Diario Noachide

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Raniero Fontana

DIARIO NOACHIDE Un non-ebreo ai piedi del Sinai

Presentazione di Ariel Rathaus

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© Il Segno dei Gabrielli editori 2015 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-269-7 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), Settembre 2015 Per la produzione di questo libro è stata utilizzata esclusivamente energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ed è stata compensata tutta la CO2 prodotta dall’utilizzo di gas naturale.

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Sii libero e onesto (le ultime parole che mio padre mi ha lasciato)

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I termini ebraici che compaiono nel testo sono sempre preceduti o seguiti dalla loro traduzione italiana. Fanno eccezione i seguenti: aggadah (pl. aggadot): la parte narrativa della Torah bet midrash: la Casa di studio goy (pl. goym): non-ebreo halakhah (pl. halakhot): la parte normativa della Torah jeshivah (pl. jeshivot): accademia talmudica midrash (pl. midrashim): commento rabbinico alla Torah Seder: rito della sera pasquale Talmud Torah: studio della Torah.

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INDICE

PRESENTAZIONE di Ariel Rathaus

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I - ESTATE 1988 23 in viaggio 23 benvenuti in Israele 23 Raed 24 pietre vive 25 un incontro importante 27 il Centro Ratisbonne 28 II - LA FORMAZIONE fu sera e fu mattina di ritorno dal Kotel compagni di Ulpan la Guerra del Golfo andare verso all’ombra del cupolone un cavallo nel calice ritratti (1) il balletto della kippah una pagina strappata all’aggadah le fonti cristiane dell’arte amicizie vecchie e nuove libero e onesto dominus dagli scantinati alla diplomazia ritratti (2)

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ha-kotel sheli 58 una specie di enclave 59 figlia di Sion 61 caccia ai fantasmi 63 il mio vanto 65 la stella di Davide 67 ritratti (3) 70 III - IL CONFRONTO 73 David Hartman 73 ritratti (4) 75 una chance a caro prezzo 77 la gioia della Torah 79 ritratti (5) 81 la guerra della Torah 83 il goy buono e il goy cattivo 85 il piccolo erede di Tito 87 verso il giubileo 89 il cordoncino intorno alla vita 91 Shabbat 92 un caso di pirateria 94 una foto più grande dell’altra 95 una giornata all’aria aperta 97 qualche centimetro di troppo 99 keep the seven go to heaven 101 ritratti (6) 102 l’articolo determinativo 104 oscure origini 106 ritratti (7) 107 toledot 109 kilaym 111 l’ultima frontiera 112

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IV - LA CRISI 115 strane voci 115 5 giugno 2001 116 l’ultimo seminario 118 il re è nudo 120 un atto di resistenza 122 la voce del padrone 123 un istituto sui generis 125 nihil obstat 127 veleni 129 QOL (1) 130 QOL (2) 132 dalla parte di Israele 134 un grave torto 136 l’assedio della Basilica 137 uno spicchio d’arancia 139 Ein Tzurim 141 dal bagno di Afrodite ai Musei Vaticani 143 un incarico da ricercatore 145 un ospite gradito 146 la grammatica e la parola 148 Amal 150 Stoccolma 152 un avvocato di eccezione 155 V - L’APPROFONDIMENTO una storia di visa una clausola sorprendente un successo arrivato troppo tardi tra Torah e democrazia un incerto futuro testa di volpe e coda di leone in cerca di consiglio

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l’Istituto Albert Decourtray 171 teologi a confronto 173 Camaldoli 175 un’iniziativa del CRIF 177 un papa-boy in Israele 179 un fatto senza commento 180 we agree to desagree 182 un uomo del Tempio 184 chutzpah 186 ritratti (8) 187 ritratti (9) 189 ebreo retorico e goy reale 191 uno specchio del paese 192 un sogno nel cassetto 194 una proposta dal cielo 196 Bu e Bou 198 VI - PRIMAVERA 2012 201 in visita a Chartres 201 materia di conversazione 203 POSTILLA 205

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PRESENTAZIONE di Ariel Rathaus

Ho conosciuto Raniero Fontana qualche anno fa, a un dibattito su un tema di attualità politico-teologica: ci trovammo ad essere, nel pubblico, vicini di poltrona. Poi ci siamo spesso incrociati nei corridoi dell’Università Ebraica, al campus del Monte Scopus, all’inizio limitandoci a vaghi cenni di saluto e poi passando a brevi scambi di battute e opinioni, scambi che impercettibilmente si sono allungati, magari davanti a un caffè, per trasformarsi infine in incontri o colloqui veri e propri anche se sempre non programmati in precedenza. Come se avessimo qualcosa di urgente da dirci e ogni volta lo dimenticassimo, e fossimo poi felici di ricordarcelo imbattendoci l’uno nell’altro. Naturalmente avevo già sentito parlare di lui, mi era stato descritto come un teologo cristiano originale, ai confini dell’eccentricità o dell’eterodossia (non so che pensi Fontana di questa definizione, se lo faccia sorridere o gli faccia scuotere desolatamente il capo, oppure se ritenga che grosso modo potrebbe anche rappresentarlo). Sulle prime suscitava il mio interesse la qualifica, diciamo così, “professionale” della mia nuova conoscenza. Occupandomi di letteratura italiana ed ebraica (soprattutto di poesia) ho spesso occasione di sconfinare nelle limitrofe regioni dell’immaginazione teologica, ma non di frequentare teologi in carne ed ossa: curiosità dunque per l’inconsueta figura del Doctor of Divinity, ma ben presto trasformatasi in qualcosa di diverso. Cominciando a conoscerlo, intuivo ormai che un incontro con lui prometteva sempre qualche stimolante scoperta. Ora che ho letto il Diario e che scrivo queste righe introduttive, so non solo che quell’intuizione era un’approssimazione per difetto (le scoperte sono innumerevoli), ma che la mia stessa aspettativa era in fondo una forma di contagio, che Fontana, sia a voce che per iscritto, 11


trasmette all’interlocutore o al lettore la sua ansia di ricerca e di rivelazione (nel senso più umano della parola). Trovammo subito uno specifico interesse comune nell’insegnamento di André Neher, il pensatore ebreo francese su cui lui stava scrivendo e di cui io stavo leggendo un vecchio libro di interviste. Poi passammo a una delle guide spirituali dell’ebraismo italiano dell’Ottocento, il marocchino-livornese Elia Benamozegh, e per questa via, al seguace cristiano di Benamozegh, Aimé Pallière, e ai problemi del noachismo, che sono al centro dell’esperienza religiosa di Fontana com’è narrata nel suo libro, e, mi sembra, anche uno dei temi privilegiati della sua speculazione teologica. Il noachismo è originariamente (ossia indipendentemente dai suoi risvolti filosofici o anche politici attuali) una dottrina talmudica che sistematizza i rapporti dei non-ebrei con l’ebraismo, attribuendo loro uno status di partecipanti “esterni” al progetto ebraico di sacralizzazione del mondo attraverso sette precetti (mitzwòt) basilari, invece dei seicentotredici a cui sono tenuti gli ebrei di nascita o per conversione. Comunque lo si consideri, evidente è il divario fra l’impegno dell’ebreo e quello del non-ebreo, diversi al punto che non possono non implicare una diversa gerarchia di esperienze e orientamenti di vita: ciò che gremisce l’esistenza di un ebreo osservante delle mitzwòt si assottiglia e come appassisce sino a ridursi all’osso nella vita di un noachide, con inevitabili effetti di marginalità. Fontana non accettava, ciò mi fu chiaro sin dalla prima volta che toccammo l’argomento, questa marginalità. Non che agli ebrei invidiasse i precetti della Torah che gremiscono la loro vita (“Di norma, io tendo a evitare tutto ciò che è rituale – anche quando il rituale è cristiano”, scrive) , ma c’era un’altra totalità tipicamente ebraica che gli stava e gli sta a cuore, che lo stimolava e affascinava: la mitzwah, specifica e specchio ad un tempo del Tutto, del talmùd Torah, lo studio della Torah, come dice la Scrittura: “Non si allontanerà questo libro della Torah dalla tua bocca, e lo mediterai giorno e notte” (Gios 1, 8). Cominciai a ricevere da lui alcuni suoi articoli e libri, sui principi halakhici e concettuali del noachismo e sul trattato 12


mishnico sull’idolatria (Avodah Zarah), così come a raccogliere alcune sue confidenze biografiche, sugli anni di studio e ricerca all’Istituto Shalom Hartman di Gerusalemme, un importante centro di studi ebraici (di cui si dirà più avanti), e sul suo periodo passato in una Jeshivà (scuola talmudica) nella zona centrale del paese, fatto pressoché inaudito: che una Jeshivà ortodossa avesse accettato un allievo non-ebreo mi pareva non meno straordinario della forza di volontà dell’allievo, capace di non recedere di fronte a difficoltà apparentemente insormontabili. Così ho scoperto ciò che la conversazione con lui a sprazzi rivelava: che Raniero Fontana è un teologo cristiano davvero molto sui generis – in realtà, come si dice in ebraico, un talmid chakham (un “allievo di sapiente”, ossia, fuor di metaforica modestia, un sapiente della Torah a tutti gli effetti), e che la cultura rabbinica – di cui l’affastellata, multistratificata, polifonica pagina talmudica costituisce l’espressione più pregnante – è parte integrante del suo orizzonte spirituale e intellettuale. In questo suo libro autobiografico Fontana si racconta in molti modi, spesso sotto angolature inaspettate e leggermente diverse, ma fra tutti gli autoritratti quello che a me piace di più e che più corrisponde all’immagine che mi sono fatto di lui è la sua descrizione di una fotografia che possiede, mi sembra, l’allusiva iconicità dell’emblema. Si tratta di una foto in bianco e nero scattata dalla moglie Andreina: “Mi ritrae”, scrive l’autore, “con un libro in mano all’interno di un caotico bugigattolo stracolmo di vecchi volumi collocato sulla via principale del quartiere ultra-ortodosso di Mea Shearim. È come se mi avesse colto nelle viscere materne di Gerusalemme. Di una città resa madre dai libri e dalle cose dette”. Ma non a caso questa confortante icona di Gerusalemmemadre compare all’inizio del Diario. In realtà le pagine successive narrano una storia complessa di entusiasmi e di crescita dolorosa, sempre a un pelo dal disinganno, una storia sul progressivo distacco dal grembo materno di quella polverosa bottega di libri usati, per confrontarsi col mondo esterno e le sue piccole o grandi brutalità e disillusioni. L’irrisolto problema che percorre 13


il libro, come un corso d’acqua sotterraneo che di tanto in tanto riaffiora in pagine che lo ripropongono nella sua bruciante immediatezza, è quello riassunto nel titolo di una conferenza data da Fontana all’Istituto Hartman: “Vi è posto per il goy ai piedi del Sinai?”. Fontana ha deciso sin dall’inizio di dedicarsi a quello che lui chiama “ascolto di Israele”, di mettersi “alla scuola di Israele” e per questa via di diventare (dico io) un talmid chakham. Ma la sua ricerca, che all’inizio lo aveva portato anche a frequentazioni nell’ambito del noachismo israeliano (a interloquire, dunque, con chi assegna al non-ebreo una posizione inevitabilmente gregaria), si è nel corso degli anni affinata, si è sempre più svolta all’insegna di un’istanza totalizzante di purezza assoluta, negatrice di compromessi e mezze soluzioni, di un’istanza di incontro paritario. Per dirla con le sue parole: “La mia ricerca di un posto in quanto non-ebreo ai piedi del Sinai (be-maamad har Sinai) esprimeva esattamente questo, la mia aspirazione a entrare in essa [nella conversazione della Torah] come partner di Israele a parte intera”. Un non-ebreo chiede agli ebrei di “condividere il Sinai”, e, racconta l’autore, l’inconsueta richiesta riesce a spiazzare anche i raffinati e apertissimi intellettuali dell’Istituto Hartman. Di fatto questo filo conduttore del libro, lungi dallo sbrogliarsi, s’aggroviglia sempre più e il finale, pur senza essere drammatico, non è neppure roseo. La matassa è lì, ingarbugliata, fino all’ultima pagina, e non sembra che il filo abbia molte probabilità di sdipanarsi. Si potrebbe forse far notare a Fontana che il suo senso di impasse è esagerato, che, per esempio, secondo Rabbì Meir un non-ebreo che si occupa di Torah condivide con il Sommo Sacerdote la sua sacralità (“è come il Sommo Sacerdote”, T. B., Sanhedrìn 59a), ma è probabile che la simbologia fondante dell’evento sul Sinai sia dal suo punto di vista irrinunciabile, per l’impostazione di un rapporto paritario nello studio della Torah. E poi non può accontentarsi di questo. In quanto talmudista sa che il radicale insegnamento aggadico di Rabbì Meir è reinterpretato, in quella stessa fonte citata, in senso riduttivo, e che rimane valido solo per l’ambito ristretto dei sette precetti 14


noachidi (che restano ciò di cui è bene che il non-ebreo si occupi, mentre il resto gli è interdetto). La ricerca di Fontana è dunque una richiesta di vera appartenenza pur nella diversità, un ininterrotto e dialettico colloquio con l’ebraismo, fatto di avvicinamenti e di regressioni, di sfide e appagamenti, di amore e disamore e rinnovato amore. Soprattutto, è una storia di sacra testardaggine. Nessuno, a quanto pare, è disposto a riconoscergli ufficialmente “un posto ai piedi del Sinai” nel senso che intende lui (anche se tutti glielo riconoscono in via ufficiosa), ma lui non demorde e chiede di essere ammesso a pieno titolo. Se penso a una figura dell’Aggadà che lo potrebbe in qualche modo simboleggiare, mi viene in mente Chonì il tracciatore di cerchi (Chonì ha-me’agghèl), il sant’uomo che quando il popolo aveva bisogno di pioggia tracciò un cerchio nella sabbia, vi entrò dentro e disse a Dio che non si sarebbe mosso di lì finché non avesse mandato la pioggia (Mishnà, Ta’anit 3, 8). Sacra testardaggine. Ma Fontana, in piedi nel suo cerchio tracciato nella sabbia, non si rivolge a Dio (è un teologo che parla poco di Dio, almeno nel Diario), bensì alla Torah e ai suoi maestri. Seguendo le fasi della storia autobiografica comprendiamo che con gli anni la problematica dell’uomo in piedi nel cerchio è cambiata, ha assunto nuove forme. Per dirla con l’autore, il cambiamento è iniziato da quando è il goy ad avere “la precedenza sul cristiano”. Ciò significa, mi par di capire, che la dimensione socio-politica della sua esperienza israeliana prevale ormai per lui su quella teologica, e che il problema è appunto quello del rapportarsi della società israeliana all’altro in quanto tale, al diverso: “Il punto è che tengo troppo a questo paese per non aspirare ad avere in esso il mio posto, come soggetto attivo, come partner a pieno titolo”. E tuttavia il teologico influenza ancora pesantemente il politico: “Consideravo da non-ebreo il sentimento del mio isolamento nella laica e secolare società israeliana e lo attribuivo alla conformazione teologica che è propria di una comunità di alleanza”. E ancora: “Io ritenevo che i problemi di un goy nella moderna società israeliana avessero radici ai piedi del Sinai”. Questo esito è per molti riguardi un ribaltamento delle posi15


zioni di partenza. La biografia teologica di Fontana comincia in medias res, quando, giovane studioso di Parma, ha già preso la decisione di venire a Gerusalemme per un periodo di studio e si trova ad Atene in attesa della partenza della nave che lo porterà in Terra Santa (che in seguito, come sembra alludere il sottotitolo, diventerà per lui sempre più nettamente Israele). Su come sia maturata la decisione non ci viene però detto molto (anzi, praticamente nulla). Solo verso la fine del libro, nel capitolo “Ebreo retorico e goy reale”, scopriamo con una certa sorpresa che la prima spinta non è stata teologica ma filosofica, che essa si è originata dalla speculazione intellettuale di autori come Blanchot o Jabès, teorizzatori del “recupero di una certa condizione di ebraicità attraverso la pratica della scrittura”. Seguendo le suggestioni di questi autori, nota Fontana, “l’ebraicità appariva sovvertitrice dell’ordine dei discorsi stabiliti, come interrogazione perenne”. Ma nello sguardo retrospettivo di oggi egli si rende conto di quanto di astratto e di artificioso fosse in quell’immagine della condizione ebraica, nell’ “ebreo retorico” (ossia non appartenente al consorzio reale degli ebrei, ma ipostasi retorica) di quegli intellettuali francesi. Anche Fontana si considerava in qualche modo un ebreo (retorico) del genere, e l’amara arguzia del titolo del capitoletto consiste ovviamente proprio nell’omettere il termine di mezzo, “ebreo reale”, saltando subito, a pie’ pari, dall’ipostasi retorica “al goy reale”, ossia al consorzio reale dei non-ebrei in Israele, alla condizione di estraneità alla vita di Israele (Israele società e Stato) che Fontana, in quanto nonebreo, sente oggi essere la sua. E tuttavia il libro è anche un’ampia testimonianza sugli ebrei reali in Israele, sui diversi e problematici aspetti della società israeliana, a volte sfiorati soltanto e a volte approfonditi grazie a una più diretta (magari negativa) esperienza. Non solo: lo sguardo stesso con cui è osservata questa società, così limpido, disinteressato, così scevro da pregiudizi, è uno dei suoi maggiori punti di forza. Il pregiudizio, come sa chi segue la letteratura sull’argomento, è spesso la base su cui poggia il giudizio non-ebraico sugli 16


ebrei in Israele, sia da parte di laici progressisti, che vedono nella realtà socio-politica dello stato ebraico un estremo e deprecabile cascame del colonialismo europeo, sia da parte di benevoli e paternalistici teologi cristiani che negli ebrei, quale realtà terrena incarnante un concetto metafisico, vedono i depositari di un mistero della cui natura essi stessi restano – come sempre da duemila anni a questa parte – ignari. È confortante dunque che proprio da teologo cristiano Fontana si opponga a questa lettura cristiana del destino ebraico. Una delle conclusioni più importanti e per me, lettore ebreo israeliano, più felici di queste pagine è nella riflessione suscitata da una frase di Shlomo Naeh, talmudista dell’Università Ebraica di Gerusaleme: Naeh, scrive l’autore, “pronunciò una parola che non mi ha più lasciato. Egli mi disse che da ebreo non aveva alcun bisogno della teologia cristiana per dare un senso e una giustificazione alla sua esistenza. E quando diceva teologia, egli intendeva anche la mia. Lui mi stava chiedendo, in altri termini, di riconoscerlo così com’era e di amarlo per quello che era, cioè come ‘un fatto senza commento’ (ke-uvdah bli perush)”. In nome di questa riduzione all’esistenza a scapito di una definizione dell’essenza Fontana critica anche l’ultimo libro di uno dei suoi maestri e numi tutelari, il domenicano Marcel Dubois, il quale “amava Israele in virtù di una comprensione del disegno di Dio che l’ebreo non può avere finché resta tale”: che ovviamente è un altro modo di retoricizzare l’ebraicità, di caricare sulle spalle dell’ebreo un fardello di significazioni che Fontana definisce con una punta d’ironia “eccesso di mistero”, e a cui egli contrappone un rapporto reale coi fatti concreti, disvelati dell’esistenza ebraica. È per quest’adesione ai fatti e ai fenomeni più che alle recondite implicazioni dei piani divini che il limpido sguardo con cui il teologo Fontana osserva Israele è sempre interessante, acuto, rivelatore. Non solo quando spiega Israele con palese identificazione affettiva, ma anche quando il suo discorso si fa più critico e il dito tocca piaghe di cui l’israeliano medio quasi non si rende conto, calato com’è nel flusso oggettivo del suo esistere in tal modo e non in un altro. Che si tratti delle recriminazioni 17


sulle sabbie mobili della burocrazia, forse non solo inefficiente ma anche ideologizzata nel frapporre a un non-ebreo come lui continui ostacoli alla richiesta di un visto di residente temporaneo e poi di residente fisso, o di una semidivertita rilflessione sull’origine della ben nota chutzpah (faccia tosta) israeliana, o di una preoccupata allusione ai pericoli che corre il precario equilibrio fra ebraicità e democrazia in Israele, sempre sentiamo nelle parole dell’autore l’onestà di una testimonianza non viziata dagli idola ficta di un’ideologia. Proprio l’eccezionalità della sua posizione di osservatore esterno e interno a un tempo, amico equanime e non ottusamente apologeta, rende il suo giudizio rilevante e ricco di stimoli critici che anche il lettore più prevenuto in senso contrario non può ignorare. Israele e gli ebrei come paese e società restano però, malgrado la loro centralità, solo lo sfondo degli eventi e delle avventure dello spirito di cui narra il libro. Pur non ignorando la visione d’insieme, l’autore privilegia e ritaglia all’interno di essa elementi specifici, punti fondamentali di riferimento e luoghi deputati in cui principalmente si svolge l’azione della sua storia. Questi luoghi, superfluo dirlo, sono soprattutto interni, luoghi chiusi, stanze salotti corridoi aule e biblioteche di Gerusalemme in cui si svolge serrato il dibattito di Fontana con i suoi interlocutori e in cui si delineano e si definiscono sempre più le modalità del suo ascolto d’Israele. Primo fra tutti, il porto d’approdo, il Centro Ratisbonne, in cui teologi, sacerdoti e laici appartenenti ad ogni confessione cristiana studiano i testi della tradizione d’Israele, aprendosi al mondo della Torah orale e della cultura rabbinica, sotto la guida di insegnanti cristiani con cui collaborano numerosi ebrei. Valgano per tutti i nomi di Pierre Lenhardt, Michel Remaud e Marcel Dubois, per il versante cristiano, e di André Chouraqui, Leon Askénazi e Daniel Epstein per quello ebraico. La chiusura del Centro (di cui Fontana è ormai diventato uno dei docenti) nel 2001 per decisione delle autorità pontificie, con motivazione ufficiale di difficoltà economiche, è una disgrazia vissuta a un livello di angosciata partecipazione personale: è Ratisbonne, più che il giardino biblico, il suo vero Eden perduto, il paradiso 18


della Torah studiata all’ombra del campanile in pietra bianca, abbagliante, di Gerusalemme. Non a caso la parte centrale del libro, intitolata “La crisi” (una vera e propria “katastrophé” nel senso tecnico dell’arte del tragèda), è a un tempo una sorta di epicedio in memoria del Centro Ratisbonne e di drammatico resoconto degli inutili tentativi di evitarne la morte. Epicedio da cui sono però banditi i toni elegiaci e in cui s’impone viceversa un registro sdegnato e sarcastico, che non esita a denunciare i bizantinismi di una politica ambigua e controversa. Altro luogo deputato è l’Istituto Shalom Hartman, la punta di diamante, in Israele, di un ebraismo neo-ortodosso intellettualmente impegnato a mediare fra tradizione e modernità, dove Fontana trascorre diversi anni di studio e ricerca e dove ha occasione di confrontarsi con alcuni fra i più brillanti studiosi di cultura ebraica dei nostri tempi (in genere membri anche del corpo insegnante dell’Università Ebraica, ma forse in grado di dare il meglio di sé proprio nell’ambiente libero, non accademico stricto sensu dell’Istituto). Fra tutti spicca la carismatica figura del direttore, David Hartman, rabbino e filosofo, intellettuale discusso e anticonformista, di cui Fontana scrive: “A piacermi più ancora della sua teologia è la sua attitudine critica, acre e corrosiva”. Fontana affina all’Istituto gli strumenti del mestiere di ebraista, ma soprattutto si esercita alla pratica di una ricerca religiosa che non teme di rimettere in discussione i fondamenti stessi dell’esperienza religiosa. Nella descrizione di questi microcosmi intellettuali ed umani si rivela appieno la vocazione letteraria dell’autore, trattatista e saggista passato per la prima volta al tipo di narratività che un progetto autobiografico come il Diario implica e impone. Oltre ai due principali, appena ricordati, gli ambienti descritti (in Israele, ma anche in Italia o altrove) sono tanti e diversi, variano, si può dire, con un’angolatura di centottanta gradi. Una preziosa collezione di foto-ricordo ci viene presentata, di fotografie mai sfocate, in cui la capacità di cogliere un’ atmosfera generale colpisce non meno della nitida riproduzione del particolare: dalla Pontificia Università Urbaniana, dove l’autore trasferitosi temporaneamente da Israele a Roma consegue in 19


un’aula semi-vuota il dottorato in teologia, alle cerchie di coloni ebrei dell’estrema destra kahanista in Cisgiordania, la cui agenda teologico-politica comprende una componente noachide. Ritrattista di talento, Fontana presenta gli ambienti in cui si svolge la sua incessante ricerca riempiendoli di innumerevoli genii locorum che ne sono l’espressione e come l’incarnazione. Il libro, coi suoi snelli e sintetici capitoletti in cui prospettiva, evento e fulcro concettuale cambiano rapidamente mettendoci di fronte a una roteante giostra di idee e accadimenti, è affollato da una miriade di personaggi, protagonisti, comprimari, semplici comparse. Gli uomini e le donne le cui strade si sono incrociate con quella di Fontana sono colti nella loro immediatezza e nella loro sostanza umana, come persone che hanno lasciato una traccia. Non sempre e non necessariamente la loro parola che si deposita sulla pagina è davvero essenziale alla storia d’idee che l’autore vuole raccontarci. Rivalsa, dunque, della biografia sulla teologia. Ma ben venga questa rivalsa: è essa che conferisce in primo luogo al libro la sua originalità di opera al di fuori di schemi scontati. Che Fontana ci racconti della visita di Giovanni Paolo II in Israele o di una poco proficua telefonata al cardinale Martini per la salvezza di Ratisbonne, o di conversazioni con importanti rabbini del sionismo religioso come Aharon Lichtenstein o Joel Bin Nun, è in qualche maniera prevedibile: non scontato invece è che la folla di comparse meno funzionali alla storia sia colta con la simpatia (o l’antipatia) che il narratore professionista nutre per le pedine che dispone ad arte sulla scacchiera del racconto – e soprattutto che ogni pedina, anche se solo per un attimo, smetta di essere tale, si sottragga all’anonimato della folla per assumere le fattezze dell’umano, il volto inconfondibile di una specifica individualità. Nei rapidi capitoletti o paragrafi della sua storia Fontana combina questa poetica della molteplicità del personaggio con un consumato mestiere di aforista. Ciascuno dei personaggi invita al commento, alla sentenza icastica e riassuntiva, e ciascuno infatti ispira all’autore un piccolo epigramma, sarcastico o ironico o ammirato o commosso, forse non sempre di rilevanza 20


teologica ma certo sempre atto a insegnarci una moralità che affinerà il nostro giudizio su uomini e cose. Si potrebbe anzi dire che la poetica della molteplicità del personaggio non sia in fondo che l’altra faccia della frammentarietà aforistica, un modo di cogliere, da un lato, la realtà riflessa e spezzettata dall’infinito prisma delle diverse individualità, e, dall’altro, di elaborare una teoria che attinge alla teologia ma spogliandola della greve sistematicità del pensiero teologico: conservandole cioè la freschezza, le beate movenze dell’improvvisazione, dell’incontro fortuito (come quei nostri incontri al campus del Monte Scopus). “Le tavole e le schegge delle tavole erano poste nell’Arca Santa” (T.B., Bava Batra 14b): così dice il Talmud delle prime e delle seconde tavole della legge, insegnandoci che nulla della Torah va perduto e che il frammentario (le prime tavole spezzate da Mosè) ha lo stesso valore del sistematico, dello scolpito in eterno sulla pietra. Mi piace postillare midrashicamente tale insegnamento e di estenderlo, di applicarlo a questo libro così particolare di Raniero Fontana, in cui il frammentario dell’evento parla in nome del sistematico dell’idea. Anche se la sua ricerca lo porta infine, umanamente, di fronte a una barriera che non sappiamo se e quando valicherà, non possiamo non apprezzare il valore esemplare della sua testimonianza, non comprendere l’importanza di questo suo chinarsi a raccogliere schegge di vita e di pensiero da conservare nell’Arca della memoria. Ariel Rathaus Università Ebraica di Gerusalemme

Ariel Rathaus insegna Letteratura italiana presso la Hebrew University di Gerusalemme. Ha pubblicato numerosi lavori sui rapporti fra poesia ebraica e letteratura italiana fra Rinascimento e Barocco. In ebraico ha curato la nuova versione del Decameron di Boccaccio e tradotto la Scienza Nuova di Vico. In italiano ha tradotto alcuni fra i maggiori poeti israeliani contemporanei.

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I - ESTATE 1988

~ in viaggio ~

A parlare era un giovane in piedi davanti a me sul pullman

in partenza per il Pireo. Era il mio primo contatto diretto con un israeliano. This is my place. La discussione che ne seguì mi mostrò che la sua comprensione della condizione ebraica era tutt’altro che nomadica. Poche frasi scambiate più tardi al momento dell’imbarco per Haifa vennero come una seconda allerta sulla pertinenza dei miei riferimenti in campo ebraico. Per le mie conoscenze di allora, l’ebraismo era rappresentato da autori come Rosenzweig, Buber, Heschel, Neher, Lévinas, Wiesel. Ho anche una fotografia scattata da Andreina sulla nave-traghetto mentre poso con in mano un volumetto di André Neher, Dans tes portes, Jérusalem. Ma su quella banchina del porto di Atene, sospesi tra cielo e mare, ecco che un autore-icona come Elie Wiesel, il rabdomante del Silenzio, il cantore della Shoah, veniva dissacrato da quel rappresentante di una nuova generazione israeliana, perché troppo ideologico e datato.

~ benevenuti in Israele ~ La nave-traghetto ci avvicina alla costa di Israele attraverso una distesa di meduse bianche. La destinazione è il porto di Haifa. Un bus chiassoso di soldati e soldatesse ci avrebbe poi portati da Haifa a Gerusalemme. Andreina ed io avevamo scelto la nave all’aeroplano per meglio sentire la distanza. L’idea ci era venuta leggendo un libro di Rina Geftman, ebrea cristiana di origine russa, il cui nome era tra i pochi che potevamo allora 23


collegare a Israele. Ricordo la nostra eccitazione al momento dello sbarco, la frenetica ricerca della stazione dei bus, la gioia negli occhi di Andreina durante il tragitto verso la capitale. Israele esisteva! Sembrerà strano, ma erano quelle le prime immagini che raccoglievo del paese; da prima, non ne possedevo alcuna. Nei confronti di Israele, né io né Andreina eravamo muniti di quella capacità di anticipazione necessaria a creare un’attesa. Nero filmico, avrebbe detto Roland Barthes. Per dei giovani intellettuali, come allora eravamo, Israele era semplicemente il nome che avevamo deciso di dare all’inatteso. Era una disposizione dello spirito alimentata da numerose letture e da una grande voglia di impegno.

~ Raed ~ Siamo rimasti due mesi a Gerusalemme in quell’estate del 1988. Le impressioni sono state tante e forti. Molte sono legate allo studio della lingua parlata. Che io, io in persona, potessi essere dietro il pronome personale anì, produceva un’emozione che il biblico anokhì non mi poteva dare. Pian piano, anche la gente che parlava per strada non ci sembrò più litigare, con tutti quei suoni primordiali che emetteva. Persino il grido frequente: rega! (un attimo!) rega! (un attimo!), avrebbe smesso di metterci in ansia ogni volta che dall’autobus qualcuno, alzatosi all’ultimo momento, bruscamente scendeva. Abbiamo poi imparato a non confondere con l’arabo l’ebraico. Solo molto più tardi, come risultato di una maggiore inculturazione, abbiamo imparato a distinguere un arabo anche quando tace. Lo studio dell’ebraico moderno era lo scopo dichiarato del viaggio. Un corso intensivo di due mesi avrebbe dato migliori risultati di un corso di due ore settimanali in una sede della WIZO o della Federazione Sionistica Italiana. La sede era nei locali del Christian Information Centre. A colpirmi maggiormente fu la presenza in classe di Raed, un brillante seminarista palestinese del Patriarcato Latino di Gerusalemme. Io allora ignoravo l’esistenza di 24


una comunità arabo-cristiana. Raed era generoso e appassionato. La ragione per cui apprendeva l’ebraico era dettata dalla necessità di comunicare coi soldati israeliani posizionati a pochi metri dal Seminario. Volle mostrarci nel corso di un pic-nic le vestigia di un villaggio palestinese ricoperto da un Parco Nazionale israeliano. La scena dei cani randagi venuti a condividere con noi il pasto di mezzogiorno non si confaceva al suo modo di trattare gli animali e ce lo disse. Ma la sorpresa fu quando più tardi lo vedemmo esitare di fronte all’invito di venirci a trovare. Egli temeva di inoltrarsi a piedi nella Gerusalemme ebraica dove Andreina ed io alloggiavamo perché, ci disse, sapeva che il suo aspetto fisico, marcatamente arabo, lo avrebbe esposto a sospettosi sguardi e a prevedibili controlli. Lo ritrovai a Intifada appena cominciata, teso e nervoso, con le immagini appese al muro del suo studio di giovani combattenti in rivolta, del loro leader Arafat e di una pallida Vergine Maria con le mani giunte. L’incontro fu breve. Il mio interesse per l’ebraico moderno era ovviamente diverso dal suo per origine e per scopo. Da studente prima, da insegnante poi, ho creduto nella scelta di investire innanzitutto nella conoscenza dell’ebraico moderno per lo studio dell’ebraismo. Non tanto perché esso è più vicino all’ebraico dei rabbini di quanto non lo sia l’ebraico biblico, ma perché è la lingua di un Israele vivo. Volentieri confesso il piacere provato da studente quando mi accadeva di commettere nella lettura ad alta voce del testo biblico gli stessi errori che commette un israeliano.

~ pietre vive ~ Gran parte della complessità del paese ci era allora preclusa. Potevamo almeno volgerci alle pietre vive della variegata realtà cristiana in Israele. Ma la prova che mi attendeva dopo un matrimonio celebrato in un festoso villaggio arabo-cristiano fu particolarmente dura. Con crescente apprensione, vidi un parente dello sposo dirigersi verso di me con aria che mi sembrò 25


di sfida, mentre teneva in mano un succulento boccone di carne che, per rispetto del costume locale, fui costretto a ingurgitare. Fu soprattutto la minuscola comunità cattolica di espressione ebraica a colpirci profondamente. Non pochi erano i membri di origine ebraica che avevano ritrovato questa loro identità una volta divenuti cristiani. Avevano fatto la loro salita in Israele (alyiah) perché si volevano in tutto solidali con il destino del popolo ebraico e del giovane Stato. Dal punto di vista dei rapporti tra la Chiesa e Israele, era quello un luogo teologico significativo. La comunità doveva rappresentare per la Chiesa quell’anello che era venuto a mancare e che l’avrebbe ricongiunta e, per tanti aspetti, riconciliata con il suo stesso fondatore. Gesù era ebreo, e lo era per davvero. Mi è impossibile a questo punto non menzionare brother Daniel (Rufeisen), colui che ha dato anima e corpo in Israele al sogno di una Chiesa giudeo-cristiana che fosse una replica della Chiesa primitiva. Purtroppo non l’ho mai incontrato personalmente, ma so che qualcuno malignamente ironizzava sul fatto che avesse sbagliato secolo. Un romanzo della scrittrice Ludmila Ulitskaya è ispirato alla sua vita e alla sua opera. Mi auguro di vederlo presto tradotto in ebraico perché è un libro che rivela tra molte altre cose un volto del paese ignoto alla maggior parte degli israeliani. Quella comunità cattolica di espressione ebraica io la percepivo come un incrocio di esperienze diverse che avevano tutte nella partecipazione alla speranza di Israele un comune denominatore. Numerosi erano anche i membri di origine non-ebraica. La loro costituiva già una risposta al fatto che la Shoah e la nascita dello Stato di Israele esigessero dal cristiano un ripensamento critico delle attitudini tradizionali della Chiesa verso gli ebrei e l’ebraismo. Il Concilio Vaticano II ratificò autorevolmente un tale impegno su scala universale. Degno di nota è che al Concilio anche questa profetica realtà ecclesiale avesse in Daniel Rufeisen e Bruno Hussar i loro rappresentanti. Non mi sembra che ancora sia stata scritta una vera storia di questa comunità cattolica di espressione ebraica. Sarebbe bene che lo fosse da chi ne è stato testimone e, meglio ancora, protagonista, senza manipolazioni e interferenze divenute anche troppo probabili alla luce della si26


tuazione attuale. Per me, essa resta oggi la qehillah (Comunità), o meglio ancora, la kookia, un nome dovuto alla sua vicinanza attuale con la casa del celeberrimo Rav Kook. Un nome che io preferisco di gran lunga ad altri più ufficiali.

~ un incontro importante ~ Non ci siamo avvicinati molto nel corso di quell’estate agli ambienti cattolici italiani. Sapevo che i francescani non mi avrebbero dato quello che cercavo. A me sembrava che l’interesse archeologico e biblico della loro scuola veicolasse una concezione museografica e passatista della Terra Santa. Quest’ultima altro non era che lo spazio sacro della memoria cristiana. Li sapevo tradizionalmente chiusi alla presenza ebraica. Con aria convinta e lungimirante si sussurrava da quelle parti che i francescani erano presenti in questa terra molto prima della comparsa dello Stato di Israele e che ci sarebbero rimasti anche dopo la sua scomparsa. Non è poi così difficile capire quando antisionismo e antigiudaismo procedono insieme. È vero, le cose sembrano cambiare in ambito cattolico, e di conseguenza anche qui, in Israele, ma non voglio sorvolare su quanto è stato vero fino a ieri. Tanto più quando forte è la spinta a voltare pagina, come oggi appunto, ma senza che nessuno sappia ancora cosa scriverà in futuro. Per tornare a Gerusalemme, mi diventerà più chiaro nel tempo come a distanza di qualche centinaio di metri le teologie possano divaricare. La francese École Biblique dei domenicani non aveva una fama migliore di quella francescana. Ricordo ancora una gita di studio organizzata dalla celebre scuola e la discussione sorta tra gli studenti intorno al significato di un pannello in ebraico che indicava il parcheggio. Doveva per forza indicare un sito biblico, perché un parcheggio, sinonimo di modernità, non era previsto in Terra Santa. Vi erano insomma ragioni obiettive per volere studiare al Centro Ratisbonne e non altrove. Era la grande apertura alla complessa realtà ebraica, tradizionale e moderna, a contraddistingue27


re il Centre Chrétien d’Études Juives Saint-Pierre de Sion, noto come Centro Ratisbonne. Fu proprio in quell’estate del 1988 che Andreina ed io incontrammo per la prima volta colui che ne era l’anima e la mente, Pierre Lenhardt. In realtà, ci aveva portato al Centro Ratisbonne la quarta di copertina di un libro di Michel Remaud, membro dell’equipe insegnante, tradotto in italiano con il titolo: Israele, servitore di Dio. Un libro che subito era diventato un testo di riferimento nel campo del dialogo ebraico-cristiano in Italia. Quel giorno ci congedammo da Pierre Lenhardt con la speranza di una borsa di studio per l’anno successivo. Andreina sentiva che qualcosa di importante era accaduto. E aveva ragione.

~ il Centro Ratisbonne ~ Il Centro Ratisbonne aveva la sede in uno degli edifici più belli di Gerusalemme. In città molti sanno che a erigerlo è stato un ebreo convertito. Un tipo di informazione che piace molto agli israeliani perché serve a rendere piccante il racconto della sua storia, e questo al punto da farli a volte rabbrividire ancora alla vista della sua massiccia presenza. Un’amica ebrea dei tempi dell’Ulpan me lo ha confessato la prima volta che visitò con me l’edificio. Di fatto, nella sua lunga esistenza Ratisbonne è servito a scopi diversi: ospedale militare al tempo della prima guerra mondiale, scuola di arti e di mestieri per la mista popolazione locale, rifugio per diverse famiglie di ebrei esiliati a ridosso della guerra del 1948. Diciamo pure che non sono pochi gli ebrei israeliani che ne hanno beneficiato. Proprio del 1948 era la gigantesca e consunta bandiera che a Ratisbonne veniva ogni anno issata da p. Joseph Stiassny e lasciata gloriosamente sventolare il giorno dell’indipendenza nazionale. Gli israeliani a passeggio alzavano lo sguardo e annuivano sorpresi e orgogliosi. L’edificio è stato voluto dal fondatore della Congregazione dei Religiosi di Sion alla quale esso appartiene. O almeno così è stato dal 1874 al 2001. Attualmente è in mano ai Salesiani come 28


conseguenza di una politica ecclesiastica di favori reciproci che non guarda in faccia a nessuno. Ai religiosi di Sion è rimasta un’ala laterale dell’edificio centrale e immagino quanto debba essere penoso passare ogni giorno davanti alla loro casa-madre e vederla occupata da altri. Lo è per me, a maggior ragione lo immagino vero per loro. Che tutto questo accada ad gloriam Dei è scandaloso pensarlo. Lo scrivo per i Salesiani in primis, perché sappiano che ancora c’è chi dentro di sè protesta. Ratisbonne è stata anche per noi una dimora. La prima. Andreina ed io, infatti, tornammo a Gerusalemme per restarci, io l’anno dopo, il 1989, e lei l’anno seguente, il 1990. Ho avuto così la chance di vivere con Andreina a Gerusalemme. Di vedere con lei la città santa splendere alla luce del sole. Ma più la luce è tagliente, più netta è l’ombra che ritaglia. La verità è che Gerusalemme non è abitata da un unico Signore. La sua ambiguità è nella stessa elezione: “Che il Signore ti biasimi, Satana, che il Signore ti biasimi, tu che hai scelto Gerusalemme” (Zc 3,2). Lodare Dio a Gerusalemme è il rischio più grande che esiste per un qualunque credente. E non aiuta pensare che Dio non sia lo stesso per tutti, come ancora sento dire – in verità, più dagli ebrei che dai cristiani, essendo inconcepibile un unico Dio per le vittime e i persecutori. Ma se anche Dio non lo fosse, che almeno il diavolo comunque lo sia è una dolorosa e inconfutabile certezza.

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