Freak Out Magazine #43

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freakout

ottobrenovembredicembre2007

Freak Out magazine # 43 N°8 della testata giornalistica registrata al tribunale di Torre Annunziata il 17/07/2003 n° 9

Freak Out Magazine C.P. 166, 80059 Torre del Greco (Na) Italia www.freakout-online.com info@freakout-online.com www.myspace.com/freakoutmagazine Direttore editoriale e di redazione: Giulio Di Donna Capo redattore: Daniele Lama Segreteria: Antonio Ciano Redattore Cinema: Sandro Chetta hanno collaborato: Luca M. Assante, Roberto Calabrò, Olga Campofreda, Mauro Pietra, Fausto Turi, Francesco Raiola, Guido Gambacorta, Vittorio Lannutti, Roberto Urbani, Pasquale Napolitano, Francesco Postiglione, Luigi Ferrara, Lucio Carbonelli, Ciro Calcagno. direttore responsabile: Roberto Calabrò marketing: Giovanna Montera

Torino: Spazio 211, Barrumba, Zoo Catania: Zo, Indigena, Mercati Generali Rimini: Velvet Faenza: Mei, Clandestino Macerata: The Sound & Meccashop Roncade (Tv): New Age Siena: Sonar Senigallia (AN): Keo Records Bari Underground, Eroi, Wanted Records, Hobbymania, Saturn, New record, Feltrinelli, Radioclash Villadose (Ro): Ass. Cult. Voci per la libertà. Freak Out lo trovate anche a : Verona, Reggio Calabria, Mestre, Potenza, Palermo, Venezia, Perugia, Pisa, Bolzano, Modena, Genova, Bergamo, Piacenza, Massa Carrara, Prato, Latina, Trani, Lecce, Cosenza, Cagliari, Sassari. In Campania: Napoli – Videodrome, Perditempo, Demos, Tattoo, Velvet, Mamamù, Vineria del centro, Fonoteca Outlet, Sputnik, Jail, Fnac, Concerteria, Loveri, Rising South, Feltrinelli, Fonoteca Torre del Greco – Ethnos, Jah Bless Pomigliano D’Arco – Spazio Musica Portici – Bottega di Telia Salerno – Disclan, Mumble Rumble, Iroko Avellino Garage records, Ananas&Bananas Caserta – Volume records Aversa – Zoo Benevento – Mad House Frattamaggiore - Audiozone VUOI COLLABORARE? METTITI IN CONTATTO CON NOI!

Distribuzione Nazionale garantita da : Wide, Audioglobe, Family Affair, Self, Venus, Eaten by Squirrels, Goodfellas, Abraxsas. Roma: Disfunzioni Musicali, Brancaleone, La Palma, Rinascita, Circolo degli Artisti Milano: Supporti Fonografici, La Cueva, La Casa 139, Bologna: Il Covo, Disco D’oro, Undeground, Estragon Reggio Emilia: Maffia Firenze: Tenax, Auditorium Flog

Chiuso in redazione il 01 Dicembre 2007 Tiratura 10.000 copie Impaginazione e Layout: Mario Maratea Stampa: SBR - San Sebastiano al Vesuvio

Distribuzione gratuita Copyleft

editoria le

We are ready to play hard! rima o poi doveva succedere: dopo quasi vent’anni di attività editoriale, ci siamo “cascati” anche noi…ebbene si: Freakout si lancia, sprezzante del pericolo e dei tentativi di dissuasione di amici, parenti e colleghi, nel vacillante mondo dell’industria discografica! Nasce “Freakhouse Records”, ennesima emanazione di una realtà nata come semplice fanzine fotocopiata, poi diventata con gli anni un sito internet, una società di organizzazione di concerti, un’agenzia di booking, ufficio stampa di eventi e chi più ne ha più ne metta.

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Sebbene assolutamente consapevoli che produrre un disco di questi tempi sia un’operazione ai limiti della follia, ancora una volta abbiamo lasciato che il nostro benedetto/maledetto entusiasmo prendesse il sopravvento. La prima “creatura” targata Freakhouse è il disco d’esordio dei due giovani che trovate in copertina, gli Atari. Noi siamo molto soddisfatti del risultato finale. Se a voi piacerà solo la metà di quanto questo disco è piaciuto a noi, possiamo già considerarci felici. La redazione

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Are you ready to play hard? sce a metà gennaio, finalmente, il disco d’esordio degli Atari (intitolato “Sexy Games For Happy Families”), tra le più brillanti rivelazioni della scena indipendente nazionale degli ultimi anni. Player 1 (voce, synth, programming, batteria) e Player 2 (voce, basso, synth) ci raccontano com’è nato quello che si preannuncia uno dei dischi più “freschi” dell’anno, straripante di melodie pop clamorosamente “catchy”, suonini presi in prestito ai videogiochi di un paio di decenni fa (ma con la cosiddetta “micromusic”, ci tengono a precisare, non c’entrano praticamente niente), e ritmi electro assolutamente irresistibili. Il disco, che esce su etichetta “Freakhouse Records”, è stato prodotto da Mario Conte, già a lavoro – come produttore o musicista - con Epo, Meg ed altri, e sarà distribuito in Italia da Venus. L’unico dilemma: decidere quale gioco mettere nella gloriosa consolle a fine intervista, visto che i pareri sono discordanti. Sempre sperando che la cartuccia funzioni…

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Dalle registrazioni casalinghe ad un vero studio di registrazione: quali aspetti del vostro sound pensate siano venuti maggiormente fuori in questo “passaggio”? Pensate che invece qualcosa si sia in qualche modo “persa per strada”? Player1: Beh, era inevitabile che il disco, quello vero, suonasse più “suonato”!. Tutte le batterie delle registrazioni “demo” erano programmate o comunque campionate. Lo studio, e soprattutto Mario Conte, produttore artistico del disco, ha dato ai pezzi un tiro più rock, quella sinergia che cercavamo tra i suoni “warm” dei distorsori e delle batterie acustiche e quelli “freddi” delle frequenze a 8-bit. Quello che purtroppo uno studio professionale non può garantirti è il continuo abbaiare del tuo cane, che rientra incessantemente in tutte le tracce della voce. Chi ha comprato le nostre prime demo può vantarsi di possedere materiale veramente raro! Player2: l’esperienza dello studio influisce sul modo di concepire il sound, perché rende capaci di sapere fino a che punto si può intervenire per renderlo più piacevole. Ma tutto quello che può essere andato perso non sono che errori di concezione. Un vostro brano è stato inserito nella compilation “Bit Beat”, raccolta dedicata alla scena “micromusic” italiana. Nonostante il nome della band e l’uso di certi suoni a 8 bit, però, mi sembra che la vostra musica abbia poco a che vedere con il genere in questione...che ne pensate? Player1: Si, credo che la micromusic sia una gran bella paraculata. E’ manierismo allo stato puro. Pochi di quelli che conosco sono riusciti a far nascere qualcosa di interessante suonando un gameboy o un commodore. Sembra più un “comodo rifugio stilistico” quello di adoperare esclusivamente suoni da “piattaforma” per comporre musica. Quello che sicuramente condividiamo è la stessa nostalgicità verso qualcosa che ha comunque segnato la nostra infanzia, tuttavia però non possiamo, ne vogliamo, credere che gli 80’s siano stati solo Joystick e tastierine Casio. Player2: Spesso ci capita che la gente incappi in questo tipo di equivoco, cioè di farci passare per un duo che fa Micro. Il fatto che il gruppo si chiami Atari non significa che si debba restare necessariamente ancorati ad un certo stile: di sicuro ci piace giocare con tutti i

Mauro Pietra

intervista

ATARI

“suonini” simpatici da consolle, ma che siano da ornamento. Qual’è stato l’apporto di Mario Conte al risultato finale di “Sexy Games...”? Player1: Mario è prima di tutto un musicista, e per questo ha saputo tirar fuori il sound degli Atari, e non quello “di Mario Conte”. Credo sia importante e non scontato, che un produttore artistico presti la sua professionalità e la sua esperienza ai fini di rendere migliore ma non alterare il risultato finale di un disco. Credo che lui sapesse fin dall’inizio cosa volevamo, quindi spesso non è stato necessario parlare. Quando qualcosa nelle registrazioni, come un synth, una voce, un basso, era una merda, lo era per tutti. Player2: La presenza di Mario Conte in studio ci è stata molto di aiuto, principalmente per le sue capacità di venire incontro alle nostre idee, ma anche per il suo buon “gusto”, col quale ci siamo trovati da subito in perfetta sintonia. Nei giorni di studio è stato quasi come un terzo “Ataro”. Avete una formazione piuttosto “anomala”: avete mai pensato di “assumere” un terzo elemento...chessò, un chitarrista, ad esempio? Player1: Si, ultimamente sento un bisogno inappagato di “assumere” un “campanaccista”. Player2: se avessimo un chitarrista la formazione non sarebbe più “anomala”, ma rinuncerei volentieri all’anomalia se venisse Graham Coxon a chiederci di entrare nella band. In “8 bit love” dichiarate di voler diventare “uomini ad 8 bit”. Siete veramente convinti che una trasformazione del genere renderebbe meno complicata la vita quotidiana? Player1: Quella sessuale sicuramente. Dovresti provare a fare sesso a 8-bit. Niente stanchezza fisica, nessuna obiezione dalla tua donna, niente ansie da prestazione. Are you ready to play hard…? Player2: Sicuro. Minimalizzazione di informazioni superflue… Rimpiangete le “vecchie tecnologie di una volta” (soprattutto in ambito dei giochi elettronici), ma poi vi siete fatti conoscere in giro soprattutto grazie ad internet... non vi sembra una contraddizione? Player1: La Chiesa non è forse tra le istituzioni più conservatrici che si conoscano? Non per questo il Papa si astiene dal “servirsi” di mezzi di comunicazione di massa. Ciò che non ci piace invece dei giochi elettronici moderni è che tendono ad un iperrealismo grafico ingiustificato. Il gioco è un momento di distacco dalla vita reale, ed in quanto tale, è giusto che conservi quella diversità figurativa dalla realtà. Da qui nasce il nostro amore per i videogame del passato, dove gli eroi ad 8-bit non sono i terroristi, i rapinatori, i calciatori che puoi vedere alla TV. Player2: infatti il nostro non è un “rimpiangere” le vecchie tecnologie, piuttosto riproporle a modo nostro, riportare alla luce un pezzo della nostra felice infanzia. È un approccio più nostalgico…ma ogni era ha la sua gloria e noi dobbiamo comunque tantissimo al canale di diffusione del web. Da uno a dieci, ditemi quanto è importante per gli Atari…1. la melodia; 2. il ritmo; 3. la presenza scenica; 4. i testi Player1: 10, 10, 10, 6 Player2: 9,11,12, 3 Se potesse scegliere di rinascere in uno qualsiasi dei decenni passati, in che anno vi piacerebbe poter decidere di fondare la band? Player1: 1972, quando Nolan Bushnell fonda l’Atari Inc. Player2: non potendo prescindere dal nome del gruppo…non abbiamo molta scelta dal momento che la Atari Corporation nasce negli anni settanta, ma di sicuro negli 80’s a tenere testa ai Righeira… Pong o Space Invaders? Player1: Pong, naturalmente. Player2: Space Invaders.

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news

una gestazione di un anno e mezzo e presto avrà si farà ascoltare in occasione dell’ All Tomorrows Parties’

Nightmare Before Christmas festival che si svolgerà in Ighilterra i prossimo 7/8 dicembre. I Portioshead divideranno il palco anche con The Horrors, GZA e Aphex Twin. I Radiohead in Italia a giugno, e intanto una nuova release E’ ufficiale, i Radiohead saranno in Italia per due sole date: il 17 e 18 giugno 2008 presso all’Arena Civica di Milano. Senza dubbio l’evento musicale del 2008, ma anche mediatico visto il polverone che la band ha alzato in occasione della pubblicazione di ‘In rainbows’. La band di Oxford non farà un tour molto esteso ma toccherà poche e selezionate città europee. In particolare a Milano il concerto avrà luogo in una venue affascinante e piena di storia come l’Arena Civica. Thom Yorke and co. suoneranno in giugno in Germania al Southside and Hurricane festivals; ma anche in Danimarca al Roskilde festival mentre ci sono molte probabilità che saranno ancora una volta headliner al Glastonbury festival. Intanto verranno annunciate a breve le tappe che il gruppo farà negli States. Sul fronte discografico è ufficializzata l’uscita su cd di “In Rainbows” al 31 dicembre per la XL Recordings, ma il gruppo annuncia altre pubblicazioni: sarà “Jigsaw Falling Into Place” il prossimo singolo che il 14 gennaio accompagnerà tre versioni live di “Down Is The New Up”, “Last Flowers” e “Videotape”, realizzate per lo show web From The Basement; e pubblicate in formato vinile 7 pollici e in download-formats.

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Il nuovo album dei Portishead uscirà nel 2008 Ciò che annunciammo più di un anno fa oggi diventa ufficiale: la splendida voce di Beth Gibbons tornerà il 28 marzo del 2008. Il duo, con Geoff Barrow alle macchine, non pubblica un album dal lontano 1997, anno in cui il suono trip-hop imperava nelle classifiche europee. Il nuovo album del duo di Bristol, per il momento ancora senza titolo, ha avuto

stortion’ è il nono album in studio per la band capitanata dal songwriter Stephin Merritt. Il combo di NY City non pubblicava un nuovo disco dal lontano 2004, ultimo lavoro fu “i”. Un breve US tour, in Febbraio/Marzo, anticiperà le suadenti canzoni pop del gruppo che negli ultimi anni si è ritagliato un posto di prestigio nella lista mondiale delle migliori cult-pop-band. a febbraio il nuovo album dei Goldfrapp

con dieci nuovi brani prodotti in collaborazione con Daniele Senigallia presso lo studio I Piloti. L’uscita del disco è prevista per Gennaio 2008. In tour nazionale dal 1 febbraio 2008. Si prospetta un mood musicale più intimista, quasi cantautorale. Sicuramente una nuova strada intrapresa dall’ecclettico Francesco Di Bella. è ufficiale: dalla reunion dei My Bloody Valentine nasce un disco. Lo scorso 22 gennaio FO annuncio la reunion dei My Bloody Valentine. A

Ritornano i N.E.R.D., preparate i subwoofer Il successo da solista e soprattutto come produttore artistico ha affuscato il recente passato di Pharrell Williams, oggi anche designer per una nota azienda di borse. Infatti il nostro

‘prodigio’ per anni ha militato nel colletivo N.E.R.D., in passato era meglio cososciuto come The Neptunes, che nel 2004 pubblicò il pluripremiato “Fly Or Die” che seguiva l’ottimo debutto dal titolo “In Search Of”, album che vinse i Shortlist Music Prize. Pharrell, Chad Hugo e Shay Haley non si sciolsere definitivamente ma la pausa fu causata da rapporti tesi con la Virgin e probabilmente dalle innumerevoli proposte che Pharrel riceveva per la produzioni di dischi altrui. Probabilmente il titolo del terzo capitolo N.E.R.D. sarà “Went Back In Time... To A Future Near You!” e dovrebbe uscire in marzo/aprile 2008.

Il 25 febbraio la Mute records pubblicherà il nuovo album dei Goldfrapp. Il gruppo inglese formato da Alison Goldfrapp (voce e sintetizzatori) e Will Gregory (sintetizzatori) giunge al quinto album, titolo ‘Seventh Tree’. Alison, storica voce dell’elettronica di fine anni novanta (collaborazioni illustre con Orbital e Tricky), ha dichiarato che il disco è realizzato con amore e il sound viene dal cuore. Il sound avrà connotazioni ‘glitter’ e i brani ‘Supernature’, ‘Seventh Tree’ saranno molto glamour (!?!). l’atteso ritorno dei 24 Grana I 24 Grana nel mese di settembre si sono rinchiusi in un casolare nell’avelli-

Magnetic Fields, nuovo album in gennaio Magnetic Fields hanno annunicato il titolo e data del nuovo album. ‘Di-

nese per la pre-produzione di nuove canzoni. A due anni di distanza dalla ristampa di Metaversus, album cult del quartetto napoletano, la band annuncia il ritorno con un nuovo CD,

quasi un anno di distanza arriva la conferma. Kevin Shields, frontman della band ha affermato che il gruppo è in lavorazione: “tre quarti dell’album è già pronto, brani che avevamo già nel 1996; una compilation di tracce registrate nel 93 e 94; ma ci saranno anche “un po’ di cose nuove”. L’album dovrebbe giungere nelle rivendite entro la fine dell’anno ma non si sa ancora chi lo distribuirà, la band potrebbe seguire l’esmpio dei Radiohead distribuendo il disco in free download. “L’album assomiglia alle cose che facevamo una volta”, ha detto Shields. Hot Chip presentano il nuovo disco: ‘Made In The Dark’ Come annunciato in luglio gli Hot Chip torneranno con un nuovo album. ‘Made In The Dark’ verrà pubblicato da Emi ed uscirà il primo febbraio 2008. Registrato a Londra, nello studio degli stessi HC, con una gestazione di sei mesi, il disco dovrà ripetere il successo di ‘The Warning’. ‘Made In The Dark’ avrà un sound più “faster and rockier” rispetto a ‘The Warning’, conterrà 13 tracks e tra queste ci sarà caos ritmico (vedi i brani Shake A Fist’, ‘Bendable Poseable’), soulful introspection (vedi i brani We’re Looking For A Lot Of Love’, ma anche la title track ‘Made In The Dark’ e ‘In The Privacy Of Our Love’), e tratti pop come Ready For The Floor e One Pure Thought.


Le songs saranno: propulsive, ripetitive, ritmiche, metodiche, intime... insomma trasversali come gli Hot Chip. Nota importante: il sampling anthem ‘Shake A Fist’ di Todd Rundgren sarà presente nel disco e questo pare che sia un grosso vanto per la band.

Arriva il debutto dei canadesi Crystal Castles. Crystal Castles, duo electro di Toronto, debutterà il prossimo 18 febbraio (su Last Gang Records) con un album che i fans, raccolti su myspace.com, attendevano da molto tempo. Il nome della band è preso da un videogame Atari del 1983 ispirato a Pac-Man e grazie a un sound ad 8 bit misto a sonorità chiptunes ha riscosso molto successo, tanto da attirare l’attenzione di label come la Merok Records, Kitsune Records, Summer Lovers Unlimited, Trouble Records e Lovepump United che hanno incaritao Ethan Fawn e la vocalist Alice Glass di remixare Bloc Party e Klaxons.

l’album “Maladjusted” fu pubblicato dalla PolyGram; mentre “You are the quarry”, del 2004, fu edito dalla Sanctuary da poco acquisita proprio dalla Universal. Intanto Moz continua a far parlare di sè anche in altri ambiti, come di consueto litiga e attacca; questa è la volta del New Musical Express, vecchia fissa dell’ex Smiths. Il settimanale britannico, nella persona del direttore, avrebbe alterato l’intervista che Morrissey ha rilasciato al giornale. Era già successo nel 1992 e da

allora non ne aveva più concesse. Per rendendere l’articolo più interessante pare che sia ritornato su vecchie polemiche che riguardano il presunto razzismo del cantante. L’ex Smiths avrebbe espresso idee estremamente conservatrici, affermando - tra le altre cose - che l’identità inglese sta scomparendo a causa dell’immigrazione. Ma tutti sanno che il cantante, sebbene abbia una visione molto particolare di certe istanze sociali, non è affatto razzista. L’articolo, insomma, sarebbe stato manipolato.

Morrissey inciderà per la Polydor/Decca, del gruppo Universal. E’ dal sito True to you, official website del Moz, che si apprende la notizia. Il suo manager, Merck Mercuriadis, annuncia anche che nuovi singoli e un nuovo album di inediti sono in programma per il 2008. Quindi dopo il pellegrinaggio per indie label, Morrissey si ritrova (quanto per sua volonta?) a lavorare con una major. In passato, nel 1997,

Comincia l’anno nuovo. E’ tempo di calendari. Ve ne suggeriamo alcuni da appendere al muro. Ma niente donne in déshabillé, solo re nudi. >Il calendario degli standisti a un festival Per il mese di Gennaio, foto di gruppo: tutti sorridenti davanti allo stand/bancarella con libri-cd-spillette. Il sorriso scompare sfogliando i mesi successivi. A Marzo ecco la foto in bianco e nero intitolata “assedio”. Si vedono tre taccheggiatori vestiti come la Banda Bassotti in azione. Il responsabile di turno allo stand viene inebetito da una biondina, complice, che in salentino stretto gli chiede a che ora suona Cornelius. Lei distrae,

i Bassotti altri rubano. Senza pietà, anche gli ep di ska a 2,50 euro, anche i cataloghi di SweetMusic, persino la busta di panini con la cotoletta, unico pasto odierno degli standisti. E l’aiuto-responsabile allo stand che fa? E’ un attimo al cesso. >Il calendario del tour manager Maggio: in primo piano compare il tour manager degli “Tsunami Electric” che col dito indica il contatore del locale nel quale i suoi devono esibirsi stasera. Nella didascalia in basso si legge: “avevamo chiesto 4,5 kilowatt per l’impianto e questi ne hanno solo 1,5. Buono per lo xilofono della Chicco”. Settembre: sulla destra si nota il tour manager dei “Sorbetto” che s’improvvisa al basso, perché il bassista è rimasto bloccato nel traffico di pasquetta. Ottobre: il tm stringe tra le mani un blocchetto di consumazioni. Didascalia: ragazzi stasera ci pagano 1 ginlemon a pezzo Novembre: i ragazzi in fila con una bottiglia di Corona (pagata). A turno sodomizzano il tm.

cloachetta di Sandro Chetta >Il calendario del musicista che sta solo su myspace Calendario interattivo. Sul bordino di ogni mese c’è l’immagine del musicista in pose diverse. Se sfogli le pagine velocemente ottieni l’effetto ottico che il musicista stia suonando davvero uno strumento. >Il calendario di chi scavalca al Palapartenope di Napoli Mese di Febbraio: un trio di loschi figuri si tiene a distanza dalla lunga fila per il concerto dei Placebo. Aprile: Uno dei tre, Mario, fa la scaletta a Gino che l’aveva fatta a Enzo. Scavalcano da un muro laterale del palazzetto. Giugno: Enzo e Gino sono dentro e sorseggiano birra chiara; sullo sfondo, i colori accesi del palco. Novembre: Mario è “dentro” e sorseggia stille di sangue, il suo; sullo sfondo i colori accesi della faccia di agenti ps e buttafuori.

Dicembre: Mario è al volante, in macchina, sotto casa sua. La macchina è quella di Gino, che con Enzo si sta ancora godendo il falsetto di Brian Molko. “Mo va facit appèr” (adesso aspetterete il notturno, a quando passa, ndr) maligna Mario.

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Nick Cave & Warren Ellis

The Assassination Of Jesse James By The Coward Robert Ford OST

Einstürzende Neubauten

Amari Scimmie d’amore (Riotmaker)

“Alles wieder offen” (Potomak)

(Mute) Non conosce sosta l’attività artistica di Nick Cave. Anzi, più passa il tempo (il nostro uomo ha compiuto da poco cinquant’anni) e maggiormente la sua creatività si dirama oltre il semplice concetto di songwriter. Scrittore di libri, sceneggiatore, attore sono tra i principali interessi extra musicali che egli coltiva. Nel campo delle sette note, ultimamente, Cave ha voluto allargare i propri orizzonti al di fuori di una lunga carriera solista (a scanso di equivoci, è fresca notizia che il 3 Marzo 2008 uscirà, “Dig, Lazarus, Dig!!!”, il suo 14° album in studio) in cui, pur mantenendo una buona vena ispiratrice, il meglio di sé forse già l’ha dato… Si spiega così, la recente creazione del progetto Grinderman, in compagnia di alcuni elementi dei suoi fidi Bad Seeds. In questi giorni, invece, vede la luce la colonna sonora (campo nel quale già in passato si era cimentato il nostro) del film di Andrew Dominik, “The Assassination Of Jesse James By The Coward Robert Ford” (dove il musicista australiano appare anche in un piccolo cameo), composta da Cave insieme al sodale Warren Ellis. La complessa figura dello spietato fuorilegge americano Jesse James, morto per mano di uno dei membri della sua banda, Robert Ford, è una di quelle intricate storie (in questo caso, tratta da un romanzo di Ron Hansen), in bilico tra mitologia e morte, che da sempre affascinano “King Ink”. Non potendo contare, almeno stavolta, sull’ausilio delle parole, Cave ha lasciato che la sua immaginazione si trasformasse in commento sonoro. Aiutato in questo dalla perfetta simbiosi con Warren Ellis (da anni, col suo violino, membro stabile dei Bad Seeds), l’inedito duo ha concepito quattordici bozzetti di inquieta bellezza. L’impronta delle composizioni è contraddistinta dall’interazione tra pianoforte e violino, una combinazione che chi conosce l’opera “caviana” (specie quella più attuale) non mancherà di riconoscere. L’atmosfera solenne che permea l’intera soundtrack, raramente, provoca sbalzi d’umore, tranne in casi come quello del simil country di “Cowgirl”. Altrove, piccoli arricchimenti sonori, vengono intessuti con l’ausilio di minimali loops tecnologici o da casuali trame chitarristiche (“Carnival”) senza che ciò incida troppo sulla plumbea cappa che pervade questa colonna sonora. Tanto è vero che le inquietanti orchestrazioni di uno dei pezzi finali, “What Happens Next”, appaiono il perfetto preludio al tragico finale della storia. Non ci resta, allora, che vedere il film a cui queste musiche sono associate per renderci definitivamente conto della bontà dell’operazione. www.nickcaveandthebadseeds.com Luca M. Assante

Due mondi totalmente differenti e le tante release succedute negli anni dividono gli Einstürzende Neubauten degli esordi memorabili, dagli Einstürzende di “Alles Wieder Offen”. La nuova fase di distensione ed apertura è evidente, dopo ventisette anni di carriera, e con molta probabilità essa è arrivata sottoforma di necessità, nel mutare la materia offerta per questa storica band fortemente simbolica e ricca di contenuti. Una trasformazione che non è stata totalmente drastica: il song-writing riprende l’estensione lineare compositiva di sempre, che ruota attorno al cantato dell’anima del gruppo Blixa Bargeld, in un tedesco ostico e meccanico e stavolta anche melodico. La strumentazione resta la solita ferraglia alla Neubauten assoggettata però a strumenti piuttosto desueti per la band: archi, vibrafono, organo Hammond. I dieci brani - eccetto qualcuno - sono piuttosto spogli della drammaticità e la reattività che gli EN hanno regalato in passato, così come tutto il noise, spesso estremo, cui i teutonici ci hanno abituato, è ridimensionato in maniera decisa. I toni sono, in più occasioni, tranquilli e distesi, inframmezzati da parti elettroniche e beats metallici anziché del frastuono congiunto alla ritmica. Eppure una certa quiete è ostentata in più brani, esempio rappresentativo “Nagorny Karabach”, ad indicare la naturale evoluzione proprio a conferma che gli EN sono un collettivo in progresso e tutto ancora in discussione. La prova offerta in “Alles Wieder Offen” è matura, senza presunzione, professionale. La band non celebra mai se stessa, piuttosto utilizza l’esperienza accumulata negli anni, servita a fortificarli nelle composizioni. Bisogna fare bene attenzione, il disco riprende quasi tutti i discorsi e le sonorità avute in passato, ma non le copia mai, piuttosto le sviluppa. Tutto aperto ancora, come profetizza il titolo del disco (“All open again”) quindi, la pressione soffocante mediatica (e non) della società degli anni ottanta è mutata in quella odierna e con il tempo la band ha camminato in parallelo fino ai giorni d’oggi, dove i berlinesi restano una solida, fidata e certa realtà con tutta la loro costanza ed il loro spessore. “Alles Wieder Offen” è stato realizzato senza il sostegno di etichette discografiche ed è stato finanziato fans e supporters, i tedeschi hanno, indi, affinato anche il proprio concetto di libertà. www.neubauten.org - www.alles-wieder-offen.com/ Luigi Ferrara

E poi succede che ti ritrovi alla soglia dei trenta. A vivere una vita “dalle giacche stropicciate”, dove è solo un miraggio indossare camice stirate. Le donne le capisci ancor meno di quando eri adolescente, e l’amore finisci per guardarlo con un po’ di cinico distacco. Inizi a renderti conto che “non basta una stufa sotto le coperte per scaldare una giornata, figuriamoci un’intera vita”. E che la fine della tua vita da studente non è poi questo grande evento da festeggiare. Ti ritrovi a rimpiangere i giorni spensierati in cui ti accontentavi di poco. Osservando il mondo dei “grandi” come una creaturina spensierata appollaiata ai bordi della foresta della vita. Ora ovviamente vi starete chiedendo: “e che c’entra questo col disco degli Amari?” C’entra eccome, secondo me. Perché in “Scimmie d’amore” s’insinua prepotentemente (nei testi, ma anche nel mood generale del disco) questa sensazione di “perdita dell’innocenza”, di attraversamento – doloroso, manco a dirlo - della “linea d’ombra”. Se vogliamo parlare esclusivamente di musica, diciamo subito che il disco è veramente bello. Gli Amari hanno raffinato il loro personalissimo linguaggio sonoro, mescolando il loro spirito pop cristallino con elettronica da dancefloor (i beat grassi e i riff “acidi” di tastiera di “Le gite fuori porta”), funk (“Il raffreddore delle donne”, “Fiamme in un bicchiere”), electro-rock (la splendida “Manager nella nebbia”, o “Arpegginlove”, con la strofa che rimanda a Four Tet o a – chi se lo ricorda? – Capitol K), arrivando a lambire – con consapevolezza e maturità (ecco la famigerata parola che scommetto leggeremo in tutte le recensioni di questo disco) territori di puro cantautorato di qualità (siamo più vicini al Lucio Dalla dei bei tempi o al miglior Samuele Bersani, non all’ultimo dei songwriter indie-sfigatelli). Il sound è freschissimo, non c’è un pezzo che abbia il sapore del “riempitivo”. Dopo il terzo ascolto non si può fare a meno che canticchiare i ritornelli (anche i meno “spensierati”, come quello di “Ice Albergo”: “Perché – ti – devi – fare – odiare?”). Che volete di più da questi ragazzi? www.farraginoso.com/ Daniele Lama


Jens Lekman Night Falls over Kortedala (Secretly Canadian)

Probabilmente – anzi no: sicuramente – nei prossimi mesi Leckman conquisterà gli Stati Uniti con la sua tournèe autunnale, e così il giovane cantautore svedese chiuderà un cerchio, riportando nella terra di Frank Sinatra, Bing Crosby, Burt Bacharach e Benny Goodman quelle musiche che proprio da lì s’erano diffuse per il Mondo, tra gli anni 40 e 50. L’impressione è che Jens Lekman riesca, con facilità ed istinto, a compendiare nelle sue composizioni l’intera storia del soul pop – Burt Bacharach, inevitabile paragone – e dello stile vocale impostato dei vecchi crooner –

e pensate all’eleganza stilosa di un Bing Crosby, o del suo recente emulo Boublè – ed a tratti affiora la Motown, come in ‘The Opposite of Hallelujah’, o in ‘Kanske Ar Jag Kar i Dig’, dove si riesumano i Temptations, il tutto, come dicevo, con grande senso dell’ironia, come nella adorabile, conclusiva ‘Friday Night at the Drive-in Bingo’. Ma certo, va detto, quella di Lekman è anche musica moderna, e le sue doti di autore e musicista fresco ed attuale non si possono discutere: “Night Falls over Kortedala” è una raccolta di cazoni figlie dell’anno 2007, e si sente, malgrado il nostro ami così tanto arricchire i suoi brani con innesti remixati da vecchie canzoni lounge orchestrali e bossa nova, il più delle volte dimenticati da tutti. Soltanto per uno di questi vecchi spartiti, Lekman, non è riuscito ancora ad individuare il detentore dei diritti cui pagare le royalties, e se ne rammarica, nelle note di copertina, dove invita costui a farsi vivo per avere quanto gli spetta: trattasi di uno spezzone musicale infilato in ‘Sipping on the Sweet Nectar’, ed estratto da un misconosciuto brano congolese del passato, di nome ‘Dai Ndiri Shiri’, ma il Congo è un Paese in guerra civile e, dice con onestà Lekman, non è possibile farvi ricerche di questo tipo, per ora. Tediose, le indiscrezioni della stampa secondo cui, il disco, sarebbe stato ispirato dalla simpatia di Lekman per la parrucchiera di un salone di bellezza vicino casa sua a Göteborg – alla ragazza è dedicata la canzone numero 9 –: “la migliore parrucchiera che abbia mai avuto”, chiosa lui nelle recenti interviste; ma non ci frega di queste cose, perché ‘Kortedala’ è un disco troppo ricco di musica pop, che va ascoltato, e non necessita di retroscena per intrigare. E tra le varie tracce, facile che si ponga l’attenzione sulle buone vecchie canzoni romantiche, che a Lekman riescono dannatamente bene, grazie sia alla voce vellutata, sia agli gli arrangiamenti impeccabili: ascoltate ‘A Postcard to Nina’, ‘Shrin’ o ‘Your Arms around me’. www.jenslekman.com Fausto Turi Fujiya & Miyagi Transparent Things (Grönland)

I Fujiya & Miyagi sono senza dubbio tra le band più “cool” dell’anno, nonostante che a vederli, David, Steve e Matt, penseresti più ai tipici giovanotti “medi” inglesi, di quelli che trovi al pub davanti ad una decina di pinte vuote a sbracciarsi guardando una partita di Premier League in TV, che alla nuova band fighetta da rivista patinata. Il loro sound ha raccolto subito fan tra quelli “che contano”, Lcd Soundsystem e Tiga innanzitutto. Di giap-

ponese, a dispetto del nome, non hanno assolutamente niente. Piuttosto, c’è da scommetterci, avrebbero voluto trovarsi in Germania qualche decennio fa, in piena esplosione kraut-rock. E’ proprio dal sound di band come Neu!, infatti, che i nostri prendono spunto (o, come in “Conductor 71”, “rubano” spudoratamente), depurando però gli eccessi sperimentali a favore di un approccio assolutamente “easy” e di sicuro impatto. Beat elettronici e buone dosi di funk sintetico (talvolta davvero irresistibile, come in “Collarbone”), groove pastosi e godibilissimi, lunghe ed avvincenti cavalcate strumentali (“Cassettesingle”) guidate dai suoni oscillanti dei synth… Non c’è da gridare al miracolo, ma è sicuramente apprezzabile un disco che suoni così fresco pur non proponendo praticamente nessuna novità. E dal vivo, ve l’assicuro, c’è da divertirsi. www.fujiya-miyagi.co.uk Daniele Lama Benjamin Biolay Trash YèYè (Virgin) L’ex enfant prodige della musica pop francese, ormai icona nazionale di primo piano, si fa vivo in grande stile in questo finale del 2007, non soltanto perchè in fase di decollo come attore in un film che sta girando con G. Depardieu, ma soprattutto con un nuovo disco che ci permette di constatare, come già nei suoi 5 precedenti, la gran classe di cui Biolay è dotato. E se una parte del suo talento lo “presta” con generosità ai molti artisti francesi che produce o con cui collabora anche in veste di paroliere – soprattutto donne: Coralie Clement, Keren Ann, Valérie Lagrange, Isabelle Boulay, Françoise Hardy... – i suoi lavori solisti sono quelli che offrono il più nitido sguardo sul suo modo di esprimersi, perfettamente in equilibrio tra tradizione cantautorale europea, e modernità pop rock britannica. E se ormai, oltralpe, il cantautore di Villefranche è considerato da tutti l’unico possibile e credibile erede di Serge Gainsbourg, buio, profondo e provocatorio cantautore/attore in grado, in vita, di offrire un modello di svolta all’intera musica popolare francese e forse europea, ecco che Benjamin Biolay ripropone l’irrequietezza e lo stile del grande maestro, slacciandosi al contempo dallo stereotipo di “neoclassico” e tuffandosi corpo ed anima nella modernità sia estetica – BB è un affermato produttore, esperto del suono, dello studio d’incisione, polistrumentista, e sempre più attratto dall’elettronica – che compositiva con il ricorso, per dirne una, a liquidi e complessi inserti jazz che tengono talvolta sospeso il pezzo – i c.d. “bridge” – prima che riparta il ritornello conclusivo. Per spiegare meglio, è come se ‘Trash YèYè’ fosse il disco di un giovane Fabrizio De Andrè, prodotto però da Max Casacci. E poi ci accorgiamo che BB canta, anzi canticchia, quasi parla, spesso, un po’ come

Gainsbourg, sempre sulla stessa tonalità, tra un sol ed un fa, senza estensione, ed anzi con voce nasale e svogliata, non imponendo la sua voce ed anzi lasciando spazio, in qusto modo, alle sue arie musicali che risaltano i suoni limpidi di chitarra acustica, pianoforte, archi e fiati, o quelli del rock elettrico con synth e drum machine, che talvolta ammicca alla wave degli Interpol. www.benjaminbiolay.com Fausto Turi

recensioni

Retina.it Simeion (Hefty!) Abbiamo imparato a conoscerli i Retina.it; ormai già da qualche anno, grazie ad una sapiente produzione dettata dalla saggezza e dall’esperienza di Nicola Buono e Lino Monaco nel sapersi proporre senza inflazionare troppo la discografia del gruppo (nota dolente per tanti altri compositori elettronici), intessendo le trame sonore delle loro realizzazioni puntando sulla qualità e la nitidezza delle fonti sonore. La cifra musicale dell’ultimo lavoro, realizzato raggruppando i vari 12’’ pubblicati da Hefty!, è ulteriormente arricchita raggiungendo sonorità ardite sin dalla prima traccia “Tetsub” ritmata da pesanti battute outer beats che ne simulano una transumanza black davvero sorprendente per una band testimone dell’IDM nostrana. I campionatori sembrano ormai non avere segreti se per ”Zucchine alla Scapece”, ed ancor più su “Pick”, il duo di Pompei ne assoggetta gli strumenti analogici ed auto-costruiti per tracciare i frizzi elettronici sulla struttura astratta dell’hip hop; i beat non lasciano spazio per ulteriori possibilità nemmeno nelle tracce successive; il pattern ritmico si impossessa di volta in volta delle trame offrendo ora sortite esoteriche vicine al “Quarto mondo” di Jon Hassell (Uranio, Ziencer) oppure elettronica pastosa ed articolata da mille sfumature e melodie giocherellone alla maniera di Richard D. James aka Aphex Twin (Oiu, Civiltà Meccanica). L’impianto complessivamente ne esce ben equilibrato, anche se a volte armonicamente prevedibile, ma tutto lascia supporre la generosità della proposta; e comunque ad avercene!! In futuro ne vedremo delle belle: il duo, negli attrezzatissimi studi di Chicago della Hefty!, ha realizzato una serie di recording-sessions in compagnia del boss John Hughes e presto avremo altre novità. www.retinait.com g.ancora

The National Boxer (Beggars Banquet)

La new wave riprende possesso delle proprie azioni! Interpol che meraviglia!!? Adoro le provocazioni, lo ammetto! E’ dunque finita l’epoca del rock trito e ritrito sulle scopiazzature di Ian Curtis? Ce ne sono di monografie contemporanee da prendere ad esempio. I The National sono parte della scena “mistica” dell’Ohio, dove ogni aspetto creativo pare si rivolga a mondi paralleli ad una vita ultraterrena. In cerca di una trasformazione…si muovono verso New York spinti da nuove sollecitazioni più attuali, trasformando il materiale delle loro cupe ballate rupestri, in una composizione underground, metropolitana, attuale a molti altri artisti come loro… si invaghiscono degli australiani American Music Club e innalzano il loro operato a riferimento primo. Muovono i passi calcolando ogni punto di analisi e rottura tra il folk stile Tindersticks e la new wave scarna, elettronica, incisiva. Il calore delle loro canzoni è quasi un oggetto tangibile. Un rapporto a quattro, i fratelli Aaron e Bryce Dessner conciliano basso e chitarra come fossero l’una figlia dell’altra, supportati dalle orlature dei fratelli Devendorf (Scott e Bryan), chitarra e batteria. In questa ultima fatica il supporto arriva persino da Sufjan Stevens con l’orchestrazione di “Padma Newsome” dei Clogs…donando un colore avantgarde. Come dire, un’orchestra da camera che trasforma le sessions in stile jazz…fino al post rock più etereo, evanescente, basta ascoltare “Squalor Victoria” per assimilarne una fetta. Una delle mie preferite, “Brainy”, è caratterizzata dalla voce secca e guizzante di Matt Berninger che trasforma una canzone d’amore in una ossessione parossistica. “Fake Empire” è l’analisi di un mondo malsano attraverso la voce profonda, languida, arresa, che ricorda un Cohen degli esordi, il piano le dona spiritualità innalzandola a interprete principale. “Mistaken for stranger” è una canzone intrisa di valenza sociale, disincantata, forte nei toni, asseconda le parole sferzanti con altrettanto sferzante melodia, ritmiche secche e voce più lugubre e

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degna della memoria Joy Division. Per certi versi ricordano i Red House Painters, ma il folk che li “attanaglia” non è nient’altro che una rivisitazione new wave di melodie che altrimenti risulterebbero troppo complesse, poco accessibili…l’esistenzialismo ha preso piede …e si sta espandendo dalla metropolitana di New York! www.americanmary.com Lorenza Ercolino Cobblestone Jazz 23 seconds (!K7)

All’esordio su !K7, il trio canadese Cobblestone Jazz fonde elettronica e strumentazione analogica, calando l’electro-jazz di Herbie Hancock in clima club culture e trovando preziose fonti ispirazioni in casa Compost (il nome di Beanfield su tutti). Tra techno-funk scomponibile (“Lime in Da Coconut”), soul-jazz in versione deep-house (Slap the back”), bleeps avvolti in echi di vocoder su tambureggiamenti di basso (“Peace offering”) ed handclaps sotto luci stroboscopiche (“W”), i Cobblestone Jazz riaggiornano il verbo acid-jazz all’anno 2007 con un suono ritmicamente incalzante, sempre coerente nella visione d’insieme, forse fin troppo ripetitivo sulla lunga distanza. Più che affrontare l’intero cd 1 (10 tracce per 73 minuti), meglio allora rivolgersi all’esibizione live che occupa gran parte del cd 2: 41 minuti registrati a Madrid che presentano al meglio lo stile del combo enfatizzando la dimensione psichedelica del groove. www.myspace.com/cobblestonejazzmathewjonson Guido Gambacorta Pinback Autumn of the seraphs (Touch And Go)

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Quarto album per la cult-band di S. Diego guidata da Armistead Burwell Smith IV (Zach, per gli amici) e Rob Crow. Gli ingredienti sono quelli di sempre: l’inconfondibile riffing di chitarra, ormai vero e proprio marchio di fabbrica del sound della band, le raffinate linee melodiche disegnate dalle due voci, i ritmi (programmati elettronicamente o acustici) cadenzati e mai sopra le righe, il basso che intreccia giri a sostegno delle melodie. Suoni cristallini e animo malinconicamente pop. Rispetto al passato c’è forse una maggior dinamicità negli arrangiamenti, e una buona dose d’energia in più. La qualità delle canzoni è indiscutibile: alcune (“Good to sea”, la scoppiettante “From

nothing to nowhere”, la sussurrata “Torch”) sono certamente memorabili. Ma, alla lunga, la formula dei nostri finisce per stancare. I Pinback sono degli abilissimi artigiani della canzone, e su questo non ci piove. Sono capaci di produrre musica emozionante e sincera partendo da pochi elementi. Ma la monotonia è costantemente in agguato. Vicino casa mia c’è una trattoria dove si mangia veramente molto bene, ma il menù è sempre lo stesso, così dopo un bel po’ di volte che ho deciso di andarci, mi sono stancato. Ecco, i Pinback mi ricordano quella trattoria. www.pinback.com Daniele Lama The Early Years s/t (BaggersBanquet/ RadioFandango)

ll debutto di questa band londinese irrompe come un fulmine a ciel sereno in una scena inglese ormai saturata da un certo tipo di rock nervoso, scheletrico e contratto. The Early Years riescono a combinare le loro influenze in un impasto che già adesso ha un proprio sapore: Velvet Underground, Spiritualized, i primi Verve e i primi U2, lo shoegaze e lo spacerock, la psichedelia. La band si forma nel 2004 e con un primo demo entra subito nelle grazie della cerchia di addetti ai lavori che contano (primo fra tutti Steve Lamacq). Successivamente inizia a lavorare al disco di esordio con l’aiuto dell’ingegnere del suono Pat Collier (Jesus And Mary Chain, Primal Scream) e dopo 2 anni, nel 2006, il disco esce in Uk per la Beggars Banquet: un anno dopo arriva anche da noi. La musica è poderosa e onirica allo stesso tempo, ragionata, come a voler miscelare momenti di furia sonora e quiete psichedelica: il disco vive di repentine accelerate che alzano il registro dell’album su toni a volte epici. L’attacco “All Ones And Zeros” è perfetto dal punto di vista radiofonico, la successiva “Things” è compiuta e rilassata richiamando certe atmosfere disimpegnate di “Achtung Baby”, almeno finché non comincia a salire di tono per esplodere nel finale. Il disco segue una propria estetica, passando dagli oltre otto minuti di “Song For Elizabeth” (dove viene dipinto uno scenario strumentale tra post rock e shoegaze) agli scarni due minuti di ambiente sonoro in “Harmonic Interlude”. Il finale dell’album “This Aint Happiness” è immediato come l’episodio che ha aperto l’ascolto, una delicata ballata acustica dai malinconici colori pastorali e folk. www.theearlyyears.org.uk Stefano De Stefano

Booka Shade Dj Kicks (!K7)

Anche là dove non raggiungono livelli d’eccellenza – restando ai volumi recenti della serie, quelli curati da Four Tet ed Henrik Schwarz avevano decisamente una marcia in più rispetto a quest’ultimo! – i Dj Kicks di casa !K7 non deludono mai, sicure occasioni di intrattenimento utili per gettare uno sguardo su quanto avviene nel mondo del djing, dell’elettronica e della musica dance assumendo come punto di osservazione quello soggettivo di produttori ed artisti che ci forniscono, così, un sunto della loro tecnica, nonché un assaggio della loro personale collezione di vinili, cd ed mp3. E ciò che piace veramente di ogni Dj Kicks è il fatto che le scalette proposte, più che semplici raccolte di “pezzi preferiti”, sono prima di tutto manifesti estetici che riflettono chiaramente e compiutamente lo stile e la personalità dei vari compilatori. Lo stile e la personalità protagonisti questa volta sono quelli dei Booka Shade, duo berlinese di producers noti come fondatori dell’etichetta Get Physical (dal cui catalogo hanno scelto per la tracklist il loro singolo “Estoril” e “2 fast 4 U” di Lopazz), i quali hanno assemblato un flusso avvolgente di electro, disco-music, techno e deep-house con qualche passaggio dall’ottima presa (“In the smoke” di Cerrone fusa a “Hang around” di Ben Westbeech, “Alberto Balsam” di Aphex Twin, “Numbers” degli stessi Booka Shade…) più un indovinato momento hip-hop (“It’s too late” di The Street) più una chicca del tutto fuori programma (“Contact” di Brigitte Bardot). www.bookashade.com Guido Gambacorta Turin Brakes Dark On Fire (Source/Virgin)

I Turin Brakes possono lasciare perplessi. Non che siano un duo scadente, anzi. Il loro contributo a lanciare il new acoustic movemenet nell’ultima manciata di anni è stato notevole: perché aprire così la recensione del loro Dark On Fire? Perché essenzialmente non è cambiato nulla rispetto ai precedenti lavori. Sempre il solito girare intorno alla stessa formula. Una strategia che se per un attimo poteva far drizzare le orecchie ma che adesso, al quarto disco in studio, lascia un po’ di amaro in bocca. Dark On Fire è un discreto album di genere, quello a cui ci ha abituato il duo Olly Knights/Gale Paridjanian: ottimi suoni di chitarre acustiche, dei lievi accenti su sonorità elettriche che rimandano agli

ultimi Embrace (che a loro volta rimandavano a Coldplay e U2) e tanti melodiosi incastri di voci. Tutto bello, tutto perfetto, tutto inoffensivo. Folk-pop, soft rock e acoustic indie per un album prodotto da Ethan Johns (tra i suoi crediti Ryan Adams, Ray La montagne e Kings of Leon): alcune cose prescindibili, altre abbastanza convincenti. “Last Chance” è forse il miglior episodio dell’album, chitarre che tagliano un impasto acustico poderoso per una melodia che ricorda parecchio alcune cose degli Starsailor. E poi il singolo “Stalker”: altro gioiello (non a caso è il singolo). Archi, drumming potente e la consolidata formula acustica che offre il fianco a lancinanti tagli elettrici. Poi, però, incontri un pezzo come la title track e capisci che non è tutto oro quello che luccica: un pezzo francamente prescindibile che si costruisce sulle chitarre e che esemplifica perfettamente le ombre e le luci dei Turin Brakes. Un’ottima band che ha dato qualcosa di nuovo alla scena britannica, ma che sta lentamente esaurendo la propria carica: bisognerebbe rinnovarsi un poco, considerando che anche in questo disco ci sono pregevolissimi spunti ben al di sopra della media generale. www.turinbrakes.com Stefano De Stefano The For Carnation Promised Works (Touch & Go) Vengono qui ristampati, in un solo CD per Touch & Go, i due Ep pubblicati dalla Matador separatamente, 8 anni fa, di questo gruppo americano di Louisville, ormai scioltosi da tempo, che tra il 1998 ed il 2000 guadagnò una considerazione di nicchia e rappresentò un serio punto di riferimento in ambito post rock per l’ultima ondata del genere – quella che abbandona il jazz e scopre il folk americano – malgrado per molti versi si trattò, per i protagonisti stessi, di poco più di un side project. I For Carnation, quartetto composto da Britt Walford (voce, chitarra), Brian McMahan (voce, tastiera), Todd Cook (basso), e Michael McMahan (chitarra), vengono di solito presentati come un progetto solista di quest’ultimo, il vero leader, ex cantante degli Slint, che si circondava qui di ospiti illustri, per i quali For Carnation rappresentava un progetto parallelo alla loro attività in Tortoise e Shipping News, band cui si dedicavano più stabilmente. Con il loro unico album ‘The For Carnation’ del 2000, prodotto dall’amico, leader dei Tortoise, John McEntire, i For Carnation non ebbero, a dire la verità, riscontri di vendite neanche paragonabili a quelle dei Tortoise, e la loro attività live era inoltre ridottissima; ma ciò dipese anche dal fatto che si trattò di una band ancor più coraggiosa, che si discostava dalle complesse, lunghe suite protojazz dei Tortoise, nonche dalla crudezza punk-wave degli Slint, per creare una


Canadians A sky with no stars (Ghost)

I veneti Canadians, a dispetto del titolo del loro primo cd sulla lunga distanza, si stanno preparando un posto tra le stelle, dato che questo cd gode di una produzione di un sound da far gola tanto agli indie rockers, quanto al popolo più mainstream. La Ghost deve puntare molto su questo lavoro, dato che in ognuna delle undici canzoni non c’è una virgola fuori posto, una sbavatura, complimenti quindi per l’ottimo lavoro svolto sia dal gruppo, che dal produttore Matteo Cantaluppi, che sono stati capaci di creare tre quarti d’ora di un pop molto raffinato, con pregevolissimi riferimenti altisonanti sia in ambito indie (Grandaddy, Weezer), sia in abito mainstream (Beach Boys e ovviamente i Beatles). Con le dovute proporzioni del caso, considerando la differenza di genere e generazionale, sembra che i Canadians

abbiano appreso molto bene la lezione impartita dagli Afterhours, che è proprio quella di essere in grado di far presa sugli indie-rockers, ma non disdegna una puntatina alle classifiche. Questa evidentemente è la migliore strategia oggi per restare a galla e per andare avanti con dignità. L’ottimo lavoro di Cantaluppi emerge soprattutto in fase di mixaggio, dato che la voce del cantante-chitarrista, Duccio Simbeni, si intreccia sempre perfettamente con tutti gli strumenti, che si coagulano perfettamente e che non si sovrappongono mai, ma si alternano a seconda delle varie esigenze del brano in questione, come per esempio il pop valzerino di “Ode to the season” o “Summer teenage girl” che ha il tocco di una ballata ben contornata da cori larghi, in perfetto stile pop britannico. Laddove toccano la sensibilità più profonda, le chitarre affondano nei meandri dei migliori Smashing Pupkins, in una “The north of summer” che mantiene costante un tocco di ballata sensibile. www.myspace.com/canadianstheband Stefano De Stefano Bruce Springsteen Magic (Sony)

Dopo l’amarezza per l’attentato dell’11 settembre e l’incitamento alla sua città a rialzarsi, dopo aver cantato il dramma della guerra nell’inferno di diavoli e polvere, dopo esser andato a ritroso alla ricerca delle sue radici, per ricongiungersi con le radici irlandesi del padre, Bruce Springsteen si sente un uomo libero. Libero di cantare con scioltezza, senza impegnarsi troppo, ma dare finalmente spazio al suo canto libero. “Magic” non sarà uno dei suoi apici creativi, ma considerando che arriva dopo una serie di lavori non solo ottimi, ma soprattutto di un notevole spessore culturale, va benissimo così. D’altronde il cantautore del New Jersey è stato molto generoso finora e non si è risparmiato, quindi concediamogli pure una manciata di canzoni easy. Dopo cinque anni pubblica un disco con la E street (al completo, dato che dei pezzi se li è sempre portati dietro, oltre alla moglie) con canzoni cantate per il gusto di cantarle e di suonare insieme agli amici di sempre. L’aria che si respira, infatti, è quella che ha caratterizzato il periodo a cavallo degli anni ’80. La struttura delle canzoni è spesso molto simile a quella del periodo che va da “The River” a “Born in the U.S.A.”, ovviamente escludendo “Nebraska”. Quasi tutte le canzoni ruotano attorno alla ballata rock con solidissime chitarre, innesti qua e là del sax di Clemons ed un ritmo quasi sempre scoppiettante, a partire dal bellissimo singolo “Radio nowhere”, che diventerà sicuramente un suo cavallo di battaglia. Le

tematiche dei brani ruotano attorno alle relazioni, sia con l’altro sesso che con gli amici: a proposito, l’ultimo brano, senza titolo, è dedicato ad un suo amico morto di recente, e a riflessioni come “Long walk home” dove continua ad omaggiare il padre; tema portante è la spinta ad andare sempre avanti. “Devil’s arcade” è l’altro brano che spicca per intensità e profondità e nel quale Springsteen si esprime con tutto il suo carisma. “Magic” è dunque un lavoro forse interlocutorio e non all’altezza delle sue pietre miliari, ma non si può sempre pretendere il massimo da uno che fino all’anno scorso ha dato moltissimo. www.brucespringsteen.net Vittorio Lannutti

Okkervil River The Stage Names (Jagjaguawar)

“It’s just a bad movie, where there’s no crying”, sono i versi con cui si apre “The Stage names”, nuova fatica di una delle più interessanti indie-band americane degli ultimi anni, gli Okkervil River di Will Sheff. In verità di “lacrime” ce ne sono poche, in queste canzoni. Ma ciò nonostante – parafrasando i versi citati prima - non si tratta assolutamente di un “cattivo disco”. Ci sono insospettabili raggi di sole ad illuminare un lavoro in cui vengono un po’ messi da parte i toni cupi e introspettivi (predominanti nel precedente “Black Sheep Boy”, scuro già dalla copertina), e le tensioni emotive drammaticamente espresse dalla voce quasi singhiozzante di Sheff. The Stage Names è un disco più equilibrato ed accessibile, con melodie pop-rock memorabili (“Unless it’s kicks”), calore soul (“A hand to take hold of the scene”), e – ovviamente - ballate malinconiche, come “Savannah Smiles” (con un bello xilofono in primo piano), la drammatica “Title tracks”, o la bellissima “John Allyn Smiths”, che tutt’auntratto “sfocia” imprevedibilmente in “Sloop John B”. Meno entusiasmanti pezzi come “Plus Ones” e “A girl in port”, episodi folk rock senza infamia e senza lode, che evidenziano il lato più “piacione” e “normalizzato” dei “nuovi” Okkervil River, e il loro desiderio di leggerezza (esplicitamente espresso in questo disco), che speriamo solo non li trasformi lentamente nell’ennesima band indipendente che, nel voler “strizzare l’occhio” al “mainstream”, finisce per ridursi in qualcosa “né carne né pesce”. Per ora restano abbondantemente sopra la sufficienza. Chi vivrà vedrà… www.okkervilriver.com Daniele Lama

Roisin Murphy Overpowered (Emi)

I più informati tra voi lettori, ricorderanno Roisin Murphy come l’avvenente cantante dei disciolti Moloko, band che qualche anno fa riscosse una discreta popolarità, in particolare grazie all’azzeccata hit, “Sing It Back”. Scemato l’hype che li circondava e consegnati alla storia discografica quattro album oltre a qualche chincaglieria assortita, la bionda vocalist d’origine irlandese decise di porre fine al sodalizio artistico/sentimentale con Mark Brydon, l’altra metà del duo. L’esperienza accumulata nel frattempo, unita al desiderio di non abbandonare le scene musicali, hanno portato la Murphy a tentare la carriera in solitaria. Da lì nacque l’esigenza di concepire, insieme a Mathew Herbert, in veste di produttore/mentore musicale, “Ruby Blue” (2005) , il primo capitolo di questa sua nuova avventura. A posteriori, non un episodio indimenticabile in quanto a riscontro commerciale e di critica, però, almeno, prese coscienza del proprie potenzialità, lei che era diventata una (pseudo) musicista quasi per caso… Siccome al cuor non si comanda, la bella Roisin si è concessa una seconda chance. Anticipato dal frizzante singolo estivo, “Overpowered”, esce giusto in questi giorni il suo secondo disco, recante lo stesso titolo. Sulla scia delle sue precedenti creazioni, anche in questo caso, la Murphy predilige muoversi nel campo della pop-dance. Per tale motivo ha chiamato a raccolta una serie di produttori, più o meno di grido, che fossero capaci di coadiuvarla in sede di arrangiamento e “vestibilità” sonora. Ciò premesso, appare chiaro che la pacchiana mano di Andy Cato dei Groove Armada, in pezzi quali “You Know Me Better” o “Let Me Know” (il prossimo estratto del cd) induca a muovere beatamente le chiappe. Oppure che la scaltra “Footprints”, scritta insieme a Mark De Clive-Lowe e Seiji, possa apparire quasi come una moderna rivisitazione dei Kool & The Gang. Se il ritmo dell’album rimane, in generale, abbastanza sostenuto (senza che ciò vada, volutamente, a destabilizzare troppo il comune sentire di massa…), capita che tracce alla stregua di “Movie Star”, ad un orecchio smaliziato diano noia, in quanto eccessivamente kitsch. Preferibile, a quel punto, rivolgersi al lascivo simil-raggae di “Scarlet Ribbons”, invece di annoiarsi, ascoltando canzoni prive di sussulti. Non che “Overpowered”, nel suo insieme, riveli mirabili novità o sia esente da pecche. In ogni caso, almeno, non fa venir voglia di trasformare il cd in un simpatico frisbee né induce a consumare freneticamente il tasto skip! www.roisinmurphy.com Luca M. Assante

recensioni

nuova sintesi – nuova per allora, almeno: poiché in seguito questo genere si è piuttosto inflazionato, con l’avvento della cosidetta ‘americana’… – tra folk rallentato, squarci blues, e minimalismo quadrato. I For Carnation evitavano dunque di appiattirsi e schiacciarsi, artisticamente, sul modello post rock più in voga. I quattro si discostavano dalle ardite ed asfissianti geometrie Tortoise, e coltivavano qui un risvolto del post rock più di nicchia ed intimista, cantautorale, prestando orecchio alla tradizione americana. Soltanto la conclusiva ‘Prepare to Receive you’ mostra palesemente un retaggio sofisticato e davvero post rock. Molte di queste stesse intuizioni, a onor del vero, anche Dave Pajo (Slint, Tortoise, Pajo), spesso e volentieri collaboratore dei For Carnation, le stava in quegli anni sviluppando nel suo progetto Papa M, in cui suonava tutti gli strumenti. Questi due Ep, riuniti e ristampati per acclamazione dei fan americani – con un nome infatti emblematico: ‘Promised Works’ – sono di un minimalismo dal quale bisogna anche guardarsi: si tenga alla larga chi non ama, in musica, indolenza, chiaroscuri e suoni come pennellate nel silenzio; il primo lavoro ‘Marshmallows’ del 1998, in particolare, vede McMahan alle prese praticamente con un efebico cantautorato post folk voce e chitarra, sussurrato, e di contorno appena si percepiscono minimali e sporadici interventi dei colleghi, che semplicemente accarezzano i loro strumenti senza invadere. Fa eccezione la traccia intitolata ‘How I Beat the Devil’, più aggressiva. Un lavoro non troppo coinvolgente, a onor del vero. Molto più interessante, anche se più ortodosso, ‘Fight Songs’ dell’anno successivo, in cui c’era anche l’altro fratello McMahan, e Cook e Pajo si fanno sentire di più, attraverso i loro strumenti. Fausto Turi


live report 12

THE POLICE Torino, Stadio Delle Alpi 02/10/2007 Il Ritorno del reggae-punk: i Police in Tour in Italia.

A Torino l’unica data della re-union dello storico gruppo di Gordon Summer e compagni. Non rimarrà certo nella storia questa reuniontour dei Police, e qualcuno ha anche storto la bocca di fronte a un’operazione così evidentemente nostalgica e chiassosa, ma sta di fatto che a Torino erano in 65.000 a gustarsi un’occasione che non capita tutti i giorni. Rivedere i Police, a quasi trent’anni dal loro esordio, in tour e tutti insieme. L’evento magari è “guastato” dal fatto che nel frattempo Sting è stato più che attivo nel mainstream, e ben presente anche in Italia con i suoi immancabili concerti, per cui tante grandi hits del repertorio Police non erano proprio una novità per gli spettatori. Ma suonarle con Andy Summers e Stewart Copeland è decisamente un’altra cosa, e insomma il concerto del 2 ottobre non poteva non avere un’aria di già sentito, almeno finché si tiravan fuori dalla scaletta i pezzi più noti e obbligatori da suonare: Message in a Bottle, ad esempio, che però è stata una scelta felice perché ha iniziato il concerto come meglio non si poteva. Ed in effetti la prima serie di pezzi è da paura: Many Miles Away, Walking on the Moon, Driven To tears, Don’t Stand so Close to Me (versione originale, ovviamente), e soprattutto una stupenda When the World is Running Down, con un assolo di ben dieci minuti di Summers. A questo punto tutti i dubbi e le riflessioni sul senso della re-union, almeno per gli spettatori, sono già acqua passata: il divertimento è assicurato, e si prosegue con Synchronicity, Truth Hits Everybody, Every little Thing she Does, De Doo Doo Doo, e una autentica chicca: Invisible Sun in versione “restaurata”. Sting dà il meglio di sé con la voce come al solito (mentre dagli spalti più di una attenta osservatrice commenta la sua forma fisica di splendido cinquantenne), Andy Summers, “sformato” ma non domo, fa molto più che seguire semplicemente la scia, e l’altro ragazzone del gruppo, Copeland, mostra tutto il suo storico talento. Del resto né Copeland né Summers si sono mai fermati in questi anni, dedicandosi a produzioni di nicchia, ma suonare su un palco a cinquant’anni davanti a uno stadio pieno è un’esperienza che di sicuro mancava da tempo. E poteva essere un’autentica scommessa, che hanno superato alla perfezione, dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che i Police anni ’70-’80 non erano solo Sting col suo carisma. Seguono ancora a ruota Walking in your footsteps, una splendida Wrapped Around your Finger, e poi il momento forse migliore: Cant’ Stand losing you che sfuma in una stupefacente Regatta de Blanc, per poi tornare nel finale. La prima parte è chiusa, come da manuale, da Roxanne (non la migliore esecuzione sentita in questi anni, in verità).

Il bis è per King of Pain, So Lonely, l’immancabile Every Breath you Take (chi si aspettava magie del momento è rimasto deluso, i tre suonano una versione assolutamente “normale” del pezzo), e si chiude con Next to You. Chiusura degna di un revival, con ben cinque pezzi tratti dal primo indimenticabile Outlandos d’Amour, e tanta tanta nostalgia. La scelta del gruppo è stata quella di non provare nemmeno a riattualizzare i pezzi con qualche ri-arrangiamento, e persino gli strumenti usati si presentavano tremendamente “old fashioned”: saranno stati i loro bassi e chitarre di allora? Difficile a dirsi, ma certo è quello che volevano far sembrare. Il sound certo è quello di sempre: non manca nemmeno la verve, e i tre si divertono visibilmente tanto: ma certo questo nuovo tour non poteva aggiungere niente alla splendida ed evanescente carriera dei Police originali, e ogni tanto affiora la spiacevole sensazione che ci sia affidati a qualche cover di se stessi. Ora arrivano voci di un nuovo album: per gli autentici fan, sono notizie, queste, che fanno sempre piacere e paura contemporaneamente. Ma c’è da giurare che saranno poi tutti lì ad acquistare le prime copie. www.thepolice.com Francesco Postiglione

KLAXONS Berlino, Postbahnof 11.11.2007

I Klaxons bussano alla porta di Brandeburgo. Suonano alla Columbiahalle di Berlino. Ma che dico è Ostbahnof il quartiere che ne ospita la performance! On line è indicata la prima, sul più attendibile Zitty magazine spunta fuori il secondo. Informazioni un po’ distorte sulla location, alla ricerca del posto giusto sotto una morbida neve e un freddo sincero. Trovati! I Klaxons si esibiscono al Postbahnof, dal nome dell’omonimo quartiere, perfetto esemplificazione logistica di come accostare l’indie culture al post – industriale. Cosa c’è di più attuale di un concerto dei Klaxons? Il disco d’esordio, Myths of the near future, ha spopolato in lungo e in largo per tutto il 2007 e li ha proiettati nell’orbita del successo grazie al sostegno di una major come la Polydor Records. Un’opera prima che ha colpito per freschezza sonora e immediatezza testuale. Urge assistere ad un loro concerto, con spirito da teenager e consapevolezza dei tempi. In poco meno di un’ora i nostri scaricano suoni e assemblano parole. Eppure il live non è per niente brillante, a dispetto dei quasi venti euro del biglietto d’ingresso pronti a scatenare una giustificata pockets’ revolution tutta personale. Preparati e immediati, tutto e subito. Doverosa organizzazione impiegatizia. Fare musica è diventato come adempiere alle proprie mansioni d’ufficio? Domanda che tuttora mi rivolgo.

Vero che dalla loro hanno l’attenuante del solo album all’attivo, undici tracce che ripropongono mescolate durante il live berlinese. L’approccio è indie – club, ma i beat sono appena percepibili e non scuotono. Solo a tratti le varie Atlantis to interzone e Gravity’s Rainbow si colorano di tinte e sfumature reali, vissute, corpose. Durante tutto il set regna una sorta di sufficienza d’intenti mascherata da slanci di grandi stars. Altro che stelle, il batterista fatica e le voci si accavallano indisponenti. Se non ci fossero tastiere ed effetti, che lasciano respirare echi nu rave, il concerto dei Klaxons sarebbe un mediocre tribute rock show di un qualsivoglia pub di provincia. Delusione. Da un nome che ha fatto il giro del globo a forza di ritornelli hype è lecito aspettarsi qualcosa in più?!? Anche no, se la musica ha un valore esclusivamente commerciale, usa e getta; allora meglio cuffie, lettore mp3 o iPod (per i più benestanti), i corridoi di una metropolitana e la vita che scorre. L’impressione del live, legata alla propria esperienza di un qualsiasi walking day, resta senz’altro; dello spettacolo dal vivo resta poco o nulla, forse la soddisfazione, tutta auto – celebrativa per i Klaxons, di essere miti del prossimo futuro. Sarà, beati loro. www.klaxons.net Antonio Ciano

EDITORS Roma, Piper 22.11.07 Fuori il Piper la sera del 22 Novembre, nell’attesa per l’esibizione degli Editors serpeggiava un certo scetticismo. Sarà che dal rilascio dell’ultimo album sono passate due stagioni sola-

ri, sarà che la fiamma della “nuova” ondata indie si sta, dopo anni, lentamente spegnendo, in ogni caso gli Editors erano attesi come uno degli ultimi fuochi. Da vedere, certo. Ma solo per non pentirsene in tempi futuri di carestia. Nella fila poco scalpitante e piuttosto ordinata mancavano soprattutto le solite facce brufolose da adolescenti Mods incravattati e signorine simil-Pipettes. Ad essere ben incravattati e decisamente fuori dal coro, un’ abbondante comitiva di impiegati appena usciti dall’ufficio, che- forse per trasgressione, forse perché buttati fuori di casa dalle mogli di turno-avevano deciso di essere lì anche loro, e costituire tra l’altro, la fetta più cospicua di pubblico. Scetticismo anche l’apertura del concerto sostenuta a due mani. I primi a scendere nella

fossa dei leoni sono gli italiani JoyCut, il trio che ha aperto la data romana, seguiti dai londinesi The Boxer Rebellion. Dopo i primi minuti di indifferenza, per entrambe le band si è dovuta abbandonare la resistenza ostile generalmente accordata ai gruppi spalla, perché alla fine si, erano bravi. Più timidi gli applausi per i primi, più convincenti per i secondi. Erano inglesi di quella inglesità del sound coinvolgente che ti cattura in una rete anche abbastanza comoda da desiderare di restarci impigliati. Se la saggezza popolare avesse un aforisma a riguardo, sarebbe sicuramente questo: Mai negare un applauso di cuore ad una band inglese, per il solo fatto che ha il Tamigi nelle vene. Quando sono gli Editors a salire sul palco, gli ultimi muri di resistenza vengono abbattuti in un colpo solo, come una bomba ad orologeria, che fino a quel momento ha solo ticchettato e ticchettato- per poi esplodere trascinando con se mille altre esplosioni, senza sosta, senza respiro, l’aria era il caos, si cercava il caos per respirare, il contatto che risucchia e trascina e vorticosamente travolge. Sono bastate Lights e Bones per trasformare il Piper in un contenitore ufficiale di atomi impazziti e delirio allo stato puro. Musica ed energia cinetica. Bambini, non provatelo a casa. Tom Smith, leader della band, stava sul palco come un attore Shakespeariano. Il microfono come teschio dell’Amleto. Muove le mani a raccontare una storia, a plasmarla nell’aria. La chitarra al collo come una ballerina di tango che si tiene al suo collo con le braccia sensuali si un’eterna danza. Cresce l’emozione su When Anger shows, le prime note del piano leggere, dietro le spalle la chitarra, diventa il bagaglio di un menestrello a risposo. Quando poi il suono cresce lascia i tasti, riprende la chitarra, sale sul pianoforte. Tom e sembra un pirata che dalla nave avvista lontano la terra. Il contatto emozionale è alle stelle. Si potrebbe morire ora sotto il bombardamento dei sensi e delle emozioni. L’esibizione coinvolge il pubblico su tutti i livelli, l’interazione è totale: ho visto impiegati senza cravatta battere le mani su All Sparks e fare invidia alle curve dell’Olimpico nel coro innalzato per Blood. Più distruttiva di tutte le altre è stata l’esecuzione di Munich, una delle pietre preziose del primo album, mentre in chiusura le attesissime Smokers Outside the Hospital doors ed Escape the Nest. Quando il palco è rimasto vuoto e le luci intorno si sono accese nessuno era realmente consapevole di ciò che era successo. Un po’ intontiti come dopo una tremenda sbornia, i ricordi di soli pochi attimi prima non propriamente ricostruibili. Una performance da vera live band, che porta gli Editors parecchi gradini in alto nel Pantheon personale di ciascuno. “Great public, great people” dice Tom un’ora più tardi a quelli che di noi l’avevano aspettato sul retro del locale per stringergli la mano. Dopo un concerto di così alto livello, ancora più sorprendente è stato notare quanto Tom e i ragazzi sono stati disponibili ad incontrare i loro fan, firmare autografi e distribuire baci alle donzelle di turno. Sorpresi a loro volta del nostro entusiasmo, contenti di aver avuto il massimo, avendo dato il massimo. Una data indimenticabile sotto ogni punto di vista. A casa rimane solo il lieve senso di colpa di non averci creduto fin dall’inizio, ma poi penso che è stata proprio la sorpresa a rendere tutto così eccessivamente forte. Bravi ragazzi. www.editorsofficial.com Olga Campofreda



intervista

KULA SHAKER Niente è più strano della gente di Roberto Calabrò

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state 1996. In vetta alle classifiche inglesi c’è una band sola al comando: i Kula Shaker. Con un album, l’eccellente “K”, e quattro singoli contagiosi. La formula per raggiungere il successo è un brillante mix di brit-pop, psichedelia e misticismo orientale. Poteva essere l’inizio di un percorso lungo e fortunato, ma il momento magico durò poco. Il secondo album dei Kula Shaker, “Peasants, Pigs and Astronauts”, non riuscì a replicare l’eccellente formula del debutto e una serie di affermazioni controverse del leader, circa le origini della svastica come simbolo religioso, fecero crollare immediatamente le quotazioni del gruppo che si sciolse, come neve al sole, nel 1999. Dopo un’assenza di quasi dieci anni, i Kula Shaker sono ritornati con un nuovo album (“Strangefolk”) e una serie di torridi concerti in tutta Europa per dimostrare che il loro non era un semplice fuoco di paglia. Ho incontrato

Crispian Mills a Londra, nel mitico “ Trobadour” di Earl’s Court, poco prima che la band inglese venisse in Italia per una tournée sorprendentemente “sold out”. Quale motivo vi ha spinto a riformarvi dopo sette anni di assenza dalle scene? “Semplicemente perché ci è sembrato il momento giusto. Prima di rimettere ufficialmente in piedi la band abbiamo suonato assieme, registrando un brano di musica indiana per un’organizzazione di beneficenza. Mentre eravamo in studio la magia dei Kula Shaker si è ricreata e abbiamo pensato che fosse un segno del destino…” Come è stato ritornare assieme, scrivere e registrare un nuovo disco dopo così tanto tempo? “Credo che il processo creativo sia

un’agonia. Ci sono ovviamente dei momenti di ispirazione che risultano davvero eccitanti, ma si tratta comunque di un percorso ad ostacoli perché devi riuscire a districarti in una

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gran confusione di idee e di sensazioni. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta. La parte più difficile è stata quella di rimanere indipendenti, di non legarci a nessuna casa discografica e di non vendere i diritti del disco prima ancora di averlo realizzato”. Come mai avete deciso di autoprodurre “Strangefolk”? “Volevamo avere il totale controllo sull’album. Ovviamente abbiamo incontrato delle etichette discografiche, ma ci siamo resi conto che sono come il Titanic che sta affondando nel ghiaccio. Il music-biz è completamente cambiato negli ultimi dieci anni e il discografico con cui firmi un accordo oggi, tra sei mesi potrebbe non essere più al suo posto. Come puoi affidare la tua musica e la tua vita ad un sistema di questo tipo?” C’è un significato dietro il titolo dell’album? “C’è un’espressione nel nord dell’Inghilterra che dice “Nulla è più strano della gente”. Le persone sono strane, il mondo è dannatamente strano e ci è sembrato che questa espressione, “Strangefolk”, riflettesse davvero l’epoca in cui stiamo vivendo”. “Strangefolk” è un disco molto vario: ci sono brani psichedelici, ballate, pezzi più marcatamente rock. Era questo il tipo di album che avevate in mente di registare prima di entrare in studio? “Quando siamo andati a registrarlo il nostro obiettivo è che fosse un vero disco rock’n’roll, con un messaggio. Il messaggio del disco è “amore”, ma

ci vuole anche un po’ di rabbia per sopravvivere in questo mondo. Altrimenti si finisce per vivere in una nuvoletta rosa, in un sogno ad occhi aperti. Credo questo album possieda il giusto equilibrio di rabbia e amore”. Non è un caso, quindi, che tu abbia scritto dei brani dal forte spirito polemico come “Die For Love” e “Great Dictator (of the free world)”… “Penso di avere interpretato un sentimento comune a molti scrivendo quelle canzoni: il feeling di essere stati presi in giro dalle menzogne dei nostri governanti che hanno abusato di altre persone, di altri popoli, in nome della democrazia, in nome del mio paese o in nome di Dio”. Il tema portante dell’album è comunque l’Amore? “I miei eroi John Lennon, Martin Luther King, San Francesco e Krishna dicono che l’amore vince sempre. C’è una parte di me che a volte dubita di questo messaggio. Dall’altro lato, invece, più cresco più mi accorgo di credere in questa teoria: senza amore, del resto, niente ha più senso, finiamo per essere egoisti e ci comportiamo come animali”. Quali sono, adesso, i progetti e gli obiettivi futuri dei Kula Shaker? “Vogliamo rendere la vita difficile ai fascisti che governano il pianeta, mettere a soqquadro il mondo del rock’n’roll e possibilmente rendere le nostre vite e quelle di chi ci ascolta meno noiose. Vogliamo provare ad essere la migliore rock’n’roll band del mondo”.

www.kulashaker.co.uk


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Dave Gahan Dura la vita delle rockstar… di Luca M. Assante e Francesco Postiglione

bisogna rilevare il prezioso contributo offerto da Christian Eigner (batteria) e Andrew Phillpott (programmatore e polistrumentista), entrambi, da tempo, in organico nell’entourage dei Depeche Mode. Altresì degna di nota l’ipnotica “Endless”, il cui giro di basso circuisce ed ammalia, in un crescendo assai psichedelico. Altrove, il bandolo della matassa non viene trovato. “Use You”, ad esempio, col suo andamento industrial appare poco convincente e stereotipata, simile a “Deeper And Deeper” ma non ne possiede la stessa depravata inquietudine. Per non parlare della conclusiva “Down”, ieratico pezzo da “malinconoia” a buon mercato. In pratica, nella seconda parte del programma della “Clessidra” (questo il significato letterale del termine “hourglass”) si intravede qualche passaggio a vuoto di troppo né le doti di paroliere dell’autore infondono quel senso di profondità che le musiche vorrebbero suggerire. In un’intervista, diceva Gahan di se stesso “I can’t sing, but i’ve got soul”. Nessuno mette in dubbio che questo sia un album sentito. Il problema semmai è capire se con le sue sole gambe, egli sia in grado di essere qualcosa di completamente diverso dai Depeche Mode o una copia “in fieri” dell’originale. Per adesso, i passi in avanti compiuti, non permettono di stabilire un giudizio scevro da qualche perplessità. Se son rose, comunque, fioriranno in maniera ancor più splendente di quanto riescano a fare stentatamente adesso... Il Ritorno di Gahan solista L’uomo e il Padre abbandonano la Maschera da Rockstar A vederlo quasi non lo si riconoscerebbe come il mimetico e sensuale frontman dei Depeche Mode, anima e sangue del gruppo nelle celeberrime esibizioni live. A 45 anni, Dave Gahan è padre di tre bambini e marito felice (di terze nozze), e

oggi anche cantautore che si riconferma con la seconda prova solista, ‘Hourglass’ appunto. Per la presentazione del disco (prodotto con Christian Eigner e Andrew Phillpott, entrambi in forza nel marchio Depeche Mode) Gahan mette in scena il suo volto più pacifico e sereno: elegante ma non vistoso, sfuggirebbe forse ai più se lo si trovasse passeggiare in una strada “in” di una grande città, tanto sembra “normale” la sua presenza e il suo aplomb tra i giornalisti. E’ lo stesso volto, dice il sorridente e palesemente appagato Dave, che emerge dall’album: un lavoro di pacificazione con la propria vita, di confronto con se stesso e con gli altri, un lavoro nel quale “ho potuto articolare meglio chi sono e cosa sto diventando. E’ un’esperienza catartica. In quest’album mi confronto con le persone, ne sono spaventato in genere ma adesso cerco di riscoprire un mio istinto naturale che mi spinge a liberarmi del giudizio degli altri. E poi ho avuto in passato la tendenza a usare le persone, come con l’alcool, ma questo aspetto di me non mi piace e sto cercando di cambiare”. Si presenta in sostanza come un tentativo di riconciliarsi con la vita, soprattutto con la vita quotidiana del “qui ed ora”, libero dalla frenesia di correre sempre all’inseguimento di un senso che forse si trova nella contemplazione del presente e del momento. Inevitabili due confronti: quello con l’album di esordio, ‘Paper Monsters’ del 2003, nel quale Gahan riconosce di aver voluto marcare di più la differenza rispetto al sound dei Depeche Mode (mentre in Hourglass le sonorità ricordano più da vicino le composizioni della band) per staccarsi e cercare una propria identità, che con Hourglass è pienamente ritrovata senza conflitti, e con “una maturazio-

ne del rapporto con la band”. L’altro è quello appunto con il suo ruolo di vocalist e frontman del gruppo: Dave libera tutti dalle ansie quando afferma che ‘Hourglass’ non significa la fine dei Depeche Mode. “sono due cose differenti: il lavoro da solista mi aiuta a crescere anche nel rapporto con il gruppo, come dimostra l’aver composto tre pezzi per Playing the Angel, l’ultimo album della band”. E quanto siano buoni tutt’ora i rapporti fra i tre Depeche lo dimostra il fatto che si scambiano reciprocamente i complimenti per i loro lavori da solisti: “Fletch (Andy Fletcher) mi ha detto di averlo apprezzato e tramite lui ho saputo che Martin adora questo nuovo album”. Naturalmente il modo di comporre cambia, se stai lavorando a un progetto solista: “quando ho scritto le tre canzoni per i Depeche Mode, pensavo a come venivano dal vivo, a come gli altri le avrebbero suonate, come avrebbe funzionato l’amalgama per la band. Qui tutto questo è rimosso. E mentre i demos dei tre pezzi sono molto diversi dalle versioni finali, perché riarrangiate col gruppo, in quest’album non ci sono proprio demos, tutto è venuto fuori com’è sin dall’inizio, grazie alla collaborazione con Eigner e Phillpott”. A vederlo sorridere e scambiare battute con i giornalisti, completamente e forse volutamente dimentico del suo ruolo di popstar stellare, vien fatto davvero di pensare che quest’uomo che ha rischiato di morire per overdose e ha più volte sfidato il proprio corpo con la droga e l’alcool, ha veramente trovato la sua pace. E quando gli si chiede del rapporto con la religione (sfiorato anche in una delle nuove canzoni, Miracles), risponde: “Credo che ci sia un significato più profondo della vita, che noi tutti tra l’altro cerchiamo spesso di evitare. Ma questo è quello che ho cercato di tirar fuori in tanti anni, e in modi molto diversi. E’ difficile per me ammettere che credo in Dio [in Miracles dice: “non credo in Gesù ma continuo a pregare”], ma in effetti è così: non credo nei miracoli ma intanto accadono ogni giorno. E la presenza di questo senso profondo la percepisco in molti modi: oggi soprattutto con i miei bambini, la famiglia, e le performances con i Depeche Mode. Credo poi che questo senso parli attraverso alcune persone, i cosiddetti profeti, Gesù, Martin Luther King, e a me poi parla attraverso la musica”. Auguri allora Dave: il tuo volto e le parole che esprimono serenità sono il migliore regalo che si può fare a qualunque autentico fan dei Depeche Mode. Official Web Site www.davegahan.com

intervista

el corso degli anni ‘90, Dave Gahan, vocalist e front man dei Depeche Mode, sembrava ormai perso nei suoi auto-compiaciuti deliri a base della stantia triade “sesso, droga e rock & roll”. Ci è mancato davvero poco, prima che anche lui sacrificasse la propria vita all’altare della vanagloria che tante vittime ha mietuto nello star system musicale. Superata questa delicata fase della sua esistenza, Gahan sembra da tempo aver rimesso la testa a posto, portando nuova linfa creativa ed interpretativa nella casa madre dei DM e, soprattutto, scoprendosi novello songwriter. Ci sono volute più di due decadi prima che l’irrequieto Dave prendesse coscienza delle proprie potenzialità d’autore di canzoni e si affrancasse dall’ingombrante peso di doversi confrontare, in questo ambito, dal compagno d’avventure Martin Gore. Nel 2003, finalmente Gahan ha trovato la forza di portare fuori tale maturazione, pubblicando l’assai alterno “Paper Monsters”: prendendo in contropiede chi si aspettava sonorità elettroniche, vicine al gruppo da cui proveniva, nel disco egli aveva mostrato il suo malcelato amore per un crudo rock chitarristico, talvolta venato di blues, da un lato e, dall’altro, si era cimentato in una copiosa serie di insipide ballate orchestrali, denotando una certa penuria lirica. Rotto il ghiaccio, l’artista inglese ha continuato a comporre per conto suo, riuscendo ad inserire tre suoi brani autografi (fra cui l’ottimo singolo “Suffer Well”) nel recente (2005) full-lenght dei Depeche Mode, “Playing The Angel”, fatto mai verificatosi sino a quel momento. Un’ennesima iniezione di fiducia che ha portato il nostro a voler dare un seguito alla sua opera prima. Il 22 Ottobre, infatti, è uscito “Hourglass”, il secondo album da solista dell’uomo di Basildon. In questa sua nuova fatica, il tratto che emerge subito è un deciso ritorno… “al passato”. Piuttosto che cercare di discostarsi troppo dal sound “sintetico” dei DM, Gahan è tornato su i suoi passi, forse timoroso, in parte, di non deludere i fan dei Depeches, rimasti alquanto insensibili al suo debutto discografico di qualche anno fa, specie negli USA. Una parziale abiura che, comunque, stavolta almeno sembra poggiare su basi più solide. Già la delicata partenza dell’iniziale “Saw Something”, pur riprendendo certe orchestrazioni simili a quelle presenti nei ”Mostri di Carta”, non risulta così posticciamente melensa, trovando, al contrario, un buon connubio tra pathos e liricità. Nel prosieguo della tracklist, trovano spazio momenti decisamente incalzanti come “Kingdom” (il primo estratto del nuovo disco) o l’urticante “Deeper And Deeper”, dove la plumbea voce di Gahan viene filtrata e trattata sposandosi al meglio con la marzialità degli arrangiamenti. A questo proposito,

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cinema

E la videomaker disse: “È tempo di porno cospirazioni” di Roberto Urbani Se i cinema Multiplex sono spesso le cattedrali in cui si dimentica che le immagini non sono figlie di nessuno, internet, contenitore di filmati instabili e sotterranei, ce lo ricorda puntualmente. I video della rete sono il più delle volte intimi, domestici, ma non sempre mostrano qualcosa di prettamente privato, prova ne è la grandissima eco del bullismo amplificata da YouTube. Ma non c’è solo You Tube che si presta come luogo di videosharing. Ne sa qualcosa Nikky, romana, vera eroina del web, autrice di qualcosa come 600 video, di cui 400 reperibili nella rete. Dal 2001 è collaboratrice di FLxER, sito da cui si può scaricare un software gratuito di grafica vettoriale per poi condividere i video in una grande community. Ma ci sa fare anche con le istallazioni visive come testimonia il lavoro “re:joyce”. È, inoltre, membro del gruppo dei Pigneto Quartet. Recentemente ha creato MYJEMMATEMP, progetto sul web di porno indipendente. Ma qual è il percorso che ha portato Nikky (nom de plume di scoperta ascendenza pornografica) a diventare una

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videomaker affermata? Sono come Fantozzi. Ragioniera. Ma essenzialmente sono un’autodidatta. Ho difficoltà nell’apprendimento tramite insegnamento. Ho iniziato a lavorare da segretaria all’età di 14 anni perchè sono stata bocciata al primo anno delle superiori, per poi recuperare in un istituto gli anni persi. Appena iscritta alla facoltà di economia di Tor Vergata, ho mollato gli studi universitari per continuare con gli “how to” della nascente internet. Cosa ti ha spinto a lavorare nel mondo della grafica e del video? Più che con la grafica lavoro con le reti. Intese come reti telematiche, di relazione, di condivisione. Dopo la maturità sono stata contattata da una società che “prestava” informatici a una multinazionale chiamata EDS. Sono stata una delle prime prostitute informatiche. Mi sono qualificata come amministratore di rete, sistemista e ho cominciato a usare Unix e altri sistemi operativi. Poi sono entrata nel Broadcast di Kataweb. Nel frattempo alcuni miei amici iniziavano a fare vjing a Roma e mi

hanno coinvolta. Sono passata da tecnico a creatore di contenuti trovando attraverso FLxER il canale di comunicazione per esprimermi. Con quale spirito sei entrata a far parte di FLxER? Una delle condizioni più favorevoli era quella di abitare dietro l’ufficio dove si sviluppava il sito. Ho imparato ad usare Flash, e i miei amici vj iniziarono a proiettare le mie gif convertite in animazioni flash. Era come vedermi uscire dal computer. Un’emozione forte. Cosa ispira il progetto MY JEMMA TEMP e come lo definiresti? E’ una cospirazione pornologica di reclutamen-

to di corpi rubati al piacere. Myjemmatemp.org è un sito dove si può ancora trovare Moana Pizza (www.myjemmatemp.org/moana_pizza/), performance di 15 minuti audio/video con trama classica e nessun orgasmo: me l’hanno censurata dopo circa due

Nikky colonizza la Rete con 400 filmati di arte hardcore. Passatempi? Recluta corpi “rubati al piacere” . Vj, è tra le animatrici di “Flxer”. Odia tv e cinema, tranne Miyazaki mesi. Non so, forse non dovrei dirlo qui, ma pare che in Italia non sia possibile girare pornografia per distribuzioni commerciali: devi girare all’estero. Quindi noi giriamo perché non si può e in più lo facciamo a casa di nostri amici, a loro insaputa. Una super violazione della privacy, un gigantesco equivoco. Che cos’è “re:joyce”?“ Volgarmente definito un concerto per voce, piano e proiezioni eseguite e composte da Cristiano Gullotta con la voce di Maurizio Rippa. Per me è un film emotivo. Quando mi hanno proposto di partecipare a questo progetto mi sono aggrappata alla figura di Nora (compagna di Joyce n.d.r.). Mi sono subito sentita una Nora moderna. Quest’anno spero di presentarlo al Tek festival. Parliamo di cinema: ci vai spesso? Mai. Solo a vedere Hayao Miyazaki che è bravissimo. La scorsa settimana ne ho frequentati un paio a Berlino in occasione del Berlin Porn Film Festival. C’è un legame segreto tra la grafica vettoriale ed il cinema? Segretissimo. Chi fa cinema non sa nemmeno cosa vuol dire grafica vettoriale. Ultima domanda: se accendi la televisione che cosa vedi? La che?


FREAKOUT e NEAPOLIS FESTIVAL presentano

EINSTÜRZENDE NEUBAUTEN IN CONCERTO

NAPOLI / 11 APRILE 2008 |

TEATRO MEDITERRANEO MOSTRA D’OLTREMARE

posto unico: 26 euro + diritti di prevendita prevendite abituali. circuito etes (www.etes.it) info@freakout-online.com


special

Sigur Rós Hvarf/Heim [2CD] + Heima [DVD] Il 2 novembre 2007 sono usciti due complessi e speculari lavori degli islandesi Sigur Rós, che pubblicano, separatamente, un doppio CD, in buona parte costituito da materiale retrospettivo, con qualche inedito, ed un DVD: un modo per fermarsi un attimo e fare il punto della situazione, per questa band che negli ultimi anni ha conquistato il Mondo, facendo parlare di sè come dei nuovi Pink Floyd. Il primo disco, intitolato ‘Hvarf’, contiene 3 brani inediti intitolati ‘Salka’, ‘Hljomalind’ ed ‘I Gaer’, più una nuova versione di ‘Von’, dal primo disco, e ‘Hafsol’, mentre il secondo disco, intitolato ‘Heim’, contiene le versioni acustiche di 6 canzoni arcinote della band, per la verità piuttosto fedeli alle originali, al punto da negare la sorpresa attesa, connubi elettrici/elettronici, tra cui spiccano ‘Agaetis Byrjun’ e ‘Samskeyti’. Poi esce nei negozi anche il documentario in DVD, girato in grande stile, intitolato ‘Heima’, che ci accompagna lungo la tournèe islandese estiva dell’anno scorso, il 2006: uno straordinario reportage in cui, al fascino della musica della sempre umile band nordica – una decina di canzoni eseguite dal vivo – si unisce l’incanto dei paesaggi della loro arida isola vulcanica, ripresa in maniera poetica, ma in digitale, come raramente ci era capitato di vedere in passato neanche nei tanti documentari scientifici. Villaggi fantasma, incontri imprevisti con la gente del luogo, carcasse d’aereo, parchi nazionali, pubblico ridottissimo nei paesini di pochi abitanti o sterminato, nel concerto finale nella capitale, e l’assoluta desolazione dei paesaggi ghiacciati dell’interno, e di quelli marini della costa. Il film, pare, girerà anche per alcune sale cinematografiche, in Gran Bretagna ed Islanda. Come loro solito, i Sigur Ros mantengono intatto il fascino e l’originalità assoluta che li contraddistingue da sempre, rimanendo monolitici, imperturbabili ed immobili mentre tutta la musica del Mondo corre istericamente senza andare, pare certe volte, in nessun posto. I limiti della band, se tali sono, rimangono legati non tanto alla prolissità, di cui spesso vengono accusati dai loro detrattori, quanto piuttosto proprio a questa scelta di non mutare nulla, mai, e di proseguire un’esplorazione del gelido ed evanescente suono che hanno creato, fino all’estremo. E la scelta di evitare l’album live, che era il progetto originario da affiancare al DVD, ma che è stato scartato poichè avrebbe ‘sporcato’ la perfezione assoluta delle performance in studio del quartetto, svela un timore probabilmente infondato, poichè certamente il pubblico dei Sigur Rós avrebbe gradito della band anche le leggere distrazioni ed il controllo del suono solo parziale che il quartetto può subire, sul palco. Chi li ama continuerà ad amarli, chi li detesta continuerà a detestarli, ma Jónsi Birgisson (voce, chitarra), Kjarri Sveinsson (tastiere), Orri Páll D?rason (batteria) e Goggi Holm (basso), pallidissimi anche – e ci mancherebbe altro... – nella gelida Estate islandese, sembrano fare al Mondo, con la loro musica, una proposta di cambiamento, di rallentamento dei frenetici ritmi di vita, sul modello della loro comunità isolana, lassù, nel Mare del Nord, in condizioni di vita quasi limite. www.sigur-ros.co.uk Fausto Turi

Radiohead

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In Rainbow RADIOHEAD HAVE MADE A RECORD SO FAR, IT IS ONLY AVAILABLE FROM THIS WEB SITE. Poi dal 31/12 sarà nei tradizionali store con distribuzione XL Recordings. Questa è la scritta che appare su www.inrainbows.com, questa è la scritta che rompe le ginocchia all’industria discografica. Vuoi un disco? Lo compri direttamente dal sito della band al prezzo che preferisci. I Radiohead avevano già iniziato nel 1997 a provocare il music buisness con la decisione di usare come primo singolo di “Ok Computer” la canzone più lunga del disco: Paranoid Android, e furono premiati. Nel 2000, anno di uscita di “Kid A”, decisero di non pubblicare singoli con relativi video, lasciando ai fan ed alla rete il compito di fare promozione del disco, ed anche in quest’occasione furono premiati. Ora che il contratto con la Emi Music è terminato, e i 5 ragazzi dell’Oxfordshire si trovano senza etichetta discografica, decidono di smuovere le acque della palude che è il mercato musicale di questi tempi con una mossa che rimarrà impressa nella storia della musica rock. Sono passati 4 anni da “Hail to the Thief”, ultima uscita discografica della band, 4 anni spesi per realizzare un album di indubbio spessore dalle multiple sfaccettature e dalle sonorità , come sempre, invidiabili. “In Rainbows” è, per certi versi, un lavoro un po’ difficile da metabolizzare immediatamente. Se Ok Computer era un album rock (con la R maiuscola) e Kid A e Amnesiac erano dischi “elettronici”, questo, invece, è una perfetta fusione dei due stili, delle due facce dei Radiohead, un’unione percettibile non come semplice sequenza di brani di diverso genere ma

come fusione sonora in ogni singola composizione. La ricerca è curata in ogni minimo dettaglio, a partire dai beat elettronici di 15 step, passando per le stupefacenti linee vocali di Nude (pezzo figlio delle session di Ok computer), fino ad arrivare all’armonia totale di Videotape. Nulla è lasciato al caso, nulla è fine a se stesso. “In Rainbows” è anche un disco segnato dalla ritmica, pezzi come Bodysnatchers e Jigsaw Falling into Place, sono scanditi dalla batteria di Phil con un ritmo continuo, incalzante, veloce, mai invasivo, mai pesante e come sempre perfetto. Il tappeto di suoni, rumori, orchestrazioni si riperquote sull’ascoltatore come un totale avvolgimento sonoro da cui non si può scappare, da cui non ci si può allontanare. Le chitarre sovrapposte di Weird Fishes Arpeggi costruiscono stupende strutture musicali che creano un sottile muro sonoro che toglie il fiato. All I Need è un viaggio di 4 minuti tutto in salita, in cui la voce di Thom ci accompagna per mano tra chitarre riverberate e tastiere sognanti, fino a giungere alla totale esatesi strumentale. In House of Cards la voce di Yorke sembra provenire dal fondo di un pozzo in cui una strana orchestra sta cercando di attirarci...riuscendoci. Non ci sono alti e bassi in questo disco, c’è un solo ed unico altalenarsi di sensazioni ed emozioni drammatiche, stuggenti, aggressive e sottili. Si avverte benissimo l’armonia di una band che si è proccupata di fare un disco di qualità e non di dover dimostrare qualcosa a qualcuno. Questi 5 ragazzi hanno, ancora una volta, stupito il mondo sia per le scelte commerciali ma soprattutto per un lavoro che è in grado di creare suggestioni sempre nuove, calde e spiazzanti, proprio come questo disco. Canzone dopo canzone, minuto dopo minuto, colore dopo colore, l’arcobaleno sonoro di “In Rainbows” dà alla luce sensazioni struggenti, paradossalmente consolatorie. www.inrainbows.com Davide Cairo

Cristina Donà ‘La Quinta Stagione’ Malgrado negli ultimi anni Cristina Donà abbia lavorato duramente per pubblicare in Gran Bretagna – e promozionare poi con numerose date dal vivo in mezza Europa – la versione cantata in lingua inglese del suo terzo disco ‘Dove sei tu’, evidentemente ha trovato anche il tempo di dedicarsi alla scrittura, poiché in questo nuovo album intitolato ‘La Quinta Stagione’ la prima cosa che si nota è la grande cura riposta nei testi delle 12 tracce: ricchi, forbiti, su standard persino superiori a quelli di ‘Tregua’ (1997), ‘Nido’ (1999) e ‘Dove sei tu’ (2003). Il disco è uscito nei negozi il 7 Settembre, in questa fase indefinita dell’anno tra la fine dell’estate ed i primi scampoli d’autunno 2007, e non è un caso poiché nella tradizione della medicina cinese è proprio questo il periodo chiamato ‘quinta stagione’ cui il titolo fa riferimento, ed al quale la Donà fa corrispondere, com’è proprio di tutte le fasi di passaggio, uno stato d’animo d’incertezza, di sospensione, di intimo ripiegamento interiore; Cristina invita ad esempio alla semplicità, in ‘Migrazioni’, quando canta il ritornello: “Pensa leggero, come un foglio leggero, assecondando anche le curve violente. Vola leggero su di un foglio leggero, la paura appesantisce la mente”. Sarà magari per questa ragione che, mentre negli album precedenti la nostra dedicava canzoni ad impegnativi temi sociali – le discriminazioni alle donne sul luogo di lavoro in ‘Senza far Rumore’, l’orribile fenomeno del turismo sessuale in ‘Così Cara’, ed ancora il controllo che irretisce l’individuo in ‘The Truman Show’ – in quest’album del 2007 invece non v’è la minima traccia di argomenti sociali o politici… anzi, vi si percepisce persino un certo rifiuto della fisicità a favore di un piano sempre più mentale – per certi versi ciò è molto femminile… – e così sono i temi intimisti, i rapporti di coppia e l’amore a focalizzare l’interesse della brava cantautrice; l’amore, certo, raccontato però nei suoi risvolti immateriali, e trattato da punti di vista spesso originali, senza del resto mai pronunciare la stessa parola ‘amore’, se non nella prima canzone ‘Settembre’. Ancor di più, musicalmente, mi pare ci sia da sottolineare un cambio di rotta rispetto al disco precedente: paradossalmente infatti, con il passaggio l’anno scorso dall’etichetta milanese Mescal alla major internazionale Capitol/Emi – gigante discografico che ha anche comprato in blocco l’intero catalogo della cantautrice: pensate un po’ quali attese commerciali deve nutrire… – ci si poteva attendere che ‘La Quinta Stagione’ suonasse scintillante, moderno, carico di ospiti illustri, in linea col precedente ‘Dove sei tu’; invece le musiche di questo disco sono semplici, tradizionali, asciutte, asservite totalmente ai testi ed alla voce di Cristina, che raggiunge una maturità notevole, con risvolti jazz elegantissimi stile Billie Holiday: altro che concessioni radiofoniche... La formazione cui la Donà si affida è quella consolidata negli anni passati, con Cristiano Calcagnile alla batteria, Stefano Carrara al basso e tastiere, Lorenzo Corti alla chitarra elettrica. Il disco è stato prodotto da Peter Walsh. www.cristinadona.it/ Fausto Turi



intervista 20

ono uno dei pochi gruppi italiani indie ad avere anche una consistente visibilità all’estero, in particolare in Inghilterra. I Disco Drive hanno da poco pubblicato il loro secondo album “Things to do today”. Siamo riusciti a parlare con il batterista, Jacopo Borazzo, in un periodo di pausa durante la tourneè che il terzetto sta facendo in Italia. Il trio è completato da Alessio Natalizia, voce e chitarra e Matteo Lavagna al basso. Come leggerete di seguito gli strumenti attribuiti ai tre artisti sono solo quelli ufficiali, perché poi nella composizione di “Things to do today” i tre si sono dilettati a suonare di tutto. Siete soddisfatti del lavoro fatto in studio per “Things to do today” con Steve Revitte? Si, siamo molto soddisfatti, la nostra idea era quella di produrlo noi. Il primo disco lo abbiamo co-prodotto con Max Casacci ed è andato bene, ma per questo preferivamo fare tutto da soli. Tuttavia, in seguito abbiamo sentito l’esigenza di avere un orecchio esterno che portasse freschezza al lavoro fatto e che non fosse dentro come lo eravamo noi. Quello che ha fatto Steve era proprio ciò che volevamo noi. Come avete lavorato? In pratica lui è arrivato che avevamo già registrato tutto l’album e non l’aveva ascoltato per niente, così cominciava a lavorare la mattina e nel tardo pomeriggio ascoltavamo come erano venuti i mixaggi. Nella maggior parte dei casi eravamo perfettamente in linea con quanto aveva fatto, mentre solo in rari casi abbiamo voluto fare delle piccole modifiche al suo lavoro. L’ottimo risultato si è raggiunto anche perché il feeling è stato lo stesso e Steve aveva un’idea generale di come avrebbero dovuto funzionare i pezzi. È il sound che volevate creare? Si, era quello che avevamo in testa. Il suono del disco nel complesso è venuto molto bene ed il risultato è stato un disco piuttosto eterogeneo, frutto della nostra voglia di fare degli arrangiamenti e di utilizzare strumenti mai usati prima. Per esempio? Partiamo dal fatto che in questo disco usiamo la doppia batteria in tutti i brani e poi l’utilizzo del campionatore che però ci è servito solo per campionare i pezzi nostri di chitarra e quindi non in maniera fredda. In fondo il nostro è sempre stato un approccio punk-rock. Per la prima volta abbiamo

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usato chitarre acustiche, e percussioni di ogni dimensione. Considera poi che nel disco precedente ci eravamo limitati a suonare il basso, la chitarra e la batteria, mentre con “Things to do today” abbiamo avuto un approccio più ardito. Un altro elemento importante ed innovatore per noi è stato l’uso dei filtri, anche perchè ci siamo divertiti a trasferire i brani dal nastro al digitale e viceversa, per sporcare un po’ il sound. Insomma ne abbiamo fatte di tutti i colori, divertendoci molto. Farete anche con questo cd una tournèe europea? Per ora ci stiamo concentrando sull’Italia, con una promozione importante. Sicuramente torneremo in Inghilterra, dove andiamo spesso e vorremmo tornare anche in Germania e nel resto d’Europa. Avete già qualche riscontro commerciale di questo cd?

co. La cosa bella è che non sappiamo dove andremo, anche perché tendiamo ad improvvisare sempre tantissimo, anche nella nostra attitudine dance. Quando sono importanti per voi Fugazi e Gang of Four? I Fugazi sono stati assolutamente fondamentali per noi, mentre ei Gang Of Four li abbiamo conosciuti tramite i Fugazi, anche perché infondo veniamo dal punk e proprio ascoltando gruppi punk abbiamo scoperto il post-punk. Resta il fatto che per me l’impatto dei Fugazi è stato assolutamente fondamentale e tra i due gruppi che hai citato non c’è competizione. È sempre divertente il fatto essere accostati a gruppi che si conoscono poco o nulla. Pensa che dopo aver fatto il nostro secondo concerto in assoluto si è avvicinato a noi Ferruccio Quercetti dei Cut per complimentarsi,

Ciclicamente stanno riemergendo vecchi stili musicali, anche se riadattati. Pensate che ci sia ancora qualcosa di nuovo da dire nel rock? Si, pensiamo che ci sia ancora molto da dire, c’è comunque un problema di sovrappopolazione con molti che in realtà hanno poco da dire e pochissimi che sono in grado di trasmettere un messaggio. Ogni settimana dall’Inghilterra arriva un gruppo nuovo, che sembra debba essere chissà cosa, ma in realtà la qualità è quasi sempre molto scarsa. In ogni caso un’enorme quantità di rock di ottima qualità, che può offrire ancora qualche speranza, è quello che giunge dagli Usa, in particolare da Brooklin, con gruppi come gli Animal Collective che stanno dando una nuova via al rock. Altri gruppi poi che ci entusiasmano sono i No Age, i Battles ed i Liars che hanno

ma ci ha detto che somigliavamo molto ai Bush Tetras che noi, ovviamente non conoscevamo per niente. Dopo un po’ ad un concerto Ferruccio ci ha portato un cd di questo gruppo per farceli conoscere ed in effetti ci siamo resi conto che eravamo molto simili a questa band. Quali sono le tematiche che affrontate nei vostri brani? In quest’ultimo cd affrontiamo argomenti molto più personali, mentre in quello prima erano più apertamente politici. Ultimamente preferiamo giocare sui significati delle parole, così nella preparazione dei testi di “Things to do today” spesso è capitato che uno di noi arrivava con un testo e con un’idea chiara di ciò che volesse comunicare, ma gli altri interpretavano il brano in maniera del tutto differente rispetto a quello che intendeva l’autore. Di conseguenza abbiamo scelto di lasciare assolutamente libera l’interpretazione, così ogni canzone è uno schizzo di un particolare stato emotivo.

una spinta molto forte al cambiamento, cosa che hanno espresso molto bene soprattutto nei primi due dischi, piuttosto che nell’ultimo. Ecco tra questi gruppi sì che si respira aria di creatività. Riuscite a campare con l’attività di musicisti? Ad essere ricchi di sicuro no, piuttosto ci campiamo giusto l’essenziale per mangiare, pagare affitto e bollette. È uno stile di vita che per il momento ci va anche bene, perché non abbiamo grosse esigenze e siamo disposti a vivere con pochissimo. Al nostro livello per un certo periodo si può anche vivere in questo modo, ma non ci si va lontano. Noi siamo sempre all’erta se c’è un buon lavoro in giro, se un giorno ci dovesse capitare un posto fisso allora ci troveremmo nella condizione di dover scegliere tra continuare questa vita e un’altra più tranquilla allora dovremo fare una scelta radicale. www.discodrive.org Vittorio Lannutti

Disco Drive non solo p-funk

In Italia sta andando molto bene, considerando l’inarrestabile crisi delle vendite. Il proprietario della nostra label, la Unihip, ci ha detto che ogni anno si vende il 15% in meno di cd in Italia e quest’anno si è giunti ad un meno 40%. D’altronde è in atto una rivoluzione che ancora non sappiamo dove andrà a finire. Pensate che continuerete a suonare il p-funk o vi sposterete su altre sonorità? Sicuramente apporteremo un’evoluzione al nostro sound. Non è che non ci piaccia più il p-funk, ma riteniamo e sentiamo l’esigenza di evolverci e di andare avanti. Non suoniamo più quello che facevamo cinque anni fa quando abbiamo cominciato, siamo sempre alla ricerca di cose nuove. Il pfunk è ormai inflazionato e fare un altro lavoro come il primo non ci andava, quindi abbiamo cominciato ad andare in altre direzioni. In futuro sicuramente ci allontaneremo da questo genere. Se funk dovrà essere sarà più vicino al kraut rock, alle cose che facevano i Can, sicuramente non gli accenti sul charleston ed il basso con le ottave, quindi sarà un funk meno dancereccio e più ipnotico-psichedeli-



intercity

londra

di Roberto Calabrò

Circus risalendo poi a piedi la bellissima Regent Street, la “strada che curva”. O ancora arrivare alla Tate Modern (museo d’arte contemportanea) dopo aver visitato la Cattedrale di St.Paul e attraversato il Tamigi sul modernissimo Millenium Bridge. Immancabile anche una visita al classico Tower Bridge e al vicino imponente complesso della Tower of London. Per non parlare poi del gigantesco e ricchissimo British Museum che merita un’intera giornata o, possibilmente, più visite brevi. Chi invece a Londra arriva animato da una cultura pop e da un immaginario rock non potrà fare a meno di iniziare la propria visita dal West End. ondra è sempre Londra. A quarant’anni esatti dalla Oxford Street è la classica trappola per turisti. Però è fantastica stagione psichedelica, a trenta dall’esplo- anche il luogo in cui si trovano i due grandi megastore sione punk e a dieci dal momento magico del brit- di Virgin e HMV e lo storico locale “100 Club”. pop, la capitale inglese continua a pulsare di suoni, Sempre in tema di “venues”, a due passi da Oxford colori e odori. Nonostante siano in molti oggi a preferir- Street, vale a dire all’inizio di Charing Cross si trova lo le Berlino o Parigi, o anche Barcellona. Una settimana a splendido Astoria, un enorme teatro che ospita i Londra si rivela sempre un’ottima maniera per fare il migliori live-act. pieno di nuovi stimoli culturali, per respirare l’atmosfera C’è anche una sala più piccola, che oggi si chiama di una metropoli che, indifferente al passare del tempo, “Mean Fiddler”, ma che tutti conoscono con il vecchio esalta il suo dinamismo, cambia di continuo pur rispet- nome di LA2 (dove LA sta, appunto, per London tando le sue tradizioni. Le librerie di Charing Cross, i Astoria) negozi di strumenti musicali di Denmark Street, il La venue più rock del momento, vero tempio della scena mercato e i negozi di dischi di Berwick Street (la stra- underground, si chiama “Dirty Water” e si trova a da immortalata all’alba sulla copertina di “(What’s the Nord, più precisamente a Tufnell Park. Story) Morning Glory” degli Oasis), i negozi a luci rosse Ci sono poi mille altri club dislocati in tutta la città con e i peep-shows di Soho, il caos una programmazione colorato di Camden Town al ricca e varia: il Jazz Quando costa una pizza: da Pizza Hut si parte da 7 sabato, le gallerie d’arte e i Cafè, l’Underworld e sterline (circa 10,5 Euro), bevande escluse. Meglio una grandi spazi espositivi dislocati l’Electric Ballroom a pinta di birra e un hamburger in un pub (10 sterline). O un in vari angoli della città contiCamden, il Garage fish’n’chips (7 sterline). nuano ad emanare grande (attualmente in ristrutQuanto costa un cd: il prezzo medio di un cd presso la fascino, ad essere fonte costanturazione) a Islington. grande distribuzione è di 10 sterline, 15 euro circa. Ma si te di ispirazione, oltre che In ogni caso, l’acquisto trovano sempre ottime offerte sia nelle grandi catene miniera per acquisti a lungo del settimanale “Time (Virgin, HMV) sia presso i negozi specializzati. desiderati... Out” è indispensabile Londra non è una città quaper conoscere la proQuanto costa una corsa in autobus/metro: il costo lunque. E’ l’insieme di tante picgrammazione dei di un singolo biglietto, valido per una sola corsa, è di 2 cole città che, nel corso dei numerosi club della sterline (circa 3 Euro). In metropolitana è ancora più caro: 4 sterline (6 euro). Preferibile acquistare una travelcard da secoli, si sono fuse in un’unica capitale inglese. 1, 3 o 7 giorni. immensa metropoli. Chi va a caccia di vinili Ci sono vari modi per visitare la e CD, oltre alle grandi Le tre cose da fare/vedere assolutamente: la capitale del Regno Unito. Chi catene che si trovano National Gallery, il West-End, i mercatini: Camden Town e arriva per la prima volta non un po’ ovunque, Portobello su tutti. potrà fare a meno di dedicarsi, dovrebbe fare un salto almeno all’inizio, alla Londra innanzitutto a Berwick Qualcosa da evitare assolutamente: il caffè da Starbucks! turistica. Quella che è entrata a Street, a Soho. far parte dell’immaginario colQui si trova Mister CD lettivo grazie ai film, alla letterache, pur avendo chiuso tura, alla musica. il suo “bargain basement” (un seminterrato dove si riuE quindi visitare il Big Ben, adagiato sul Tamigi, accan- sciva sempre a trovare l’occasione giusta tra 1 e 3 sterto al Parlamento e alla vicina cattedrale di Westminster. line), resiste ancora con prezzi imbattibili. E’ un po’ O l’immensa Trafalgar Square su cui si affaccia la splen- meno fornito di un tempo, ma vale comunque una visidida National Gallery, (pinacoteca - ad ingresso gra- ta. tuito - che custodisce tesori della pittura mondiale, da Sulla stessa strada, dove una volta c’era Selectadisc, si Antonello Da Messina a Botticelli, da Van Gogh a trova oggi Sister Ray: negozio ampio e accogliente con Caravaggio passando per Cezanne e Monet). un’ottima selezione di titoli. Si trovano spesso delle Oppure passeggiare tra Leicester Square e Piccadilly occasioni (date un’occhiata alla vetrina!) e ci sono

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anche libri, fanzines e gadget. Sempre su Berwick Street resistono ancora Vinyl Junkies (per gli appassionati di black music) e Music and Video Exchange (seconda mano). Spostandosi a Camden, il consiglio è di evitare il caos di Camden High Street e svoltare per la più tranquilla e interessante Inverness Street: al numero 10 si trova Out On The Floor: bellissimo assortimento di vinili d’annata (‘60/’70), mentre nel primo basement si trova una sezione di poster d’annata ma dal costo proibitivo (in media 15 sterline l’uno, ma si tratta di riproduzioni) e al piano basso c’è una discreta selezione di CD e singoli. Un po’ più avanti, alla fine della strada, è la volta del fantastico Sounds That Swing: un negozietto piccolo ma strabordante di dischi e passione per il rock’n’roll dagli anni ‘50 a oggi: r’n’r, garage, psichedelia, punk. Una vera miniera di materiale raro, sia in vinile che in CD. A Portobello invece la visita è d’obbligo in tre negozi: Minus Zero, Intoxica e Rough Trade. Il primo dedicato ai Sixties e al power-pop, il secondo al rock’n’roll dagli anni ‘50 ad oggi, il terzo all’indie-rock. E proprio Rough Trade ha voluto raddoppiare con un negozio immenso - 5.000 metri quadrati! - a Brick Lane. Più che di un semplice negozio di dischi si tratta di un open-space di nuova concezione, un spazio culturale con all’interno un bar/caffè, un’area wireless, un palco per i concerti e per altre iniziative culturali (happening, presentazioni di libri, ecc.). Da visitare assolutamente. Un altro motivo per cui Londra è famosa sono i suoi mercatini: bellissimi, colorati, d’atmosfera. Ma da evitare assolutamente se odiate la confusione. Quelli che è impossibile non frequentare sono gli storici Camden (sabato e domenica), Portobello (sabato), Covent Garden (tutti i giorni) e Brick Lane/Petticoat Lane (domenica). Un tuffo in un universo multicolore difficile da dimenticare.




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