, il cantante l’hanno arrestato due giorni fa perché ha picchiato a sangue moglie, figlia, la ragazza che faceva doposcuola, ucraina e yorkshire; il batterista invece è vegano, non mangia carne, pesce, uova, si nutre di plancton. Su “Vanity Fair” dicono che la bassista sia stata a letto con un Ufo”. Inventa premi: “quest’altri qua hanno vinto da poco lo Stattaccort Award come rivelazione, una tappa del Cantagiro, ventidue dischi di platino e uno di pietra pomice”. Racconta di videoclip mai girati: “Come no, è il video in cui lui fa il bungee jumping dal Salto di Tiberio a Capri legato all’elastico insieme a una capra. Su Mtv e Flux va a rotazione”. Alla cassa incalza “ Basta così, serve nient’altro ”? Come in salumeria.
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intervista 4
Jamie Foxx.
Solo un grande attore? n attore prestato alla musica o un musicista prestato al cinema? Il legame tra Jamie Foxx e la musica nasce contemporaneamente - forse prima - di quello con il cinema, con la piccola differenza che la prima passione è rimasta, per così dire, nascosta dietro le quinte, mentre la seconda l’ha portato ad essere uno degli attori più apprezzati e quotati del pianeta. Tanto da consentirgli di vincere un Oscar, il più ambito dei riconoscimenti per chi fa cinema (grazie alla straordinaria interpretazione di Ray Charles in “Ray”, 2004). Foxx, nato il 13 dicembre del 1967 a Terrell, Texas, pubblica infatti il suo primo album, “Peep This”, nel 1994, quando non è ancora una star, ma ‘solo’ uno dei protagonisti delle serie televisiva all black “In Living Color”. Il disco riceve una tiepida accoglienza da parte di critica e pubblico, e così l’attore-cantante afro-americano abbandona, almeno momentaneamente, le sue velleità da musicista per dedicarsi con maggior intensità alla recitazione. Con i risultati che conosciamo. L’amore per il canto e la musica non viene, però, mai accantonato: Foxx collabora infatti nel 1999 alla colonna sonora del film “Ogni Maledetta Domenica” di Oliver Stone, di cui è anche uno degli interpreti principali, per poi prestare la sua voce, nel 2004, al brano “Slow Jamz” del rapper Twista in cui compare anche Kanye West. Poco dopo torna a cantare a fianco di quest’ultimo nel singolo “Gold Digger”. Entrambi i pezzi raggiungo il primo posto nelle classifica dei singoli di Billboard. Con in tasca un’interpretazione da Oscar, in cui ha mostrato tutte le sue straordinarie doti vocali, e queste due collaborazioni prestigiose, per Foxx non è difficile strappare un contratto con la J Records in vista del suo secondo album da solista. Registrato contemporaneamente alla riprese di “Miami Vice” (film ispirato alla celebre e omonima serie televisiva), “Unpredictable” viene quindi pubblicato negli States nel dicembre 2005 (in Europa nell’aprile del 2006), debuttando al secondo posto nella Top 100 di Billboard e raggiungendo la vetta la settimana successiva. Accolto ottimamente dalla critica, il disco vede la prestigiosa collaborazione del gotha dell’hip hop statunitense: Twista, Kanye West, The Game, Ludacris (a fianco di Foxx nell’omonimo singolo di lancio), Common, Snoop Dogg e Mary J. Blige.
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Dobbiamo considerarlo solo un grande attore? In giro si sente dire che vi sia un amore spontaneo da parte della cultura americana nera verso noi italiani. E’ vero? Abbiamo una grande stima verso il vostro modo di fare. Noi siamo “cool” per voi, anche se farci accettare è comunque molto difficile. Il fatto di incontrare un italiano in giro per l’America o per il resto del mondo è un elemento che ci porta a rispettarvi. Qual è secondo te lo stilista italiano che ben si presta a interpretare lo stile gangsta di L.A.?
Sicuramente le collezioni di Versace. Un rapper senza i suoi vestiti perderebbe la sua “credibilità da strada” e può scordarsi per sempre il successo. Come nasce la tua passione per la musica? Sono cresciuto ascoltando musica religiosa. Per me non ha eguali. Che tu sia o meno credente non c’è nulla che regga il confronto con la musica religiosa nera del sud. E’ americana con un’anima africana. Ho saputo che recentemente sei stato in Africa... Si, lì la musica è incredibile. Nella nostra musica religiosa si sente l’eco di quelle tonalità, di quei ritmi, di quei respiri, di quelle percussioni e di quei canti. Sono moltissimi gli artisti con un background religioso. La musica religiosa e la musica soul hanno le stesse radici, ma è una cosa complicata parlarne adesso. Partirei da Prince... Geniale. Un maestro che si ricorda di avere sempre del soul nelle sue vene. Che riesce ancora oggi ad indossare e ad infilarsi nei vestiti eleganti di Al Green, Marvin Gaye e James Brown. Ti fa vivere veramente le storie che canta, sa trasportarti in altre dimensioni. Credi che il soul sia solo gridolini e sussurri? La musica è la mia vita. Continuerei a fare musica anche se non ci guadagnassi un soldo. Mi dà energia. Sono cresciuto cantando e suonando il piano per il coro della chiesa, sfuggendo alle angosce della adolescenza attraverso la musica. Forse, quelli che tu scambi per gridolini e sussurri sono la mia passione per la musica. La musica che oggi sono in grado di fare. Hai spesso citato Marvin Gaye, Stevie Wonder, Curtis Mayfield…. Pochi artisti come Marvin, Prince, Stewie, Curtis sono riusciti a colpire così profondamente e così a lungo la fantasia, la sensibilità e soprattutto l’immaginazione di tutti noi. Per molti, oggi, quei giorni sono lontanissimi. Il tempo, però, non ha scalfito l’impatto di quei suoni, sensuali, spericolati e audaci, sintesi
personali e proiettate in avanti di tanti stili diversi. Qual è secondo te la cosa che più ti accomuna a Kanye West? Credo, probabilmente, il senso dell’umorismo. Diciamo che facciamo le stesse identiche battute nello stesso identico momento. Invece, cosa ti accomuna a Snoop Dogg? Il quartiere in cui abitiamo, le stesse scarpe e la stessa sciarpa. Balliamo in perfetta sintonia e ci piace lo stesso “grooves”. Esistono ancora eroi della musica rap e della musica hip-hop? Di fatto, ciò che credo sia più gratificante nell’ascoltare e cantare musica hip-hop è che è una delle musiche più realistiche che abbiamo a disposizione. Gli eroi del rap, almeno i miei, hanno sempre parlato di cose vere, reali, il che probabilmente crea un po’ di confusione nella testa dei fan quando vedono i loro beniamini girare su macchine da milioni di dollari accompagnati dalle migliori puttane, fumando sigari e circondati da tutto quel classico immaginario gangsta/bling-bling. Non credi che un genere musicale che ha una stragrande popolarità sia prima o poi destinato a imbruttire e a diventare troppo commerciale? Ray Charles è diventato commerciale con “I Got A Woman”, ma ha anche rivoluzionato la storia della musica gospel in una canzone. Che cos’è per te la musica gospel? Il gospel è qualcosa di incontrovertibile: una questione di profondità emozionale. Io nei miei dischi ho cercato di cantarlo. A voce alta. Credi che vi sia stata una rinascita per la musica hip-hop in questi ultimi anni? Credo che paragonando la scena musicale di una decina di anni fa a quella del rap, hiphop di oggi ci possa essere spazio per personaggi come 50 Cent in America e nel mondo. Per molti il rap dovrebbe restare nell’underground per non contaminarsi e “sputtanarsi“ ... Questa è una musica fatta per chi veramente la ama. Non è solo cantarla, ballarla e vestirsi in un certo modo. E’ un po’ come l’ipocrisia e l’ironia del razzismo; a essere paradossali, chi parla di razze mi fa ridere. Ricordi quando da bambini non si conosceva il concetto di razza? Dobbiamo tornare a quel tempo. A dire la verità, non ci sono bianchi o neri, ebrei o cristiani, cattolici o islamici. Ed è così anche per la musica: non ci sono solo generi o colori. La musica è passione, è quello che rappresenta la nostra vita al di là di qualsiasi razza e colore. Ma perché la musica nera ha così tanto successo, oggi, in tutto il mondo? Credo che la cultura afroamericana, specialmente quella musicale, sia da oltre un
secolo in contatto con i veri sentimenti degli uomini. Le persone di altre culture sono in sintonia con la black music perché è “the real shit”, la vera musica, l’essenza della musica. Blues, jazz, r’n’b, soul, funk o hip-hop: se ascolti bene ti renderai conto che riusciamo a creare una canzone con niente, partendo dal nulla, solo dai sentimenti più profondi. Cerca di essere sincero, meglio il primo “Peep This” o l’ultimo lavoro discografico “Unpredictable”? Sono fiero del primo album. E’ roba che chiede volume, fino a far saltare le casse, musica nera in grado di convincere gli scettici. Si sentiva l’orgoglio di vivere, di essere fiero delle mie conquiste individuali. Per l’ultimo lavoro ho chiamato un pò di persone e pezzi grossi del music business, facendo tutto di testa mia. Vi è anche “grooves” e passione per le ballate soul, un po’ di pianoforte e un po’ di funk session. Gioco con melodie semplici e “cool”. Canto seguendo solo il mio talento. Ti ho visto recitare in film come “Jarhead”, “Collateral”, “Miami Vice” e “Ray” e mi è parso che riuscissi a farlo ritmando le parole ... tipiche di un rapper. Nella recitazione porto il ritmo musicale che ho dentro. Dalla recitazione prendo la capacità di creare una visione con le parole e la porto nella musica. La recitazione mi ha insegnato come suscitare le emozioni nel pubblico e anche questo lo trasferisco nella mia musica. Credi al detto di Notorious B.I.G. il rapper ex spacciatore, assassinato in una faida hip-hop nel 1997: “Più soldi, più problemi”? Non sono d’accordo con Biggie. Per me: più soldi uguale problemi nuovi. Le mie finanze sono cresciute, non penso più alle bollette ma devo stare attento a chi cerca di fottermi il denaro. Credi che la musica per le nuove generazioni sia così potente? Certo, spesso sono gli unici punti di riferimento dei ragazzini neri. Purtroppo per gli afroamericani poveri ancora oggi le vie di riscatto e le fabbriche di eroi, si limitano alla musica e allo sport. E se fin dai primi anni di vita sei investito da un tale flusso di violenza, vieni desensibilizzato. Così succede che per un bambino diventa normale vedere un uomo che spara e un altro che muore con una pallottola in testa. www.jamiefoxx.com Marco Ligas Tosi
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il mondo conobbe una band che è diventata una pietra miliare del punk. Grazie a loro nascono bands come Red Hot Chili Peppers, Beastie Boys, Fishbones e Living Colour. Riformatisi svariate volte, con diversi cambi di line up, il gruppo pubblicò l’ultimo album nel 2003, ma il sound era completamente dedito a sonorità reggae, dub e ska. Ora ritornano, e ci attendiamo la furia degli esordi.
Grinderman è il nome del nuovo progetto musicale di Nick Cave. La band nasce con la collaborazione di Martyn Casey (al basso e alla voce) e già membro dei Bad Seeds ed ex-Triffids; Jim Sclavunos batterista dei Bad Seed and ex-The Cramps e Warren Ellis fondatore dei Dirty Three. Nei Grinderman Nick Cave suonerà la chitarra elettrica, e sarà in un inusuale silenzio, cosa strana per il cantante-compositore. “Con Nick alla chitarra cambieranno tutte le dinamiche” dice Ellis. “Grinderman darà massima libertà ai musicisti dove, con un suono noisy, nessuno di questi solitamente si approccerebbe”, continua Ellis. L’album di debutto uscirà a marzo 2007 su Mute Records, intanto ci sarà una grandissima prima live a aprile durante l’All Tomorrow’s Parties festival. Tre punti esclamativi che si pronunciano ChkChkChk. Annunciato l’imminente nuovo album dei !!!, che sarà pubblicato nuovamente via Warp con la quale la band ha chiuso un accordo di distribuzione worldwide. L’album del collettivo di Brooklyn uscirà il 4 marzo 2007 e sancisce la separazione dalla Touch&Go Records. E’ notizia certa, oramai circolava da qualche giorno. La formazione originale dei Bad Brains (ovvero HR, Dr. Know, Darryl Jennifer, Earl Hudson) ritorna in studio di registrazione. Con ogni probabilità produrranno un nuovo
‘The Destroyed Room: B-sides and Rarities’, questo il titolo della compilation dei Sonic Youth che uscirà l’11 Dicembre. Avrà nella tracklist rarità e materiale audio mai pubblicato sino ad ora. Praticamente, dopo l’ultimo album in studio, ‘Rather Ripped’, segna il distacco dalla storica Geffen che ha pubblicato tutti gli album della ‘gioventù sonica’ a partire dal 1990. La bassista Kim Gordon ha dichiarato: “ci penseremo su due volte prima di firmare nuovamente con la Geffen”. “Non credo sia una buona cosa che la Geffen ristampi il nostro album ‘Daydream Nation’”. Praticamente un separazione dettata proprio dall’incapacità di rinnovare i rapporti lavorativi, e non solo umani con l’A&R dell’etichetta. Insomma, non pensiamo che i Sonic Youth abbiano tutti questi problemi a trovare una nuova casa discografica. L’uscita del secondo, atteso album dei Bloc Party è prevista per il 2 Febbraio 2007 per Wichita Recordings. Il disco si intitolerà A Weekend In The City. Prodotto da Jacknife Lee e registrato ai Grouse Lodge Studios in Irlanda, questa nuova raccolta di canzoni é il seguito intenso ed emozionante del celebratissimo debutto Silent Alarm. L’album sarà preceduto dal singolo The Prayer. All’uscita di Silent Alarm nel febbraio dell’anno scorso, i Bloc Party sono stati catapul-
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album che uscirà nei prossimi mesi. La produzione sta avvenendo negli studi dei Beastie Boys a New York sotto il controllo di Adam Yauch, meglio conosciuto come MCA. Sono considerati il primo vero gruppo hardcore con venature jamaicane, reggae e rock steady, il tutto avvolto nella religione rastafari. Nati a Washington nel 1975 agli inizi erano un gruppo di jazz sperimentale, nel 1982 pubblicarono il primo album e da lì
tati sotto i riflettori di tutto il mondo, raccogliendo fan e consenso di critica ovunque, per molte testate giornalistiche il loro è diventato uno degli “album dell’anno”. Il risultato? Un milione di copie vendute in tutto il mondo. “A Weekend In The City” è ispirato dall’interesse del cantante Kele Okereke per quello che lui chiama “il rumore vivente di una metropoli”. In “Weekend In The City”, la band cattura ogni dettaglio, dal più frivolo al più terreno, della vita quotidiana all’interno di una città moderna, e la pacata desolazione che si insinua in ogni cosa, dagli spostamenti con i mezzi al sesso occasionale, dall’uscire un venerdì sera al lungo ritorno a casa in macchina nelle prime ore del mattino. Sono canzoni che cercano disperatamente di comprendere il significato che pulsa sotto i momenti del nostro quotidiano: scoppiano di tensione, paranoia, tristezza, amore, e di un intenso bisogno di capire perché la vita in città è diventata così spiazzante. Ancora aperte le selezioni per la nona edizione di ‘O Curt, l’ormai classica rassegna dei cortometraggi organizzata dalla Mediateca S. Sofia e dell’assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Napoli. Anche quest’anno ‘O Curt si svolgerà a Napoli presso l’Institut Français de Naples – le Grenoble dal 4 al 7 Febbraio 2007, e presenterà, oltre alla selezione principale dedicata a cortometraggi a tema libero, una sezione dedicata al videoclip a cura di Freakout Magazine. I formati con cui si potrà partecipare sono il Super VHS, VHS in copia di ottima qualità o il DVD-R e la partecipazione, come sempre, è completamente gratuita. Dal 1996 la Mediateca S. Sofia promuove la rassegna con lo scopo di indagare il mondo della produzione audiovisiva locale e giovanile; il raggio di esplorazione si è andato allargando agli autori nazionali ed internazionali, allo scopo di documentare affinità e differenze. Una delle peculiarità di questa rassegna è la conservazione, di tutte le opere ricevute nel proprio archivio audiovisivo, già dotato di circa 1000 titoli delle precedenti edizioni, tutti visionabili in sede. Le sezioni di cui si compone questa nona edizione sono le seguenti: - Sezione ‘O Curt – Cortometraggi a tema libero - Spazio Educational – Film delle scuole e quelli nati nei contesti sociali. - Spazio Scuole di Cinema - Silenzio in Sala – film senza parlato - Videoclip musicali - Videoteatro Per informazioni (solo sulla sezione “Videoclip”): cinema@freakoutonline.com Le opere, non superiori ai 15 minuti, dovranno essere spedite, unitamente alla scheda d’iscrizione scaricabile dal sito, al seguente recapito: Comune di Napoli - Mediateca S. Sofia via S. Sofia, 7 - 80139 Napoli www2.comune.napoli.it/santasofia
La VI edizione del premio “Out Indies 2006”, frutto della collaborazione con il Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza che, oltre ad essere una vetrina importante per gli appassionati e gli addetti ai lavori della musica altra nazionale è anche la giusta location per la consegna del premio e per il dibattito che ne consegue, giunge alla seconda fase, la più importante. L’obbiettivo del Premio è di mettere in evidenza le realtà internazionali, appartenenti all’universo “indie”. Ricordi favolosi ritornano alla memoria quando alla consegna delle targhe erano presenti i Broken Social Scene, i titolari della label Fat Cat, oppure con Mark Lanegan ad Urbino in occasione di Frequenze Disturbate; ma anche con i rappresentanti italiani delle label straniere vincitrici delle passate edizioni: Audioglobe, Wide, Spin-Go (per conto di Domino, Warp, Ipecac, Thrill Jockey); o ancora del bel mes-
saggio ricevuto in redazione direttamente dagli uffici della Sub Pop; dei premi assegnati ad artisti indiscussi come Notwist, Daniel Johnston e Blonde Redhead. Insomma Out Indies è un’appuntamento che si rinnova ogni anno e sabato 24 novembre ritorna alle ore 13 presso la sala piccola del centro fieristico di Faenza. Anche la sesta edizione di Out Indies giunge al termine, i lettori di Freak Out hanno consacrato, questa volta, due realtà musicali totalmete avulse dal clichè indierock= UK or USA. La label, è infatti una spagnola, la Acuarela Discos, che negli ultimi anni ha portato avanti un progetto discografico tra i più incredibili, facendoci conoscere nuove leve del rock mondiale ma soprattutto coinvolgendo realtà affermate in progetti di coo-perazione e collaborazione che con poca frequenza viene attuato dagli artisti. Mentre è una label italiana, la Homesleep, ad aver scovato e prodotto i belgi Austin Lace (nella foto); con “Easy to Cook” pubblicano il secondo album con sonorità pop poco incline alla “serietà” cantautorale ma piene di freschezza e allegria. La prima fase di votazione ha decretato ben 21 bands e 23 label che in un anno si sono nettamente contraddistinte nel variegato panorama musicale nazionale (e non solo). Un caloroso ringraziamento alla giuria composta da Aurelio Pasini (Il Mucchio), Marco Delsoldato (Kronic.it), Ian Della Casa (Musicclub), Mauro Santoriello (Mtv.it), Tirza Bonifazi Tognazzi (AudioReview Freequency), Michele Casella (Rockerilla), Tommaso Vecchio (Indiezone.it), Giulio Di Donna e Daniele Lama.
Legs McNeal Gillian McCain (Baldini Castoldi Dalai editore) issero che era contro la legge mettere su un’asta qualsiasi bandiera che non fosse quella americana. Allora io issai una bandiera della Svizzera. Mi dissero che non potevo esporre nemmeno quella, così pensai: «Ok, se mi dovete sbattere dentro, almeno che ne valga la pena», e issai la vecchia svastica”. A parlare è Ron Asheton, chitarrista e bassista degli Stooges, ma anche chitarrista nei Destroy All Monsters e Dark Carnival. E questo è solo uno delle migliaia di aneddoti raccontati in “Please Kill me” il libro di Legs McNeil, fondatore della rivista Punk e Gillian McCain, poetessa e redattrice di Poetry Project Newsletter, che, come dice il sottotitolo, racconta “il punk nelle parole dei suoi protagonisti”. Questo libro uscito ad aprile per Baldini Castoldi Dalai (traduzione di Riccardo Vinello, 631 pp, 19 ?) è un insieme di interviste fatte ai protagonisti del fecondo periodo artistico newyorkese tra i ’70 e gli ’80, quando molti dei gruppi che calcavano quelle scene ancora non sapevano di essere punk e soprattutto non sapevano cosa sarebbe stato il punk. Ma è proprio in questi personaggi, nel loro modo di vestire, di comportarsi che questo movimento rivoluzionario poggia le basi. “Alcuni pensavano che Patty (Smith, ndr) fosse una ragazza brutta, capite, come se essere brutti fosse una colpa. Lei però non era brutta, era solo che nessuno aveva un aspetto simile a quei tempi. Era magrissima e si vestiva in modo strano. Aveva un look tutto suo che, a ripensarci oggi, anticipava l’intero movimento punk”, questa, invece, è Penny Arcade, attrice in Women in revolt di Andy Warhol, che diventerà amica della Smith. Possiamo dire che “Please Kill Me” è un montaggio acido degli anni in cui si mettevano le fondamenta a un rock dell’eccesso che avrebbe influenzato le generazioni a venire. Ogni avvenimento è raccontato a più voci alternate. E ci sono tutti: Iggy, che si rotola
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strafatto sui vetri rotti, Lou Reed e Bowie che, in parte, ne escono con le ossa rotte (ma non sono gli unici, Tom Verlaine non ne esce meglio); c’è Patty Smith che aspetta con Robert Mapplethorpe sul marciapiede di fronte al Max’s dove tutta quella vita si svolgeva e che la teneva fuori a causa di quell’abbigliamento strano. Sono gli anni dello stereotipo del droga sesso e rock&roll, che all’epoca si stava costruendo e che oggi va sempre più sfaldandosi. C’è un inventario di droghe al quale può, forse, tenere testa solo il Thompson di “Paura e disgusto a Las Vegas”. In queste interviste c’è la nascita e la morte del punk e di Punk, la rivista di McNeal che partendo da una copertina di Lou Reed e un’intervista ai Ramones divenne un punto di riferimento in quegli anni. Si entra nel mondo rock, sembra di essere seduti a bere una birra al Max’s piuttosto che guardare i Television al CBGB’s e fare di quel locale un monumento alla storia del rock. Sembra di vedere le case fatiscenti in cui vivevano e i fantasmi vaganti nelle notti e nelle strade newyorkesi. Chi non è nato in quegli anni, o comunque non li ha potuti vivere, ma adora il rock and roll, non potrà che farsi trascinare in quelle avventure, che sono, sì, le basi di tanti successi, ma lo sono solo per quelli che alla fine ce l’hanno fatta. Si, perché la morte aleggia, ovviamente, sempre. Sia quella vera che colpisce ad esempio gli Stooges quando morì Dave Alexander, bassista del gruppo, o quelle ben più famose di Nancy Spungen e Syd Vicious, sia quella che sembra accompagnare tutti i protagonisti del libro, come fosse un burrone messo lì a un metro di distanza dal piede di ciascuno di loro. È un lunghissimo backstage con Richard Hell che mette la maglia con su scritta la famosa frase “Please kill me” che dà il titolo al libro ma che la leva per paura che lo uccidano davvero o l’esilarante scena in cui un Elton John travestito da gorilla sale sul palco ad afferrare per la nuca un Iggy Pop strafatto che non capisce cosa ci faccia un gorilla sul palco. Arriva, poi, il momento in cui la scena si sposta dall’America alle strade londinesi dove grazie a gruppi come Sex Pistols e Dead Boys e Clash il punk diventa un vero e proprio genere, un modo di vivere che lo vedrà scontrarsi e non solo metaforicamente con
i Mods. A differenza degli USA dove il punk è sempre un sottogenere del rock solo un po’ più semplice e con qualche riff orecchiabile in più, in Inghilterra questo sarà il genere che la caratterizzerà per un periodo lunghissimo. Uno degli artefici di questo fenomeno fu Malcom McLaren che già ci aveva provato (fallendo in parte), verso la fine della carriera dei New York Dolls e che allontanatosi dal glitter rock, aveva preso in mano, a Londra, un gruppo di ragazzini che chiamerà Sex Pistols (“che per me significava un sacco di cose. C’era l’idea della pistola, di una pin-up di qualcosa di giovane, un assassino attraente – un’arma sexy” dice McLaren) e che porterà in cima al mondo. A loro affiancherà gli Heartbreakers, costola dei NYDolls, che però partirono in tour subito dopo la famosa intervista di Johnny Rotten al Bill Grundy Show, quando più della metà delle date fu cancellata e l’Inghilterra puritana si scatenò contro di loro. E da Londra si torna in America, con il punk inglese che, appropriatosi dell’etichetta, cerca di appropriarsi anche di quel pubblico. È la fine dei Sex Pistols, ma forse è anche la fine del punk come era inteso all’inizio da McNeal. Il punk inglese non ha nulla a che fare con quello americano. “Dalla sera alla mattina il punk era diventato stupido come tutto il resto. Era stato una meravigliosa forza vitale articolata dalla musica che puntava a corrompere qualsiasi cosa, che invitava (…) a scegliere da solo la vita che volevi (…) qualcosa che diceva che non era importante essere perfetti, e che andava bene essere un po’ dilettanteschi e buffi, che la vera creatività nasce dal disordine (…) ma (…) i media si erano impadroniti del fenomeno e l’avevano trasformato in qualcosa di fasullo. Il punk non apparteneva più a noi. Si era trasformato in qualcosa che odiavamo”, così sfoga tutta la sua delusione e disillusione proprio McNeal, lo stesso che con la sua rivista aveva dato via a una parte di quel fenomeno. New York Dolls, Sex Pistols, Hearthbreakers, Mc5, Television, e poi Syl Sylvain, Richard Hell, Jonny, Joey, Tommy e Dee Dee Ramone, le groupie come Nancy Spungen, Connie Ramone sono nomi che ormai sono impressi in maniera indelebile in chiunque ami il rock, e se non conoscete quei nomi, quella musica e quell’ambiente forse potete ancora recuperare qualcuna di quelle sensazioni. Il Punk-rock non sarà morto, ma quanta nostalgia. Scheda del libro: http://www.bcdeditore.it/Catalogo/Scheda_libro.aspx?id=2129 Francesco Raiola
libri
Please kill me
CD, DVD, Lp e Mix NUOVI a PREZZI D’OCCASIONE
recensioni
Sonic’s Rendezvous Band (Easy Action)
i è sempre favoleggiato sulla Sonic’s Rendezvous Band, una della formazioni più leggendarie della storia del rock. Soprattutto perché lo straordinario supergruppo di Detroit, formato dal chitarrista Fred “Sonic” Smith all’indomani dello scioglimento degli MC5, aveva lasciato ai posteri una sola rilucente gemma impressa sui solchi di vinile: l’epocale singolo “City Slang”. Nonostante quell’unica testimonianza discografica, le gesta del gruppo che annoverava la crême dell’hi-energy rock’n’roll della Motor City (il cantante e chitarrista Scott Morgan, ex Rationals; l’ex batterista degli Stooges, Scott Asheton; l’ex bassista degli Up, Gary Rasmussen e, appunto, Fred “Sonic” Smith degli MC5) erano oggetto di una venerazione crescente da un angolo all’altro del pianeta. Le uniche testimonianze sonore rimanevano i bootleg, spesso di bassissima qualità, fino alle due improvvise uscite per Mack Aborn negli anni ’90: gli album compilativi “Sweet Nothing” e “City Slang”. Esauriti e mai ristampati quei dischi, sulla SRVB era calato l’oblio discografico, mentre permaneva intatto il culto, alimentato anche da nuovi fans e nuovi gruppi che ammettevano espressamente di ispirarsi alla for-
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mazione di Detroit (un nome su tutti: gli Hellacopters). Adesso, grazie all’intraprendente etichetta inglese Easy Action, arriva addirittura uno splendido cofanetto sestuplo a raccontare per intero la parabola artistica della Sonic’s Rendezvous Band. Si tratta di cinque album live e uno con raro materiale di studio, per la bellezza di 66 canzoni, 47 delle quali mai pubblicate finora, neppure sui bootleg. Sul primo CD, datato 1975, è documentato un concerto con la prima embrionale line-up. In formazione c’è ancora il bassista Ron Cooke, che firma pure un paio di brani, e diverse cover fanno parte del set (“Promised Land” di Chuck Berry, “Let The Kids Dance” di Bo Diddley). Il secondo disco è un live del 1976 alla Lampere High School di Madison Heights: la band è ormai stabile e affiatata e la maggior parte dei brani sono frutto della penna di Scott Morgan (“Dangerous”, “Asteroid B612”, la splendida “Slow Down (Take A Look)”). Il terzo, registrato al Masonic Auditorium di Detroit nel 1978, rasenta la perfezione: parte con “Electrophonic Tonic” e poi inanella una serie
di brani spettacolari tra cui le epocali “Sweet Nothin’”, “Love & Learn”, “Song L” e soprattutto “City Slang”. Un altro concerto mozzafiato è contenuto per intero sul quarto CD, ma le vere perle del cofanetto arrivano con gli ultimi due dischi. Il quinto “The Melancholy”, sottotitolato “Various Basement Tapes and Live Rarities” raccoglie una quindicina di brani, per lo più provenienti da rarissimi demotape, tra cui una “Step By Step” con Lenny Kaye del Patti Smith Group alla chitarra e la cover dell’oscura “Flight 505” degli Stones. Ancora rarità sul sesto CD, “Too Much Crank”: oltre ai classici del gruppo, spicca la lunghissima, dilatata e psichedelica “American Boy”, con Fred “Sonic” Smith che si occupa pure di suonare un sax in chiave free-form. Raccolta definitiva sulle vicende della leggendaria formazione di Detroit, “Sonic’s Rendezvous Band” è il cofanetto che i fans del gruppo e gli amanti del rock della Motor City attendevano da anni. Letteralmente, un must. www.sonicsrendezvous.com www.easyaction.co.uk Roberto Calabro’
Hermano The Sweet and Easy of Brief Happiness DVD (Suburban records)
uesto DVD è la dimostrazione che gli Hermano, finalmente, si vedono riconosciuto il successo meritato ma a lungo ricercato, e fa piacere scoprire che è proprio l’Europa ad ammettere il valore dell’hard rock band di John Garcìa, l’ex cantante dei Kyuss. Il film infatti fotografa la band durante la fase olandese della tournèe europea del 2005, con l’esibizione in un locale – il W2 –, ed un breve documentario musicato girato durante la data spagnola di Madrid, in cui il gruppo si prepara ad esibirsi sul grosso palco di un festival all’aperto, davanti a circa 15.000 persone gasatissime che li
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acclamano, e persino una comparsata di Nick Olivieri (Kyuss, Mondo Generator, QotSA) che appare per salutare il vecchio collega Garcìa. In più ci sono i 3 videoclip dei singoli estratti dal secondo disco della band ‘Dare I Say...’ del 2005. Splendido il concerto al ‘W2’, rappresentante la parte sostanziosa del DVD ed uscito in versione audio all’inizio del 2006: il video a colori nel locale buio ed affollatissimo è potentissimo, con il quintetto molto concentrato che evita scenette inutili e spacconate e va piuttosto diritto al sodo; gli Hermano dedicano anche un tributo agli imprescindibili AC/DC, suonando una discreta versione della loro ‘Back in Black’. E poi c’è ‘Manager’s
Special dal primo disco ‘...Only a Suggestion’ del 2002, e tutto il resto è tratto da ‘Dare I Say...’. Dalle immagini emerge chiaramente una gradita novità: gli Hermano non sono soltanto un gruppo spalla al servizio del fuoriclasse Garcìa: lì sul palco c’è il mancino Dandy Brown al basso e soprattutto David Angstrom alla chitarra che mostra buona tecnica, tecnica e presenza scenica. Ovviamente Garcìa fa la differenza, è chiaro: con la voce in gran forma e senza fare alcuno sforzo apparente, canta e beve birra che è una bellezza. Tra i videoclip spicca quello di ‘My Boy’, amaro heavy blues stile Cream che parla del pericoloso rapporto tra adolescenti ed armi negli Stati Uniti. www.hermanorocks.com Fausto Turi
Con questo prima uscita nasce una serie di 10” in vinile ed in edizione limitata, frutto della collaborazione tra la Wallace e la PhonoMetak Laboratories, diramazione discografica di Sound Metak di Xabier Iriondo. Questo split è in comproprietà tra gli Zu, che tornano ad affiancare lo stesso Xabier Iriondo, e gli Iceburn. I primi cinque brani sono la massima esaltazione dell’improvvisazione radicale e quindi totalmente libera. Il trio jazz-noise romano si trova perfettamente a suo agio con le svisate chitarristiche e gli approfondimenti di noise elettronico di Iriondo. Gli Massimo e co. danno il meglio di loro mantenendo sempre costante una tensione paradossalmente frenetica ed insofferente che ben si combina con gli anarchismi sonici dell’ex Afterhours. In “Momentum”, infatti, i romani e Iriondo si rincorrono in continuazione, scontrandosi o percorrendo strade parallele, mentre l’eccitazione tesa iniziale “We’re being Manipulated” a metà del brano si schianta e da lì stenta a riprendersi, ma si muove ugualmente, proprio come i personaggi del “Crash” di Cronemberg. Gli Iceburn, alfieri dell’hardcore Usa in questi quattro brani si lasciano andare ad un post-core molto più tirato di quello dei Neurosis, ma superato dalle inflessioni di free-jazz. Se in diversi momenti tirano al massimo poi preferiscono rallentare tornando ad un catartico hardcore, rigorosamente non puro, ma ben contaminato con un elettronica noise, da fare invidia a Trent Reznor. Vittorio Lannutti NORDGARDEN A Brighter Kind of Blue (Stoutmusic) Voce impeccabile da moderno crooner – qualcuno paragona il modo di cantare di Nordgarden a quello di Boublè! – e dita a loro agio tra le corde di una chitarra acustica, il giovane e simpatico cantautore norvegese pubblica anche questo suo secondo disco per l’italiana Stoutmusic, presso cui s’accasò negli anni in cui risiedeva qui in Italia, a Bologna. Terje Nordgarden è un folksinger decisamente tradizionale che parla benissimo l’italiano – mantiene persino un blog in internet nella nostra lingua... – ma canta in inglese; ama abbellire le sue composizioni voce/chitarra con i semplici accompagnamenti della tromba di Peder Øiseth, e poi magari con violino o banjo. Terje non ha mai fatto mistero della sua passione per Dylan – del quale, testimonio, dal vivo esegue anche qualche cover, ed al quale qui è senza dubbio dedicata la canzone ‘What would ol’Bob Say?’ –, nonchè per lo stesso Cash, al quale nella marcetta folk ‘Blessed’ sembra prendere a prestito
lo splendido tono di voce carico di nostalgia, i temi biblici, e quel modo rispettoso, d’altri tempi, che l’uomo in nero aveva di parlare delle donne. Per 40 minuti, ‘A Brighter Kind of Blue’ prosegue placido tra impeccabili bozzetti folk vecchia maniera, che trattano d’amore ed altri temi intimisti, ed un’attitudine soul che ricorda molto i primi dischi acustici di Ani di Franco – ascoltate ‘Good Things Die’ –, malgrado Terje si tenga sempre alla larga dalla canzone di protesta. Molto ispirata la prima parte del disco, c’è una leggera flessione nella seconda, in cui comunque scoviamo la splendida ‘Monday’ in cui il cantante guarda al Mondo, al Lunedì mattina, dalla quiete del suo letto al risveglio. http://www.myspace.com/nordgarden Fausto Turi DAMIEN JURADO And now that I’m in your Shadow (Secretly Canadian) Giunto al settimo disco senza vedersi ancora riconosciuto il meritato successo, Jurado è probabilmente destinato a rimanere un minore tra i cantautori folk americani. Ed è un peccato, perchè tra i contemporanei il biondo dei Seattle – del quale si racconta sia capace di commuovere sino alle lacrime il suo pubblico, ai concerti – ha ben poco da invidiare ai colleghi Oldham, Banhart, Ghelb, Iron’n’Wine, Stevens, Pajo o al suo idolo Springsteen, ai cui capolavori ‘Nebraska’ e ‘Tom Joad’ il nostro ha sempre spiegato di ispirarsi profondamente. Seguo Jurado da tempo, e garantisco che il cantante chitarrista dal viso e dal cognome che rivelano le origini chicane, è rimasto sempre coerente alla musica che ama, persino a discapito del vantaggio commerciale che avrebbe potuto ricevere con qualche singolo più ottimista e frivolo: piuttosto, anche in questo album del 2006, Jurado punta su accordi in minore di chitarra acustica, accarezzata in punta di plettro calcando enfaticamente sui bassi proprio come fa Springsteen; sottolineare puntualmente la cadenza dei bassi con la voce, evitando i tempi dispari, rimane un modo molto comunicativo di suonare, tipico della ‘ballata’, sebbene alla lunga a qualcuno possa sembrare dilettantesco. E poi voce limpida e depressa come novello Nick Drake, armonica, pianoforte, due fedeli compagni d’avventura al basso e alla batteria, e da qualche disco persino tenui e rari inserti di laptop. Mentre le musiche scorrono placide, a cominciare dai 3 strumentali, sono invece storie difficili quelle che racconta Damien Jurado, come in ‘Denton, TX’ dove la giovane protagonista “ha un papà che non ha mai conosciuto, e che le manda lettere dal Texas su cui non c’è mai scritto l’indirizzo del mittente...”, o in ‘Shannon Rhodes’ dove il protagonista va a cercare una donna che aveva amato tanto tempo addietro, per scoprire che nel frattempo lei è morta assassinata da un amante violento; ma soprattutto c’è la murder ballad ‘I Had No Intentions’, in cui Jurado è narratore in prima persona di
un omicidio, calandosi nei panni dell’assassino che spara ad un uomo inerme. E la tragedia si ingigantisce quando Damien recita: “...e sento MIA madre urlare: hanno sparato a mio figlio!”, lasciando così intuire che si tratta di un fratricidio. E l’assassino tiene la mano del moribondo, mentre già si odono le sirene dell’ambulanza che sopraggiunge. Gelosia, tradimento, morte, sogni che restano tali e fanno più male che bene, e vita, vita soprattutto nelle canzoni di Jurado. Nei vari forum in Internet, leggo che i fans americani già parlano di questo nuovo disco dalla candida copertina come del migliore dai tempi di ‘Ghost of David’ del 2000; e bisticciano per interpretare al meglio i testi dell’autore. Damien Jurado sarà in tournèe in Europa tra Novembre e Dicembre 2006. http://www.damienjurado.com/ Fausto Turi BUGO Sguardo Contemporaneo (Universal) Ci fa? Ci è? Non sarò certo io a sentenziare se mister Bugatti ci prende sempre più per i fondelli o se ha dei limiti oggettivi. Per me, qualunque sia la risposta, Bugo va preso in toto per quello che è, un giovane rocker che ha uno stile tutto suo, quantomeno apprezzabile e sicuramente da tenere in giusta e sacrosanta considerazione nel nostro panorama rock. Bugo è perfettamente degno dei suoi tempi, quindi rivendica giustamente il suo sguardo contemporaneo, tanto che considera il grave problema che attanaglia la maggior parte degli individui in età lavorativa che hanno meno di quarant’anni, vale a dire la precarietà in “Che lavoro fai?”, affrontato in modo scanzonato con i la la la la e non come ci si sarebbe aspettato dopo essersi rivelato anche come cantautore nel preceGolia e Melchiorre”. Insomma dente “G Bugo continua a stupire a modo suo, quindi a rimanere fedele a se stesso e basta. Nel suo agire anarchico continua a dedicarsi alle banalità di chi ritiene vitale il gel Ggeell”) o alla demenzialità tanto cara (“G agli Skiantos del rock’n’roll di “Coda d’Italia”. Da sottolineare la produzione di Giorgio Canali, grazie al quale Bugo sviluppa maggiormente la sua inclinazione rock. Quando gli gira, invece, Bugo si riavvolge su stesso nelle ballate melodiche “Una forza superiore” e “Quando ti sei addormentata”. Otmai prossimo ai quarant’anni, Bugo sente il bisogno di recuperare una fantascienza scarna e senza i barocchismi degli effetti speciali di oggi in “Oggi è morto Spock”. Il fantasma di Lucio Battisti aleggia nella descrizione di Amore mio infinito”, in particolare “A nella seconda parte del brano, che diventa un blues, genere che non può mancare mai in un disco di Bugo, lui il rocker metropoli-
tano, ex operaio. www.bugo-net.it Vittorio Lannutti PAOLO NUTINI These Streets (Atlantic) Probabilmente non è solo il fascino esotico dell’italiano a colpire. E forse nemmeno la giovane età (19 anni), così acerba ma sufficiente a mettere in mostra una voce ruvida e particolarmente interessante. Paolo Nutini è la next big thing di provenienza UK. La storia è di quelle che solo in terra d’Albione si possono ascoltare. Festa di un famoso Dj, un ospite acclamato ritarda e il ragazzo italo scozzese si trova, per uno scherzo del destino e l’intrattenimento da parte del Dj, a cantare per la prima volta davanti a una platea. Consensi, plausi e il resto si può intuire facilmente. Contratto con l’Atlantic, ottime posizioni nelle classifiche e apertura viennese nel tour degli Stones.“TThese Streets” è il disco d’esordio. Prodotto da Ken Nelson (già al lavoro con i Coldplay), esce in UK a luglio e solo a fine Settembre dalle nostre parti. Le influenze di Paolo Nutini sono il folk, il soul, Van Morrison nonché gruppi e artisti storici come The Beatles, Pink Floyd, U2. Il risultato del lavoro è un disco ben congeniato che senza strafare negli arrangiamenti riesce a toccare diverse corde dell’animo, emozionando anche con un fare a volte ruffiano. Poche chitarre elettriche, canzoni costruite essenzialmente sulle ritmiche acustiche e il piano (anche elettrico). Basta poco perché poi c’è una notevole voce a fare il resto: calda, strappata, ruvida e ispirata. Il valore aggiunto di questo disco sembra essere la capacità di coniugare la semplicità delle canzoni (dirette anche nelle tematiche, problemi adolescenziali e intoppi nel percorso della vita) e una vocalità estremamente interessante, sulla quale è stato fatto un ottimo lavoro di armonizzazione. White Lies” è l’esempio di quanto “W detto: solo un pianoforte, un violoncello e qualche ricamo di chitarra, il resto è voce che svetta su melodie perfettamente costruite. Momenti da retrò soul sono eviNew Shoes”, denti in “LLoving You” e “N essenziali e spogli ma in perfetta armonia con la tradizione, mentre il folk di “These Streets” risponde alla sensibilità pop del Million singolo “LLast Request ” o “M Faces”. “Jenny Don’t Be Hasty” apre in Rewind” è modo graffiante il disco e “R una rivisitazione folk-pop degli U2 di “With Or Withou You”: un disco vario che mantiene desta l’attenzione, facendosi ascoltare piacevolmente. Adesso vedremo se Paolo Nutini farà la stessa fine che si è scelto James Blunt, sempre più lontano dalla purezza degli esordi e sempre più vicino al gossip e alle nuove tendenze poppettare. www.paolonutini.com Stefano De Stefano
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ZU WITH XABIER IRIONDO/ICEBURN Phono Metak Series 1 Wallace/Phonometak Labs Split Series #1
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CAPTAIN This Is Hazelville (Emi) Esce, finalmente, dopo essere stato anticipato da tre singoli, Glorious, Broke e Frontline, l’album di esordio dei Captain, una delle band più talentuose del circuito londinese al momento in circolazione. La EMI se l’è astutamente catturata, e i Captain sono destinati a diventare, se non proprio famosi (non ci sbilanciamo per ora) almeno conosciuti anche qui da noi. Perché la loro musica è facile, melodica, piacevole, pur non essendo affatto commerciale. Con This is Hazelville, sfiorano l’album perfetto: su undici pezzi, 8-9 colpiscono al primo ascolto, e reggono bene anche agli ascolti successivi. Oltre i singoli, bellissime sono anche Hazelville, la track che apre l’album, dolce, raffinata e suggestiva, e un tradizionale rock and roll come This Heart Keeps Beating for Me, nonché la ballata acustica Summer Rain. Insomma un prodotto ben confezionato davvero, certo senza distaccarsi dalle regole del mercato più standard, come la release dei classici tre singoli, seguiti da altrettanti video, disponibili anche sul sito della band. Ma se il mercato a volte è in grado di fornire musica di qualità, ben venga: e questo è il caso senz’altro dei Captain, una band dalle sonorità fortemente bretoni, quasi celtiche diremmo, tanto da far ricordare i Cranberries se si eccettuano le schitarrate più densamente rock e la voce ovviamente inimitabile di Dolores O’ Riordan. Ma, per il resto, quello dei Captain è un ottimo pop-rock melodico fatto di atmosfere e armonie più che distorsioni e grida, e a funzionare molto in questo senso è la doppia voce maschio-donna in quasi ogni pezzo, di Rik Flynn e Clare Szembek, sorretta dalla precisa batteria di Reuben Humphries, dal basso di Alex Yeoman e le chitarre di Mario Athanasiou. E’ facile intuire anche dai nomi che siamo in presenza di una band londinese che si avvale dei contributi di Grecia e Est Europa, oltre che di tributi provenienti dall’Irlanda delle brughiere. E tutto questo c’è e si sente nell’album, e funziona benissimo. Davvero consigliabile a chi ama le melodie ben strutturate e odia le sperimentazioni. www.captaintheband.com Francesco Postiglione BECK The Information (Interscope)
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A un anno e mezzo di distanza da “Guero”, torna in pista Beck con “TThe Information”. A dispetto di quanto si possa pensare, il nuovo album dell’icona della Generazione X ha avuto una lunga gestazione. Registrato tra l’inverno del 2003 e la primavera di quest’anno tra il garage di casa Hansen e gli studi Conway e Ocean Way di Los Angeles, il disco segna il ritorno del produttore Nigel Godrich (Radiohead/Travis/Pavement/Air) già apprezzato nei fortunati “Mutations” e
“Sea Change”, i suoi lavori più introspettivi. Il cd (15 brani più “IInside Out” per il mercato europeo), è corredato da un dvd con i video di tutti i brani dell’album (in Cell Phone’s Dead compare anche l’amico Devendra Banhart) e da una copertina particolarissima: all’interno del jewel box sono disponibile una serie di adesivi per personalizzare l’artwork a proprio piacimento. L’estro creativo di Beck resta intatto, non c’è che dire, anche se non tocca i livelli del capolavoro “Odelay”. Il maestro del cut up non ha perso, però, quella vena ironica che contraddistingue la sua opera: “EElevetor Music ”, “TThink I’m In Love” e “C Cell’s Phone Dead” seguono la falsa riga del precedente album, mentre “Soldier Jane” sembra aggiungere una Strange ventata di psichedelia. In “S Apparition” riecheggiano gli Stones più acustici coi quali Beck ha diviso il palco per un mini tour in Nord America nell’estate Nausa” è il primo grande del 2005. “N acuto, una sorta di Iggy Pop del terzo milNew lennio. L’ipnotica cantilena di “N Dark Star” e la Round”, la successiva “D Motorcade” mostrano il lato rarefatta “M più oscuro del cantautore californiano, portato all’estremo dall’ottimo apporto di Goldrich che si concretizza appieno in epiWe Dance sodi più elettronici quali “W Alone” e “1000Bpm”. Se la titletrack sembra fare il verso al lato dark degli anni No Complaints” lo fa a quello più ’80, “N Movie Theme” e acustico. L’elegante “M l’angosciate suite “TThe Horrible Fanfare/Landslide/Exoskeleton” (10 minuti di delirio beck-iano), portano a conclusione un disco piacevole che testimonia, ancora una volta, la poliedrica capacità compositiva di uno tra gli artisti più innovativi dell’ultimo decennio. Un musicista che compone e scompone in un vertiginoso zapping, il folk, l’hip-hop, la musica elettronica, il funk, la dance. Beck canta, rappa, mixa suoni e rumori, suona le chitarre, il basso, la batteria, il piano, l’organo, l’armonica, il sitar, percussioni varie e l’immancabile gameboy, il tutto in un frullato sonoro che mette a braccetto le tinte più scure del low-fi, tanto care a Mr. Hansen dai tempi di “Mellow Gold”, con i colori cangianti della più raffinata musica POPular. www.beck.com Umberto Di Micco JOANNA NEWSOM YS (Drag City) La copertina di “YS”, ultimo lavoro di Joanna Newsom , opera del pittore Benjamin Vierling, pare uscita direttamente dal XVI secolo. E non è un caso che il disco sia stato arrangiato da Van Dyke Parks, già collaboratore di Brian Wilson e i Beach Boys, e autore di arrangiamenti sopraffini da Randy Newman agli U2 di “Joshua Tree”. La Newsom gli ha chiesto che l’arrangiamento orchestrale andasse in parallelo con il binomio voce/arpa, senza voler assolutamente amalgamare il tutto. Cosa abbastanza insolita da chiede-
re a una persona del calibro di Van Dyke Parks che, armato di pazienza, impiega otto mesi per dar vita agli arrangiamenti del disco. Insomma alla fine si sapeva che si sarebbe andati incontro ad un disco dal forte impatto contenutistico. Un lavoro camaleontico: un disco vero e proprio (56 minuti) o un EP (sono solo 5 le tracce)? Emily”, dedicato alla madre, “S Sawdust “E & Diamonds”, dai toni bardici e medioevali con Parks alla fisarmonica, “ Only Skin”, il brano più epico e cinematografico dal finale straordinario e la conclusiva Cosmia”, una confessional song, sono le “C Ys” (titolo, per cinque composizioni di “Y inciso già usato dai napoletani ne “Il Balletto di Bronzo” di Gianni Leone nel 1971, Polydor.). Beh, quale è stata lo vostra fiaba preferita, quale quella che da piccoli, vi raccontavano per farvi addormentare? Rileggetela e ascoltate questo disco, il resto verrà da se. www.dragcity.com/bands/newsom.html Ciro Calcagno VIRGINIANA MILLER Fuochi Fatui d’Artificio (Radio Fandango) Quinto disco in carriera, per questo sestetto livornese in giro da ormai 10 anni, che assieme a Perturbazione, Baustelle, Têtes de Bois, Bugo e pochi altri cerca coraggiosamente un’evoluzione per il pop italiano evitando, grazie a dio, di appiattirsi semplicemente su modelli anglofoni d’importazione; i Virginiana Miller, piuttosto, hanno nel loro Dna molta della musica d’autore italiana degli ultimi 30 anni, e dopo aver suscitato in passato grandi consensi di critica – specie con il precedente ‘La Verità sul Tennis’ del 2003 – oggi sanno di potersi legittimamente proporre ad un pubblico più ampio con canzoni che, pur testimoniando la definitiva maturazione compositiva, mostrano continuità, in ogni caso, con i lavori precedenti. Segno evidente che i Virginiana Miller hanno messo perfettamente a fuoco cosa vogliono fare: qui ci sono le belle canzoni pop profonde (‘Dopo la Festa’), tenere (la pinkfloydiana ‘Formiche’, la drammatica ‘Onda’), sbracate (‘Re Cocomero’, ‘Commodore 64’), su temi storici e geopolitici (‘La Sete delle Anime’, ‘Italia-DDR’), e ci sono, finalmente, un paio di potenziali tormentoni radiofonici (‘Dispetto’, ‘Per la Libertà’). Questi ultimi mancavano – diciamoci la verità – nel repertorio del gruppo, e potrebbero sbloccare i Virginiana Miller dal solo successo di critica verso un pieno riconoscimento di pubblico, senza costringerli ad arrendersi, e passare necessariamente da un festival di Sanremo. La voce imperfetta di Simone Lenzi mi affascinava già in ‘La Verità sul Tennis’: voce ordinaria la sua, scarsa per estensione tonale, neanche tanto intonata ma tuttavia profonda, comunicativa soprattutto nelle melodie lente e tenebrose come ‘Italia-Ddr’. Che bella, la girandola di riferimenti e citazioni – mai banali – che i più attenti potranno riconoscere in questo disco: c’è l’oro di Dongo, i Winter
Games del commodore 64, Uri Geller – ‘la mente che piegava i cucchiaini, che poi non ci giravi più il caffè...’ –, il sovietismo tanto caro ad Offlaga Discopax – ‘a volte t’ho pensata oltre cortine... di silenzio e di spine...’ –, gli ecomostri che affollano i nostri litorali costieri. Ma tra tutte le storie, è l’impossibile parallelismo in ‘La Sete delle Anime’, tra l’omicidio (perchè, avete dei dubbi?) di Enrico Mattei e l’atroce vicenda del servo cantore di Alessandro Magno, a colpire il bersaglio: lì c’è il colpo di genio creativo e il dono della sintesi di Simone Lenzi. http://www.virginianamiller.it/ Fausto Turi RAMONA CÒRDOVA The Boy Who Floated Away (Sleepin star) Prima ipotesi: Ramona Còrdova è la moglie di Pachito Còrdova, giovane e talentuoso calciatore sudamericano, appena acquistato dal sempre munifico presidente dell’Inter, Massimo Moratti, per la modica cifra di 50 milioni d’euro e che, fra pochi mesi, verrà rivenduto dal succitato proprietario dell’Internazionale Football Club in cambio di 1/3 del cartellino di Pelè, 0,5% del ricciolo di Maradona e di un super 8 andato a male, contenente le finte di Omar Sivori. Capito l’affare? Seconda ipotesi: Ramona Còrdova è una “freschissima” starlette proveniente dai paesi dell’est europeo. Affetta da prosperosa “senilità posticcia”, la ragazza non spiccica una parola d’italiano perciò verrà presto promossa a conduttrice di un varietà ancora da definire su Rai 1 o Canale 5, tanto fa lo stesso. Credi che, come direbbe il buon Antonio Di Pietro, c’ho azzeccato caro Sherlock? Diamine Watson ma prendi sempre lucciole per lanterne? Ramona Còrdova è il nome d’arte nonché la nonna di Ramòn Vicente Alarcòn, ventiduenne cantautore statunitense che da poco ha pubblicato il suo album d’esordio: The Boy Who Floated Away (Sleeping Star records). Più che una semplice raccolta di canzoni sparse, il disco racconta l’iniziazione amorosa dell’adolescente Giver da parte di una giovane zingara di nome Marcìa e delle sue avventure su di un’isola sperduta. Se il plot narrativo segue per sommi capi tale trama, l’onirico timbro vocale di Alarcòn col suo falsetto naturale, vagamente alla Jeff Buckley, dona ai pezzi un adeguato tono trasognante. Sul versante musicale, invece, oltre alla chitarra acustica, eccezion fatta per sporadici episodi come il flamenco gitano di “IInside The Gipsy Bar” o la marcetta per organo e batteria di Giver’s Reply”, non rimane molto altro, “G ammesso che una maggiore infiorettatura sonora avrebbe reso “TThe Boy Who Floated Away” migliore di quello che già è. Ora hai capito come stanno le cose, caro Watson? E mi raccomando, la prossima
VALDERRAMA 5 Guess who’s bigamous (autoproduzione) E’ finita l’estate, piove come dio comanda da tre giorni e voi siete metereopatici? Il/la vostro partner v’ha lasciato/a e/o avete scoperto che se la intende col vostro migliore amico? Insomma: non ne va bene una? Allora probabilmente l’unica speranza per ridare colore alle vostre insignificanti, grigie giornate è quella di far incrociare la vostra strada con quella dei Valderrama 5. La super-band (è da un bel po’ che nessuno ha ben chiaro quanti siano precisamente i componenti del gruppo) napoletana conosce un rimedio infallibile contro l’ipocondria e il mal d’amore: è un portentoso tonico (per il corpo e per la mente) a base di rock’n’roll sudaticcio (ascoltate “Panciotto”, dove bubblegum pop e garage rock s’azzuffano che è una meraviglia), melodie sdolcinate (“Fourteen” rasenta – che ci crediate o meno – la perfezione pop), bossa nova barcollante, easy listening stucchevole (“I just wanna know your coiffeur”, il romanticismo surreale di “Balla con me”), handclapping irresistibili e vibrafoni, coretti sixties e tamburelli impazziti. Da segnalare anche la splendida copertina, citazione del mitico gioco “Indovina chi?”, con le facce dei componenti del gruppo (e amici vari) al posto dei personaggi originali. Peccato solo che la registrazione non renda al meglio l’energia del gruppo, di gran lunga più apprezzabile nella dimensione live. In ogni caso, un buon biglietto da visita per chi (poveri voi!) non conosce ancora la band. In attesa che qualcuno si decida di investire finalmente fior di quattrini per produrre un disco come si deve alla più grande rock’n’- roll band che questa povera città abbia mai conosciuto. www.valderrama5.com Daniele Lama NIKKI SUDDEN The Truth Doesn’t Matter (Sleeping Star) La storiografia della musica rock è piena di artisti di talento che, nella loro lunga carriera, non hanno raggiunto il successo di massa che pure avrebbero meritato. Spesso si suole definirli come “cult hero”, dimenticandosi che di “cul” in senso stretto ne hanno avuto davvero poco… Mai che a costoro sia capitato di vendere dischi in quantità industriali, al pari di logore cariatidi tipo Madonna (a proposito, cara
Maddy, se ti capitasse di leggere questa recensione e volessi adottare un simpatico ragazzino italiano un po’in là con gli anni, here I’m!!!!!), Michael Jackson (l’unico cantante ad amare veramente i bambini…) o George Michael (proprio musicista in “erba”, non c’è che dire…). In trent’anni di onorata attività, prima con gli Swell Maps in combutta col fratello Epic Soundtrack, quindi con i Jacobites e poi in solitario, Nikki Sudden si è costruito una solida fama di rocker, senza per altro ottenere degli adeguati riconoscimenti di vendite, pari al valore delle sue opere. Non deve essere un caso se “colleghi” del calibro di Sonic Youth, REM, Pavement e compagnia bella hanno speso parole d’elogio nei suoi confronti. Magari incompreso ma non per questo vinto, negli ultimi anni Nikki era relativamente tornato in auge finchè, ad inizio di quest’anno, non è passato a miglior vita… Prima di tale luttuoso evento era riuscito, comunque, a completare un nuovo disco, “The Truth Doesn’t Matter”, che proprio in questi giorni viene pubblicato in Italia. In esso traspare in modo evidente che la sacra fiamma dell’ispirazione non aveva abbandonato Sudden. Quanti imberbi pseudo-rockers d’oggigiorno sarebbero infatti, capaci di concepire un pezzo glam così trascinante come “Seven Miles”? Chi potrebbe citare gli Stones (“Don’t Break My Soul”, “Empire Blues”, “Burgundy”) senza risultare patetico, se non il nostro uomo? A quale pazzo verrebbe in mente di confrontarsi con una ballatona in stile dylaniano (“Green Shield Stamps”) e non avvertire qualche senso di colpa? Nikki Sudden era tutto questo ed anche molto di più… Piuttosto che spendere altre inutili parole, meglio lasciarci con una dichiarazione dello stesso Sudden, decisamente illuminante sulla statura artistica del personaggio “…Credo che continuerò a suonare fino alla fine dei miei giorni. Non vedo modo migliore di passare la propria vita se così si è in grado di rendere felice se stessi e gli altri. La cosa più importante di tutte? La tua anima….”. R.I.P. www.nikkisudden.com LucaMauro Assante DUOZERO Esperanto (Smallvoices) Al secondo disco in carriera, il duo italiano formato da Enrico Marani e Fabrizio Tavernelli – dedito ad un’elettronica d’avanguardia non cantata, piuttosto recitata – prosegue nell’approfondimento di nuovi linguaggi adatti a valorizzare la comunicazione interpersonale e la rappresentazione della realtà in tutta la sua moderna complessità, senza semplificazioni o banalizzazioni. Ecco dunque il ricorso al multilinguismo, con vari ospiti che intervengono recitando spesso i loro stessi testi in inglese, francese, slavo, italiano ed... esperanto: si, proprio la lingua cui fa riferi-
mento il titolo del disco, creata a tavolino circa 30 anni fa come possibile nuova lingua europea, e che – fortunatamente per gli studenti delle scuole – non ha mai preso piede. Più che una lingua morta, una lingua nata morta, dunque! Il disco dura ben 72 minuti – decisamente troppi, soprattutto per un contenuto sonoro così meditativo – e s’avvale di una lunga lista di ospiti, che contribuiscono in misura varia: c’è Massimo Zamboni (CCCP, CSI) che legge un brano del poema di S.T.Coleridge sul “Vecchio Marinaio”, e poi Aristide Leonetti, che addirittura vanta d’aver studiato musica con i due fondamentali esponenti dell’avanguardia del 900 Berio e Maderna, che dà il suo apporto con nastri e fruscii; e poi lettori stranieri e musicisti elettronici come l’americano Tim Matzer ed il giapponese Kenko Oshi. La musica di Tavernelli e Marani non cerca soluzioni ad effetto, piuttosto procede sicura su lenti beat regolari e drones arcinoti, prendendo a modello più l’avanguardia colta: in pratica la musica classica del 900: Cage, Berio, ed in parte l’elettronica psichedelica moderna: tipo Black Bondage, Per Grazia Ricevuta, Aphex Twin. Così ‘Esperanto’ scorre provocatorio e profondo ma anche piatto ed estenuante, non riuscendo fino in fondo a farsi digerire anche per scarsezza di creatività. Non bastano i due singoli pop – ‘September’ ed ‘Esperanto’, peraltro pure piacevoli – a facilitare l’ascolto, ed anzi, gli stessi appaiono equivoci in un disco così colto e pretenzioso. Fausto Turi IVER & THE DRIVER Samples and Oranges (Ghost) Dietro il nome Iver & the Driver si nascondono due valenti musicisti che corrispondono ai nomi di Giustino Di DeGregorio, rumorista elettronico che nel ’99 arrivò ad incidere per la Tzadik di un certo John Zorn e Paolo Marini, che ha suonato il basso con gli Orange Indie Crowd e ha suonato e cantato con i Famous Player. I due, entrambi abruzzesi, dopo essersi incontrati hanno deciso di fare qualcosa insieme e ne è venuto fuori questo suggestivo ed intrigante lavoro: una perfetta via di mezzo tra Nick Drake e i Kraftwerk, tuttavia, senza assomigliare eccessivamente né all’uno, né agli altri. Nei dieci brani di questo esordio si respira un’aria tranquilla, rilassata, nella quale i due musicisti, coadiuvati da Andrea Cajelli in un paio di tracce, si lasciano andare a ballate dalle più diverse sfumature. L’iniziale “TThe scene of the park” si struttura su un lounge scarnificato grazie ad una chitarra acustica che ricorda alcune cose di Caetano Veloso e ad un’elettronica minimale, il tutto su un cantato semplificato e senza pretese. Nonostante i trascorsi rumoristi Di Gregorio con i suoi samples non è mai invadente, ma sempre estremamente com-
plementare al lavoro del suo compagno, a parte qualche rarissima eccezione. Qua e A là compare un pianoforte, come in “A wrong song” dove si avvolge insieme alla chitarra in una piacevolissima ballata. Altra caratteristica accattivante di questo esordio è proprio la ballata, anche se riletta in maniera obliqua (”Words on a Mad ballon”). www.myspace.com/iverandthedriver Vittorio Lannutti JOE LALLY There To Here (Dischord) Spesso gli album da solisti risultano essere vuoti esercizi stilistici o inutili vacanze artistiche, altre ancora lavori privi di contenuto o semplici i m p o s i z i o n i discografiche. Non è il caso, però, di “TThere To Here”, il primo album solista dell’ex-Fugazi (?) Joe Lally. Per questo disco, Joe ha deciso di proporre una serie di pezzi per basso e voce, con arrangiamenti semplici, coinvolgendo gli altri Guy Picciotto e Ian Mackaye) e Fugazi (G amici-musicisti quali Amy Farina (The Evens), Jason Kourkounis (Hot Snakes), Jerry Busher (French Toast), Danny Frankel (KD Lang), Eddie Jenney (Rities of Spring, One Last Wish), Atonia Tricarico e il leggendario Scott “Wino” Weinrich. Registrato tra gli Inner Ear Studios e Dischord House dall’amico di ventura Ian Mackaye, ‘There To Here’ presenta 13 tracce per un totale di 41 minuti di buona musica, in cui atmosfere notturne e rarefatte fanno riecheggiare i Morphine del compianto Mark Sandman e gli avanguardisti Slint, piuttosto che il post-hardcore dei suoi Fugazi. Un disco minimale, scarno nelle sue parti essenziali, ma non per questo povero di idee. Un lavoro onesto, piacevole da ascoltare, incentrato principalmente sul basso elettriReason To Believe” per co. Si parte con “R poi proseguire con la ruvida “TThe Resigned” e l’antimilitarista canzone a cappella “Sons And Daughter ” che fa da apripista per “Like A Baby”. Gli episodi più blues del disco sono “LLidia’s Song” e Billards”, mentre “X-ray The Lullaby” e “B “Factory Warranty” quelli più delicati e jazzati. I brani più politici sono senza dubbio Pick A War” e “M Message From Earth” “P (con un fuck you conclusivo che la dice lunga), nei quali è il contenuto dei testi a catturare l’attenzione rispetto alle corpose linee di basso che Lally disegna. Chiudono il disco la cupa “Perforated Line” e “All Must Pay?” con la chitarra di Guy Picciotto in bella mostra sul finale, quasi a dire: ci sono anche se non mi avete notato! www.joelally.com Umberto Di Micco
recensioni
volta lascia stare la tua ironia da quattro soldi. Saluti , John….ops…volevo dire… Sherlock …Holmes. www.ramonacordova.com LucaMauro Assante
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Alpheus, Roma 9.11.2006
Neppure quindici anni fa Evan Dando era l’indiscussa star della scena alternativa a stelle e strisce. Idolo generazionale, adorato dalle teenager di mezzo mondo, sempre sotto i riflettori e sulle copertine delle riviste patinate. Mentre i Lemonheads, la sua band, venivano considerati – assieme a Nirvana, Dinosaur Jr e Buffalo Tom – gli esponenti di punta della scena alternativa di quegli anni. Poi gli abusi, una vita sregolata, il successo di massa che sfugge sempre per un soffio e l’inevitabile scioglimento del gruppo, decretato nel 1997 al termine di un’apparizione al festival di Reading. Dopodichè del nostro uomo perdono le tracce. Passerà parecchio tempo prima che il biondo chitarrista e songwriter torni ad essere nuovamente ispirato, superando anche un lungo periodo di depressione. Come nelle migliori favole a lieto fine, è l’amore a far ravvedere il buon Dando. Convola a nozze nel 2000 e, più o meno nello stesso periodo, inizia a collaborare con i Giant Sand. L’anno seguente torna sulle scene in solitario, grazie a un pregevole live semi-acustico: “Live At The Brattee Theater/Griffith Sunset”. E’ il preludio a “Baby I’m Bored” (2003), album di discreta fattura nonché primo lavoro ad essere intestato unicamente a suo nome. Quindi nel 2005 l’idea di riesumare la vecchia sigla e mettere in piedi una nuova line-up dei Lemonheads. Detto, fatto: in dodici mesi il terzetto realizza il nuovo omonimo album. Ed è proprio per promuovere “Lemonheads” che la band arriva in Italia. Pur non essendo mai stato un fan della formazione bostoniana, l’idea di un concerto dei “nuovi” Lemonheads mi intriga parecchio. Soprattutto per la curiosità di vedere Evan Dando ora che non è più il protagonista delle cronache rosa e delle riviste di moda, e ormai neppure un’icona del rock alternativo. Mi interessa capire come è “invecchiato” e come è cambiata, se è
cambiata, la sua musica. Alle undici meno un quarto di un tranquillo giovedì di novembre, i nuovi Lemonheads salgono sul palco dell’Alpheus di Roma. Assieme a Dando, cappellino di lana in testa e addosso una maglietta vintage con l’effige di Rod Stewart (tanto kitsch da essere bella!), ci sono due pezzi da novanta del punk americano: Bill Stevenson (Descendents, Black Flag) alla batteria e il simpatico Karl Alvarez (Descendents) al basso. Un powertrio impeccabile. In poco più di un’ora il terzetto regala ai pochi fans presenti (neppure un centinaio) una manciata di brani vecchi e nuovi. Musicalmente parlando, il tempo sembra essersi fermato a dieci-dodici anni fa: melodia e distorsione a braccetto, pezzi veloci e accattivanti alternati a episodi più meditati: da “The Great Big No” e “Down About It” a “Hannah & Gabi”, passando per il ritmo inconfondibile di “Confetti”, la ballatona “It’s About Time”, fino alle nuove “No Backbone”, “Baby’s Home” e “Pittsburgh”, tratte dall’omonimo album del ritorno. Ad essere cambiata, invece, è l’atmosfera. I Lemonheads non sono più la “next-big-thing” del rock alternativo americano, i pochi fans presenti apprezzano il concerto senza troppe manifestazioni d’affetto. A questo contribuisce anche l’atteggiamento di Evan Dando, quasi da “shoegazer”: non dice una parola, mette in fila i brani uno dietro all’altro come se avesse fretta di finire, guarda ossessivamente la set-list ai suoi piedi e non rivolge la parola al pubblico. Il concerto scivola via piacevole, ma senza alcun picco emotivo. Forse per questo Dando prova a rianimarlo alla fine: saluta col dito medio, se ne va… , e dal retro del palco scaraventa una sedia verso gli astanti. Ma quasi nessuno se ne accorge… Roberto Calabrò www.thelemonheads.net
Babyshambles Auditorium Flog Firenze 19.10.2006 Pete Doherty appare e scompare tra decine di teste davanti a me. E’ vicino, ma intoccabile. E’ lui la star, tutto il resto è scena. Ogni elemento della massa non vorrebbe altro che toccarlo. Stride la chitarra sugli accordi di Fuck Forever. Ci siamo. E’ l’orgasmo collettivo, Doherty lascia cantare i cori che seguono il pezzo parola per parola e quando riprende contatto con il microfono ne esce fuori un’interpretazione sbiascicata e convulsa. Ci sarà un motivo se nel febbraio 2006 la band ha vinto il Naomi Award per la Peggiore Esibizione Live. Ma niente vale
di più la pena di non poter quasi respirare, per quegli unici momenti di esaltazione pura. Ai fans Doherty piace così. Diciamocelo, Pete Doherty e i suoi amici non hanno inventato niente di nuovo. Le sonorità dei Clash, dei Sex Pistols e se volete anche un po’ di Smiths hanno già lasciato la loro impronta. Per non parlare dei The Libertines, ex band da cui venne allontanato per il suo uso di droga. Ma Doherty è strumento e protagonista allo stesso tempo dello star system di inizio millennio. What’s the use between Death and Glory…Doherty cavalca ancora l’onda del nuovo brit-rock, è una gloria effimera e forse lo sa, oltre il biancore del volto su cui affondano i solchi segnati degli occhi, la morte è sempre alle calcagna, ma per ora può decisamente aspettare e forse davvero non lo raggiungerà mai. Il nuovo secolo apre sempre qualche scorcio di decadenza e lui è il fantasma che perfettamente incarna il nuovo maudit: volto d’adolescente timido, voce immatura che risveglia istinti materni, testi che a tratti rigurgitano menefreghismo antisociale o fischiettano qualche momento di sublime spensieratezza, a tratti contestano inaspettatamente lo sciacallaggio dei media, The Sun/they make you out to be a tearaway… e un po’ di ribellismo che non guasta mai, The way they make you toe the line… tra accelerazioni che risvegliano istinti ed un certa morbida sonorità di bassi che ricorda poltrone di velluto, che noi anonimi fradici fans non accarezzeremo mai, mentre lui può farci cosa vuole. Salvo arresti improvvisi, naturalmente. E’ l’immaginario a fare da supporto alla band ed una mitologica femminile figura…(Dove sarà Kate?) Peccato, me la sono persa. La sua visionaria apparizione sul palco, a far vibrare due corde vocali nel microfono ,lei, l’altra faccia del pianeta Doherty, per dieci secondi in La belle et la bête, che bastano a far salire ancora di più la temperatura in platea. Frotte di arditi si arrampicano più volte sulle pendici del palco, per avere un contatto con la stellare atmosfera dell’ universo Pete&Kate, la sicurezza ha un bel daffare a tirarli giù. Troppo impegnata a sopravvivere, a riemergere dal fondo dopo uno sgusciante contatto con il linoleum, non ho visto un bel niente. Poi in un momento, le luci si abbassano, il sipario cala, Doherty guadagna le quinte dopo appena un’ora. E per sempre. Doherty non ripete. La folla protesta, fischia, inneggia, infine si dirada. Scambio qualche commento di delusione, poi mi scopro sola. E scopro anche che il mio sfavillante impermeabile rosso a cavallo della mia borsa è scomparso. Nessun resto sul linoleum.
Pete esce improvvisamente dal backstage, di nuovo il tasso atmosferico di divismo sale. Mi faccio spazio tra la calca di mani frementi autografi. Vedo rosso. Sgrano le pupille, metto a fuoco oltre i fumi dell’alcol (se l’è pure messa a rovescio!) decifro l’etichetta dietro la nuca: è il mio impermeabile rosso. Inizio a chiamarlo per nome. Troppo occupato a scrivere, testa china sulle sudate carte. Urlo ancora più forte, nessun risultato. Mi irrito profondamente. (E’ la mia giacca rossa!) A questo punto rispolvero l’intero vocabolario di parolacce inglesi che neanche sapevo di conoscere, scado nel vituperio. Colpa dell’alcol? Forse sì. Forse la coscienza di qualcosa di più. Intanto i discepoli, contraddetti, mi apostrofano polemizzanti: ehi, ma non sei contenta? L’ha presa Pete Doherty, mica uno qualunque! Ed è proprio questo il punto. Proprio non mi va giù la logica per cui, solo perché è una star, si può permettere di non restituire le cose che non gli appartengono. Giunta al limite della tensione delle mie corde vocali, Pete alza la testa: un unico movimento, una breve sospensione dal tempo, mi fissa con uno sguardo impassibile e vuoto. Siamo io e lui, per pochi istanti, occhi tesi sulla traiettoria dello spazio che ci separa, immobili. Gesto unico di riflusso, il filo cade, scrive l’ultimo autografo mentre lo chiamo ancora citando sua madre. Si alza, se ne va, voltato verso l’uscita di fondo spalancata, un volo rosso come un scia, oltre la soglia, i buttafuori dietro di lui come segugi. Uno di loro si distacca e mi dice che non me lo ridarà mai. Scavalco le transenne, fomentata da alcuni facinorosi improvvisamente passati dalla mia parte. Nessuno mi ferma, mi ritrovo dritta davanti all’auto, circondata da una nuova piccola folla di accaniti fedeli, busso fortissimo sul vetro, Kate mi guarda atterrita, Pete è di nuovo altrove. L’auto apre un varco, fugge via. Mi ritrovo improvvisamente fradicia, sotto la pioggia battente, sola. Lo spettacolo ora è davvero finito. Fuck forever Pete. Maria Angela Rocchi www.babyshambles.net
live report
Lemonheads
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intervista
f o u r
un politicizzato dell’elettronica intimista
oncetto taoista del mutamento: Kieran Hebden alias Four Tet, un politicizzato dell’elettronica intimista e personaggio fluido, aperto, in divenire. Infinite, in un afosa giornata di luglio, sono state le domande che gli ho posto, trasformatesi in breve in una specie di discussione a più livelli (avevo scoperto che il numero a cui chiamavo era di casa sua, questo ha stimolato la mia invadenza, non senza goderne dei frutti, anche se penso che abbia successivamente cambiato recapito!!). Un dialogo appunto, come direbbe lui, incessante, talora dai fini più speculativi, intriso di ampi spunti di riflessione sociologica.
C
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t e t
Anzitutto sono sconcertata - lo dico per rompere il ghiaccio hai lavorato con nomi quali Pole, Aphex Twin, 2 banks of four his name is alive e tantissimi altri, poi una fruttuosa ed interessante amicizia nata quasi per caso con Steve Reid. Ci sono ancora collaborazioni in atto con Sam Jeffers e Adem Ilhan del tuo originario gruppo di formazione, i Fridge? C’è amicizia, dunque ci teniamo sempre in contatto, cosa che in passato ha dato alcuni frutti, anche per il mini cd con quattro remix facemmo lo stesso, capitano le idee e ci scambiamo argomenti di valutazione e opinioni… Cosa significa per te remissare, reinterpretare? L’elettronica acquista questo nuovo metodo, come nelle peel session di jazz o come quando si ascoltano interpretazioni di pieces di
musica classica…i tuoi mezzi sono radicati nell’elettronica…e tu rielabori per puro piacere di rioggettivare o cosa? E’ appunto questo il motivo, come nelle session jazz analizzo un pezzo che mi ha particolarmente colpito ed unito ad altri nell’ambito di un dj set, con una mia logica elaboro una tensione per esprimere le cose che sento. Testimonio e rielaboro emozioni più o meno forti. L’importante è trovare i mezzi giusti per proporre ogni singolo punto di vista… La tua musica si dispone a mille miglia di distanza sia da fonti più effimere che da una creatività più geometrica, fredda, di analisi interpretativa distaccata… E’ organica, di cuore. Ragiono secondo i risultati che vorrei ottenere da chi mi ascolta. La musica in genere non è semplicemente qualcosa di impersonale, freddo. Non è simile ad un dipinto da osservare. Essa penetra in mondi sconosciuti, costituendo una parte del subconscio, ragione per cui io la reputo formativa, intrisa di responsabilità! Dichiarazione d’intenti simile ad “Everything ecstatic”, diverso dagli album precedenti proprio per lo scopo prefisso. Molte cose sono maturate… già in me era presente una forma di dominio del messaggio nei confronti di chi si soffermava ad ascoltare… L’effetto della tua vicinanza con Reid ha maturato una visione più “sacrale” della black music? La mia musica, nel suo essere sperimentale, mi appare spesso simile ad un coro di artisti
gospel che tenta di raggiungere un livello di perfezione emotiva e compartecipazione mentre cerca di comunicare. Nei miei pezzi non ci sono parti cantate, ma è come se ci fossero. Ma di fatto la spiritualità potrebbe fluttuare tra i sampler i campionamenti, i loop elettro-
nici o i gorgheggi digitali… Una nuova intensa spiritualità… ecco perché ci credo! Il mio lavoro è come un esperimento, ma forse nel tempo sarà la testimonianza di una diversa affermazione, affermazione elettronica… E la confluenza del jazz, in quest’ultimo periodo? Mi permette di esprimermi in spazi e luoghi più ampi, amplificando le immagini da dare, il risultato. Ma anche l’hip hop, a cui sono legato, torna frequente nelle mie composizioni: rappresenta la mia parte vocale inespressa. Con i Fridge era un’iniziazione del tessuto sonoro che avresti usato successivamente, sei cambiato parecchio… le tue motivazioni artistiche si sono meglio definite… Si, infatti, in qualcosa di socialmente più edificabile. Più partecipe, meno celebrativa di se stessa… C’è più anima, più passione, con punti di vista sfaccettati
ma distinti…musica elettronica vuol dire contemporaneità, perciò difficoltà quotidiane in tutti i mondi espressivi… Come credi che sia stata assorbita in questi ultimi tempi la musica elettronica? E’ ancora vista con sospetto, soprattutto laddove si crede che gli strumenti abbiano una maggior sostanza, un approccio fisico e spirituale più intenso… ma io vedo un nitido cambiamento, soprattutto per chi ascolta. C’è un numero elevatissimo di ragazzi che traduce in parole i suoni digitali… Ma ci sono delle difficoltà sostanziali, la televisione, i media, un bombardamento mediatico che sta corrompendo ormai da tanto la sensibilità, in Inghilterra, un po’ ovunque. Fa una certa impressione vederti sul palco assieme a Steve Reid, meraviglia del vigore jazzistico. Voi due sul palco a gozzovigliare tra spartiti, ricordi, sensazioni e improvvisazioni comuni… Spirit walk (il disco del 2005 dello Steve Reid Ensemble, in cui appare come ospite Kieran Hebden, n.d.i.) testimonia appieno l’origine di tutto… Hai dovuto creare prima un momento di accordo, qualcosa per stabilire un contatto? Come ti sei visto in sua compagnia a suonare, c’è stata qualche banale forma di imbarazzo? La musica afroamericana, le ritmiche, il soul, soprattutto quello degli anni sessanta e lo stesso Steve, la sua storia, mi avevano già accompagnato da anni in tutte le mie ricerche, ci siamo incontrati e riconosciuti, è stato tutto molto spontaneo immediato e divertente… www.fourtet.net http://www.myspace.com/fourtetkieranhebden Lorenza Ercolino
M
preso piede, una nuova forma di vita, non più speranza celata di rassegnazione ma vere e proprie dichiarazioni di energia, di forza, ecco perché arrangiamenti anche più vigorosi. Una visione meno malinconica dunque, rispetto all’ultra intimista “Good morning spider”, cosa che lui stesso attribuisce ad una ritrovata energia mentale. E’ fonte di quiete, la sua amata abitazione, ristoro fra le montagne del nord Carolina, un tempo persino utilizzato come studio di registrazione, dove l’isolamento, appunto, risulta essere un valido aiuto per riprendere il contatto con se stessi ed elaborare liberamente idee più fresche. Anche se può succedere che, non socializcome ammette Mark: “n zare con gli esseri umani può diventare una cosa negativa, stavo comin ciando a diventare uno strano uomo delle monta gne, isolato dal mondo e dalla comunicazione con la ‘gente reale ’”. Dj Danger Mouse e B.Fleishmann sono i suoi nuovi punti d’arrivo, che in quanto ad ispirazione di elettronica sperimentale, suggeriscono maggior distacco intimo e nuovi sistemi di lettura creativa. I suoi testi sono pieni di un singolare linguaggio simbolico: canzoni surrealiste rasentano un clima di stimolo all’anarchia, un’impronta elettro pop, ispirata stavolta anche dall’ingegno di Fennesz, nonché dall’impressionante mole di musica elettronica che lui ci dice di essersi impegnato ad ascoltare: Boards of Canada, Stars of the Lid, Oval, Microstoria… I testi dunque sono assai più surreali, tanto che risulta difficile immaginarne una qualche ulteriore metafora cosi come in passato. Una cosa però è certa, il suo impegno nel suggerire “soluzioni mentali” alle correnti teorie vigenti, ascoltare il proprio intimo, con maggior consapevolezza, liberi dai luoghi comuni e dai drammi di qualsiasi genere…”Dreamt For Light Years In The Belly Of A Mountain” è un inno all’ottimismo, pratica rara per un personaggio come Mark Linkous. Non c’è più strada per la disperazione… la speranza inoltre, può avere persino un accezione più ironica, semplicemente più… concreta!
intervista
ark Linkous alias Sparklehorse… pare abbia superato momenti più bui, si è dato ad una diversa forma di composizione, solare, scanzonata, e assai più complessa nell’elaborare soluzioni. Gli ultimi cinque anni sono stati “G piuttosto duri, e scrivere canzoni ricche di speranza è stata la con seguenza naturale del mio voler superare la disperazione”, ci dice. Riflessi di un uomo virtuoso che padroneggia la sfera del folk rock contemporaneo. Ebbene una piacevole sorpresa, in un certo senso presagita. Dreamt For Light Years Il nuovo “D In The Belly Of A Mountain” è un lavoro minuzioso, come suo solito, ma stavolta più congeniale ad ascoltatori del folk meno depressivo. E’ riuscito persino a superare scetticismi e generalizzazioni del passato, in quanto ad utilizzo di mezzi più o meno efficaci per il raggiungimento del fine creativo. L’album infatti è costellato di arrangiamenti sonori, talora in penombra, in altri momenti base portante per ogni singola traccia… Riverberi elettronici ed ogni tipo di contraffazione, distorsioni più o meno prolifiche come nella voce, che non pare mai la stessa, utilizzata “in modo da potersi inserire perfettamente nella struttura sonora della canzone, come se fosse semplicemente un altro strumento”, e che spesso è supportata dall’uso del duetto con voci femminili. Le chitarre in alcuni casi presentano un tessuto spesso, compatto, uno strato sonoro come quello presente in “Ghost in the sky” che ricorda un Bob Mould prima maniera. L’inserimento del mellotron, e, con esso alcuni momenti di distorsioni elettroniche, sono perfettamente amalgamati. Linkous registra gran parte del materiale che utilizza come sospinto da una forza,
sparklehorse
nel ventre della montagna una continua visione metaforica della vita che non riscatta, non restituisce indietro granché, in cui però vi fermentano fantasie, spunti creativi, possibilità da non lasciar sfuggire. Idea, questa, che ritrova riscontri anche in Daniel Johnston amico e “compare”, persona di gran stima per Mark, una sorta di guida, ormai da tempo per gli Sparklehorse. Assidua presenza tecnica, rimane quella di Scott Minor, che suona la batteria e lo supporta in pianta stabile, mentre artisti come Nina Peerson, Dave Fridmann, Vic Chesnutt, Bright Eyes, Steven Drozd e così via, si affacciano per dare una loro visione stilistica al signor Linkous, motivo per cui in questo album di folk dall’impronta indipendente si riscontrano diversi elementi di un linguaggio sonoro che trae ispirazione dai Grandaddy ai Cracker . Un mondo simile ad un immagine dipinta, ricca di colori caldi, della terra, del cielo, di ogni elemento della natura teso ad indicare una fonte di purezza. A suo avviso predominante è il marrone, colore da materiale manipolabile, terreno fertile in cui c’e’ la possibilità di immaginarvi qualcosa che vi cresca, che ne tragga linfa vitale… tutto legato ad un ambiente, un tantino isolato ma ricco di elementi, per così dire rilassanti, dove Mark lavora e porta avanti un’intera, altalenante esistenza… Stavolta qualcosa ha
Lorenza Ercolino
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cinema oveva essere una convivenza felice e costruttiva quella dei due festival cinematografici d’Italia (pardon, quella di Roma è una “festa”), dovevano soltanto coesistere per rinverdire il fulgore della penisola del cinema. E invece si sono ritrovati a combattere una guerra fratricida. La rassegna di Venezia, il simbolo indiscusso della storia festivaliera italiana ed euro-
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la durata della rassegna ha ostentato l’aria sussiegosa dell’autorità. Ma molti non le hanno perdonato il suo rifiuto a Manoel de Oliveira che l’avrebbe voluta nel suo stupefacente divertissement intitolato “Belle toujours”, sequel del bunueliano “Belle de jour”. L’attrice francese ha declinato l’offerta, preferendo al cineasta portoghese il timone della giuria veneziana. Un impegno
componenti della giuria, dal momento che la conseguenza della premiazione è sempre una brutale gerarchizzazione artistica. I festival sono sempre voluti dai produttori, dai pubblicitari che devono concepire (e non è una colpa) il film come un prodotto. C’è chi invece il cinema lo costituisce come i registi, i quali tollerano con rassegnazione la folla accalcante e
Lynch alla conferenza del Leone alla carriera, che «un film è come una sinfonia, non può essere definito fino in fondo». Per questo la logica festivaliera non può che risultare una dinamica da marketing, magari più nobile di una mera commercializzazione del prodotto, ma inequivocabilmente rivolta al business. Un voler dare vita al cinema senza il cinema, depauperar-
Il cinema? Conciamolo per le feste Le manifestazioni dedicate alla Settima Arte non si contano più. Parecchie potremmo risparmiarcele. pea, ha dalla sua la storia, un passato rilucente e un presente un po’ “loffio”, ma pur sempre blasonato. La neonata RomeFilm Fest, invece, può vantare una struttura che predilige il dialogo col pubblico cinefilo, non lo marginalizza come fanno in laguna, tant’è vero che la stessa giuria è composta da chi il cinema lo ama per passione e non per professione. Al Lido invece i giurati sono tutti addetti ai lavori che alla celluloide danno del tu. Come la presidente dell’ultima giuria, l’affascinante Catherine Deneuve che per tutta
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esclude l’altro. Questa scelta è molto significativa perchè c’informa della fisionomia mondana che talora la settima arte acquisisce. Quindi non si è vista la Deneuve attraverso il fascino particolare della pellicola, ma sono stati i fotografi ad immortalarla fugacemente. Al posto della cura registica ha preferito darsi alle immagini scomposte ed incontrollate dei paparazzi. Ed è questo, in fondo, il sentimento che i festival ispira, che inconsapevolmente evoca. Senza puntare il dito contro un preciso evento è possibile ascrivere a questi rituali da casta privilegiata tutti i malumori che nascono nel cinema. Poco conta chi siano i
le cascate di flash che li sommergono. A malincuore devono presenziare per rappresentare fisicamente ciò che per sua peculiare caratteristica è immateriale: un film. In qualche modo devono far parlare ciò che volevano rimanesse sottaciuto, devono definire gli indicibili processi delle loro creazioni senza cadere nell’errore di svilirli attraverso un’esternazione sbagliata. Se Kurosawa affermava che «i grandi film non devono essere spiegati», la liturgia della conferenza stampa è la trasgressione istituzionalizzata di questa acutissima massima. Un po’ come disse, David
lo sul tappeto rosso come se non avesse già in una sua propria spettacolarità totale. Spesso poi la decima musa non c’entra affatto. Come nel caso delle polemiche che Muller ha scagliato con la festa che si sarebbe tenuta nella capitale. Un ginepraio di botta e risposta che metteva in risalto gli aspetti concorrenziali di queste realtà, proprio come due grandi catene di negozi che si fanno la guerra. Chissà se non sarebbe meglio ricordare, di tanto in tanto, che i festival sono un supplemento di carnevalizzazione del tutto superfluo. Un tentativo autoreferenziale di fare festa sistematicamente, di autocelebrarsi dimenticando poi ciò che sostiene (e sostanzia) l’evento stesso. www.labiennale.org/it/cinema www.rromacinemafest.org Roberto Urbani
intervista
C
on un disco, “Beautiful seizure” (pubblicato dalla Leaf), assolutamente straordinario, i volcano! – da Chicago – riformulano le regole del rock “d’avanguardia”, contaminando coraggiosamente post-rock, free jazz, rumorismi ed elettronica, bilanciando sperimentazione ed emozioni, oltranzismo sonoro e subdoli ammorbidimenti melodici. Ne parliamo con Mark Cartwright. Innanzitutto: potete introdurre i volcano! ai nostri lettori? Da quanto tempo suonate assieme? Avevate altri progetti musicali prima di formare la band? I volcano! sono: Mark Cartwright (basso, elettronica), Sam Scranton (batteria, percussioni) e Aaron With (voce, chitarra). Suoniamo assieme ormai da tre anni. Io ed Aaron ci siamo incontrati al college, e suonavamo già assieme in una band prima di formare i volcano!. Quando il gruppo si sciolse, abbiamo deciso di continuare a suonare assieme per portare avanti un po’ di idee musicali che in quel periodo ci eccitavano. Poco dopo aver preso questa decisione, Sam, un amico di Aaron dei tempi del liceo, decise che aveva voglia di entrare in una rock band (dopo aver suonato per anni in formazioni jazz) e gli chiese se poteva unirsi a noi. E’ strano vedere una rock band nel catalogo della Leaf: ci puoi dire com’è nato il rapporto con questa etichetta? Beh, in verità eravamo tutti fan della Leaf. Era una delle poche etichette che avevano nel proprio roster quasi
e il cervello siano due entità che si escludono a vicenda. Crediamo che nella musica siano entrambi indispensabili, e noi cerchiamo di incorporarli. Non crediamo siano elementi che necessariamente devono entrare in conflitto: noi semplicemente cerchiamo di includerli entrambi. Probabilmente, però, quando scriviamo la nostra musica usiamo più “cervello”, mentre quando la suoniamo usiamo più “cuore”. Che mi dici dei testi delle canzoni? C’è una fonte d’ispirazione particolare? Nonostante la musica dei nostri brani sia scritta con la collaborazione di tutti i membri della band, i testi sono scritti tutti esclusivamente da Aaron. Le sue fonti di ispirazioni sono diverse, ma tendenzialmente cerca sempre di descrivere delle immagini, attraverso dei testi nei quali le persone possono ritrovare una propria interpretazione personale. Che processo seguite in fase di scrittura? Parte tutto dall’improvvisazione, o prendete spunto da qualche idea più “concreta” portata da qualcuno di voi? Dipende. Spesso le canzoni nascono da un singolo frammento. Questo frammento può essere un ritmo, una melodia, una progressione di accordi, un suono di synth etc…, e può essere sia portato da uno di noi, sia “scoperto” attraverso l’improvvisazione. Da quella idea iniziale, solitamente iniziamo a costruire il pezzo in maniera collettiva: è un processo che comprende lunghe jamsession, discussioni su che tipo di canzone vogliamo che esca fuori e in che direzione vogliamo che vada. Il lavoro continua al di fuori della sala prove, dove ognuno lavora sui singoli elementi, prima di “riportarli” all’attenzione degli altri. E’ un processo lungo e laborioso. Non siamo molto veloci, nello scrivere le nostre canzoni. Che mi dici di Chicago? La scena musicale è ancora così viva come qualche anno fa? Vi sentite parte di questa scena? Chicago è una città fantastica. Ci sono tonnellate di musica, dei più diversi stili e generi. Ma non sembra esserci una scena molto coesa, dal nostro punto di vista. Forse fa eccezione giusto quella free-impro-jazz. Ma noi onestamente non ci sentiamo parte di alcuna scena. Abbiamo parecchi amici musicisti, ma non suoniamo quasi mai assieme, né abbiamo particolari affinità stilistiche. Parlami dei vostri concerti: riuscite ad essere ancora più rumorosi che su disco, quando suonate dal vivo? C’è una componente della vostra musica che viene fuori più che nelle registrazioni? I live show sono abbastanza simili al disco. Il nostro approccio alla dimensione live è molto simile a quello della registrazione di un disco. Il concerto può essere più rumoroso, credo, ma forse giusto perché il suono può essere un tantino più “duro” che su disco. Le persone ci dicono che tendono a comprendere meglio la nostra musica, dopo averci visto live. Credo che questo sia dovuto semplicemente al fatto che possono rendersi conto da dove provengono tutti i suoni che hanno ascoltato su disco, e percepire la “fisicità” di come sono stati generati e di come interagiscono tra loro. Forse così è un po’ meno complicato capire la nostra musica. www.volcanoisaband.com http://myspace.com/volcanoisaband Daniele Lama
sperimentazione ed emozioni
volcano!
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tutti artisti che apprezziamo enormemente! Ci siamo detti: “anche se nel loro catalogo non hanno niente di simile a noi, se ci piacciono così tanti dei loro artisti, dobbiamo pur avere dei gusti musicali in comune, e magari anche noi gli piacciamo”. E’ bastato spendere un dollaro e mezzo per la spedizione del cd, ed abbiamo finito per trovare in loro l’etichetta che ha dimostrato maggior interesse nella nostra musica. Alla Leaf lavorano persone fantastiche. Siamo decisamente felici. La vostra musica è molto distante dalla comune idea di “pop”, ma – anche se in maniera subdola – nel vostro album ci sono parecchie tracce di melodie. Qual è il vostro rapporto con la forma-canzone e con la melodia? In fase di composizione, tendiamo a gettare assieme molti degli elementi musicali che ci piacciono. Così, seppure ci sono spesso delle improvvisazioni e delle parti molto rumorose, ci piace che questi elementi siamo incorniciati in un contesto vicino a quello di una “canzone”, dove c’è comunque una struttura e una sorta di “base” per l’ascoltatore. Questa “struttura” comprende ovviamente delle melodie, dal momento che queste danno all’ascoltatore qualcosa cui “aggrapparsi” quando il tappeto sonoro si fa più “free” e sperimentale. La musica dei volcano! è molto intricata e complessa, ma è anche molto “emozionale”. Sembra che siate alla costante ricerca di un compromesso tra “cuore” e “cervello”. Mi sbaglio? In verità non pensiamo che il cuore
special
crossing the bridge: the sound of istanbul osa sapete della Turchia? E cosa, in particolare, della musica turca? Se le vostre conoscenze si limitano a quel tormentone che è stato Tarkan (quello della canzone che ormai si balla in tutti i villaggio vacanze e finisce con un bello SMACK), be’ è arrivata l’ora di approfondire l’argomento. Bisogna prima di tutto levarsi dalla testa che questa musica sia buona solo per prepararci su qualche coreografia di danza del ventre e poi, in fondo, è una terra che ci è più vicina di quanto pensiamo, prossima (più o meno) all’entrata nell’UE, limite che separa l’Oriente dall’Occidente tramite lo stretto del Bosforo, la terra che ha dato i natali all’ultimo Premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, nazione sempre in bilico tra voglia di tradizione e bisogno di innovazione (quei diritti civili che ancora la tengono lontana dall’Europa). Una terra difficile e affascinante, ricca di cultura e tradizione, ma non proprio conosciutissima. E della sua musica, a dire la verità, il recensore scopre le diverse sfaccettature di pari passo con voi. A darci qualche nozione in più, infatti, ci pensano un regista turco, quel Fatih Akin che già aveva raccontato la sua terra ne “La sposa turca”, Orso d’oro a Berlino, che se ne va con la sua telecamera girovagando per Istanbul e i suoi dedali di strade assieme a un’altra vecchia conoscenza, Alexander Hacke , membro degli Einstürzende Neubauten, che si è innamorato di quel paese proprio mentre produceva la colonna sonora de “La sposa turca”, e che ora suona il basso nei Baba Zula formazione neo psichedelica. Proprio dalla telecamera di Akin e dal microfono magico di Hacke, “utilizzato per catturare
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suoni esotici in tutto il mondo”carpendo quelli più disparati per tramutarli in musica, che è Crossing the bridge”, film documennato “C tario (uscito nel 2005) che ha come sottotitolo proprio The sound of Istanbul, e la conseguente colonna sonora prodotta da Radio Fandango (Procacci, ovviamente, ha prodotto il film) uscita nel 2006. E proprio il dedalo di viuzze, di cui parlavamo prima, che caratterizza e divide Istanbul, si rispecchia nel dedalo di generi e sfumature musicali che sommandosi ci ridanno di Istanbul, appunto, un’immagine uniforme, miscela di quella contrapposizione tra innovazione e tradizione che, come abbiamo detto, la caratterizza. A conferma di quello che stiamo dicendo, non poteva che cadere a fagiolo la cover con cui si apre questa compilation, Music” dell’immortale icona pop ovvero “M Madonna. Voce iniziale che sospira “Hey mister dj” e ritmi arabeggianti inizialmente, molto disco-pop, (non discostandosi tanto dall’originale), nel prosieguo. Poi si passa ai succitati Babi Zula di Alex Hacke che fanno, ci dice la nota stampa, rock jazz psichedelico, alla CAN per intenderci, ma qui sia per la strumentale “Tavus Havasi” che per “Cecom”, più che psichedelia, la scelta sembra caduta su qualcosa che si mantiene più sul tradizionale (tradizione che in un modo o nell’altro, ovviamente, è una costante in quasi tutti i gruppi). Gli Orient Expression sono una formazione composta da due dj di Istanbul, un sassofonista americano, un virtuoso del saz e vocalist vari. Questa “IIstanbul 1:26” mescola crossover leggero a sonorità ambient e spunti jazz. Sono un’istituzione nei locali “giovani” turchi. Il cantante dei Duman e il gruppo stesso devono avere, invece,
una gran passione per i Pearl Jam dato che questa “Istanbul” li ricorda molto, anche e soprattutto nella voce, e di tradizionale c’è solo il titolo. Non molto benvisti nella comunità rock turca, tendono soprattutto, ci fa sempre sapere la nota stampa, all’ heavy metal e potete stare sicuri che il trasferimento di qualche anno del cantante a Seattle ci ha messo lo zampino. Poi c’è il rock sofisticato dei Replikas a cui segue “Holocaust” dei Ceza, l’hip hop di Istanbul; e dire che il cantante rappa come se “avesse ingoiato un Ak-47” è la definizione più appropriata. Lontano dalla moda gangsta americana, è un peccato per gli amanti del genere che non sia molto conosciuto. L’elettronica è qui rappresentata dai Mercan Dede. Computer, sufi e filosofia orientale. Ottimo assortimento. Sesler è, invece, un maestro del clarinetto. Come immaginate la musica araba? Bene, esattamente ciò che avete pensato e ciò vale anche per i T h e W e d d i n g S o u n d S y s t e m . Seslam suona anche assieme alla cantante folk canadese Brenna McCrimmon. Rock acustico per Nur Ceylan con la sua “Boyle Olur Mu”. I SiyaSiyaBend sono artisti di strada (il nome è quello di un eroe nazionale della Mesopotamia), vivono vagando per i vicoli con una custodia aperta per gli spiccioli. Qui fanno folk orientale. Aynur è la testimone musicale dei curdi, canta una musica chiamata “Dengbejen” che ha influenze arabe, mesopotamiche e ebree; sono storie epiche e di un popolo represso, quello curdo. Poi c’è la Storia, con la s maiuscola, appunto. Ohran Gencebay è un po’ come se dicessimo Modugno, un’icona popolare, un’istituzione. Non ha mai suonato dal vivo e tende a ripren-
dere canzoni popolari strutturandole in maniera sempre nuova e originale. Molto osteggiato dall’intelighentzia turca ma adorato dal popolo. La Mina turca, invece, è Muzeyyen Senar. Non per la musica che fa, né per l’età (la Senar ne ha 86) ma per l’importanza che ricopre nel panorama popolare e per il fatto che la sua ultima performance è del 1983. Infine c’è Sezen Aksu la voce di Istanbul, famosa anche all’estero, è un’artista ascoltata da tutti senza distinzioni di livello sociale. Nel complesso il quadro è abbastanza chiaro. La musica turca è nel mezzo del Ponte del Bosforo, chi più avanti, chi più attaccato alla terra madre, ma mediamente al centro, e nessuno, almeno noi, le chiederà di fare un passo, avanti o dietro che sia. Ora che l’austera autarchia che aleggiava sulla cultura turca sembra svanire è bene che chi ne senta il bisogno si ispiri anche ai modelli occidentali, ma, vi prego, rimanendo sempre un po’ legati alla cultura araba. Di doppioni ne abbiamo già troppi. www.crossingthebridge.de Francesco Raiola
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intervista , Cansei de Ser Sexy, ovvero “Stanche di Esser Sexy”. Sei ragazzine ed un ragazzo, tutti brasiliani, al centro di una globalizzazione che una volta tanto ci piace: la mitica etichetta americana Sub Pop infatti pesca queste perfette sconosciute da un Paese del Sud del Mondo e le lancia a livello planetario, per farne delle star dell’electro anni 80. Ed MTVFlux trasmette a manetta il tormentone ‘Let’s Make Love and Listen to Death from Above’: si, proprio quel videoclip con i palazzi che saltellano a ritmo di synth e chitarre come fossero lucette dell’equalizzatore. Poniamo qualche domanda a Luiza, simpatica tastierista della band.
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In Italia non si sa molto della musica alternativa brasiliana contemporanea; Cansei de ser Sexy è un fenomeno isolato? Beh, si, siamo un fenomeno isolato, qui. Di preciso non sappiamo neanche in quali contesti sia meglio esibirci, in Brasile, e quale sia realmente il nostro pubblico; sembra che ci sia più attenzione nei nostri confronti all’estero, ma facciamo musica che potrebbe provenire davvero da qualunque posto. Chi sono i vostri musicisti preferiti di São Paulo? Mmmh, è davvero difficile trovare giovani musicisti che ci piacciono, a São Paulo, lo confesso. Però abbiamo molti amici musicisti in tutto il Brasile, fuori dalla nostra città; posso dirti che c’è Bonde do Rolé (che è di Curitiba), Los Hermanos (da Rio) e forse Tetine (un duo che fa base a Londra). Ti ho deluso? No. Qual’è la reazione alla vostra musica dei giovani brasiliani? I giovani brasiliani – quelli nati con internet – sono entusiasti di noi, ci seguono, riescono a capirci subito,
cosa che invece non succede con i brasiliani della generazione precedente. Come è cominciato tutto: mandaste il vostro demo alla Sub Pop? O vennero loro a cercarvi in Brasile? No, il nostro manager, Eduardo, inviò un nostro nastro a molte etichette, e la Sub Pop si fece viva con una buona offerta... Qui in Italia abbiamo anche noi una giovane band che incide per l’americana Sub Pop: i Jennifer Gentle. E la scena musicale indipendente qui è orgo-
gliosa di loro. Conoscete i Jennifer Gentle? Non conosco i Jennifer Gentle; me li procurerò, ma fino ad allora non ti posso dire che ne penso. Anche noi siamo orgogliosi di essere su Sub Pop. So che state facendo una turnèe promozionale attraverso gli Stati Uniti. Una buona esperienza, immagino. Come procede? Avete pensato alla possibilità di trasferire tutta la band in quel paese così ricco di opportunità? Questo primo anno in tour è stato come... conoscere tutto il mondo. Abbiamo girato il pianeta, e ci sono ancora due grossi tour da affrontare,
Indie Rock a São Paulo Cansei de Ser Sexy
e poi ancora e ancora! Non abbiamo deciso ancora dove andremo a vivere: all’inizio pensavamo agli USA, ma anche in Europa l’accoglienza per noi è stata grande. Io ho proposto di fare un po’ e un po’, e così sarà nell’immediato; tra un anno prenderemo una decisione. La tournèe è stata fantastica, davvero: il pubblico, la qualità del suono... tutto! Componete le musiche tutte assieme? chi si occupa dei testi delle canzoni? Per la maggior parte è Adriano che scrive le melodie, e Lovefoxxx i testi; successivamente tutte insieme perfezioniamo il pezzo. Ma non è detto che vada sempre così: se qualcuno ha un’idea la propone liberamente. Luiza, mi piace in questo disco il tuo lavoro con le tastiere. Semplice, molto pop... questo vostro disco d’esordio suona bene, con un suono fresco, pulito; un mix di Talking Heads e Dandy Warhols. Ma... nei vostri concerti, suonate così precisi? ahahah, dal vivo usiamo delle tastiere, e abbiamo anche una base su cui suonare. Questa base è fatta di synth come in – per esempio – ‘This Month Day 10’. Io ci suono su le tastiere e... beh, si: credo di essere abbastanza precisa hahah. Avete solo queste 11 canzoni in repertorio? Ci sono nuove idee per un nuovo disco? Abbiamo più di 20 canzoni, ma in concerto suoniamo le 11 del disco che conosci. Stiamo realizzando nuovo materiale, presto lo pubblicheremo. Cosa posso scrivere, in conclusione, per presentarvi al publico italiano? Avete qualche messaggio per loro? Quando verrete di nuovo a suonare in Europa? Siamo felici all’idea di venire a suonare in Italia, credo sarà in Novembre. Quasi nessuna di noi c’è mai stata, e siamo molto eccitate, all’idea. São Paulo poi, è una città piena di italiani, e noi tutte abbiamo un po’ di sangue italiano. Non perdetevi il nostro show! www.csshurts.com http://www.myspace.com/canseidesersexy Fausto Turi
di Rosanna Cuomo aka kynky
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he Big Apple, The City that never sleeps, Gotham City, comunque la vogliate chiamare New York è una città davvero unica il cui nome già da solo evoca sensazioni e suggestioni. E’ arduo parlare di NYC, della sua atmosfera, dello speciale magnetismo che emana, condensare in poche righe tutto quello che rappresenta e sceglierne le attrattive più degne. Non ha grande importanza cosa si fa o dove si va nel gran pullulare di varia umanità, nell’infinita scelta di musei, teatri, negozi, ristoranti di ogni nazionalità: già il solo far parte di un’atmosfera così frizzante è esperienza esaltante. Appena arrivo, immediatamente, vengo coinvolta dalla città: i suoni, il traffico, i grattacieli che ti sovrastano, la vita che ti gira intorno. La prima impressione che ho è: io conosco questa città, la sento, è come se fossi già stata qui. Tutto mi avvolge e intontisce, spalanco gli occhi e, senza badare alla stanchezza del viaggio e del fuso, mi immergo in questo tutto. Mi rendo subito conto che, sebbene immensa, è una città di quartieri: meglio esplorarla a piedi. Così, pure affidandomi alla subway per le lunghe percorrenze e ai bus (mezzo da non sottovalutare per girare a zonzo e riposare un po’) incoraggio i miei piedi, armata di cartina e digicam, parto alla scoperta delle voci, delle atmosfere. Parto da downtown, dalla punta estrema dell’isola e da quello che, fra tutti i simboli dell’America, risulta essere l’icona per eccellenza: la Statua della Libertà, simbolo della fine del viaggio verso l’ignoto e l’inizio di una nuova vita. Un punto di osservazione suggestivo è il Battery Park, uno spazio
arioso con prati alberi e vedute panoramiche. Di qui, risalgo e girovago un po’ per le strade tortuose del Financial District; mi ritrovo davanti un imponente palazzo dalla facciata neoclassica parzialmente coperta da un’enorme bandiera americana: è la New York Stock Exchange, la Borsa. Sono a Wall Street. I miei piedi tengono bene, proseguo e imbocco la passerella pedonale del Brooklyn Bridge. Lo percorro senza voltarmi fino a metà strada per poi ammirare il panorama spettacolare, attraverso i tiranti di ferro del ponte: i grattacieli del Financial District, sullo sfondo della baia, la Statua della Libertà, sotto di me scorre rumoroso il traffico da e per Brooklyn, e l’East River. Il downtown è ancora più significativo se ci si lascia assorbire dalla città e dai suoi quartieri etnici o artistici. Comincio a girovagare senza meta. Mi perdo nelle vie di Chinatown, Little Italy, SoHo (South of Houston - che i qui pronunciano “Hàuston”): i newyorkesi amano gli acronimi!) con le sue gallerie d’arte e i suoi splendidi negozi (tutto a carissimo prezzo), TriBeca (Triangle Below Canal st.), il quartiere dei vecchi magazzini ora lussusosi loft (qui c’è anche la casa cinematografica di Robert De Niro) e nel Greenvich Village chiamato semplicemente “the Village”, uno dei quartieri più popolari della città, e simbolo di tutto ciò che è bohemien. Già solo il nome evoca suggestioni letterarie, musicali, artistiche. Meta newyorkese della beat generation, Andy Warhol fece debuttare i Velvet Undergorund al Fillmore East (ora chiuso) proprio in questa zona. Echi di leggende metropolitane raccontano che Bob
Dylan abbia fumato il suo primo spinello proprio nel Village! Accanto al Village uno dei quartieri più affascinanti, la cui visita non si può mancaare, è il Lower East Side, per immergersi appieno nel meltin’ pot newyorkese. Lower East Side è quartiere storicamente ebraico e, benché oggi la situazione sia cambiata, nelle strade a sud di Houston, il carattere originario è ancora visibile con negozi, ristoranti, sinagoghe accanto a recenti boutique di moda, ristoranti e locali notturni (Max Fish a Ludlow street è tra i locali preferiti dalle band britanniche in tour). Qui i nomi delle Avenue perdono i numeri che li caratterizzano e si chiamano A, B, C e D: è Alphabet City. Fino ad un decennio fa le guide e gli stessi newyorkesi sconsigliavano una passeggiata in questo quartiere. Oggi le cose sono cambiate: Alphabet City appare come una zona affascinante, povera sì rispetto ai quartieri circostanti, ma ancora autentica, dove la cultura portoricana esce dai muri zeppi di murales e si respira nelle zaffate di pollo fritto. E’ una sorta di caravanserraglio dove tutto si mescola, pieno di contraddizioni, come New York stessa. Il mio percorso prosegue su verso Midtown dove la quantità delle attrattive è leggendaria: l’Empire State Building, la Grand Central Terminal, il Chrysler Building, il Rockfeller Center, la St. Patrick’s
intercity
New York City Cathedral, Radio City Music Hall, e lungo Madison e Fifth Avenue, dove ci sono celebri negozi per lo shopping (di lusso!) Ma qualsiasi meta si scelga e qualunque percorso ci si trovi a seguire quello che non può mancare è Times Square, il crocevia più scintillante di New York, la great white way, magari da vedere appena scende il buio. Il tramonto sui grattacieli di Manhattan è una delle immagini più suggestive che ti entra dentro e ti rende parte di quel tutto e che vado ad ammirare da lontano. Punto d’osservazione è un quartiere di Brooklyn noto con il nome di D.U.M.B.O - Down Under Manhattan Bridge Overpass. L’antico distretto dei magazzini tra i ponti di Brooklyn e Manhattan sino agli anni ‘90 era considerato un quartiere pericoloso, ma oggi l’aria che si respira è diversa. Occupato da artisti è in completa trasformazione. Il quartiere all’ombra del ponte, con le sue vie acciottolate, la presenza di studi di artisti, fotografi, musicisti, gallerie, bar dall’atmosfera intima è pervaso da un certo fascino, da un’energia serpeggiante. Dai giardinetti, alzo la testa e vedo la porzione di cielo fra
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intercity
i due ponti, il mare è a due passi. Il sole comincia a nascondersi dietro gli edifici, il cielo si scurisce lentamente, le luci del ponte di Brooklyn gradatamente si accendono e così le luci dei grattacieli. Il buio della notte si fa posto, le sagome dei palazzi scompaiono e
sono le luci a farla da padrone. Ti smarrisci nelle strade di questa città, nelle voci, nei rumori, nei suoi volti, nella sua strana forza. NYC ti entra dentro e rimane lì a galleggiare nell’anima: un posto in cui desideri ritornare.
Da non mancare : Il tratto di Fifth Avenue fra 72nd e 104th Street è conosciuto come Museum Mile per lo straordinario numero di centri: Metropolitan Museum of Art, il Guggenheim Museum, la Frick Collection, più a sud (West 53rd st ) c’è il MoMa Museum of Modern Art. Minitraversata sullo Staten Island Ferry bellissima e rilassante per godersi la Manhattan skyline . Visita ai Chelsea Piers dove nei weekend ci sono concerti gratuiti e, dal momento che siete a Chelsea, (nuovo quartiere artistico-intellettuale) allungatevi al 547 W. 26th Street (fino a qualche anno fa studio della fotografa Anne Leibowitz) sede della compagnia di danza contemporanea Cedarlake Ensamble. Pigra sosta al Central Park, oasi di pace nella frenesia della città. Da provare : NY è probabilmente la città che accoglie la cucina migliore di tutto il mondo. Si può mangiare di tutto e a qualsiasi ora. Non si può mancare un appuntamento con la cucina americana che offre una ricca scelta di specialità regionali: Southern, Southwestern, Tex-Mex, con le pietanze più disparate dalle zuppe di crostacei fino alle grigliate di braciole di maiale e le texas ribbs immense costolette di manzo. Cucina kasher: i panini imbottiti di pastrami spalmati di senape dolce e montagne di cetrioli sottaceto potrebbe essere un’esperienza culinaria “impegnativa” ma degna di essere affrontata, magari da Katz Deli (qui è stato girata anche la famosa scena dell’orgasmo di Meg Ryan in “Harry ti presento Sally”) Hot dog “on the road”. Quanto costa mangiare : un hot dog “on the road” costa circa $ 2.00 Nei caffè, nelle trattorie e nei fast-food, bastano 5 dollari per un pasto sostanzioso. Da tenere d’occhio i locali che espongo-
no i menu “all you can eat” dove per 15-20 dollari puoi mangiare davvero di tutto! Nei DALLAS BBQ (da non perdere assolutamente) per $13.00 si mangia a sazietà e si bevono degli ENORMI margaritas ghiacciati (Texas-size). Le tasse ammontano a circa 8,25% del totale. Le mance variano dal locale: da un 10% in un caffè al 25% in locali più eleganti. Quanto costa un cd: Dai $ 6-10 per le offerte ai $ 18/20 per un cd nuovo. Quanto costa andare al cinema: dagli $8.00 10.00/10.75 per gli adulti ai $5.50 - 6.50 /7.00 per i bambini Quanto costano i musei Metropolitan Museum :$ 20.00 per gli adulti $10.00 per anziani e studenti Museum of Modern Art (MoMa): adulti $20; anziani $16.00;Studenti $12; bambini sotto i sedici anni entrano gratis. Guggenheim Museum: $18 adulti, $15 studenti e anziani,i bambini sotto i dodici anni entrano gratis. Il venerdì però al Guggenheim tra le 17:45–19:45 i visitatori possono usufruire della formula “Pay What You Wish”: si lascia una libera offerta! Quanto costa una corsa in autobus: il biglietto per una singola corsa in autobus o in metropolitana è di $ 2.00.Tuttavia conviene sicuramente comprare la MetroCard valida per un numero illimitato di corse sia sulla metro che sui bus. Ci sono varie tipologie di MetroCard:quella giornaliera (“1-Day Fun Pass”:$7),quella valida sette giorni (“7-Day Unlimited Ride MetroCard”:$24) oppure 30 giorni( $76) Da non sottovalutare neanche i taxi abbastanza economici e utilissimi di notte!una corsa di media percorrenza (chiaramente traffico permettendo) si aggira intorno ai $10.00 Qualche sito interessante: www.nyc.gov; www. nycvisit.com; www.timeoutny.com