Donne per un altro mondo

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DONNE per un altro mondo Storie di protagoniste femminili in Africa, Mondo islamico, Balcani e Caucaso, Asia, America Latina, Nazioni Unite

a cura di Paolo Moiola e Angela Lano


Questo libro eÁ stato realizzato grazie al sostegno dell'«Assessorato all'Emigrazione, SolidarietaÁ internazionale, Sport e Pari opportunitaÁ» della Provincia autonoma di Trento.

# Il Segno dei Gabrielli editori, 2008 Via Cengia, 67 ± 37029 S. Pietro in Cariano (Verona) Tel. 045 7725543 ± fax 045 6858595 e-mail: scrivimi@gabriellieditori.it sito web: www.gabriellieditori.it ISBN 13 978-88-6099-057-0 Stampa Litografia de ``Il Segno dei Gabrielli editori'' San Pietro in Cariano (VR), Maggio 2008 Grafica copertina Il Segno dei Gabrielli editori Coordinamento ed editing a cura di Paolo Moiola Foto in copertina di Davide Casali e Paolo Moiola


Questo libro eÁ dedicato a Mana Sultan Abdurahman AlõÁ Isse,* che ci ha lasciati il 14 dicembre 2007. Il suo impegno infaticabile a fianco delle donne somale, per la costruzione di un mondo dove i diritti fondamentali siano pratica quotidiana e non solo enunciazioni di principio, continua grazie all'opera di decine di ragazze e ragazzi, a Merka e in tutta la Somalia.

* Il capitolo a lei dedicato eÁ a pagina 135.


RINGRAZIAMENTI

Quello che avete tra le mani eĂ un lavoro collettivo. Tante sono le persone da ringraziare, a cominciare ovviamente dagli autori: per ognuno di essi trovate alcune note biografiche nelle ultime pagine. Dobbiamo, inoltre, uno speciale ringraziamento alla redazione della rivista Missioni Consolata di Torino; all'assessorato alla cooperazione della Provincia autonoma di Trento e in particolare al dottor Luciano Rocchetti, esperto di cooperazione e funzionario dello stesso assessorato; alla dottoressa Luisa Chiodi, direttrice dell'Osservatorio sui Balcani e Caucaso di Rovereto (Trento). Infine, dobbiamo un sincero grazie a Lucia e Cecilia Gabrielli, responsabili dell'omonima casa editrice e Âą per una bella coincidenza Âą donne come le protagoniste di questo lavoro. (P.M.)


PER INIZIARE

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INDICE

Volti di donna

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di Luisa Morgantini Donne che «fanno» (un altro mondo)

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di Iva Berasi

PARTE I - DECLINAZIONE FEMMINILE

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Tessitrici di speranza di Emanuela Baio

31

Non c'eÁ futuro senza donne

37

di Sabina Siniscalchi

PARTE II - AFRICA

45

Introduzione Rosa su nero di Benedetto Bellesi

47

LIBERIA - Ellen Johnson Sirleaf «Donne, siete pronte per la storia?» di Benedetto Bellesi

49

MOZAMBICO - Luisa Diogo I segreti di Luisa di BrazaÄo Mazula

58


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INDICE

NIGERIA 1 - Hauwa Ibrahim Il diritto contro le pietre di Benedetto Bellesi

63

NIGERIA 2 - Dora Akunyil La farmacista non ha paura di Benedetto Bellesi

69

SENEGAL 1 - Marie-Angelique Savane «Svegliarsi eÁ liberarsi» di Ermina Martini

76

SENEGAL 2 - Aminata Niane Meglio se «made in Africa» di Marco Bello

79

COSTA D'AVORIO - Henriette Dagri Diabate Professoressa di integritaÁ di Marco Bello

83

CAMERUN - Werewere Liking Un canto per tutti i possibili domani di Silvana Bottignole

86

BURKINA FASO 1 - Alizeta Ouedraogo Businesswoman di Ramata SoreÂ

91

BURKINA FASO 2 - Odile Sankara A colpi di teatro di Anna Pozzi

95

MALI - Aminata Traore Voce di... passionaria di Anna Pozzi

100

MAURITANIA - Fatimata Mbaye Liberi tutti di Anna Pozzi

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INDICE

9

GUINEA CONAKRY - Rabiatou SeÂrah Diallo Fuoco alle polveri di Marco Bello

105

RUANDA - Judith Kanakuze Dal genocidio alla rivoluzione rosa di Benedetto Bellesi

109

BURUNDI - Marguerite Barankitse Una voce di speranza sulle colline di Maria Luisa Casiraghi

113

MAURITIUS - Ameenah Gurib-Fakim Erbe medicinali, una passiano che premia di Benedetto Bellesi

116

SUDAFRICA 1 - Nkosazana Dlamini Zuma «Se colpisci una donna...» di Benedetto Bellesi

120

SUDAFRICA 2 - Phumzile Mlambo Ngcuka Una storia rosa (con tinte di giallo) di Benedetto Bellesi

125

TANZANIA - Gertrude Ibengwe Mongella Per l'Africa, per le donne di Anna Pozzi

127

KENYA - Wangari Maathai Una cintura da Nobel di Silvana Bottignole

130

SOMALIA - Mana Sultan Abdurahman Mana, la principessa di Giuliano Bortolotti

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INDICE

PARTE III - MONDO ISLAMICO

141

Introduzione Le donne dell'islam e il sogno del profeta di Angela Lano

143

MAROCCO 1 - Donne e diritto di famiglia Meglio in patria di Angela Lano

151

MAROCCO 2 - Le predicatrici di Allah Rachida, Neima e Fatima di Angela Lano

154

MAROCCO 3 - Nezha El-Ouafi «SõÁ, sono una marocchina... parlamentare» di Angela Lano

157

EGITTO - Nawal As-Saadawi La conoscenza non eÁ peccato di Angela Lano

159

PALESTINA 1 - Donne senza nome La speranza schiacciata di Angela Lano

162

PALESTINA 2 - Sahar Khalifah «Mai piuÁ vostre serve» di Angela Lano

169

PALESTINA 3 - Maryam Mahmoud Saleh Una donna per Hamas di Luisa Morgantini e Francesca Cutarelli

171

IRAN 1 - Farzaneh Karampoor Gli ostacoli non mancano mai di Angela Lano

176

IRAN 2 - Naiereh Ghassemi Donne iraniane in carriera (al di laÁ dei pregiudizi) di Angela Lano

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INDICE

PARTE IV - BALCANI E CAUCASO

11 181

Introduzione La forza delle donne in un mosaico impazzito di Roberta Bertoldi

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BOSNIA ERZEGOVINA - Radmila zÏarkovic Quando a Mostar arrivoÁ la guerra di Nicole Corritore

185

GEORGIA - Nino (Nina) Ananiashvili «Mi chiamo Nino» di Maura Morandi

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PARTE V - ASIA

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Introduzione Una partenza ad handicap di Cinzia Maddaloni

201

INDIA 1 - Arundhati Roy La voce della denuncia e del dissenso di Cinzia Maddaloni

206

INDIA 2 - Vandana Shiva «Donne di tutto il mondo, unitevi» di Cinzia Maddaloni

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MYANMAR - Aung San Suu Kyi La signora e il generale di Paolo Moiola

216

AFGHANISTAN - Jamila Mujahed Oltre il burka, voci di speranza di Anna Cestari

221

CINA - Mao Hengfeng La mamma eÁ una sovversiva di Alessandra Cappelletti

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INDICE

PARTE VI - AMERICA LATINA

239

Introduzione Da Plaza de Mayo a Ciudad JuaÂrez di Paolo Moiola

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ARGENTINA 1 - Cristina FernaÂndez de Kirchner Cristina sogna Evita di Paolo Moiola

246

ARGENTINA 2 - Lorena Pastoriza 8 di Maggio, una vita di resistenza di Paolo Moiola

253

CILE - Michelle Bachelet Nel paese di Pinochet (e dei Chicago boys) di Paolo Moiola

262

GUATEMALA 1 - Rigoberta Menchu Tum Una maya come presidente? Un giorno, forse di Paolo Moiola

268

GUATEMALA 2 - Rosalina Tuyuc VelaÂsquez Donne dalla pelle dura di Paolo Moiola

274

ECUADOR - Esperanza MartõÂnez L'ecologia eÁ donna di Francesca Caprini

277

BOLIVIA - Claudia Lopez La guerriera dell'acqua di Francesca Caprini

288

PERUÂ 1 - Donne indigene dell'Amazzonia A scuola, la salvezza di Maria Heise Mondino

299

PERUÂ 2 - Maruja, Gabi e Daniela Le moschettiere di Tablada di Paolo Moiola

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INDICE

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HAITI - Magalie Marcelin Ribellarsi eÁ un'arte di Marco Bello

309

COLOMBIA 1 - Le donne colombiane La resistenza eÁ donna di Gloria Cuartas

313

COLOMBIA 2 - Ingrid Betancourt Le molte vite di Ingrid di Gennaro Carotenuto

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PARTE VII - NAZIONI UNITE

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Introduzione EÁ tempo: una donna a capo dell'Onu di Sandro Calvani

327

Alicia Barcena Ibarra Alla ricerca dello sviluppo sostenibile di Sandro Calvani e Marina Mazzini

330

Thoraya Ahmed Obaid Partire dalla gente, senza imposizioni di Sandro Calvani e Marina Mazzini

332

Margaret Chan Malattie senza frontiera di Sandro Calvani e Marina Mazzini

335

Sheikha Haya Rashed Al Khalifa OpportunitaÁ, diritti, responsabilitaÁ di Sandro Calvani e Marina Mazzini

337

Asha-Rose Migiro A fianco di Ban Ki-moon di Sandro Calvani e Marina Mazzini

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INDICE

Louise Arbour I diritti umani non sono un «optional» di Sandro Calvani e Marina Mazzini

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MicheÁle Montas Da Radio Haiti alle Nazioni Unite di Sandro Calvani e Marina Mazzini

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PARTE VIII - CONSIDERAZIONI PRO FUTURO

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Una panoramica finale Come Elvira o come Sonia (ma ricordando Virginia) di Paolo Moiola e Anna Pozzi

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Gli autori Hanno firmato questo lavoro

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PER INIZIARE

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Prefazione / 1

VOLTI DI DONNA Dal Medio Oriente all'Africa, dall'Afghanistan alla Colombia, dall'Europa alla Sicilia. La vicepresidente del Parlamento europeo racconta i suoi incontri con donne attive nei piuÁ vari contesti. Donne diverse, ma eguali, perche accomunate nella lotta per uno stesso obiettivo: costruire un «altro» mondo, in cui le relazioni non siano basate sul concetto di amico-nemico, ma su quello di giustizia. di Luisa Morgantini Siamo donne di questo mondo, come stelle in unico cielo. Diverse nelle sfumature della pelle o degli occhi, per un passato o un presente di guerra, violenze, discriminazioni, condizioni di vita asimmetriche, ma accomunate dalla necessitaÁ e dalla scelta di agire per una libertaÁ che eÁ in primo luogo liberazione individuale, di genere, sociale e quindi politica e democratica. Donne che abbiamo scelto di rompere barriere, confini, quelli reali e quelli immaginari. Donne che lottiamo contro la militarizzazione degli Stati ma anche delle menti. Molte di noi sono attive in diverse reti di relazioni, di solidarietaÁ, di scambio, reti che ci uniscono e che si manifestano testardamente e coraggiosamente nelle piazze, nelle assemblee pubbliche, attraverso il web come nei Parlamenti, nei campi profughi negli incontri internazionali, percorrendo vari mondi. La rete che anch'io contribuisco a fare piuÁ fitta e forte eÁ la «Rete internazionale delle donne in nero» contro la guerra e la violenza, da Israele alla Palestina, da Kabul a Baghdad, dal Libano alla Colombia, dall'Africa sub-sahariana alla Russia, ai Balcani fino ai presidi di Vicenza contro le basi militari. Nello spazio e nel tempo, la frase che la scrittrice Christa Wolf in Cassandra fa dire a Cilla di fronte alla scelta di Pentesilea e delle amazzoni «Fra uccidere e morire, c'eÁ una terza via, vivere» continua a rappresentare una scelta di visione globale e una linea politica imprescindibile, che guida l'impegno di tutte verso un progetto capace di spezzare la concezione dell'amico-nemico, indagando un'altra via percorribile all'insegna della costruzione di relazioni, specialmente nei luoghi di conflitto, con un agire di donne, unitario, forte, tenace e capace di attraversare i confini operando in modo non-violento nel riconoscimento dell'esistenza e del diritto dell'altra/o.


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Nell'edificazione di una politica internazionale delle donne, la visibilitaÁ e l'esempio delle palestinesi e delle israeliane eÁ stata ed eÁ tuttora estremamente significativa: era l'agosto del 1988 quando con sessantanove donne in nero italiane, siamo andate a Gerusalemme con la volontaÁ di farci portatrici di una sfida eccezionale per la costruzione di una pratica politica alternativa a quella degli Stati e delle loro diplomazie. Volevamo farlo proprio entrando in relazione con le donne palestinesi e israeliane che, per uscire dalla spirale della violenza e dell'odio, cercavano un dialogo e una soluzione non violenta al conflitto ed all'occupazione militare. Lo abbiamo fatto e avremmo continuato a farlo fino ad oggi, a venti anni dalla nascita delle donne in nero ± che abbiamo festeggiato insieme lo scorso 28 dicembre 2007 a Zion Square ribattezzata Hagar Square (Gerusalemme Ovest) dal nome di una tra le fondatrici delle Women in black israeliane ± prendendo a prestito il nero del loro lutto o il silenzio delle loro manifestazioni, facendoci forti del loro coraggio e della loro determinazione, come quelli di Nayla Ayesh, palestinese di Gaza, o di Lily Traubmann, israeliana di origine cilena, Donne dell'anno 2007, premiate dalla Regione Valle d'Aosta perche da anni operano per il diritto alla libertaÁ, per l'autodeterminazione, la pace e la sicurezza per due popoli in due Stati.

Per una nuova diplomazia: dal basso Oggi, mentre il mondo continua ad uscir di senno con guerre, violenze e pericolose corse agli armamenti, noi continuiamo a costruire relazioni agendo per una politica internazionale nel rifiuto della guerra, attraverso una diplomazia dal basso e le tante iniziative all'interno delle rispettive societaÁ per l'affermazione di una leadership e di un agire e sentire di donne. E ancora una volta lo scenario israelo-palestinese, la volontaÁ e l'urgenza di porre fine ad un conflitto che dura da troppi anni hanno visto la nascita di un esempio concreto di questa pratica di partecipazione al femminile: l'International Women's Commission (Iwc), di cui faccio parte rappresenta la prima Commissione composta da donne palestinesi, israeliane e internazionali, nata, sotto l'egida del «Fondo delle Nazioni Unite per le donne» (United Nations Development Found for Women,Unifem), dalla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell'Onu (ottobre, 2000), che invita gli stati membri a ga-


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rantire l'aumento della rappresentanza femminile a tutti i livelli decisionali. Il lancio ufficiale della Commissione di donne in Europa eÁ stato ospitato al Parlamento europeo nel dicembre del 2005. La struttura eÁ composta da 20 donne palestinesi, 20 israeliane, 20 internazionali: tra le palestinesi ci sono personalitaÁ come Hanan Ashrawi o Zahira Kamal, ma anche militanti come Hania Bitar o Nayla Aysh; tra le israeliane, parlamentari come Naomi Chazan e Colette Avital (eÁ stata candidata alla presidenza dello Stato di Israele) e militanti come Debbie Lerman e Molly Malekar, mentre tra le internazionali vi sono, tra le altre, Ellen Johnson-Sirleaf, presidente della Liberia (si legga il capitolo a lei dedicato), Tarja Halonen, presidente della Finlandia e Helen Clark, primo ministro della Nuova Zelanda. Insieme, come Iwc chiediamo di porre immediatamente fine all'occupazione militare israeliana in accordo con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite per creare finalmente uno stato sovrano palestinese affianco a quello d'Israele sui confini del 4 giugno del 1967, attraverso un'azione di pressione e di informazione che mira a garantire alle donne la piena partecipazione nei negoziati, formali ed informali, per la Pace israelo-palestinese, basata su principi di uguaglianza tra i generi, diritti umani delle donne, diritti umani internazionali e leggi umanitarie in ogni futura soluzione del conflitto e per una pace giusta e inclusiva che porti stabilitaÁ, democrazia e prosperitaÁ nell'intera regione, fuori dall'unilateralitaÁ e dal militarismo. Ripetendo che in ogni guerra sono i civili a pagare il prezzo piuÁ alto, che violenza porta nuova violenza, che per fare la pace bisogna preparare la pace e sradicare povertaÁ e ingiustizie, le donne assumono in tal modo un ruolo attivo non solo nelle rispettive societaÁ ma anche in un impegno globale che ci vede tutte protagoniste. Come in Africa, dove le donne, che rappresentano il 52% della popolazione totale e contribuiscono al 75 % del lavoro agricolo, producendo dal 60% all'80% degli alimenti in commercio, entrano in modo dirompente nella politica, auto-organizzandosi, partecipando attivamente e affermando che anche nelle politiche di cooperazione e sviluppo sostenibile eÁ impensabile non tener presente un approccio di genere che garantisca accesso e controllo di risorse insieme all'emancipazione e al rispetto dei loro diritti a tutte le donne. Un successo straordinario, ad esempio, eÁ stata la ratifica del Protocollo aggiuntivo alla «Carta africana dei Diritti umani e dei Popoli» o Protocollo di Maputo, approvato nel 2003, che in qualitaÁ di prima «Carta dei diritti delle Donne africane» indica la via da seguire per


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una crescente mobilitazione e un piuÁ forte coinvolgimento delle donne nella lotta per i propri diritti, in particolare con l'articolo 5, in cui si dichiara che «tutte le forme di mutilazioni genitali femminili dovrebbero essere proibite e condannate». Lentamente trovando la propria strada le organizzazioni di donne africane stanno raccogliendo i frutti di anni di lotte e rivendicazioni: ben presto il condizionale dell'articolo 5 del protocollo di Maputo che getta ombre sul tabuÁ ancora presente riguardo le mutilazioni genitali femminili, lasceraÁ il posto ad un imperativo categorico, lo stesso che eÁ necessario per denunciare ovunque le connessioni tra la violenza contro le donne, pensiero patriarcale, pratiche religiose, e ogni integralismo di cui sono vittime le donne.

Malalai Joya, Ingrid Betancourt e le altre Lo vediamo nell'Iraq di oggi dove le donne portano avanti una resistenza quotidiana per la paritaÁ e la democrazia in un contesto di insicurezza estrema in cui diritti giaÁ conquistati sono aboliti e le loro vite in crescente pericolo, costrette a restare chiuse nelle case per non essere aggredite, mentre i suicidi continuano a svolgersi nel silenzio: «Ci avete tolto tutto, anche il sogno di essere noi a liberarci, noi con il nostro popolo«, mi diceva una giovane irachena durante la prima guerra del Golfo, non arrendendosi ma continuando a rivendicare la sua libertaÁ. Lo si eÁ visto in Afghanistan dove la guerra contro l'orrore del regime dei talebani ha lasciato il posto ad un potere colluso con signori della guerra, narcotrafficanti e corrotti, gli stessi che hanno prima minacciato di morte e poi sospeso Malalai Joya, giovane deputata afgana e uno degli esempi di resistenza al femminile. Lo abbiamo visto piuÁ volte nelle manifestazioni delle donne curde in sciopero della fame per i diritti del loro popolo o in corteo insieme a quelle turche per i diritti di entrambe o in quelle delle madri di Plaza de Mayo, che da trent'anni rappresentano un esempio straordinario di autentica resistenza della vita sulla morte, della giustizia sul sopruso, di una difficile memoria su un facile oblio. O, infine, l'ho visto recentemente in Colombia, dove sono stata con una delegazione organizzata dal Comitato per la liberazione di Ingrid Betancourt (si legga il capitolo a lei dedicato) e di tutti gli ostaggi da anni prigionieri delle Farc nelle selve colombiane. A Bogo-


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taÁ ho incontrato alcune famiglie di quegli ostaggi ed ex sequestrati liberati come Consuelo Gonzales, una donna meravigliosa e tenace che insieme alle tantissime altre colombiane e associazioni come la Ruta pacifica reclamano il diritto a soluzioni pacifiche, invocano una stretta mediazione internazionale per il rilascio dei sequestrati, condannando la pratica dei rapimenti ± sempre subita in primo luogo dalle popolazioni civili ± e ogni azione militare che potrebbero metterne a repentaglio le sorti. «Ni una guerra que nos mata ni una paz que nos opprima» (Ne una guerra che ci uccide, ne una pace che ci opprima) ripetono da anni queste donne mentre quotidianamente agiscono per una rieducazione diffusa alla pace e al dialogo, lottando in prima linea per i diritti di tutte e in particolare contro gli omicidi crescenti, silenziosi, impuniti perpetrati ai danni delle donne, perche ± ricordano ± «el cuerpo de la mujer no es bot-õÂn de guerra» (il corpo della donna non eÁ un bottino di guerra). Purtroppo peroÁ, il femminicidio, a Ciudad JuaÂrez in Messico (dal 1993, centinaia le donne assassinate o desaparecidas; si legga nella parte dedicata all'America Latina, ndr) come in Guatemala (392 donne uccise nel 2007), continua ad essere soltanto una delle facce della violenza verso le donne in America Latina: in Colombia esiste una rete di prostituzione che muove milioni di dollari e crea circa 70 mila le vittime, mentre in troppe continuano ad essere violentate, colpite, accoltellate, spesso fra le mura domestiche e ad essere risolti sono solo il 2% dei casi.

Dal mondo alla Sicilia: tanti volti, stessa determinazione Ma la violenza sulle donne, soprattutto quella domestica, non ha confini, basti pensare che in Europa uccide piuÁ del cancro, degli incidenti stradali e delle guerre ed eÁ la prima causa di morte per le donne fra i 16 e i 44 anni. A rischiare la vita per la democratizzazione del loro paese, per i diritti e contro la violenza sono moltissime donne in tutto il mondo: i loro volti si assomigliano un po' tutti in quella espressione testarda, determinata, severa. La stessa che ho visto sul viso di Michela Buscemi, simbolo della rivolta delle donne siciliane ± e non solo ± nei confronti dell'omertaÁ e della logica arrogante del «sistema mafioso»,


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quando la incontrai a Palermo dove ero andata dopo l'assassinio di Falcone e della sua squadra. Poi, una volta diventate amiche, assieme ad altre donne (non solo palermitane), durante un mese di sciopero della fame, indetto dopo un altro tragico assassinio, quello di Borsellino, imparammo a dire: «Ho fame di giustizia, digiuno contro la mafia». Mentre Michela, donna ribelle alla povertaÁ, alla societaÁ maschile, alla societaÁ mafiosa, alla violenza di Cosa Nostra, alla sua stessa madre che si eÁ rifiutata di accompagnarla nella battaglia per chiedere giustizia dei due fratelli uccisi, Salvatore e Rodolfo, ci ricordava: «La mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci». La sfida per tutte, donne di questo mondo, eÁ ora di continuare, di andare oltre la relazione e collocare il nostro agire comune all'interno di processi storici di cui siamo soggetti attivi, cosõÁ come lo sono le donne afghane, palestinesi, israeliane, curde, turche, croate, bosniache, serbe, algerine e tante e tante altre che ci chiedono di non perderci, di non tacere, di non fermarci ma di resistere perche si possa abitare il mondo con amore di giustizia.


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Prefazione / 2

DONNE CHE «FANNO» (UN ALTRO MONDO) Molti dati rimangono negativi: la miseria ha spesso un volto di donna; una su tre eÁ oggetto di violenza; l'analfabetismo eÁ diffuso. Eppure, un dollaro prestato ad una donna ha dieci probabilitaÁ in piuÁ di essere messo a frutto rispetto a un dollaro dato ad un uomo. Sono abili a tessere «reti» e capaci di immaginare un futuro diverso. Per questo ed altro, a Sud come a Nord, sempre piuÁ donne credono in «un altro mondo possibile». E lo fanno. Pur tra difficoltaÁ, ingiustizie, discriminazioni. di Iva Berasi Mana, Vittoria, Jamila, Adriana, Relinda, Maruja, Chea, Irene, L'elenco potrebbe continuare a lungo. Sono solo alcune delle decine di donne che ho avuto il piacere di incontrare negli ultimi anni, da quando sono assessore alla solidarietaÁ internazionale della Provincia autonoma di Trento. Sono donne del Sud e del Nord del mondo. Donne che provengono dai contesti piuÁ differenti, che aderiscono a religioni differenti o non credono affatto, con riferimenti culturali anche molto lontani tra loro. Non si tratta di donne famose, di primo piano. Ai piuÁ i loro nomi non dicono nulla. Non si vedono in televisione, i loro volti sono pressoche sconosciuti. Non peroÁ per le loro comunitaÁ, per le quali esse sono punto di riferimento, spesso l'unico, comunque il piuÁ importante. Segnale concreto di speranza in un quotidiano fatto di difficoltaÁ, ingiustizia, discriminazioni. Donne accomunate dalla convinzione che «un altro mondo eÁ possibile» e dalla sorprendente capacitaÁ di tradurre in atti concreti questa loro convinzione. CapacitaÁ che ha consentito di realizzare i progetti piuÁ incredibili, come il villaggio Ayuub di Merka, in Somalia, oasi di pace e democrazia, in un paese dilaniato dagli scontri dove non si riesce a trovare democrazia e stabilitaÁ; come la «Radio Voce delle donne» di Kabul che, ogni giorno, consente a migliaia di donne di uscire dall'isolamento in cui sono costrette da un potere maschilista e sentirsi parte di una comunitaÁ con altre donne che vivono la medesima situazione di esclusione; come il progetto Mariposa, nella selva ecuadoriana, una lotta quotidiana, con le donne in prima fila, contro lo sfrut-


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tamento della foresta da parte delle multinazionali petrolifere, condotta con la sensibilizzazione e la formazione delle comunitaÁ, che quella foresta abitano e rispettano da sempre. SaraÁ forse un caso, ma i progetti che ho citato, che sono solo alcuni tra le centinaia che la comunitaÁ trentina ha sostenuto in questi anni, vedono come assolute protagoniste delle donne.

Capaci, responsabili, caparbie CasualitaÁ? Credo di no. Non puoÁ esser casuale che la gran parte dei progetti che sosteniamo nascono e si sviluppano grazie all'azione delle donne che ho citato e molte altre come loro. E non per scelta mia o dell'amministrazione, ma semplicemente perche questa eÁ la realtaÁ che ogni giorno ci troviamo davanti. Dunque, perche questa preminenza femminile? Io credo essenzialmente per due ragioni. Primo, perche le donne sono coloro che subiscono maggiormente le ingiustizie e le discriminazioni. Il tasso di alfabetizzazione delle donne eÁ considerevolmente piuÁ basso di quello degli uomini: dei 771 milioni di analfabeti al mondo i due terzi sono donne. La mortalitaÁ femminile legata al parto eÁ ancora molto diffusa: 529.000 donne muoiono ancora oggi per cause legate al parto, una ogni minuto. La violenza, soprattutto quella consumata tra le mura domestiche, eÁ un fenomeno allarmate al Nord come al Sud del mondo. E l'elenco delle situazioni di discriminazione potrebbe continuare. Secondo, perche le donne hanno maggiore capacitaÁ e piuÁ caparbietaÁ per affrontare queste ingiustizie e garantire un futuro a se stesse, ai loro figli e alle loro comunitaÁ. Sociologi e antropologi spiegano con differenti teorie, questo maggior senso di responsabilitaÁ delle donne rispetto agli uomini: vicinanza alla vita derivante dall'essere in grado di procreare, legame alla madre terra, desiderio di futuro insito nella loro natura biologica, capacitaÁ di comprensione e di visione piuÁ allargata delle situazioni, centratura sulla comunitaÁ e non sul singolo individuo o particolare, un ritmo biologicamente piuÁ lento e naturale, maggior propensione all'accoglienza e alla comprensione. Non mi addentro in queste interpretazioni, mi limito ad osservare che effettivamente laddove le donne riescono a prendere in mano il loro futuro e quello delle loro comunitaÁ, le situazioni cambiano davvero, non solo per loro, ma per tutti. Non eÁ un caso che oltre il 90% dei destinatari di progetti di microcredito sia


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donna, e che le donne siano coloro che anche in questo ambito garantiscono le migliori performance. Un dollaro prestato ad una donna ha dieci probabilitaÁ in piuÁ di essere messo a frutto che un dollaro dato ad un uomo. Non si tratta di considerazioni ideologiche. Sono semplici dati di realtaÁ.

Per contare, la voce non basta Le donne del mondo, da Nord a Sud, condividono l'impegno per il raggiungimento di un obiettivo comune: la paritaÁ di genere, che in nessun luogo del mondo puoÁ dirsi raggiunta. La questione femminile a livello globale si snoda in due aspetti principali: il raggiungimento della paritaÁ di genere con la lotta alle discriminazioni; e il contributo delle donne alla risoluzione dei problemi. Sul primo aspetto la prospettiva eÁ decisamente mutata rispetto al passato, e la questione della paritaÁ tra i generi eÁ divenuta una questione di rilevanza sociale e non solo femminile. Ne deriva un rinnovato impegno per diffondere un approccio trasversale, un'attenzione sistematica e diffusa in tutti gli ambiti di azione: avere sempre presente che uomini e donne hanno risorse, opportunitaÁ, ruoli e fasi di vita differenti aiuta a rimuovere all'origine le disuguaglianze. In questo processo eÁ importante coinvolgere anche gli uomini perche abbiano un ruolo attivo nel raggiungimento degli obiettivi di paritaÁ. Il contributo delle donne per la risoluzione dei problemi (eÁ il secondo aspetto) puoÁ senz'altro apportare un valore aggiunto rispetto al contributo maschile: le donne possono essere portatrici di una modalitaÁ «altra» di azione, che segue logiche e modalitaÁ diverse da quella degli uomini per tradizione ed esperienza; le donne possono mettere in campo l'abilitaÁ del tessere reti che, anche se in contesti diversi, hanno dimostrato di possedere in qualunque parte del mondo. Ovviamente il contributo delle donne potraÁ essere tanto piuÁ forte quanto piuÁ forte saraÁ la loro presenza nei luoghi decisionali, quanto piuÁ anche il loro punto di vista troveraÁ spazio nelle sedi istituzionali del potere. Serve peroÁ un salto di qualitaÁ. Sarebbe secondo me semplicistico e sbagliato fermarsi a queste considerazioni. Il mondo eÁ sull'orlo del baratro. Mille indicatori, a partire dai cambiamenti climatici, ce lo segnalano ogni giorno. Solo un paio di anni fa questa affermazione veniva bollata dai piuÁ come puro catastrofismo delle solite cas-


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sandre. Negli ultimi tempi peroÁ la consapevolezza che cioÁ sia drammaticamente vero e attuale, sembra diventare sentire comune. A tale consapevolezza non corrisponde purtroppo una vera e propria presa di coscienza e soprattutto non corrispondono politiche in grado di individuare risposte, alternative, accorgimenti concreti e realistici in grado di contrastare questo pericolo e invertire la tendenza autodistruttiva. Assistiamo a un colossale fenomeno di rimozione, per cui siamo un malato vicino alla fase terminale, ma non ce lo diciamo, perche esplicitarlo acuirebbe la situazione di dolore. Intanto peroÁ la malattia, forse ancora curabile, peggiora e ci avviciniamo al punto di non ritorno. Siamo su una nave che rischia seriamente di affondare e perdiamo il poco tempo prezioso che ci resta in dispute del tutto marginali rispetto alla situazione. Credo che non serva essere ne catastrofici ne mettere la testa sotto la sabbia come gli struzzi. Servono invece consapevolezza, realismo e capacitaÁ di immaginare un futuro diverso. EÁ innegabile che le donne piuÁ degli uomini posseggano queste doti. Sono convinta quindi che se avremo, come spero e credo, una chance di futuro per noi e per il nostro pianeta, questa chance dipenderaÁ in grande misura dalla capacitaÁ delle donne di far sentire la loro voce e far contare le loro capacitaÁ. Quello che serve non eÁ un'ottica sessista di contrapposizione, ma un approccio di genere. Cosa voglio dire? Voglio dire che prima di intraprendere qualsiasi iniziativa, e non mi riferisco solo a progetti di solidarietaÁ internazionale o di cooperazione allo sviluppo, ma a qualsiasi iniziativa indipendentemente da dove si realizzi, eÁ indispensabile porsi alcune domande. Quale ruolo, peso e funzione hanno le donne della comunitaÁ in cui intervengo? L'intervento che propongo in che misura andraÁ a modificare gli equilibri attuali? In quale direzione? Il potere delle donne in quella comunitaÁ ne usciraÁ rafforzato? L'uguaglianza di genere (ricordo che si tratta di uno degli obiettivi del millennio) ne usciraÁ rafforzata o indebolita? Abbiamo davanti agli occhi troppi fallimenti, di troppi progetti, e anche qui non solo di solidarietaÁ internazionale, miseramente naufragati essenzialmente perche non si eÁ dato ascolto e attenzione a questo tipo di domande. Troppo spesso non si sono neppure poste.


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Fare rete in un mondo globalizzato Insisto sulla necessitaÁ di rivolgere lo sguardo all'interno delle nostre comunitaÁ, un po' perche accanto alla delega alla solidarietaÁ internazionale ho anche quella per le pari opportunitaÁ, ma soprattutto perche ritengo fuorviante e sbagliato continuare a ragionare con i parametri del qui e del laÁ, del dentro e del fuori, del Nord e del Sud, sviluppo e sottosviluppo. Nell'epoca dell'interdipendenza e della globalizzazione, non ha piuÁ alcun senso distinguere il mondo sulla base di questi parametri. Abbiamo pezzi importanti di Sud al Nord e viceversa, quello che io faccio oggi a Trento, cosa acquisto, come mi muovo, quanti rifiuti produco, che relazioni sociali instauro, ha riflessi diretti su quanto accade in un altro punto del mondo e viceversa. Per questo forse non ha piuÁ nemmeno senso parlare di solidarietaÁ internazionale, perche l'aggettivo internazionale eÁ pleonastico, un di piuÁ che non serve specificare, scontato: la solidarietaÁ o eÁ internazionale, meglio mondiale, o non eÁ. Perche non possiamo non vedere che tutti i fenomeni sono tra loro interconnessi. E se eÁ cosõÁ anche le risposte non potranno che essere globali. Questo rimanda innanzitutto a una riflessione sul nostro modello di sviluppo, sui nostri stili di vita, sulla coerenza delle nostre politiche, compresa la politica estera. E allora forse il miglior servizio che possiamo fare alle migliaia e milioni di donne che ogni giorno, in ogni parte del mondo lottano per ottenere diritti fondamentali come il diritto all'istruzione, alla salute, all'acqua, alla terra, al cibo, sta nel mettere in campo politiche che valorizzino nelle nostre comunitaÁ le potenzialitaÁ dell'universo femminile, che garantiscano sostenibilitaÁ al nostro futuro, che aprano strade di accoglienza e inclusione, che favoriscano la coesione sociale e il dialogo. Questo non in un'ottica di chiusura in noi stessi, ma al contrario come requisito per costruire e rinforzare reti solidali a livello planetario. Reti che abbiano soprattutto una valenza di incontro, interscambio, di aiuto reciproco, scambio di esperienze e buone pratiche. In questi anni abbiamo lavorato alla costruzione della «Rete internazionale delle donne per la solidarietaÁ internazionale». EÁ un progetto ambizioso, che si affianca e vuole essere complementare con altre esperienze di reti, per collegare, sfruttando le potenzialitaÁ di internet e dell'informatica, gruppi di donne del Sud, del Nord, dell'Est e dell'Ovest del mondo tra di loro, e collocare nella piazza virtuale i loro progetti, le loro idee, le loro lotte, per incontrare l'interesse, il soste-


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gno, la collaborazione di chiunque intenda scommettere su di loro. Si tratta di un progetto ancora in fase nascente, ma che ha giaÁ riscontrato grande interesse tra gli interlocutori a cui eÁ stato presentato. Nei prossimi mesi del 2008, vedraÁ la presentazione ufficiale e partiraÁ la fase di sperimentazione. Sono convinta che questa, come altre esperienze similari, vadano nella direzione di costruire relazioni e alleanze, a partire dal basso, che eÁ quanto di piuÁ intelligente e necessario si possa fare in ambito di solidarietaÁ internazionale.

Dall'assistenzialismo all'incontro e alla reciprocitaÁ Mettersi in gioco, in collegamento, accettare il confronto, scambiarsi esperienze, conduce inevitabilmente a destrutturare quel nostro senso di superioritaÁ per cui siamo convinti di aver sempre e comunque qualcosa da dare e insegnare a chi eÁ piuÁ povero, meno istruito e piuÁ sfortunato di noi. Agire in un'ottica relazionale e di interscambio, rende invece concreto e attuale il concetto di reciprocitaÁ. In uno scambio do e ricevo. Insegno e imparo. Sostegno e vengo sostenuto. Perche sono convinta che, nonostante sia assolutamente privo di qualsiasi fondamento, permanga in noi occidentali questo sentimento di superioritaÁ e sia quanto mai necessario innanzitutto (prendendo a prestito una bella espressione di Serge Latouche) «decolonizzare il nostro immaginario», che trasforma gli altri in vittime, bisognosi, poveri, e noi in salvatori, maestri, benefattori. Tutto cioÁ ci conduce nel vicolo cieco della mancanza di considerazione per gli altri, nella trappola dell'assistenzialismo e degli aiuti umanitari, in una riedizione edulcorata e disonesta del colonialismo mascherato in filantropia. Costruire e rinforzare reti, partenariati territoriali, relazioni tra persone e comunitaÁ va invece esattamente nella direzione opposta. Quella dell'incontro, del rispetto, della valorizzazione delle risorse locali, della costruzione di processi di autosviluppo. EÁ una prospettiva sostenibile perche attiva le comunitaÁ, tutte le comunitaÁ, le loro componenti piuÁ attive e vivaci, a partire dal basso, dalle risorse disponibili, dalle prioritaÁ che vengono individuate autonomamente. Uno sguardo sull'esterno, se fatto con occhi sinceri e senza pregiudizi, puoÁ rappresentare una risorsa importante per la soluzione dei propri problemi, che come detto, ormai non possono piuÁ essere considerati disgiuntamente rispetto al contesto globale. L'abilitaÁ di tessere reti e costruire alleanze eÁ tipica delle donne di qualsiasi latitudine.


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Questa abilitaÁ, in questo preciso momento storico, puoÁ rappresentare un vantaggio competitivo di assoluto valore.

Italia, ottantaquattresima Il rapporto del World Economic Forum The Global Gender Gap Index Report 2007 rileva e misura le disparitaÁ di genere e la loro evoluzione nel tempo. L'indice misura come i paesi del mondo allocano risorse ed opportunitaÁ tra uomini e donne a livello di partecipazione economica, partecipazione politica, istruzione, salute e sopravvivenza. Viene presa in considerazione non la situazione del paese bensõÁ la disuguaglianza tra donne e uomini (cosõÁ, ad esempio, non si penalizza lo stato che dimostra bassi livelli di istruzione ma quello in cui la distribuzione dell'istruzione eÁ diseguale tra donne e uomini). La classifica dei 128 paesi analizzati (pari al 90% della popolazione mondiale) rivela risultati inaspettati ed in parte stravolge l'ordine con cui siamo abituati a vedere elencati i paesi del mondo. Infatti, l'Italia eÁ solo 84esima preceduta ad esempio da Kenya, Bolivia, PeruÁ e Brasile. Questa classifica eÁ una prova, supportata da dati oggettivi, della persistente disuguaglianza di genere a livello mondiale e nessuno, tanto meno i paesi del cosiddetto mondo industrializzato, puoÁ chiamarsi fuori dalla sfida per un mondo piuÁ equo tra uomini e donne. Questo dato dimostra come la supposta differenza o superioritaÁ occidentale, esista solo nella autorappresentazione che facciamo di noi stessi. Un altro esempio di questa situazione si trova osservando la percentuale di donne elette nei diversi parlamenti, che vede al primo posto mondiale l'assemblea del Ruanda, con il 48,8% di presenza di donne. Per rimanere in Africa, con oltre il 30% di donne, il governo mozambicano eÁ assolutamente piuÁ avanzato rispetto alla presenza femminile di quello italiano.

Un tassello chiamato «quote rosa» Nel febbraio del 2008, il Consiglio provinciale trentino ha approvato una modifica alla legge elettorale introducendo le cosiddette «quote rosa». In sostanza d'ora in poi, almeno un terzo delle candidate per le elezioni provinciali dovraÁ essere donna. Certo non si trat-


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ta ancora della perfetta paritaÁ, che si avrebbe con una quota del 50%, ma giaÁ questo eÁ un risultato importante, e per nulla scontato, ottenuto grazie alla mobilitazione delle donne e delle associazioni femminili del Trentino. Ancora una volta, quindi, eÁ stata determinante la volontaÁ delle donne di impegnarsi per un obiettivo comune, superando anche significative differenze di appartenenza. Questa modifica alla legge eÁ un segnale importante per invertire una tendenza, ancora attuale, per cui le donne sono sempre piuÁ capaci, preparate, serie ed affidabili, ma poi piuÁ si sale nelle scale gerarchiche, in qualsiasi ambito, e piuÁ ci si avvicina alla stanza dei bottoni, piuÁ la loro presenza dirada fino a scomparire o quasi. Sono convinta che questa battaglia, assieme alle molte altre portate avanti in questi anni per garantire pari dignitaÁ ed equitaÁ, siano la migliore testimonianza e una delle migliori pratiche che possiamo mettere a disposizione della rete di solidarietaÁ planetaria che la nostra comunitaÁ eÁ impegnata a costruire.


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PARTE I

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TESSITRICI DI SPERANZA In troppi paesi la situazione delle donne non eÁ dignitosa. Tuttavia, il processo di emancipazione femminile, in atto in tutto il mondo, riconosce sempre piuÁ il loro ruolo nella promozione del bene comune e del tessuto sociale. Il cammino da percorrere rimane peroÁ ancora lungo. di Emanuela Baio Sfruttate, oppresse, denigrate, a volte invisibili, eppure incarnano la frontiera della speranza e del bene comune. Donne in trincea, donne dai mille colori, donne del Terzo e, ormai, Quarto mondo, diventano oggi la grande sfida dell'umanitaÁ. Il loro grido di aiuto eÁ arrivato al cuore di chi puoÁ decidere. Qualcosa sta cambiando; erano in pochi a credere, solo alcuni anni fa, che donne come Angela Merkel e Michelle Bachelet (si veda il capitolo a lei dedicato, ndr) potessero guidare una potenza come la Germania e una nazione come il Cile. Non eÁ un processo semplice e neppure scontato, ma puoÁ essere un segno di speranza anche per l'universo femminile del Sud del mondo che chiede dignitaÁ, attenzione, rispetto e promozione. Queste donne rappresentano l'emblema, ma anche il simbolo di un cambiamento in corso. I dati statistici non sono confortanti: analfabetismo, fame, carenze sanitarie, acqua potabile e condizioni igienico-sanitarie adeguate. Eppure, nel puzzle del mondo, non mancano tasselli diversi e sono le donne a viverli, a promuoverli, a farli crescere. Africa, Asia, America Latina e Oceania, milioni di persone con diverse culture, religioni e lingue presentano problematiche e peculiaritaÁ differenti. Tutti sono travolti dal fenomeno dell'economia globale che permea il nostro mondo. A dispetto delle sue grandiose promesse, questo processo si eÁ tradotto in un crescente divario tra ricchi e poveri e, paradossalmente, ha intensificato le interferenze comunicative, proprio in un pianeta «a portata di mano», milioni di persone, soprattutto donne, sono ancora costrette a emigrare. Siamo tormentati dall'impoverimento, dall'assenza di buon governo, dal diffondersi di malattie e dal terrorismo. A dispetto di questo quadro, peroÁ, il popolo del (cosiddetto) Terzo mondo non si eÁ rassegnato al suo destino. In Ecuador, in PeruÁ, in Africa si incontrano donne e uomini che soffrono, ma lottano. La loro profonda spiritua-


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litaÁ, l'impegno per la sopravvivenza e per la difesa della dignitaÁ umana rappresentano un primo grande apporto per questi popoli e un forte segnale di civiltaÁ per tutti noi.

Angela Merkel, tessitrice paziente Popoli di tutti i continenti sono alle prese con l'analisi dei processi storici di sfruttamento che li hanno privati dei loro diritti, della lingua, delle religioni. Le popolazioni indigene hanno ancora di fronte i problemi di culture e terre messe in pericolo. Il diffondersi di questa consapevolezza, la maggiore mobilitaÁ delle donne, ci porta in contatto con realtaÁ raccapriccianti, con storie di diritti violati (come l'infibulazione), ma allo stesso tempo, ci consegna una speranza: in quei paesi il processo di evoluzione passa attraverso le donne, legate alla capacitaÁ di procreare e, forse per questo, piuÁ disponibili al dialogo, alla trattativa e in ultima istanza alla pace. Non eÁ retorico ricordare che sono proprio le donne indigene brasiliane a essere state accanto ai loro uomini, ad averli supportati e amati, anche quando l'alcool li aveva privati della dignitaÁ, ad averli sostenuti per la riconquista della loro terra. Quando tutto sembra franare, le donne rappresentano l'ancora di stabilitaÁ. Diventano il sostegno e l'unica chiave di volta, hanno la tenacia di mandare i loro figli a scuola, perche sanno credere in un futuro migliore. La globalizzazione, in questo senso, eÁ un'esperienza positiva, aiuta donne e movimenti fioriti nel mondo occidentale, a condividere un processo di «emancipazione» umana, che proprio attraverso le donne sta crescendo in tutti gli angoli della terra. Si moltiplicano i progetti di sviluppo che hanno per protagonista l'economia femminile, si registrano importanti esempi di questo modello in Africa con le produttrici di tappeti o in sud America dove la lavorazione del giunco serve da un lato per la sussistenza e dall'altro ad acquisire autonomia e a sviluppare lo stesso concetto di «diritto». Anche nei paesi occidentali qualcosa si muove, l'esempio piuÁ positivo di questa rinascita al femminile, e senz'altro il piuÁ equilibrato, eÁ rappresentato da Angela Merkel: le sue doti di paziente tessitrice ha dato i suoi risultati sul fronte ambientale, all'ultimo G8: eÁ riuscita, seguendo la via del dialogo e del negoziato, a strappare un impegno all'America di Bush, prima «sorda» a questi problemi. Si tratta di un


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esempio chiaro del valore aggiunto di cui eÁ portatrice la componente femminile. Le donne, grandi migranti, sono l'elemento costitutivo della casa e di ogni stato, ma anche di economie virtuose, simbolo dei compiti di cura di anziani e bambini, che nessuna struttura puoÁ sostituire. EÁ evidente insomma che siano piuÁ portate al bene comune.

«Non violenza creativa» Molti sono i paesi del Terzo mondo che, quotidianamente, affrontano le conseguenze di continui e cruenti conflitti religiosi, etnici e di classe. In questo clima, riuscire ad aprire un varco per dare spazio alla cultura del dialogo diventa sempre piuÁ difficile. Difficile l'interazione e l'intermediazione, difficile intravedere tra le distese in fiamme e le numerose vite spezzate, un piccolo segno di speranza. Eppure la speranza c'eÁ, anche negli angoli piuÁ lontani e misteriosi del mondo. Con questa consapevolezza e con la perseveranza che le contraddistingue, le chiese dei paesi dimenticati insistono a cercare una via comune di dialogo tra i popoli, anche di fede diversa, che consenta il superamento dell'intolleranza a favore della giustizia, dell'uguaglianza e della pace. Sono proprio questi i tasselli mancanti che, in questo contesto, evidenziano come e quanto le donne di tutto il mondo, risentano, piuÁ di ogni altro essere umano, dei crudeli meccanismi di discriminazione, emarginazione e violenza. Sono spesso le piuÁ povere tra i poveri, ma lottano contro le strutture gerarchiche e patriarcali in tutte le istituzioni, che siano famiglie, governi, o intere societaÁ. La loro forza e la loro tenacia non ha eguali, supera ogni confine geografico, culturale e politico, possiamo sentirla come un'eco lontana che non perde mai la sua intensitaÁ. In Asia, per esempio, continente ad alto potenziale, che presenta la piuÁ grande diversitaÁ di culture, storia e religioni del mondo, si registra anche una grande quantitaÁ di poveri, oppressi, ridotti in condizioni igienico-sanitarie precarie, senza contare che l'impatto con la globalizzazione aumenta le differenze e conduce a un conflitto interno. Eppure, la solidarietaÁ che viene espressa tra i popoli di tutte le fedi e culture nella lotta per un'umanitaÁ piena, eÁ prepotentemente fiorita. Questa forza silenziosa, che la donna eÁ in grado di sprigionare e che alimenta la lotta per il bene comune, eÁ legata alla categoria non patriarcale che Gandhi ha definito «potere creativo in forma pacifica».


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Violenza e non violenza sono una costruzione sociale e non devono essere legate al sesso. L'input femminista serve a dire che i problemi che le donne del Terzo mondo sollevano sono i problemi del mondo. La riscoperta del principio femminile costituisce la sfida intellettuale e politica al «malsviluppo», inteso come progetto patriarcale. Mentre la distruzione eÁ aggressiva, dunque visibile, l'equilibrio e l'armonia non sono visibili, si sperimentano. Il mantenimento della vita a opera delle donne nel Terzo mondo si basa su questa attivitaÁ celata. Una visione femminile nella donna come nell'uomo, dunque, permette di vivere in una logica di sopravvivenza, in cui alla pianificazione a breve termine, si sostituisce una visione di lungo periodo. Ma eÁ altrettanto chiaro che solo attraverso l'interazione tra i generi, il dialogo puoÁ svilupparsi. Questo consente una spiritualitaÁ autentica, perche il primo passo verso i diritti, eÁ proprio la consapevolezza. Un processo nel quale le donne sono maestre.

Forgiate dal sacrificio e dalle privazioni La millenaria esperienza di duro lavoro nei campi, ha permesso alle donne del Terzo mondo di creare una tipicitaÁ di conoscenze agricole, nelle quali tuttora si distinguono rispetto agli uomini e, da sempre, ha rappresentato una fonte di guadagno e sostentamento. La maggior parte del pianeta ha soddisfatto i propri bisogni alimentari grazie a una agricoltura praticata dalle donne. In questo modo le conoscenze vengono condivise, specie e piante non vengono considerate «proprietaÁ», ma parenti, e la sostenibilitaÁ si basa sul rinnovo della fertilitaÁ della terra, sulla rigenerazione della biodiversitaÁ e delle specie. Questa diversitaÁ di sistemi di conoscenze eÁ la strada da seguire per far sõÁ che le donne del Terzo mondo continuino ad avere un ruolo centrale come conoscitrici, produttrici e approvvigionatrici di alimenti. Ma non basta. Oggi questo equilibrio apparente, sembra minacciato dall'attuale modello agricolo-industriale. Lasciare che le donne si occupino esclusivamente dei campi, contribuisce a costruire un corollario di conoscenze ma, nella pratica, continua a lasciarle in disparte, lontane dalla vita e dagli interessi dell'uomo e viceversa. Come puoÁ esistere integrazione se non si percorre una via comune al dialogo? Proprio attraverso lo sviluppo di una economia settoriale si puoÁ sperare in una rinascita economica e nel benessere sociale. L'i-


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stituzione di piccole aziende manifatturiere potrebbe dare la possibilitaÁ alle donne di emergere anche in altri settori, estendendo le conoscenze, la cultura ma anche i campi di azione. Il settore tessile, per esempio, puoÁ vedere l'utilizzo di manodopera sia maschile che femminile e allo stesso tempo puoÁ rappresentare un terreno di confronto culturale. La miseria, la fame la prostituzione spesso prendono il posto del buon senso e della civiltaÁ che deve credere alla diffusione di buone pratiche come il microcredito. Sono sufficienti pochi euro consegnati a una donna che, impegnata in un progetto di sviluppo locale, sappia trasformarli in una risorsa a vantaggio dell'intera comunitaÁ. Le altre donne combattono ogni giorno sul posto di lavoro per cercare di dimostrare al mondo che esistono, che valgono, che sono in grado. Se pensiamo al Terzo Mondo l'immagine di ritorno che proviene dai nostri ricordi stereotipati ci mostra un quadro assai triste: donne sole in disparte, coperte dall'ombra dell'ignoranza e della discriminazione; donne sfruttate, minacciate, usate come merce di scambio; donne spaventate dagli occhi spenti, rifiuti di una civiltaÁ che le considera inutili, eppure, dietro quell'apparente debolezza si nasconde una determinazione che non ha eguali. I loro passi sono piccoli ma importanti perche spesso «quello che facciamo eÁ solo una goccia nell'oceano, ma se non ci fosse quella goccia all'oceano mancherebbe» (Madre Teresa di Calcutta). Donne forgiate dal sacrificio e dalle privazioni che sanno cosa vuol dire essere dimenticate, oggi piuÁ che mai dimostrano a tutti noi la loro forza.

Uscire dalla spirale Dal rapporto dell'Ilo (Organizzazione internazionale del lavoro) emerge che dei 2,8 miliardi di esseri umani al lavoro, la metaÁ guadagna meno di due dollari al giorno. Degli occupati, le donne sono le piuÁ sfruttate e sono la maggioranza tra i disoccupati. Il rapporto della Fao (Organizzazione per l'alimentazione e agricoltura) mette in luce lo stretto legame tra sottoalimentazione, analfabetismo e frequenza scolastica. Fame e impossibilitaÁ di accedere a un livello minimo di istruzione si coniugano in una miscela letale che colpisce soprattutto loro: due terzi delle donne nel Terzo mondo eÁ analfabeta, con la conseguente riduzione della possibilitaÁ di procurarsi un reddito decente, sono, quindi, le piuÁ colpite dalla fame, che miete 852 milioni di vittime.


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Il rapporto di Amnesty International ci dice che nel xxi secolo le donne sono quelle che pagano il prezzo piuÁ alto alla violenza endemica della guerra, non solo come profughe costrette a lasciare tutto per salvarsi dalle distruzioni dei conflitti bellici, ma come oggetto specifico di violenza che le svilisce in quanto donne. Il rapporto di Amnesty colpisce perche evidenzia come coloro che si macchiano di crimini e violenze contro le donne, godono dell'impunitaÁ che si basa sul trinomio donna-oggetto-proprietaÁ privata. In un mondo in cui continuamente si parla di diritto, giustizia, libertaÁ e democrazia, c'eÁ uno spazio vuoto in cui sprofonda la maggior parte dell'umanitaÁ, le donne, appunto, nei confronti delle quali, tutto eÁ lecito. Oltre allo strapotere violento degli uomini, contribuisce all'impunitaÁ anche l'autocensura, che, sia per paura, sia per consuetudine, da sempre le condanna: in quanto oggetti non possono ribellarsi, rispondere, replicare. EÁ chiaro che parlare di sviluppo economico in un clima simile risulta improbabile, ma la sfida sta proprio qui. Ogni aiuto sia a livello umano che politico-economico deve concentrarsi prima di tutto sul recupero della dignitaÁ della donna a vantaggio della dignitaÁ umana globale. Un'opera complessa che deve garantire la salvaguardia delle singole culture e il rispetto delle differenti religioni e tradizioni. Un esempio concreto ci viene dalla Scandinavia che ha dato il premio Nobel per la pace a una signora africana che da 30 anni si batte cercando di coniugare diritti delle donne, democrazia, economia sostenibile e tutela ambientale: la keniota Wangari Maathai (si veda il capitolo corrispondente, ndr) che lavora con la sua associazione, il «Green Belt Movement», piantando alberi in zone affamate. Con tutto quel che puoÁ voler dire in termini di coinvolgimento delle popolazioni locali e di creazione di un circolo economico virtuoso.


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NON C'EÁ FUTURO SENZA DONNE Sono la maggioranza dei poveri e di coloro che muoiono per malattie curabili. Sono la maggioranza degli analfabeti, dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccapoli. Le donne sono la dimostrazione vivente degli errori e della miopia del potere politico. Eppure, nonostante tutto, in ogni parte del mondo, sempre piuÁ donne lottano per un futuro pacifico, sostenibile, duraturo. di Sabina Siniscalchi Nell'anno 2000 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli «Obiettivi di sviluppo del Millennio»: otto grandi finalitaÁ che dovrebbero consentire al mondo di lasciarsi alle spalle per sempre povertaÁ, ingiustizia e diritti violati. Come molti oramai sanno, anche grazie alle campagne di sensibilizzazione promosse da organizzazioni non governative, sindacati e pubbliche istituzioni, gli Obiettivi del Millennio riassumono gli impegni sottoscritti dai capi di stato e di governo in occasione delle conferenze mondiali realizzate dall'Onu, nel corso degli anni Novanta, sui vari aspetti dello sviluppo: ambiente, popolazione, occupazione, salute, infanzia, paritaÁ di genere. Eventi importantissimi di cui non bisogna perdere traccia e coscienza, che hanno definito con chiarezza e competenza le coordinate di un futuro pacifico, sostenibile e duraturo per l'umanitaÁ. Purtroppo, i piani di azione con cui si sono concluse queste conferenze, anche se sono stati sottoscritti dai governanti sotto i riflettori del mondo intero, sono rimasti largamente inapplicati. Per questo, sette anni fa l'allora segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, ha individuato un pacchetto minimo di otto obiettivi, chiari e condivisi, che potessero essere raggiunti entro il 2015 da tutti i paesi del mondo.

Le donne e i «Millennium Goals» I Millennium Goals prevedono il dimezzamento del numero dei poveri e degli affamati, la scolaritaÁ universale, la paritaÁ di genere, l'abbattimento della mortalitaÁ infantile, la tutela della salute mater-


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na, la lotta all'Aids e alle altre pandemie, la salvaguardia del patrimonio ambientale, l'accesso all'acqua potabile, e, infine, la creazione di una partnership globale per raggiungere insieme il traguardo dello sviluppo. Tre degli Obiettivi del Millennio riguardano esplicitamente e specificatamente le donne: il secondo che punta all'istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti. Tuttavia, eÁ evidente che tutti gli otto goals toccano direttamente la sorte e la vita delle donne, proprio nella misura in cui esse rappresentano la stragrande maggioranza dei poveri, la gran parte di coloro che muoiono per malattie curabili, la percentuale maggiore degli analfabeti, dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccopoli... Le donne sono la prova vivente delle drammatiche condizioni del mondo. Il loro stato eÁ la dimostrazione tangibile degli errori e della miopia di chi detiene le leve del potere politico ed economico.

Italia, paese delle «veline»? Spesso siamo inclini a pensare che le donne vivano male solo in Africa, in Asia o in America Latina, a smentire questa nostra convinzione di comodo arrivano, dai paesi ricchi e industrializzati, i dati sul lavoro precario delle giovani donne, quelli sulle disparitaÁ nelle retribuzioni, quelli sulla condizione delle donne immigrate e sulla violenza domestica. Per quanto riguarda l'Italia, ci ha pensato di recente il Financial Times a sottolineare una condizione apparentemente meno drammatica, ma ugualmente discriminante: il prestigioso quotidiano definisce l'Italia «il paese delle veline». Anche nel parlamento 2008 la percentuale di donne non supera il 20 per cento, mentre giovani donne provocanti e mute vengono utilizzate in abbondanza da pubblicitaÁ e televisione. L'Italia si ferma agli ultimi posti nelle classifiche dei paesi europei. per quanto attiene il ruolo delle donne in politica e in economia. Le donne italiane fanno fatica a raggiungere posti di responsabilitaÁ nelle imprese e nelle istituzioni, basti pensare che solo nel 1995, una donna, Fernanda Contri eÁ diventata, per la prima volta, giudice della


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Corte costituzionale e un'altra, Susanna Agnelli, eÁ stata nominata, sempre per la prima volta, ministro degli esteri. Nella discussa Turchia, dove sono stata nel luglio 2007 ad effettuare il monitoraggio delle elezioni politiche per conto del Consiglio d'Europa, le donne sono presenti in Parlamento con una percentuale dell'11%, una donna eÁ stata fino a pochi mesi fa presidente della Corte costituzionale e una donna eÁ a capo della Confindustria locale. Dunque, nessun paese ha da insegnare ad altri in materia di pari opportunitaÁ, di pieno riconoscimento del ruolo delle donne e di rispetto dei loro diritti fondamentali. La piattaforma con cui si concluse la Conferenza mondiale sulle donne, che si svolse a Pechino nel 1995, rimane largamente incompiuta. Se si escludono progressi nella scolarizzazione delle bambine, gli altri traguardi sono ancora lontani. A Pechino, ad esempio, i capi di governo avevano concordato l'adozione di politiche per riservare alle donne il 30 per cento dei seggi parlamentari, ma dieci anni dopo, solo il 15 per cento di tutti i parlamentari nel mondo sono donne.

Il lato oscuro della globalizzazione Esperti di sviluppo delle Nazioni Unite e leader della societaÁ civile fanno notare che, se alcune tendenze dell'economia mondiale hanno avuto un impatto positivo sulla vita delle donne, ve ne sono altre che hanno indebolito la loro lotta per l'uguaglianza economica e politica. Ad esempio le donne che, a milioni, vivono nelle aree rurali e lavorano in agricoltura sono diventate piuÁ povere e malnutrite a causa del passaggio dalla produzione per il fabbisogno alimentare locale a quella per il commercio e l'esportazione. Anche i tagli alla spesa sociale, che sono stati al centro delle politiche di aggiustamento economico imposte, nel corso degli ultimi vent'anni, ai paesi indebitati da Fondo monetario internazionale (Fmi) e Banca mondiale, hanno comportato una crescita del disagio femminile: in molti paesi in via di sviluppo, le donne hanno perso qualsiasi sostegno pubblico nella cura, nel nutrimento e nell'educazione dei figli, con esiti spesso drammatici, mentre nei paesi industrializzati, sempre in nome del risanamento dei bilanci statali, i servizi pubblici invece di aumentare sono spesso diminuiti; secondo un recente studio dell'Unicef, la condizione dei bambini e delle loro madri eÁ peggiorata in molti paesi dell'Est Europa, passati dall'economia control-


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lata dallo stato all'economia di mercato, a causa dei minori finanziamenti pubblici a scuole, asili, ospedali. Anche l'Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) lancia l'allarme sulla situazione delle donne lavoratrici, specialmente in realtaÁ dove il sindacato eÁ debole o inesistente come nelle zone franche riservate ad aziende straniere che producono per il mercato estero. L'assenza di norme per la sicurezza e la mancanza di qualsiasi forma di tutela sanitaria e di maternitaÁ espone queste lavoratrici e enormi rischi e al ricatto dei datori di lavoro. Secondo l'Oil, l'assenza di decent work (di lavoro dignitoso), in Cina, India ed altri paesi con un elevato tasso di crescita economica, rappresenta il lato oscuro della globalizzazione. La discriminazione contro le donne, sicuramente non eÁ piuÁ stabilita per legge, ma eÁ connaturata a processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie. Ancora in troppi paesi, le donne sono escluse dall'accesso a risorse fondamentali per lo sviluppo, come il credito, la proprietaÁ della terra e di altri strumenti di produzione, la formazione e la tecnologia. Occorre invertire questa tendenza e ripartire dalla consapevolezza che uno sviluppo stabile e duraturo non puoÁ prescindere dal protagonismo delle donne. Sotto questo profilo, la cooperazione allo sviluppo puoÁ svolgere un ruolo fondamentale. Nel gennaio 2007 ho partecipato al World Social Forum di Nairobi, dove la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, eÁ stata formidabile: donne energiche e intelligenti che, a dispetto dei pochi mezzi a loro disposizione, hanno voluto partecipare per portare la loro testimonianza e le loro richieste. Hanno ribadito la volontaÁ di essere artefici del proprio sviluppo e padrone del proprio destino, hanno mostrato gli ottimi progetti e le straordinarie esperienze che hanno saputo mettere in campo con piccoli aiuti. Donne coraggiose e dinamiche che non si arrendono di fronte all'impoverimento del loro continente, che non si rassegnano alla perdita dei loro uomini uccisi dalle guerre o emigrati per cercare lavoro; donne consapevoli della propria dignitaÁ e orgogliose delle risorse del proprio popolo. Donne che hanno molto da insegnare al resto del mondo. EÁ a queste donne che dovrebbe essere indirizzato l'aiuto internazionale, dovrebbero essere loro a ricevere la maggior parte delle risorse economiche che arrivano dai paesi donatori. Purtroppo non eÁ cosõÁ: il Dac (Development Aid Committee) calcola che la quota del-


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l'Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) destinata ai progetti promossi, realizzati e guidati dalle donne eÁ ancora minima. Un approccio che va radicalmente rivisto se si vuole davvero sostenere, attraverso la cooperazione, il cammino di liberazione dal bisogno dei popoli del Sud del mondo.

Spese militari: un insulto alle donne Attraverso il recupero di dignitaÁ e di ruolo delle donne, passa anche la lotta contro la violenza che le brutalizza e le annienta in ogni parte del mondo. Nonostante la Convenzione Onu sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne sia stata ratificata da 179 paesi, la loro incolumitaÁ e la loro libertaÁ eÁ sempre piuÁ minacciata da nuove guerre e conflitti, dal crescente traffico di esseri umani e dal diffondersi dei movimenti fondamentalisti. Gli studi delle agenzie delle Nazioni Unite sulla violenza di genere sono pieni di dati agghiaccianti: si stima che ogni anno quasi un milione di donne sia oggetto di traffico e piuÁ della metaÁ sia destinata all'Europa. Oltre ad essere sfruttate, queste donne sono in balia della violenza di protettori, clienti e persino delle forze dell'ordine. Anche la violenza domestica eÁ un'altra grave emergenza, tanto che il problema eÁ costantemente nell'agenda del Consiglio d'Europa: l'organizzazione internazionale, di cui fanno parte 47 paesi, che ha come finalitaÁ la promozione dei diritti umani e la diffusione della democrazia. Nel Palais d'Europe di Strasburgo si puoÁ visitare una mostra fotografica realizzata da una Ong che si batte contro la violenza sulle donne, per sensibilizzare i parlamentari europei. Un recente studio, commissionato dal governo svizzero, riferisce che una percentuale crescente di donne subisce aggressioni fisiche da parte del partner o di altri componenti maschi della propria famiglia. La violenza domestica imperversa non solo nei paesi in via di sviluppo, che sono spesso carenti in termini di protezione legale, ma anche nelle societaÁ industriali sviluppate, secondo la ricerca svizzera, intitolata «Donne in un mondo insicuro», negli Stati Uniti, per esempio, nonostante le rigide leggi contro la violenza di genere, una donna su quattro eÁ vittima di abusi. A Nairobi mi ha colpita l'affermazione di June Zeitlin, del Wedo (organizzazione per l'ambiente e lo sviluppo delle donne, un network


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internazionale che raggruppa decine di associazioni di ogni regione del mondo): «Si fa molta retorica sui diritti delle donne, ma gli interventi concreti sono del tutto insufficienti. Nonostante le promesse fatte a Pechino dieci anni fa, ancora oggi ben 40 paesi si rifiutano di adottare una legislazione contro la discriminazione contro le donne, inoltre anche in paesi in cui questa legislazione eÁ vigente sopravvivono costumi e tradizioni fortemente pericolosi per le donne». Basti pensare che in India sono oltre 700 le donne uccise nel 2006, ma meno del 2% dei responsabili eÁ stato condannato per omicidio. La violenza sulle donne eÁ aggravata anche dalla stato crescente di guerra che caratterizza il mondo dall'inizio del Millennio. EÁ come se le donne perdessero terreno di fronte all'escalation militare e alle crescenti spese per la difesa e gli armamenti di molti governi; le risorse per gli interventi sociali e la cooperazione scarseggiano, ma ogni anno si spendono secondo i dati del Sipri (l'Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) ± mille e duecento miliardi di dollari in armi, una cifra che rappresenta 25 volte la spesa necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio!

«Cittadine di seconda classe», ma... Purtroppo se n'eÁ parlato poco sui nostri giornali, ma all'inizio di quest'anno 200 tra scrittrici, artiste, parlamentari e attiviste sociali degli Stati Uniti hanno lanciato un appello alle donne di tutto il mondo per dare forma a un'alleanza globale contro la guerra. «Ne abbiamo abbastanza della guerra insensata in Iraq e del crudele attacco ai civili in tutto il mondo», si legge nell'appello. «Abbiamo seppellito molti dei nostri amati e visto troppe vite mutilate per sempre. Questo non eÁ il mondo che vogliamo per noi e per i nostri figli». Anche nei paesi che non sono colpiti dalla guerra, la condizione delle donne resta dura: cittadine di seconda classe sia nel mondo ricco che nel mondo povero. Nonostante questo, le donne continuano a lottare e alcune, sia pure ancora troppo poche, riescono a farsi strada nel mondo politico ed imprenditoriale. Senza andare molto indietro nel tempo, vorrei citare tre esempi di successo che si sono verificati negli ultimi due mesi del 2007. Nel luglio 2007, in India, Pratibha Patil eÁ stata eletta presidente


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della repubblica, si tratta della prima donna capo di stato nella storia della potenza asiatica. Una nomina forse determinata piuÁ dagli interessi dei partiti in lizza che dal carisma della candidata, tuttavia la presenza di una donna al massimo livello istituzionale ha generato grandi speranze tra le donne indiane, anche perche in passato la Patil ha operato in organizzazioni femminili e si eÁ battuta per i diritti delle donne del suo paese. Il 2 e 3 agosto 2007 si eÁ svolto a Quito in Ecuador un incontro dal titolo «Donne che trasformano l'economia». Vi hanno partecipato un centinaio di rappresentanti di organizzazioni femminili di vari paesi dell'America Latina, che hanno messo in atto iniziative di resistenza all'economia neoliberista e al Cafta (il trattato di libero commercio tra Stati Uniti e Centroamerica). «Non siamo venute qui solo per dire no al Trattato e allo strapotere delle grandi corporations ± ha detto alla stampa Ana Felicia Torrse del Costa Rica ± siamo venute anche per dire sõÁ: sõÁ alla vita, sõÁ ai diritti, sõÁ all'educazione, alla casa, alla sicurezza alimentare. L'economia deve avere questi come obiettivi prioritari!». Il 7 agosto 2007 le donne del Kenya hanno lanciato la campagna «Un milione di firme per 50 posti», un'iniziativa di pressione sul Parlamento per far approvare una proposta di legge che riserva 50 seggi speciali alle donne. Tra gli ideatori della campagna, c'eÁ Martha Karua, ministro per la giustizia e degli affari costituzionali, una politica convinta che i suoi colleghi maschi siano piuÁ influenzabili da una mobilitazione che da tanti studi e dibattiti. Martha Karua ha spiegato cosõÁ la proposta: «Si tratta di una misura di breve termine che puoÁ contribuire a sradicare le grandi disparitaÁ tra uomini e donne presenti nella societaÁ keniota e che si riflettono nella rappresentanza parlamentare».

Nonostante tutto, «Occorre andare avanti» Alcuni anni fa Gertrude Mongella, giaÁ ministro della Tanzania e fondatrice dell'Ong Awa (Advocacy for Women in Africa), che attualmente eÁ la prima Presidente del Parlamento pan-africano (ne parla anche questo libro): «Ci sono stati molti cambiamenti dalla Conferenza di Pechino, e molto positivi. L'uguaglianza di uomini e donne sta diventando una realtaÁ, non eÁ piuÁ solo un argomento di cui conversare. Non abbiamo ancora raggiunto tutti i traguardi che ci eravamo


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prefissi a Pechino, per varie ragioni, ma si sono fatti molti sforzi riguardo alla disuguaglianza e alla discriminazione contro le donne. Ci sono leggi che puniscono la violenza contro le donne, leggi che richiedono una percentuale minima di rappresentanza femminile a diversi livelli nella societaĂ . Sono i primi risultati della conferenza di Pechino, occorre andare avantiÂť.


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