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don CORSO GUICCIARDINI Passare dalla cruna dell’ago a cura di Carlo Parenti
Un colloquio su storia e futuro dell’Opera Madonnina del Grappa
Prefazioni di Gualtiero Bassetti e Giuseppe Betori
III
L’Autore ringrazia: Silvano Nistri, Neri Guicciardini, Antonio Mazzinghi e la Fondazione Giorgio La Pira.
© Il Segno dei Gabrielli editori 2018 Via Cengia 67 − 37029 San Pietro in Cariano (Verona) Tel. 045 7725543 − fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-371-7 Tutti i diritti riservati L’editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte con i quali non sia stato possibile mettersi in contatto. Le foto inserite nel presente volume sono pubblicate per gentile concessione di: - Archivio Guicciardini Corsi Salviati di Sesto Fiorentino. Tutte queste foto, salvo le ultime 2, sono state scattate da Giulio Guicciardini, babbo di don Corso, che dall’età di 13 anni si diletta di fotografia: foto alle pp. XVII, 10, 15, 37, 41, 56, 57, 63, 125, 192. - Opera della divina Provvidenza Madonnina del Grappa: foto di copertina e foto alle pp. 50, 66, 69, 80, 88, 95, 112, 119, 137, 140, 144, 151, 159, 163, 173, 175, 182, 185. In copertina: don Corso Guicciardini Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), Giugno 2018 Azienda certificata 100% CO2 Free e 100% Energia elettrica da fonti rinnovabili
IV
A don Corso Guicciardini che col coraggio della fede e guardando sempre avanti sa coltivare il sogno di don Giulio Facibeni: «Sogno che non è un’illusione, ma un preciso programma di giustizia e carità cristiana». E con Lui «noi continuiamo a sognare».1 Per il suo novantaquattresimo compleanno 12 giugno 2018
1
Don Facibeni (15 Febbraio 1947).
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Noi poveri umili vediamo attraverso i nostri piccoli schermi; Dio lavora per l’eternità. Corso un giorno farà silenziosamente un gran bene. La sua mente riflessiva, il suo cuore grande, e soprattutto la sua anima ansiosa di una sempre più intima unione col Signore, ne è sicura garanzia. Don Giulio Facibeni, rispettivamente lettere a Giulio Guicciardini del 9 maggio 1944 e del 14 dicembre 1945
Pensi tu che esisterebbero oggi tante opere di bene, se non vi fossero stati dei sognatori, che ai loro sogni hanno poi dato tutto il sangue del loro cuore per dare ad essi consistenza, o meglio un corpo. Don Giulio Facibeni, lettera a Corso Guicciardini del 14 febbraio 1947
Noi, sappiamo ancora alzare lo sguardo al cielo? Sappiamo sognare, desiderare Dio?[...] Ci sono stelle abbaglianti, che suscitano emozioni forti, ma che non orientano il cammino [...] Così è per il successo, il denaro, la carriera, gli onori, i piaceri ricercati come scopo dell’esistenza. Sono meteore: brillano per un po’, ma si schiantano presto e il loro bagliore svanisce. Sono stelle cadenti, che depistano anziché orientare […] È esigente Gesù: a chi lo cerca propone di lasciare le poltrone delle comodità mondane e i tepori rassicuranti dei propri caminetti. Seguire Gesù non è un educato protocollo da rispettare, ma un esodo da vivere. Donare gratuitamente, per il Signore, senza aspettarsi qualcosa in cambio: questo è segno certo di aver trovato Gesù, che dice: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Fare il bene senza calcoli, anche se nessuno ce lo chiede, anche se non ci fa guadagnare nulla, anche se non ci fa piacere. Dio questo desidera. Egli, fattosi piccolo per noi, ci chiede di offrire qualcosa per i suoi fratelli più piccoli. Chi sono? Sono proprio quelli che non hanno da ricambiare, come il bisognoso, l’affamato, il forestiero, il carcerato, il povero (cfr. Mt 25,31-46)». Papa Francesco, omelia per l’Epifania del Signore, 6 gennaio 2018
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Sommario
Prefazione di Gualtiero Bassetti Prefazione di Giuseppe Betori Saluto di Vincenzo Russo Premessa
XI XIV XV 1
Nota di edizione
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A colloquio con don Corso
13
1. L’incontro del giovane Corso con il professor La Pira, don Bensi, i poveri
13
2. La Pira e la vocazione di Corso Guicciardini
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3. Nella ricchezza di una famiglia nobile e benestante
35
4. L’abbandono della famiglia e l’ingresso nella Madonnina del Grappa, conosciuta con Carlo Zaccaro
42
5. La grande povertà dell’Opera: l’albero degli zoccoli
51
6. La tesi di laurea, il seminario, l’ordinazione sacerdotale
58
7. Con monsignor Bartoletti e don Facibeni
64
8. Navigando, sulla barca dell’Opera, nel mare di sofferenza della missione della Chiesa
73
9. La paternità di don Facibeni. Le lettere a Corso, il figlio spirituale atteso
84
10. Testimoniare il Vangelo, facendosi piccoli
93
11. Lo studio, strumento per formare persone libere: don Facibeni e il suo rapporto con don Milani
101 IX
12. Il testamento spirituale di don Facibeni: Corso suo successore
105
13. I sacerdoti dell’Opera: persone con carismi diversi
115
14. Le udienze da papa Pio XII
122
15. La Parrocchia: luogo privilegiato per una pastorale amica della povera gente
128
16. Raccogliere «il rifiuto di tutti gli altri». Per dirla con Francesco: «Gli scarti»
132
Don Corso tra storia e futuro dell’Opera Madonnina del Grappa
139
17. Il contesto storico di riferimento dell’azione dell’Opera Madonnina del Grappa
139
18. Breve biografia di Giulio Facibeni, «il povero facchino della Provvidenza Divina»
144
19. «Capire che non sei nulla… farsi umile strumento della Provvidenza Divina»
151
20. L’Opera della Divina Provvidenza nelle parole di don Giulio Facibeni
155
21. Diario della Provvidenza
159
22. Gli orfani accolti dalla Madonnina: «una povertà che sorride e canta»
162
23. Estratti dalle lettere di don Facibeni a Corso Guicciardini
167
24. Il rapporto tra don Giulio Facibeni e Giorgio La Pira
172
25. La ri-evoluzione e il futuro dell’Opera nelle parole di don Vincenzo Russo
181
Indice dei Nomi 193
X
Prefazione di
Gualtiero card. Bassetti Arcivescovo di Perugia
Don Corso Guicciardini e Carlo Parenti ci fanno proprio un bel regalo con questo libro-intervista, prezioso e inatteso, vista la ritrosia del protagonista di queste pagine a mettersi al centro dell’attenzione. Chi, come me, conosce don Corso da tutta la vita e gli vuole bene, lo sa bene. Tuttavia il lettore non tarderà ad accorgersi che anche in questo caso, il Guicciardini non si smentisce: le sue parole più che di sé raccontano l’azione della Provvidenza nella sua vita e nella vita della Chiesa fiorentina. Lo sguardo intelligente di don Corso, la cui profondità spirituale sa esprimersi spesso – secondo la cifra fiorentina – con l’ironia, ci apre ad una lettura ampia della storia dell’ultimo secolo: di fatto dagli albori della Piccola Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa che affonda le sue radici durante quella terribile e “inutile strage”, che fu il primo conflitto mondiale (1914-1918) di cui, proprio questo anno, celebriamo (il più delle volte senza autentica capacità di farne memoria) il centenario della conclusione. L’ho detto spesso perché ne sono convinto: quella stagione ecclesiale fiorentina, nel cui alveo ho avuto la grazia di crescere come uomo e di imparare ad amare Gesù e di cui don Corso è invece un protagonista, non ha finito di portare i suoi frutti. Mi permetto di richiamare, qui, quanto dissi nell’ottobre scorso, invitato dal cardinale Arcivescovo Betori e dalle autorità accademiche della Facoltà Teologica di Firenze e dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose Toscano, in occasione del ventennale della Facoltà: Per ciascuna comunità cristiana c’è una Galilea, dove Gesù precede i discepoli-missionari; impossibile scoprirla se non camminiamo insieme in ascolto della Parola. Occorre però anche l’umiltà di XI
sapersi figli, di riconoscersi frutto di una storia che ci ha preceduto, e della quale siamo continuazione. Nessuna Chiesa locale dovrebbe accogliere l’invito alla conversione pastorale senza far tesoro della propria storia, ma Firenze e la sua Facoltà teologica – lasciatemi parlare qui non tanto come fiorentino, ma come Presidente della Conferenza episcopale – hanno una responsabilità speciale: mi riferisco alle radici del Novecento ecclesiale toscano. Esse non sono relegate al passato e hanno bisogno della linfa generosa della Chiesa di oggi per una sintesi appassionata con le sfide del momento presente. I frutti maturi del Novecento ecclesiale fiorentino e toscano vanno ancora colti nella loro interezza.2 Don Corso ha conosciuto Gesù nell’amore per la povera gente, quella stessa povera gente per la quale la Madonnina del Grappa di don Facibeni e l’Opera di San Procolo, di Giorgio La Pira e di don Raffaele Bensi, sono state il cuore pulsante, attivo, protagonista, di una “sperimentazione”, (la “tesi fiorentina” nel linguaggio lapiriano) ecclesiale e sociale. Non la confusione fra i due piani, ma la loro convergenza nell’unico piano dove essi possono incontrarsi senza “contaminarsi” con incoerenti strumentalizzazioni: quello della libertà della coscienza di impegnarsi – con la capacità di rinnegare se stesso ogni giorno – perché il Cristo sia amato nei poveri, vestito, visitato, curato, accolto. Non semplicemente un cattolicesimo con sensibilità sociale, ma il Vangelo come proposta concreta, possibile, di vita, da tradurre con creatività – a seconda delle epoche – in istituzioni ed economie che includono e non escludono, che non si fondano sull’egoismo come preteso quanto indimostrabile fondamento supremo di tutto, quanto – al contrario – sull’orientamento di ciascun uomo di riconoscere nell’altro – molto al di là dei confini familiari o culturali – un proprio simile, il proprio fratello. Questa la lezione di La Pira di fronte alle leggi razziali! Una lezione che non può e non deve essere mai dimenticata, anche oggi!
2 Gualtiero Bassetti, Il coraggio di “abitare le frontiere”, in Vivens Homo, 29/1 (gennaio-giugno 2018), 14.
XII
Una proposta che ha saputo farsi strada, farsi capire da uomini e donne provenienti da culture e orientamenti diversi, diventare patrimonio comune e condiviso, edificazione del corpo sociale, perché uomini e donne di diversissima formazione culturale ed ideologica, hanno saputo sedersi in parlamento per dare una costituzione al nostro paese. Una costituzione che ha avuto, nell’amministrazione lapiriana di Firenze, un banco di prova ed anche – sotto certi aspetti – un “punto di Archimede”, per il superamento del modello delle democrazie liberali e la concretizzazione di quella democrazia sostanziale, solidale, voluta dai costituenti. Un progetto essenziale per tenere unito il paese. Firenze, quando ci fu bisogno di lottare, di essere accanto agli operai e al Sindaco, seppe lottare e vincere. Don Facibeni l’aveva educata a riconoscere l’autenticità della propria civiltà nella scelta dei poveri. E Firenze si riconosceva tutta in don Facibeni!
XIII
Prefazione di
Giuseppe card. Betori Arcivescovo di Firenze
Sono grato a Carlo Parenti per questo libro prezioso, con cui, attraverso un intenso dialogo con don Corso Guicciardini, propone all’attenzione di tutti l’esperienza singolare ed esemplare di questo prete fiorentino, figlio spirituale del Servo di Dio don Giulio Facibeni. Un libro che è testimonianza di una vera e propria storia di santità che ha segnato la nostra Chiesa e la città di Firenze. La figura di don Corso Guicciardini si trova, infatti, alla confluenza di una ricchissima rete di rapporti con persone eccezionali di quasi un secolo di storia fiorentina. Ma la sua testimonianza non brilla solo di luce riflessa, come riverbero della ricchezza degli altri protagonisti; al contrario, vive egli stesso, in prima persona, l’avventura di una fede che segnerà per sempre tutta la sua vita imprimendole un corso totalmente nuovo e arricchirà il volto della nostra comunità. Scopriamo così che il giovane Corso Guicciardini, di famiglia nobile e benestante, illuminata da fede vera e sincera, ancora studente di ingegneria, incontra, grazie a Giorgio La Pira e a don Raffaele Bensi, il mondo dei poveri. A contatto con questo mondo di sofferenza, matura in lui il seme della vocazione al sacerdozio. Non finiremo mai di stupirci di fronte a quello che è un vero miracolo: un giovane che rinuncia a ricchezze, posizione sociale, successo e carriera per seguire un unico amore, quello di Gesù e, per amore suo, mettersi a servizio dei più poveri e dei più abbandonati. La vita di don Corso è manifestazione della tenerezza di Dio, il quale gli ha messo accanto uomini ricchi di fede e carità, attraverso i quali ha sperimentato la bellezza e la drammaticità del vangelo. Nonostante questa ricchezza, caratteristico di don Corso XIV
è essere rimasto sempre, si potrebbe dire, nell’ombra. Il suo carattere schivo e la sua profonda umiltà non lo hanno portato quasi mai alla ribalta. Per questo la presente pubblicazione è tanto più opportuna e provvidenziale quanto più è umile e nascosto è stato e tutt’ora è il suo protagonista. Di questo libro vorrei sottolineare che esso aiuta a far luce sulla dimensione drammatica della santità. Spesso si pensa alla santità come a un idillio. Leggendo questo libro e le lettere di don Giulio Facibeni a don Corso Guicciardini si capisce, invece, il tessuto profondo della santità: l’incontro fra l’esperienza di Dio e la consapevolezza della debolezza umana. È il tormento di chi sperimenta la grandezza della propria vocazione, ma al tempo stesso vive anche la sproporzione della propria umanità di fronte al compito assegnatogli dalla Provvidenza. Insomma la vera santità è anche sofferenza, come l’amore, quando è vero. Ma un altro aspetto particolarmente importante, che emerge da questo libro, è che per don Corso, e prima ancora per don Facibeni, l’amore ai poveri coincide con l’amore a Cristo. Emerge qui con chiarezza che l’opera di don Facibeni, e con lui di don Corso, non è un’opera semplicemente di filantropia o di solidarietà umana, ma unicamente il riflesso della carità di Cristo che risponde al bisogno di giustizia e di amore secondo il modello e la spiritualità evangelica. Don Corso, sulle orme di don Giulio, intende amare Cristo, servire Cristo, annunciare Cristo mettendosi a servizio degli ultimi e dei diseredati. Non c’è niente in questa storia che indulga a una sociologia di tipo orizzontale, che miri a conquistare il consenso, il plauso del mondo o, peggio ancora, gli appoggi o il sostegno di chi esercita il potere nella società, magari ai fini dello sviluppo di un’opera indubbiamente benefica. No, gli uomini di Dio, gli uomini di fede, non si vendono, nemmeno a fin di bene, sono amanti della libertà. Non per nulla l’opera Madonnina del Grappa si chiama “Opera della divina Provvidenza”, così ha voluto il fondatore e così ha mantenuto il suo successore. Grazie a questa storia benedetta don Corso, così come emerge da questo libro, si è ritrovato al centro di una rete di rapporXV
ti privilegiati: oltre a don Giulio Facibeni, egli ha avuto legami strettissimi e fecondi di frutti spirituali con Giorgio La Pira, con don Raffaele Bensi, con mons. Enrico Bartoletti, con il card. Silvano Piovanelli, con Pino Arpioni, con Fioretta Mazzei e tanti altri. Leggendo queste pagine non possiamo non rimanere sorpresi e grati alla provvidenza di Dio per una stagione così ricca per la nostra Chiesa fiorentina ma anche per la nostra città e, oso dire, per il mondo. Perché lo spirito che animava don Giulio e don Corso animava anche gli altri protagonisti di quel tempo. La carità che aveva spinto don Facibeni, e poi don Corso, a dare la vita per gli orfani, era la stessa carità che animava La Pira nella sua azione politica a livello cittadino, nazionale e internazionale, ma anche Pino Arpioni o Fioretta Mazzei nella loro missione politica e educativa vicino a La Pira, o don Bensi nel suo accompagnamento spirituale, in particolare dei sacerdoti, o mons. Bartoletti e il card. Piovanelli nella formazione dei futuri preti. È impressionante e commovente ripensare a una stagione del cattolicesimo fiorentino così densa e intensa, così esemplare. È importante considerare che questa stagione, in qualche modo, è ancora viva e attuale, non può finire. Per questa storia Firenze è, come diceva La Pira, la città sul monte. Firenze ha sperimentato in quegli anni il miracolo della carità, un tessuto di miracoli, perché, come possiamo leggere in questo libro, don Facibeni stesso, nella sua umiltà, ha più volte raccontato i “segni” con cui la Provvidenza ha favorito, sorretto e sostenuto la sua opera. Quante volte, umiliato e afflitto dai debiti, ha ricevuto all’ultimo momento, miracolosamente, la cifra necessaria per assolvere il pagamento richiesto! L’opera iniziata da don Giulio e proseguita da don Corso, non si è limitata ad essere semplicemente una casa-famiglia per orfani, ma è diventata, in un certo senso, una sorta di laboratorio di teologia politica. Perché i criteri che hanno ispirato quell’opera erano criteri in grado di ispirare anche i rapporti politici, nazionali e mondiali. In questo senso la Firenze cattolica era diventata, nel rispetto della coscienza di tutti, ispiratrice della convivenza umana. Con stupore constatiamo come la convergenza di tanti carismi preziosi e diversi abbia determinato un’esperienza così eccezionaXVI
le e feconda, così incisiva e profonda. Una stagione in cui la fede, come diceva S. Giovanni Paolo II, è diventata cultura, cioè criterio di edificazione di un mondo nuovo. Siamo dunque di fronte a un libro veramente prezioso, perché fa rivivere a coloro più avanti negli anni un tempo di grazia eccezionale e ai più giovani, che non hanno vissuto quella stagione, un modello di fecondità spirituale che costituisce un impegno irrinunciabile per il futuro. C’è da esserne grati a Carlo Parenti e soprattutto al carissimo don Corso Guicciardini.
XVII
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Saluto di
Vincenzo Russo *
Don Corso Guicciardini compirà – questo 12 giugno – 94 anni, di cui 68 vissuti nell’Opera Madonnina del Grappa: 12 al fianco del Padre don Giulio Facibeni, gli altri per realizzarne l’eredità. Un impegno lungo e gravoso che don Corso aveva sentito come molto gravoso per le sue energie fisiche e spirituali. Ma queste righe sono per testimoniare che lo ha assolto pienamente, anzi ha arricchito il lascito di don Giulio con le sue qualità particolari: una sensibilità acuta, una capacità di relazione con gli altri tenera e profonda, una vasta conoscenza del mondo e degli uomini derivante dalle sue più diverse esperienze, una pazienza amorosa che non gli ha fatto mai sentire il bisogno di un perdono, perché ogni rapporto, anche i più spinosi, sono stati per Lui la scoperta dell’Altro da sé; quell’alterità che lo ha aiutato e lo aiuta ad avvicinarsi al Padre. La sua convinzione più profonda è che attraverso il Figlio (che si è fatto carne, limite, che è finito in croce...) si può arrivare al Padre, alla Resurrezione della Carne, al superamento del limite nella fede, alla pace, alla felicità per tutti. In questi anni don Corso ha fatto grandi cose: ha preservato l’Opera, l’ha rafforzata, modernizzata, ulteriormente ramificata fino a comprendere nuove povertà: dal carcere ai malati, dai fanciulli abbandonati o handicappati, dagli anziani alle giovani madri sole, ai senza fissa dimora, agli immigrati. A tutti ha spalancato le braccia ed il cuore in una accoglienza affettuosa, rispettosa delle diversità e sempre dignitosa. Ha veramente lavorato tanto, sempre sul filo dei suoi principi: nessuno sfruttamento dei bisognosi, Carità come Foto a sinistra: 18 dicembre 1949, Giardino della Villa Corsi Salviati a Sesto. La prima fotografia di don Corso seminarista in abito talare.
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servizio. Di questo immenso lavoro poche tracce rimangono nelle sue parole: tutto è opera della Provvidenza, ma la Provvidenza ha bisogno di “operatori di carità”. E Corso lo è stato e mai da solo: ha sempre avuto ed ancora ha una grande capacità di coinvolgimento in quanti incontra o in quanti la Provvidenza mette sui suoi passi. Don Corso ricava forza, esperienza e gioia da ogni incontro, anche i più ostici che non sono mancati nella sua lunga vita, ed al contempo emana serenità, pace, una forza buona che penetra e trascina le persone che incontra. Con estrema naturalezza diventa e fa diventare “operatore di cambiamento” come quelli voluti da papa Francesco. Le sue parole, le sue riflessioni, le sue azioni partono dal Vangelo ed arrivano a penetrare la realtà presente, ne erodono il malessere, ne sciolgono i nodi, innalzano i cuori verso l’Alto. Apparentemente fragile e lucido, sembra bisognoso di protezione, ma basta davvero poco per “sentire” che è lui che soccorre, che abbraccia, senza perdere la riservatezza e l’umiltà che lo rendono speciale. Per concludere userò le parole di don Giulio Facibeni che lo salutò così: «La tua vocazione, dal modo in cui si è manifestata, mi sembra voluta dal Signore» .... «Assumi il governo dell’Opera con quella fermezza che deriva dall’assoluto abbandono in Dio» .... «Assumilo con grande Carità: ricorda sempre che l’Opera è per i più poveri, per i più deboli, i più infelici... che bisogna esser pronti ad andare negli ambienti dove si lavora e si soffre senza dignità e senza speranza, per poter resuscitare con la Carità il sentimento della dignità umana e cristiana» (Lettera a don Corso del 23/11/’49). Questo don Corso ha fatto ogni giorno per tutti questi anni; questo fa ancora oggi. Questo aiuta a fare tutti coloro che hanno il privilegio di stargli accanto. “Un abbraccio nel Signore”
* Don Vincenzo Russo: direttore dell’Opera Madonnina del Grappa.
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Premessa
«Dio dove sei, dove sei Dio; non Ti vedo! Sei scomparso, è tutto distrutto, tutto!» … «Ecco dove sei Dio! Sono io, sono io che devo diventare strumento della Tua azione, della Tua volontà di salvezza, del Tuo amore». (Peter Lippert)
Don Facibeni, provato dalla tragedia della prima guerra mondiale non riuscirà più a dimenticare le tragedie, le violenze, il sangue versato, la vista della morte di tanti giovani. Trova una risposta a tanti orrori nel diventare umile strumento dell’azione, della volontà di salvezza, dell’amore di Dio col quale era in mistica unione. Così nasce l’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa” che sopravviverà solo grazie al suo totale abbandono nella Provvidenza. «…e quando meno se l’aspettava la Provvidenza lo sorprendeva, con le sue delicatezze materne. Il Padre era certamente preso dentro la morsa dell’azione divina». «Nella Provvidenza aveva una grande stima. La Provvidenza era in grado di provvedere a tutte le sue scelte». Don Facibeni diceva: «Non credo più nella Provvidenza, Perché la vedo, la tocco con mano», «Tu non la conosci la Provvidenza, perché fa soffrire, però ha delle delicatezze materne»: e in questo abbandono nella Provvidenza respirava la sua anima. «Perché poi da sacerdote sono entrato nell’Opera? Perché c’era la povertà, perché era un elemento che il Vangelo faceva affiorare nella mia coscienza. Non si può vivere il Vangelo senza abbracciare la povertà! I poveri… ti rivoluzionano il mondo interiore, perché ti fanno capire che non sei nulla, che non sei nulla! Un oceano di bisogni. Te ti avvicini e ti assorbono, ti prendono tutto, ti trasformano. Essere cristiani non è il chiedere a Dio quello che noi vogliamo da Lui, ma è fare quello che Lui vuole da noi. Spogliarsi di tutto per essere Suoi strumenti di misericordia e carità»: queste, le risposte di don Cor1
so Guicciardini Corsi Salviati alla tragedia della vita, alla tragedia della povertà. Crescere [arricchendosi] in povertà. La rinunzia alla ricchezza è la vera ricchezza. Di qui il titolo del libro, la miracolosa capacità di un ricco di passare attraverso la cruna dell’ago, vincendo la sfida del Vangelo. Oggi, nella nostra società dove l’apparire è più importante dell’essere, dove la formazione della personalità avviene addirittura anche per mezzo di tecniche che vengono insegnate al fine specifico di sopraffare il prossimo nell’esaltazione suprema del sé, del proprio egocentrismo, risulta quasi incomprensibile il cammino spirituale di don Facibeni e di don Guicciardini. Uomini che per tutta la vita hanno inseguito l’annientamento del proprio io nella carità e nella misericordia fino ad accettare di essere servi inutili1 in una tensione di anime che «ottengono la vittoria su se stessi, dominando le passioni […] stroncando il proprio io». Ma questa rinuncia ha generato «fatti e non parole» per tante «povere creature» che soffrivano la «miseria e l’abbandono». Davvero gli ultimi. *** Questo volume nasce da una lettera del 29 dicembre 2016 che don Corso Guicciardini mi ha inviato dopo aver letto un mio lavoro su Giorgio La Pira.2 Avevo visto don Corso tante volte dagli anni ’70 quando frequentavo intensamente don Carlo Zaccaro, sacerdote dell’Opera della Divina Provvidenza “Madonnina del Grappa” fondata nel 1923 da don Giulio Facibeni del quale don Corso è il successore.3 Ma, sembra impossibile, al di là di rapidi saluti non gli avevo mai davvero parlato. Di lui il ricordo più intenso era legato alla notte tra il 5 e 6 novembre 1977 quando don Giuseppe Dossetti, don Corso Guicciardini e don Carlo Zaccaro conIn corsivo parole di don Facibeni. Carlo Parenti, La Pira e i giovani. Rondini in volo verso la primavera di papa Francesco, Firenze, SEF, 2016. 3 Nelle pagine del libro approfondiremo queste figure e il loro mondo. 1 2
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celebrarono di fronte al corpo di Giorgio La Pira la prima messa funebre per il sindaco santo che era volato4� in Paradiso. Le sentite (e inaspettate) parole inviatemi da don Corso mi hanno commosso per la gentilezza accordatami e incuriosito per gli accenni alla sua vita: […] Anche se mi sento assai lontano da quei giorni che io stesso ho vissuto accanto a La Pira, (si trattava degli anni ’40/’50), tuttavia – ripensandoci – mi rendo conto del valore di quei giorni e dell’esperienza che abbiamo fatto con La Pira. Meravigliosa, perché La Pira aveva il pregio unico di legare la storia del tempo e le sue prove con la Sua vita di Fede. La Pira ci ha coinvolto nel problema della nostra Fede e inevitabilmente ci ha portato a decidere perché questa Fede non fosse passata fuori da un vero e proprio problema di coscienza cristiana. Riconosco che La Pira con il Suo affetto e con la Sua comunicazione fraterna mi ha portato al di là di me stesso e mi ha coinvolto, appunto, in un problema di Fede da attuare […] .
Subito chiedo alla segreteria dell’Opera Madonnina del Grappa un incontro per ringraziare don Corso ed anche per approfondire il discorso su La Pira, verso il quale ho una venerazione. Al momento un appuntamento non sarà possibile, ma finalmente il 27 febbraio 2017,5 accompagnato da mia moglie Marzia, ho il dono di un colloquio che durerà due ore. Un’autentica rivelazione per me (dirò avanti – che anche grazie a successivi incontri – ne sono uscito spiritualmente trasformato). Siamo accolti da don Vincenzo Russo, cappellano del carcere fio4 La Pira mori il sabato 5 novembre 1977 prima dell’ora dei vespri. La Pira in una lettera, del 1936, scrisse: «Anche per noi verrà l’ora in cui ogni fatica sarà finita e sarà per sempre aperta la porta del Paradiso! Il sabato senza vesperi». 5 Sarà un caso ma in quel giorno si celebrano San Gabriele dell’Addolorata – al secolo Francesco Possenti, nato ad Assisi nel 1938 da nobile famiglia e che dai genitori ricevette quell’educazione cristiana che fu poi il germe della sua vocazione al sacerdozio – nonché la beata Maria Carità dello Spirito Santo (Carolina) Brader, nata nel 1860 in Svizzera e fondatrice delle Suore Francescane di Maria Immacolata. Capiremo meglio più avanti il senso di queste assonanze di nobili famiglie e di carità.
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rentino di Sollicciano e prete dell’Opera che si occupa della complessiva gestione amministrativa della Madonnina, il quale ci porta da don Corso. Sono circa le 9 del mattino, solatio e rigido. La stanza di don Corso è semplice, priva di ricercatezze, con mobili poveri, pavimenti di mattonelle di graniglia chiara. Si trova nella casa denominata Nazareth nel complesso dell’Opera in via delle Panche a Rifredi. Entrando nella camera (saranno 20 metri quadri) si vede, accostato alla parete di sinistra, un letto di metallo con le testiere cromate e alla destra di questo una vetrina con molti libri. Nella parete antistante, sulla sinistra, una piccola scrivania, di un’ottantina di centimetri per quaranta, perpendicolare al muro e con una sedia in legno che userò per accomodarmi; una poltroncina – dove siede don Corso – e una finestra. Questa fa angolo con la parete del lato destro, dove è appeso uno scaffale di libri con sotto un tavolo di appoggio, pure sommerso di libri, carte e i quotidiani del giorno; poi più vicino alla porta d’ingresso un armadietto. Sulla sinistra del letto la porta del bagno. Nel poco spazio che avanza, un piccolo deambulatore e una carrozzina a rotelle che serve per i percorsi più lunghi, avendo don Corso debolezza alle gambe. Un lume a tre braccia al soffitto e una piccola lampada sulla scrivania. Qui i libri lasciano giusto lo spazio per posare il mio cellulare (che userò poi come registratore per conservare la memoria dei successivi incontri,6 avvenuti sempre al mattino e mediamente di circa un’ora e mezza. Gli appunti scritti li prenderò invece su un blocco che poggio sulle ginocchia). Don Corso è in clergyman, con sopra un leggero corpetto sportivo nero che mi pare del tessuto imbottito delle giacche a vento. Mi colpisce un cappellino, che gli serve per riparare la testa dal freddo. Il tipico berretto da baseball. Nel tempo scoprirò che don Corso ne ha una piccola collezione multicolore sia in pile per l’inverno, sia in cotone per l’estate. Una mattina ne sfoggerà uno giallo, che gli stava proprio bene e gli dava l’aIn data: 18 e 27 aprile, 12, 19 e 29 maggio 2017. Altri incontri più brevi sono seguiti e mi sono serviti per conoscere meglio la spiritualità di don Corso, da ultimo il 1° gennaio 2018. Vi ho preso qualche appunto. Ho anche partecipato ad un corso di esercizi tenuto da don Corso nella casa dell’Opera a Quercianella dal 28 al 30 agosto 2017. 6
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ria di un vero battitore. Ma tale mia impressione un po’ irriverente non faceva assolutamente velo alla robusta sostanza di questa figura austera, ieratica, nobile – non solo e tanto per censo di nascita,7 ma soprattutto d’anima – che già quando avevo vent’anni un po’ mi intimidiva, perché lo sapevo autorevole, e oggi pure, perché al suo confronto comprendo di essere meno che nulla (è il prezzo che si paga a incontrare i santi). Era impossibile distrarsi alle sue parole: una calamita spirituale. Ne restavo come accecato dal sole, ad occhi chiusi, e ne resta un lago di luce dentro di me. Mi ha colpito che prima di ogni risposta a qualche mia domanda o al tema successivo di un discorso don Corso si fermava per qualche – talvolta lungo – momento di silenzio. Confesso con vergogna che le prime volte ho creduto che non ricordasse. Invece i suoi tempi di pausa servivano a riflettere prima di parlare. È un po’ come quando uno cerca una cartella nella memoria di un computer. Ci vuole un po’ di tempo a trovarla e ad aprirla, ma poi c’è tutto. Tempi che servivano dunque anche per non esprimersi a vanvera e soprattutto per organizzare il discorso. Che era al contempo semplice nell’espressione e complesso nella sostanza. Addirittura così sintatticamente corretto che nel trascriverlo dalla registrazione il mio unico problema era mettere le virgole, tanto era perfettamente costruito. Mi hanno poi stupito l’equilibrio, la precisione delle descrizioni espresse con un linguaggio puntuale e con aggettivazioni efficaci, pittoricamente appropriate. Che dire poi della memoria prodigiosa che permette di ricostruire i più piccoli dettagli delle vicende, finanche il nome delle vie e il numero civico delle abitazioni dei poveri che andava a visitare da studente. Il ricordo ne ricostruisce anche l’arredamento. Una memoria nitidissima, perché si riferisce a vicende che hanno lasciato segni indelebili nella sua vita. Ma la cosa che mi ha più impressionato è la prospetticità del suo pensare, che mai si attarda nel rimpianto del Don Corso nasce conte nella famiglia Guicciardini Corsi Salviati. Il titolo di conte (conte palatino) risale al 1416. Fu conferito dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo a Piero Guicciardini bisnonno dello storico Francesco e di Girolamo dal quale discende il ramo che ha portato poi a Giulio, babbo di Corso. 7
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passato, ma ha una visione dei tempi futuri. Questo giovane novantatreenne mi ha detto già al principio del nostro primo incontro: «I tempi evolvono, non si può restare fermi a schemi vecchi, occorre sempre rinnovarsi, andare avanti». Così al termine di questo primo incontro (del quale non ho altri appunti che quelli fissati nella mia memoria) penso che esso resterà unico, perché difficilmente ritengo ve ne possa essere un altro (chi sono io?) e vorrei trovare il coraggio di chiedere se fosse possibile poter continuare il discorso. I temi erano tutti stati indicati: l’amicizia con La Pira, decisivo per la vocazione del giovane Corso così come decisivo fu l’incontro coi poveri anche attraverso don Bensi e la san Vincenzo de’ Paoli; il complesso rapporto con la mamma che sarà la sua catechista; la frequentazione di casa Mazzei; la vita della sua ricchissima famiglia e il mondo benestante che frequenta; l’incontro, assieme a don Carlo Zaccaro, con i ragazzi orfani accolti dall’Opera; la guerra; gli studi e la tesi di laurea in ingegneria; la scelta dei poveri e l’ingresso nell’Opera Madonnina del Grappa e quello successivo in Seminario; la vita di don Facibeni che ispira il cammino di La Pira; il rapporto di don Corso con don Facibeni, che – anche con un epistolario, vero manuale per divenire santi – lo guida, come il figlio spirituale tanto atteso, nella crescita interiore fino ad indicarlo come suo successore; la dura vita di povertà nell’Opera e la presenza concreta dell’aiuto della Provvidenza; l’annullarsi, rinunciando al proprio io, per essere strumento dell’Amore di Dio nella storia delle persone; il rapporto con gli altri sacerdoti della Madonnina e il ruolo di mons. Bartoletti; il dramma della rinuncia della parrocchia di Rifredi da parte di don Facibeni; la malattia e la morte di Facibeni; infine il futuro dell’Opera e il tema della prossimità ai più poveri, agli ultimi, agli scarti nelle periferie dell’esistenza, per dirla con papa Francesco. Vorrei infatti documentare in un testo questi temi ‘della’ e ‘nella’ vita di don Corso, i cui dettagli sono in gran parte inediti. Ciò, sia per non perdere la memoria, sia per far conoscere – specie ai giovani – questa bellissima storia umana e spirituale di un ricco che si fa povero per servire gli ultimi facendosi strumento del Si6
gnore. E penso al Vangelo di Matteo (19,24): «È più facile che un cammello8 passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli». Ma chiederlo mi imbarazza: sento di essere di fronte ad un Grande e mi intimidisco, mi sento come una collinetta di fronte ad un’alta montagna, un teorico che non ha veramente sperimentato i rapporti personali, mentre don Corso è un pratico della spiritualità e del rapporto dialogico con l’altro, che mi fa comprendere cosa vuol dire l’incontro personale col Signore. Ho inoltre timore di un diniego da parte di don Vincenzo che in passato avevo incontrato una sola volta – per pochissimo tempo – per chiedere se aveva negli archivi della Madonnina del Grappa foto inedite di La Pira con Facibeni, che mi servivano per un mio libro. Quasi tutti mi dicevano (e dicono) fosse burbero, anzi molto burbero. Per la verità in quel primo incontro ebbi l’impressione di una persona sensibile… ma… che da responsabile dell’amministrazione è costretto a fare come i medici che se pietosi… Insomma uno di carattere! E si sa che quando uno ha carattere, si dice sempre – da parte magari di chi ha interessi diversi – che si tratta di un brutto carattere. Invece quando don Vincenzo (che nel corso dei successivi incontri constato che accudisce don Corso con una grande delicatezza e un amore filiale) rientra è lui che con un sorriso mi propone di raccogliere i ricordi di don Corso per farli conoscere a tutti. Lo suggerisce all’interessato che dà il suo consenso a queste “chiaccherate” anche se mi avverte che ha “poco da dire”; capirò poi nei nostri colloqui il significato di tale modestia. Un ricco – appartenente ad una delle famiglie più importanti e facoltose della nobiltà fiorentina – che si fa povero, rinuncia a tutti i beni esclusivi. Cioè quelli che definiscono l’individualismo possessivo,9 quali la ricchezza e il potere. Sono beni che dividono le persone a 8 Si discute ancora se si tratti semplicemente di un’iperbole, come siamo abituati a pensare, oppure di un errore di traduzione di un termine che nella lingua d’origine ha un doppio significato. Infatti la parola aramaica gamal può significare sia “cammello”, sia “corda”. 9 Per una riflessione filosofica contemporanea sul concetto di beni inclusivi si veda Luigi Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Cedam, Padova, 1981, cap. V.
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differenza di quelli inclusivi ed in specie la relazione affettiva. La relazione dell’amore in senso cristiano, che si definisce anche carità ove assuma una valenza di concretezza nell’aiuto all’altro. Ora con tale gesto di spoliazione, alla san Francesco, Corso Guicciardini si è fatto umile, ultimo tra gli ultimi, strumento docile nelle mani del Signore. Una persona che ha distillato la propria vita e la propria anima fino a farne un essenza di povertà e di carità per servire gli ultimi attraverso l’azione della Provvidenza. Sono felicissimo dunque di questa possibilità offertami di incontrare e testimoniare il colloquio con don Corso. Ci salutiamo non senza avere prima stabilite nella sua agenda le date per i nostri successivi incontri. Questi si svolgeranno nella sua stanza, senza altre persone se non occasionalmente e per pochi istanti: la segretaria dell’Opera, Emiliana Valentini, che raccoglie le firme di documenti (don Corso ne è presidente e legale rappresentante) che vengono apposte dopo un attento controllo del merito degli stessi; i nipoti passati a salutare lo zio; don Vincenzo che lo avvisa che deve andare da qualche parte; don Paolo Aglietti e altri preti che passano; la perpetua, Lara Pii, che chiede per il pranzo, ecc. Peraltro quando vedo Corso Guicciardini, anche se mi ero preparato delle domande, riesco a malapena a chiedere qualcosa e, riascoltando le registrazioni che faccio per non perdere nulla del racconto, constato che faccio proprio la figura dello stupidotto, con interlocuzioni tanto brevi quanto inconsistenti. Per fortuna egli è un formidabile narratore e quando talvolta, a distanza di giorni, capita che si ripeta se ne accorge quasi subito e, esclamando: «Ma questo s’è già detto», riprende il racconto con nuovi argomenti. Mi sono accorto, riascoltando le registrazioni, che questo suo racconto ha seguito un ordine temporale e di argomenti precisi, il che mi ha permesso di riassumerlo in questo testo senza troppa ansia per (ri)ordinarlo. Nel testo do conto inizialmente di storie particolari relative a famiglie nobili o possidenti anche per evidenziare il mondo in cui Corso Guicciardini è cresciuto e che poi ha lasciato scegliendo di servire i poveri. Si ricostruiscono così pezzi importanti della storia di una città, delle sue persone, delle famiglie (in particolare quelle 8
dei Guicciardini e dei Mazzei) di quel mondo cattolico che allora fiorì in una – purtroppo – irripetibile primavera che ci ha donato gioielli di umanità. Quel che mi ha colpito è che tutti allora avevano forti valori ai quali credevano sinceramente e si attenevano con coerenza. Li trasmettevano sia educando, sia con l’esempio. Dopo tale quadro, che a taluno apparirà forse un po’ meno interessante, si entra nella grande storia spirituale delle anime di Facibeni, La Pira, Corso Guicciardini e degli interventi concreti della Provvidenza. La testimonianza è resa dal Guicciardini con poche semplici e luminose pennellate, come solo i grandi pittori sanno fare. Le parole sono distillate nella semplicità. Grandi fatti sono detti con modestia e magari minimizzati e/o taciuti (“Corso un giorno farà silenziosamente un gran bene”, così don Facibeni). Nelle molte note e nelle pagine della seconda parte del testo presento sintetiche biografie o circostanze dettagliate di persone o cose perché i non fiorentini e/o quelli che non ricordano più fatti anche di ottanta anni fa e comunque i più giovani, abbiano un quadro utile di riferimenti per comprendere meglio una stagione ricca di santi e grandi figure. Ho riportato, con la maggiore possibile precisione, le parole di don Corso attingendo però, nella ricostruzione di un discorso completo, a quanto mi ha detto in occasioni diverse. Cerco anche di rispettare il suo parlare da fiorentino riportando incisi, interiezioni cioè esclamazioni alla toscana che colorano il suo linguaggio. Talvolta, nel ricordare, il suo stato d’animo mutava in commozione, in preoccupazione, in ironia, in sagacia: anche questi sentimenti talvolta cerco di riportare e a mio avviso raccontano una storia altrettanto significativa quanto i fatti. Seguiamo dunque il racconto che ci fa Corso Guicciardini. Firenze, giugno 2018 94° compleanno di don Corso Guicciardini e 60° anniversario della scomparsa di don Giulio Facibeni
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1924: Corso Guicciardini in braccio alla madre, Eleonora Corsini.
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Nota di edizione Le citazioni relative a don Giulio Facibeni (Vita, lettere, avvenimenti dell’Opera), se non diversamente indicato, sono tratte da: - Silvano Nistri, Vita di don Giulio Facibeni, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1979. La citazione è indicata con il riferimento: (V, numero di pagina). - Silvano Nistri e Franca Righini: Lettere di don Giulio Facibeni, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1979. La citazione è indicata: se nel testo con il riferimento al destinatario e alla data della lettera; altrimenti o se in nota con queste abbreviazioni: (L, volume, numero di pagina) o (L, Destinatario, Data). - Don Giulio Facibeni, Scritti, a cura di L. Augusto Torniai, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1960. La citazione è indicata con il riferimento: (T, numero di pagina). Questi lavori sono l’insuperabile e (specie i primi due) monumentale strumento di conoscenza per la vita di don Facibeni, la storia dell’Opera e dei suoi sacerdoti. Ma devono essere ancora scritte le pagine della storia più recente. Per le notizie biografiche delle persone citate, oltre a quanto indicato in nota e se non diversamente indicato, si vedano i siti da cui sono state elaborate: santiebeati, vatican.va., treccani, wikipedia, filosofico.net.
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A colloquio con don Corso
1. L’incontro del giovane Corso con il professor La Pira, don Bensi, i poveri Carlo: Caro don Corso, nella nostra prima conversazione Le chiesi come era maturata in Lei la scelta del sacerdozio. Mi disse che per la sua vocazione fu decisivo l’incontro col professor Giorgio La Pira che dai Mazzei e da don Raffaele Bensi in più occasioni ebbe modo di conoscere e apprezzare, instaurando con Lui un’amicizia intesa. Mi può descrivere come si svilupparono gli eventi? Don Corso: Ti devo raccontare della mia infanzia e successivamente dei miei anni da studente liceale e universitario. In questo contesto, grazie al rapporto di mia madre e mio padre con la famiglia Mazzei, ebbi modo di frequentare e approfondire il rapporto con Giorgio La Pira che mi parlò della chiamata del Signore. Fu però da don Bensi,1 al quale i miei mi avevano indirizzato, che incontrai la prima volta il professore e soprattutto attraverso la partecipazione alle sue attività nella Conferenza della San Vincenzo dei Paoli scoprii i poveri e la tragedia della povertà. Don Bensi successivamente mi suggerì di andare a visitare i ragazzi della Madonnina del Grappa e così compresi meglio cosa essa significasse e chi fosse don Facibeni2 che pure avevo conosciuto in famiglia nella nostra villa di Sesto Fiorentino. Io frequentavo fin da piccolo – a otto anni – la casa del professo1 Don Raffaele Bensi (1896-1985). Il cardinal Benelli, dal 1967 sostituto alla Segreteria di Stato nel pontificato di Paolo VI e poi arcivescovo di Firenze dal 1977 al 1982, definì don Bensi come «il vero padre della Chiesa fiorentina». A lui si deve, nel giugno del 1943, anche la conversione di un giovane ebreo che poi si fece prete: Lorenzo Milani. Fu confessore di questi e di La Pira. 2 Per una nota biografica su don Giulio Facibeni si veda il capitolo 18.
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re Jacopo Mazzei3 che era in via Santa Monaca, in San Frediano, al numero 2, all’angolo con via dei Serragli. Come facessi a raggiungere la casa non lo so, perché non ero accompagnato da nessuno, mi sembra. Noi s’abitava in via Ghibellina nel palazzo Corsi Salviati. Questo perché c’era un feeling, un rapporto molto genuino fra mia madre e una sorella del professor Jacopo Mazzei che era l’ultimo nato, ma prima di lui c’erano due sorelle che avevano un soprannome tutte e due, che sono i soprannomi dell’infanzia. Una si chiamava Tottò4� che sposò il professor Sarti a Lucca. Mentre la seconda, si chiamava Tettè 5 che aveva sposato il Fabbricotti di Carrara, grande proprietario e manager industriale. Anche questa donna aveva avuto otto o nove figli. Non so se era coetanea o se era un pochino più vecchia di mia madre che pure ebbe nove figli. La mia mamma era una personalità particolare. Era una donna di 3 Jacopo Mazzei (1982-1947). Orfano all’età di otto anni fu educato dalla madre, fervente religiosa. Partecipò alla prima guerra mondiale; nel 1917, dopo un anno di prigionia, fu congedato come invalido. Si laureò a Pisa prima in legge e poi in economia politica con Giuseppe Toniolo. Docente all’Università Cattolica di Milano fino al 1926 e poi ordinario di politica economica a Firenze. Qui fu preside (1936-’43) della nuova facoltà di economia e commercio e prorettore dell’Università fiorentina (1937-’44). Durante la guerra si ritirò nella sua residenza di campagna di Fonterutoli, nel Chianti. Qui si rifugiò anche La Pira, ricercato dai tedeschi. Uomo di profonda fede, grande amico di don Giulio Facibeni fin dai tempi della giovinezza. Don Facibeni considerò l’incontro con il Mazzei come “disposto dalla infinità bontà della Provvidenza Divina”. 4 Al secolo Maria Antonietta Mazzei. 5 Al secolo Maria Teresa Mazzei Fabbricotti (Firenze, 1893 - Carrara, 1977). Da poco è stata riscoperta (con una mostra tenutasi a Carrara nell’agosto/settembre 2016) come un’eccellente pittrice. Di scuola macchiaiola, fu ritrattista superlativa dotata di un talento sopraffino, specie negli acquarelli, come riconobbero maestri quali Arturo Martini e Ugo Ojetti. Nonostante le nobili origini e il matrimonio con un imprenditore molto ricco, Carlo Domenico Fabbricotti, la sua sensibilità la portò a essere più vicina agli umili: popolani, povere donne, anziane pensierose, lavoratori stanchi e affaticati diventano protagonisti indiscussi della sua arte (vedi https://www. finestresullarte.info/585n_maria-teresa-mazzei-fabbricotti-una-mostra-perunartista-riscoperta.php). In un certo senso rappresenta un esempio della condizione della donna nella società d’inizio Novecento. Una condizione necessariamente subalterna in una società maschilista.
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Autunno 1925: don Corso ad un anno di etĂ nel giardino della Villa Corsi Salviati dei genitori a Sesto Fiorentino.
Maggio 1925: Tenuta Gli Acquisti. Cappella fatta costruire dal bisnonno paterno di don Corso, il marchese Bardo Corsi Salviati, inaugurata nel 1907. Scendendo dall’alto, i fratelli e le sorelle di don Corso: Maria (classe 1917), Lodovico (classe 1918), Franca (classe 1920), Roberto (classe 1922), quindi don Corso ad un anno di età .
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slancio, entusiasta, e fin da giovane anche di grande fervore cristiano e naturalmente il matrimonio non fece altro che accrescere questo fervore. Dopo il primo figlio di nome Bardo che morì di una forma influenzale, la “spagnola”, lei ha avuto altri otto figli e quindi il suo fervore cristiano si manifestò soprattutto attraverso questa maternità che lei esprimeva totalmente. Certo era una donna che si faceva aiutare. Ci avevamo molti aiuti in famiglia; è chiaro che avevamo tante persone, ma lei ci metteva del suo. Comunque la Tettè era una donna fervida e mia madre c’aveva una grande stima di questa donna. Sono sentimenti che le donne comunicano, “trasmettono” alle anime degli altri, senza bisogno di parole; non si può dire che cos’è. Andrebbe ricostruito, ma sono quegli “introiettamenti”6 che avvengono dentro di noi, perché le madri ce li trasmettono. Lei, mia madre, trasmetteva questa stima e l’affetto che aveva per questa donna. Più in generale assieme alla mia mamma anche il mio babbo aveva una grande stima della famiglia Mazzei e della “vecchia” signora Marianna, la madre di Jacopo e delle due sorelle. La signora Marianna era una donna fuori del comune. Questa donna aveva effuso la sua carica intensissima di cristiana nei figlioli. Aveva evangelizzato veramente i suoi figlioli. Che bello! [il volto di don Corso si illumina di gioia e riconoscenza]. Tutti e tre i figlioli avevano una mitezza particolare, avevano la capacità di trattare le persone in modo particolare. Io ricordo il professor Jacopo sul letto di morte che parlava ai suoi figlioli, ma con un rispetto come se questi avessero bisogno di tale rispetto particolare. Era un qualcosa che si era trasfuso dalla Marianna a loro tre: Jacopo, la Tottò e la Tettè. Peraltro io le due figlie le conoscevo appena. La Tottò l’ho conosciuta a Vallebuia di Lucca, quando mio cugino primo, Nello Giustiniani, sposò Tussi, la figlia di Tottò. Io partecipai al matrimonio e mi ricordo di essermi inginocchiato. La messa era celebrata da don Arturo Paoli.7 Il clima della famiglia Mazzei era 6 Introiettare: in psicanalisi, accogliere in sé, mediante il processo dell’introiezione, oggetti o aspetti esterni (cfr. Il Treccani). 7 Arturo Paoli deve la sua vocazione anche a La Pira che lo “introdusse
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