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Fiorenzo Emilio Reati
LA SAPIENZA DEL CUORE INTRODUZIONE ALLA SPIRITUALITÀ ORIENTALE Prefazione di Fabio Mantovani
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© Il Segno dei Gabrielli editori 2016 Via Cengia, 67 – 37029 San Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 – fax 045 6858595 info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it Tutti i diritti riservati ISBN 978-88-6099-284-0 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, San Pietro in Cariano (VR), Gennaio 2016
Per la produzione di questo libro è stata utilizzata esclusivamente energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili ed è stata compensata tutta la CO2 prodotta dall’utilizzo di gas naturale.
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Indice
Prefazione, di Fabio Mantovani Presentazione, L’apoteosi del sacro
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Introduzione, L'idea di teologia mistica 21 Sviluppo dell'idea dentro l’ortodossia bizantina 23 Sulla Chiesa ortodossa: alcune precisazioni preliminari 23 L'unità di dogma ed esperienza nella Chiesa ortodossa 25 “Lex credendi, id est lex orandi” 28 PARTE PRIMA 33 I. Le Divine Tenebre o della “Docta Ignorantia” 35 La teologia apofatica dei Padri Cappadoci 38 La “controversia esicasta” 43 II. Dio Trinità 49 La posizione di Giovanni Damasceno 52 Sulla monarchia del Padre 56 Sguardo alle Dogmatiche ortodosse 59 III. Le energie divine increate 63 La dottrina delle “energie” 66 IV. Sul Filioque 71 La posizione del teologo russo V. Bolotov 74 V. L’economia del Figlio 77 Lo Spirito Santo, “chiave del mistero” del Figlio 81 La festa della Trasfigurazione, chiave delle feste ortodosse 84
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Cristologia “asimmetrica” 88 L'esperienza di Cristo nell'icona 92 L'icona: vedere nel visibile l'invisibile 96 L'icona “non fatta da mano d'uomo” 99
VI. L’economia dello Spirito Santo 103 Credere grazie al soffio dello Spirito 106 Lo Spirito custode dell'unicità del credente 111 L'economia dello Spirito Santo nell'esperienza liturgica e artistica 116 La “divinizzazione”, opera dello Spirito 120 Il santo, epifania dello Spirito 123 Pregare nella forza dello Spirito Santo 130 PARTE SECONDA 135 I. Il mistero della divinizzazione 137 La “sinergia”, idea chiave dell’antropologia ortodossa 140 II. La chiesa “eucaristica”: l’ecclesiologia ortodossa oggi 145 L’ecclesiologia di N. Afanasev 147 L’ecclesiologia di I. Zizioulas 150 III. Sui “misteri” (o sui “sacramenti”) nell’esperienza ecclesiale
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IV. L’escatologia ortodossa
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Bibliografia 167
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Prefazione APRIRE IL CUORE A DIO
Le vicende storiche che hanno determinato le divisioni interne al cristianesimo hanno purtroppo disperso ricchezze spirituali che erano all’inizio un prezioso patrimonio comune. La speranza di ristabilire l’unità, voluta da Gesù («… che tutti siano una sola cosa...»), è comunque già oggi realizzabile nel cuore di ogni credente, purché si compia il primo passo: conoscere meglio il cristiano altro da me. Ci avvicina all’Ortodossia questo limpido scritto di padre Fiorenzo Reati, nel cui titolo il termine cuore è la sua chiave di lettura. Per questo motivo cerchiamo di anticipare il significato di “cuore”, che la tradizione ortodossa considera «il centro dell’esistenza umana».1 Bisogna «aprire il cuore a Dio in modo che nel cuore scenda l’energia del divino amore».2 Queste parole di Pavel Florenskij evocano gli stupendi versetti dell’Apocalisse: «Ecco, sto presso la porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce ed apre la porta io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me».3 Se ne deduce che il cuore è lo spazio interiore del proprio essere, aperto oppure chiuso all’Amore di Dio. Sembra che la prima condizione si realizzi quand’è desiderata fortemente, come accadde a Zaccheo! Per vedere Gesù si arrampicò su un sicomoro e per questo suo semplice ge1 2 3
http://verapravoslavnaya.ru/Serdce-alf Citazione dell’Autore a p. 141. Cfr. Ap 3,20.
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sto, Lui gli disse: «Scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua».4 Quanto detto avrà molta o scarsa risonanza nel lettore, a seconda della sua predisposizione d’animo, in quanto l’Ortodossia ha storicamente approfondito la viva esperienza del cuore e il Cattolicesimo ha invece privilegiato la comprensione del cuore alla luce della ragione.5 I due diversi approcci si palesano persino nelle immagini sacre: in Occidente sono generalmente raffigurate nel nostro mondo e da un punto di vista soggettivo (“rinascimentale”); in Oriente sono pensate in cielo mediante prospettive multiple (“medievali”) ed i simboli rappresentati dai colori.6 Di fronte all’icona della SS. Trinità di Rublěv, il cattolico forse si affatica nell’interpretarla razionalmente, mentre l’ortodosso è sollecitato ad aprire il suo cuore all’Amore trinitario (e quando ciò avviene, «non è il tesoro che viene trasformato dal cuore, piuttosto è il cuore che si trasforma conformandosi al tesoro»).7 Allo stesso modo, l’icona che campeggia in copertina ha per noi cattolici un significato alquanto oscuro, mentre gli ortodossi sono indotti a pensare che l’ascesa al cielo del profeta Elia, su un carro di fuoco, è cagionata soltanto dall’Amore di Dio, raffigurato da un grande cuore fiammeggiante. Differenze si notano anche nelle visioni del mondo di due straordinari esponenti della cultura cattolica e ortodossa, Pierre Teilhard de Chardin e Pavel Florenskij.8 Il
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Cfr. Lc 19. D’altronde, la filosofia occidentale è soprattutto fondata su “l’esprit de géométrie” (Pascal). 6 P. Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, Gangemi Editore, Roma 2003; P. Florenskij, Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano 1995. 7 P. Florenskij, La concezione cristiana del mondo, Ed. Pendragon, Bologna 2011, p. 47. 8 F. Mantovani, Pierre Teilhard de Chardin et Pavel Florenskij, rivista “Choisir”, n° 544 - Avril 2005; F. Mantovani, Nayka i Vera v dialoge, Izdatel’stvo S. Peterburgskovo Universiteta 2007, pp. 52-62. 5
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primo percepisce attraverso la scienza che Dio è ovunque presente nella trasparenza della materia e che l’umanità è attirata verso l’alto dal Cristo risorto, sino alla sua unificazione nel Punto Omega. Il secondo ritiene che la scienza non sia nient’altro che simbolo: la verità è trascendente. Teilhard pensa che l’umanità, unificandosi gradualmente, formi attorno al globo la Noosfera (dal greco nous, mente). Della stessa opinione è Florenskij, che però da buon ortodosso preferisce sottolineare la natura spirituale delle relazioni umane con il termine Spiritosfera.9 Ma per tutt’e e due l’amore è più importante del sapere, è la sola via per la salvezza individuale e collettiva. Teilhard de Chardin ammette che le sue idee scientifico-filosofiche non lo rendono più caritatevole dell’umile persona orante accanto a lui10 e Florenskij s’inginocchia accanto allo starec Isidoro, che non sapeva nulla di filosofia e di teologia, ma la cui vita santa stava al di sopra del mondo.11 C’è perciò convergenza sull’essenziale e i concetti difformi potrebbero essere integrati in visioni più ampie. Giovanni Paolo II auspicò con forza che la Chiesa «torni a respirare pienamente con i suoi “due polmoni”: l’Oriente e l’Occidente».12 Il suo invito aveva primariamente lo scopo di favorire il dialogo ecumenico «oggi più che mai necessario», ma è legittimo pensare che fosse anche diretto al singolo credente, la cui crescita personale è legata al miglior uso della ragione e alla progressiva sensibilizzazione del cuore. Perciò quanto prima detto a proposito dell’apertura del cuore nei riguardi di Dio deve essere tenuto presente anche nei rapporti fra le persone. Infatti l’apertura del proprio cuore è di per sé un atto di 9
n. 2.
Cfr. Perepiska V.I. Vernadskovo P.A. Florenskovo, “Novyj mir” 1989,
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P. Teilhard de Chardin, Il Cuore della materia, Ed. Queriniana, Brescia 1993, p. 85. 11 P. Florenskij, Il Sale della Terra, Ed. Qiqajon, Magnano (BI) 1992, p. 25. 12 Cfr. Lettera Enciclica Redemptoris Mater, n° 34.
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amore, perché accoglie nella propria interiorità il cuore dell’altro, addirittura senza l’attesa o la pretesa di essere contraccambiati. O apertura del cuore o fredda inospitalità. I cristiani “sanno bene” che l’alternativa è questa, ma purtroppo, osserva giustamente Olivier Clément: «Essere cattolici o ortodossi non vuol dire necessariamente essere cristiani».13 I secolari conflitti teologici hanno cristallizzato profonde divisioni fra cattolici e ortodossi, sino alla reciproca lontananza ed estraneità, nonostante l’estrema chiarezza delle parole evangeliche: «…Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».14 Per poter sin d’ora respirare con “due polmoni”, i fedeli non possono certo attendere la conclusione di secolari controversie teologiche. «Dove sta la verità? – scrive padre Fiorenzo – Le prospettive orientale e occidentale sono differenti, non contraddittorie, entrambe legittime, ma quella orientale si ispira all’incontro diretto con le Persone divine».15 È un concetto applicabile ad ogni pagina di questo libro, nel senso che il lettore dovrebbe sentirsi libero di far propria qualsiasi idea che lo arricchisca spiritualmente. Fabio Mantovani
13 F. Morandi e M. Tenace, Fondamenti spirituali del futuro. Intervista a Olivier Clément, Ed. Lipa, Roma 2009, p. 38. 14 Gv 13, 35. 15 Cfr. p. 62.
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Presentazione
L’apoteosi del sacro
Nella spiritualità ortodossa vige un principio suggestivo, affascinante, secondo il quale tutto l’uomo, compreso il suo corpo e i suoi sensi, è oggetto e soggetto di salvezza. Questa affermazione di principio dev’essere sperimentata già in questa vita sulla terra: Dio, il divino, si fa sentire nella percezione corporea dei sensi, nella fisicità dei sensi spiritualmente trasfigurati. La partecipazione ad una festa ortodossa è una esperienza eccezionale, densa di emozioni: ci si sente immersi totalmente, anima e corpo, in un’atmosfera sacra. Sia che si festeggi un episodio della vita del Signore, o di un santo o di una icona, l’edificio sacro è animato da grande folla, i cori (spesso più cori in dialogo tra loro) cantano inni di grande bellezza e di profonda commozione mistica, l’interno è tutto illuminato dalle candele, le pareti sono tappezzate da icone, gli incensi profumano l’atmosfera: festa dell’anima, del corpo, di tutti i sensi, di tutto l’uomo e ovunque i fiori profumati adornano l’interno e l’esterno della chiesa. È come se il mondo della materia, certamente nelle sue forme più preziose, più alte e nobili, divenisse trasparente, luminoso, profumato ed elevasse una preghiera a lode del Signore. Anche i prodotti naturali, più spesso i generi alimentari, diventano parte costitutiva del rito e si trasformano in veicoli di trasmissione del sacro: i fedeli li consumano sul posto o li portano a casa. Ci sono anche le uova colorate e le torte, nella grande festa della Pasqua, che in Russia i preti benedicono con abbondante acqua santa, ci sono i canestri di frutta benedetti il 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, ci sono il basilico profumato il 14 settembre, festa della Esaltazione 11
della croce, e infine le foglie di alloro il Sabato Santo, che i fedeli si portano a casa. Ricordiamo le torte di grano bollito, impastato con farina, frutta secca e spezie benedette nella commemorazione dei defunti. Ci sorprende il frequente ricorso alle cose materiali quale veicolo del sacro, capaci pertanto di aprire l’uomo al rapporto con Dio in una esperienza religiosa, quale quella ortodossa, segnata da una forte tensione ascetica, che presuppone dunque la rinunzia ai beni della terra per conseguire i beni celesti; sappiamo delle accuse di eccessivo spiritualismo, mosse alla spiritualità ortodossa. Ma sappiamo anche che la spiritualità ortodossa ha fatto del rapporto con la materia oggetto di una profonda riflessione teologica. La grande, affascinante teologia ortodossa del mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, pegno e promessa della divinizzazione (in greco theosis, in russo obožestvlenie) dell’uomo, implica l’assunzione della materia creata da parte del Dio creatore. La materia, che entra nella composizione dell’uomo corporeo, un tempo contaminata dal peccato, assunta da Cristo nell’Incarnazione e liberata dalla corruzione, diventa fonte di salvezza. Citiamo la celebre massima teologica di Giovanni Damasceno: «Non cesserò di venerare la materia, grazie alla quale è stata operata la mia salvezza». Il coinvolgimento della materia nell’economia della salvezza è ancora più profondo nella teologia dei sacramenti, della quale i prodotti della terra, pane, vino, olio, sono parte integrante. Esiste nella prassi liturgica ortodossa la cosiddetta artoclasia (letteralmente, divisione del pane): spesso dopo la fine dei vespri, quando c’è grande affluenza di popolo, il sacerdote benedice cinque grandi pani, con vino, grano ed olio, poi li spezza e distribuisce affinché i fedeli li consumino. Si tratta di sola benedizione; ma per lo stesso principio, a livello dei sacramenti, accade un evento ancora più straordinario che tocca la stessa sostanza di quegli elementi. In virtù dell’azione liturgica la materia creata subisce un processo di sublimazione, una trasfigurazione: è appunto in 12
tale trasfigurazione che questi elementi trovano la loro autentica ragion d’essere, che realizzano pienamente il fine per cui sono stati creati: non solo nutrono il corpo e rallegrano il cuore dell’uomo, ma comunicano all’uomo (in particolare nel battesimo, nella crismazione, la nostra cresima, e nell’eucaristia) la grazia santificante, la vita divina. Questa redenzione della materia, che ha nella carne assunta dal Figlio di Dio il suo inizio e in una coerente teologia sacramentaria la sua interpretazione, ha un effetto sorprendente sulla valutazione del mondo creato, solo in apparenza in contraddizione con il drammatico senso del peccato, pur molto sentito nella spiritualità ortodossa. Per capire questo, è opportuno un riferimento all’ideale monastico così come è vissuto nell’Ortodossia: la sofferta consapevolezza che il peccato ha inquinato in profondità l’uomo, determina quella opzione così radicale, rappresentata dal monachesimo. Nella chiesa ortodossa il monaco è semplicemente il cristiano coerente sino in fondo nella sua scelta religiosa e dunque per tutti esemplare; ma come il monaco è l’uomo nuovo, che trasfigura l’uomo vecchio, così il vecchio mondo, quello profano e peccatore, è pienamente immerso nella realtà del sacro. «All’inimicizia dell’uomo nei confronti di Dio, segue la sua divinizzazione: l’argilla è intronizzata sul trono di Dio», scrive San Giovanni Climaco. Il forte senso del sacro tipico della religiosità ortodossa da un lato, e dall’altro gli aspetti, almeno in apparenza, materialistici della sua pietà non sono segno di una fede ingenua e forse un po’ superstiziosa, ma piuttosto di una sensibilità spirituale molto raffinata. Come è noto, l’ortodossia trova nel culto delle immagini (in particolare nelle icone) e delle reliquie una sua espressione privilegiata. Quando si festeggia l’anniversario di una icona (della sua produzione, del suo ritrovamento o della traslazione) oppure delle reliquie di un santo (ancora del ritrovamento o della traslazione), l’affluenza di popolo è sempre ingente nei luoghi dove sono esposte alla venerazione: spesso la 13
chiesa o il monastero rimangono aperti tutta la notte e per molti giorni, cosa che accade di raro in occidente nelle feste patronali di chiese. Abbiamo già citato l’icona. Tutti noi cattolici sappiamo dell’amore all’icona degli ortodossi: essa indica una presenza nell’assenza, la visibilità dell’invisibile, finestra aperta sul mistero; essa è certamente una potente materializzazione del sacro. A differenza del cattolicesimo, nel quale l’immagine sacra ha una funzione strumentale, utile per l’insegnamento ai fedeli o per l’elevazione spirituale dell’anima di chi prega, nell’Ortodossia il ruolo dell’icona è essenziale: basti pensare alla posizione centrale da essa occupata nel culto liturgico, in cui è oggetto di incensazione, cosa che non accade nella liturgia cattolica. Quanto alla fondazione teologica del culto dell’icona, citiamo le parole del grande teologo bizantino Gregorio Palamas (1297-1359): «Al divieto biblico “non ti farai alcuna immagine”, noi diremo: “sì, ti farai delle immagini”»16. Diciamo subito che l’icona è espressione senza dubbio ortodossa della cristologia: su di essa non è raffigurata la natura divina di Cristo (è ovvio che la natura divina non può essere rappresentata, essa è invisibile) e neppure la sola natura umana (che non è mai disgiunta da quella divina), ma l’unica persona, che è l’ipostasi divina ed umana del Figlio. Il divieto veterotestamentario si riferisce alla natura divina spirituale e dunque invisibile di Dio, che non può in alcun modo essere rappresentata: ogni tentativo di questo tipo sarebbe una bestemmia. Le cose cambiano nel Nuovo Testamento: Dio, avendo assunto nel Figlio una integra natura umana, si è reso visibile, rappresentabile; pertanto l’iconomachia, cioè la diffidenza nei riguardi delle icone, è un’eresia cristologica. L’icona, in quanto vuole dare visibilità all’equilibrio cristologico, è la visualizzazione simbolica dell’Ortodossia. A questo allude il fatto che J. Meyendorff, Gregorio Palamas e la mistica ortodossa, Torino 1976, p.73. 16
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la festa della vittoria dei difensori del culto delle immagini sugli iconomachi (843), che viene commemorata la prima domenica di Quaresima, ha preso il nome di festa dell’Ortodossia. Dal fatto che l’icona riflette l’equilibrio cristologico, i teologi dell’icona hanno dedotto il superamento del dualismo spirito-materia, latente nelle radici culturali dell’ellenismo. La materia, in virtù del mistero dell’Incarnazione, è stata non solo redenta, ma santificata. Scrive S. Giovanni Damasceno: «Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che si è fatto materia per me e si è degnato di abitare nella materia e di operare la mia salvezza attraverso la materia». Abbiamo detto che sull’icona è riprodotta non la natura, ma la persona: questo conferisce all’immagine una forza straordinaria, rende presente la persona trasfigurata, in statu gloriae. Quanto vale per il Signore sempre rappresentato nella gloria, vale anche per il santo, che vive in anticipo nella gloria del mondo futuro: la gloria futura traspare già nel mondo presente. L’icona non è il ritratto di un defunto, è la rappresentazione di un uomo già trasfigurato dal processo di divinizzazione. Nell’icona da un lato si ritrae il personaggio sacro con molta attenzione alla fisionomia individuale tramandata dalla tradizione e dall’altro lo si raffigura immerso nella gloria in quanto già partecipe del divino: «Nell’icona il mondo visibile si apre sul mondo invisibile» (Pavel Florenskij). L’arte dell’icona (pur nella varietà delle sue tecniche, la pittura su legno, l’affresco, il mosaico, lo smalto e il ricamo) è sempre un’arte del tutto autonoma e si conforma a criteri figurativi non riconducibili ai soli criteri estetici di valutazione di una qualsiasi opera artistica. Non è una pittura ingenua (diciamo: naïf): essa usa un procedimento molto elaborato che è ad un tempo teologico e tecnico (le due cose fuse insieme), che riflette nella materia la luce del mondo futuro. Le sue regole surreali (essa non solo capovolge le norme abituali, ma addirittura presenta una prospettiva rovesciata) sono finalizzate a mettere in 15
luce la dimensione metafisica di quel mondo di cui l’icona vuol essere lo specchio. Quanto alle reliquie, anche se il santo non è più nelle sue spoglie mortali poiché la sua anima è emigrata in cielo, i suoi resti mortali ne perpetuano la presenza: tale convinzione è talmente forte che induce il devoto a vincere la naturale ripugnanza verso i cadaveri. La reliquia corporea, che nella cultura greco-romana precristiana era oggetto di paura e di orrore, diventa oggetto di amore e di venerazione. La reliquia è un “corpo” speciale, perché in essa si verificano fenomeni eccezionali che manifestano in pubblico la santità della persona, cui apparteneva in vita. Nella fase storica “bizantina” si dava grande importanza all’incorruzione (totale o parziale) del corpo quale segno della futura resurrezione dei corpi. Il fatto che la legge naturale della dissoluzione del corpo del santo, già venerato in vita per le sue virtù, fosse come sospesa, era segno che egli era già entrato nella gloria, il santo era già assimilato alla condizione gloriosa del Signore. Questo fenomeno trovò in Russia un peculiare rilievo: l’incorruzione è stata sempre interpretata dalla sensibilità popolare come una condizione essenziale per la canonizzazione dei santi. Ricordiamo l’impressionante racconto che Dostoevskij ci offre nei Fratelli Karamazov a proposito dello sgomento provato dai devoti dello starez Zosima davanti ai segni di dissoluzione del suo corpo. Nell’ortodossia russa la virtù taumaturgica delle reliquie (certo se documentata) è segno sufficiente per canonizzare un santo, anche se della sua vita non si ha alcuna notizia sicura: ad esempio, citiamo sant’Artemij di Vercola, santo a noi sconosciuto dal punto di vista storico. Nell’ortodossia greca prevalgono altri indici di santità, egualmente cari ai fedeli: il colore delle ossa (che può essere giallo anziché bruno); la myrovlisia, l’essudazione da esse di un liquido oleoso e profumato; l’evodia, l’emanazione dalle ossa di un intenso e gradevole profumo: fenomeni diversi rispetto a quello dell’incorruzione, dominante in Russia, ma dal significato identico nel senso che la 16
reliquia testimonia comunque lo status gloriae del santo. Icone e reliquie sono, come detto, due forme di una presenza nell’assenza del Cristo, della Vergine e dei santi, due forme grazie alle quali il sacro si materializza senza perdere la sua trascendenza: nel visibile si svela e insieme si vela l’invisibile. Ad esprimere venerazione per questa presenza del sacro i fedeli si prostrano, con molti segni di croce: la prostrazione può essere totale, se i fedeli toccano il suolo con la tempia, o parziale, se fanno un profondo inchino e poi toccano il suolo con la mano destra prima del segno di croce; i fedeli poi baciano l’icona o la reliquia. Come è noto, prostrazione e bacio sono tratti dal rituale imperiale di omaggio al sovrano come persona sacra. Per garantire la possibilità ai fedeli di baciare l’icona, per consentire un rapporto diretto, quasi fisico, tra il fedele e l’icona tramite il bacio di venerazione, le coperture delle icone in metallo sbalzato, argentato o dorato, lasciano scoperti i volti, le mani e i piedi. Per la stessa ragione i reliquiari ortodossi hanno una forma particolare (ben diversa da quella dei reliquiari cattolici): una parte della reliquia è lasciata scoperta affinché il fedele possa avere con essa un contatto fisico. Perché mai questo bisogno di contatto fisico? Non si tratta di superstizione o di ingenua devozione: il credente ortodosso crede che questo contatto è necessario per attingere la grazia, che dall’icona gli è donata in quanto in essa è presente il prototipo e che dalla reliquia gli è pure assicurata in quanto in essa è presente quella energia divina che inabitava nel corpo del santo da vivo. Il credente ortodosso crede anche che basti un bacio molto breve (in singolare contrasto con le lunghe ufficiature), come se in quell’istante potesse con un bacio e con un tocco della fronte ricevere in dono l’abbondanza della grazia: come se l’icona e la reliquia agissero sull’anima del credente con una loro forza misteriosa. Altro gesto di culto del fedele ortodosso è l’accensione della candela (o di più candele per i suoi familiari), accompagnata anch’essa da ripetuti segni di croce. Le chiese ortodosse, nelle quali filtra poca luce naturale per 17
le dimensioni anguste delle finestre, sono inondate dalla luce delle candele: l’atmosfera suggestiva del loro interno è determinata dalle molte fiammelle tremolanti, quasi a significare le molte mani degli oranti alzate in trepida e supplice preghiera. Altre luci, dagli svariati colori, sono le lampade ad olio che si riflettono sui metalli preziosi delle icone e dei reliquiari o sulle stoffe ricamate in oro. Le candele sono di cera naturale giallo-bruna, simbolo per eccellenza della pietà ortodossa. Queste candele, di altezza diversa, ma tutte sottili, si piegano con il calore, dando ai candelieri color oro l’aspetto tipico di una selva di piccoli alberi luminosi crepitanti. Anche le molte lampade ad olio, che ardono appese davanti alle icone e alle reliquie esposte alla venerazione dei fedeli, sono un segno della pietà ortodossa: esse pure contribuiscono a creare quel clima suggestivo di ombra e di luce, quel senso del mistero che propizia l’elevazione dell’anima al Dio altissimo. Spesso i fedeli intingono le dita nell’olio delle lampade e si ungono la fronte o altra parte del corpo: credono che l’olio delle lampade è impregnato della virtù taumaturgica dell’icona o della reliquia del santo. I partecipanti alla veglia notturna delle grandi feste vengono unti sulla fronte e sulle mani dal celebrante che attinge con un pennello l’olio dalla lampada dell’altare, poiché l’olio è veicolo di misteriose forze terapeutiche. Per sperimentare l’atmosfera di intensa suggestione creata dall’illuminazione, durante il culto, in una chiesa ortodossa bisognerebbe partecipare alle grandi feste e alle veglie notturne, che sono di antica origine monastica: dalle piccole finestre non entra la luce, ma l’interno della chiesa è avvolto da un gioco finissimo (forse studiato ad arte) di luci ed ombre, da un clima mistico intenso, che tocca il cuore e il corpo, tutto l’uomo nel suo orientamento verso il Signore. Anche la suggestione delle luci è parte di una esperienza liturgica nella quale è coinvolto l’uomo intero. Non si tratta di creare un effetto estetico, ma di una esigenza intrinseca del culto ortodosso, in virtù della quale l’uomo è 18
chiamato a coinvolgere nella preghiera tutti i sensi: è noto che la dottrina dei sensi spirituali è nata in Oriente con Origene e trova in Gregorio Palamas (il teologo ortodosso per eccellenza) la sua matura formulazione dogmatica. Il gioco delle luci, lo splendore dei paramenti dei sacerdoti, coloratissimi e meravigliosamente ricamati, la bellezza delle icone e degli affreschi parietali, la raffinatezza degli arredi sacri, tutto rapisce la vista, stupita, dell’orante. Poi la musica corale ortodossa, una delle più celebrate nella storia del rispettivo genere musicale, cioè gli otto toni del canto liturgico: essa esclude con rigore l’accompagnamento di strumenti musicali, poiché la sola voce umana è, dopo la redenzione, la sola capace di celebrare le lodi di Dio. Essa, quando prende la forma del basso tono nel coro, assume il ruolo dello strumento che accompagna il canto del coro: il virtuosismo dei cantori, capaci di dilatare all’infinito la pronuncia anche di una sola sillaba, non è un artificio estetico, ma vorrebbe esprimere in termini musicali tutte le corde emotive del cuore umano, che si eleva in pura preghiera e contemporaneamente incanta l’udito. E infine l’uso sovrabbondante dell’incenso, con tutta la possibile gamma dei suoi profumi, ottenuti attingendo agli aromi di quasi tutti i fiori, dà godimento all’olfatto. Per l’Ortodossia, quindi, la teologia è anzitutto esperienza di Dio e la gnoseologia divina è una teologia dell’esperienza. Il teologo ortodosso greco Christos Yannaras, afferma che all’anelito dell’uomo, portato sullo schermo dal regista svedese Ingmar Bergman con la domanda formulata in Il settimo sigillo: «Ma è possibile percepire Dio con i sensi?», l’Ortodossia, nella sua teologia ufficiale plurisecolare e nella sua conseguente prassi liturgica, dà una risposta chiaramente positiva, come peraltro il grande pensatore ateo, Friedrich Nietzsche: «Perché, se Dio si è fatto corpo in Cristo, non potremmo percepire Dio con i sensi?».
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