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L’universo come manifestazione del sacro

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Claudia Fanti

Claudia Fanti

l’importanza di una ricerca spirituale svincolata da ogni pretesa di verità, ma anche andando in cerca di un nuovo significato dei termini “credere” e “Dio”.

L’universo come manifestazione del sacro

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All’interno del paradigma post-teista, come è noto, con Dio non intendiamo più un essere dal potere soprannaturale e dai tratti antropomorfi e patriarcali, onnipotente e onnisciente, creatore, signore e giudice, che interviene dall’esterno di questo mondo imperfetto e passeggero per compiere la sua divina volontà. Con tutto ciò che tale superamento comporta rispetto ai dogmi della tradizione cristiana.

E con Dio non intendiamo più nemmeno un padre amorevole e giusto che ascolta le nostre suppliche, viene in nostro soccorso e ci ricompenserà per il male che abbiamo sofferto in questa vita, per quanto dolorosa e persino traumatica possa risultarci questa rottura dell’adesione affettiva alla rassicurante figura di un dio personale e provvidente.

Dire Dio come persona sul modello di ciò che siamo noi appare, infatti, nell’ambito del paradigma post-teista, una modalità di pensare antropomorfica: di Dio non possiamo dire nulla, né che è Padre, né che è Madre, né che è personale e neppure che è impersonale. Già Margarita Porete affermava, nel XIII secolo, che «L’unico vero Dio è quello di cui non si può pensare nulla».

I rappresentanti e le rappresentanti del nuovo paradigma non si stancano di ripetere – questo sì – che la morte del dio teista non comporta affatto di per sé il passaggio all’ateismo. Ma – si domandano – cosa si può dire rispetto alla realtà divina in cui in qualche modo vogliamo continuare a credere, per quanto in un modo diverso da quello tradizionale? E si può dire davvero qualcosa, considerando che, come ha scritto José Arregi, «“Dio”, come tutte le parole e più di qualsiasi altra, nasce dal Silenzio e conduce al Silenzio»?1 Domandare cosa sia realmente questo «indicibile

1 JoSé arregi, “Dio al di là di ‘dio’ o del teismo”, in Oltre Dio. In ascolto del

che ci abita»,2 secondo l’espressione di José María Vigil, non sarà chiedere troppo?

Sono interrogativi, questi, a cui sappiamo di poter dare solo risposte provvisorie e parziali. E non solo perché questa ricerca sta appena muovendo i primi passi – e dunque è inevitabile imbattersi in nodi ancora da sciogliere e aspetti da chiarire – ma anche perché, e soprattutto perché, una volta decostruito il teismo, forse non abbiamo bisogno di ricostruire qualcosa che possa semplicemente prenderne il posto. Forse non serve un nuovo punto di arrivo, ma solo accettare di trovarsi permanentemente in viaggio, in un cammino di ricerca spirituale destinato a non giungere da nessuna parte ma ad arricchirsi ad ogni passo.

E, di certo, quello che chiamiamo post-teismo o non teismo non intende porre «una camicia di forza all’esperienza del mistero», ma, al contrario, mira alla più ampia «creatività spirituale», rifiutando ogni certezza dogmatica e rifuggendo «la coercizione di un’immagine imposta e fissa».3

L’aspetto forse più importante, tuttavia, è che attraverso questo cammino di riflessione sul divino potrebbe anche passare la nostra salvezza come umanità. Perché è stato in buona parte proprio a causa dell’immagine del Dio teista, con tutta la catena di dualismi che si è portata dietro, che ci siamo sentiti qualcosa di separato e di superiore rispetto alla natura, alle altre specie, alla comunità di vita, al cosmo, come se venissimo da fuori e da sopra anziché da dentro e da sotto.

Ed è così che abbiamo dimenticato – pagando per questo un prezzo altissimo – quanto tutto sia interrelato e interdipendente, e iniziato a remare contro quella che il teologo Matthew Fox definisce la «legge morale dell’interconnessione»4 e il biologo Ru-

mistero senza nome, Gabrielli editori, S. Pietro in Cariano (VR), 2021, p. 100. 2 JoSé maría vigil, “Teologia non teista. Un approccio popolare al tema”, in “Adista Documenti” n. 9/2022, p. 15. 3 J. arregi, t. brun, g. gonzález, J.m. vigil, S. villamayor, “Per un cristianesimo post-teista”, in “Adista Documenti” n. 35/2021, p. 5. 4 Cit. in “In principio era il dono. Alla riscoperta della spiritualità del creato”, in “Adista” n. 31/2016, p. 2.

pert Sheldrake chiama «un habitus dell’universo».5 Perché è qui che va cercata la vera essenza dell’universo: nell’interconnessione, nell’interdipendenza, nella cooperazione (che non nega la competizione ma la oltrepassa).

Non è un caso che i quark, le più piccole componenti della materia finora conosciute, non possano essere isolati e si trovino sempre in gruppi di due o tre, mostrando, come sottolinea Diarmuid O’Murchu, «un’elegante versatilità nell’esprimere la propria esistenza solo in relazione».6 E rivelando «in maniera affascinante e strana come la vita nel nostro universo non si sviluppi a partire dall’isolamento, ma dalla capacità di relazionarsi».7

Né è meno significativo che, secondo la teoria della simbiogenesi della grande biologa statunitense Lynn Margulis, le cellule eucariotiche di cui sono fatti tutti i viventi non siano altro che il risultato dell’evoluzione di rapporti di simbiosi tra diversi tipi di batteri forgiati attraverso miliardi di anni di sforzo cooperativo, a dimostrazione del fatto che nel mondo creato tutto fiorisca attraverso alleanze simbiotiche.

E straordinario è il successo che la cooperazione, come ha mostrato il botanico Stefano Mancuso, ha ottenuto nel mondo delle piante – «maestre indiscusse del “mutuo appoggio”» – «dall’impollinazione alla difesa, dalla resistenza agli stress alla ricerca delle sostanze nutritive».8

Interconnessione e interdipendenza caratterizzano a tutti i livelli la vita sulla Terra, essa stessa vista, secondo la celebre teoria di Gaia di James Lovelock, come superorganismo vivente in grado di auto-regolarsi e auto-rigenerarsi. Non per niente l’atmosfera, la chimica degli oceani, la struttura geologica del pianeta e la biosfera – la copertura vivente che lo avvolge, in tutte le sue stupefacenti espressioni – sono tutte a tal punto interconnesse che possono essere comprese solo a partire dalle loro relazioni reci-

5 Ibidem. 6 diarmuid o’murChu, Teología cuántica. Implicaciones espirituales de la nueva física, Abya Yala, Quito 2014, p. 103. 7 Ivi, p. 104. 8 SteFano manCuSo, La nazione delle piante, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 134.

proche. Sono stati del resto i batteri che vivevano nei fondali del mare a dare inizio alla più importante rivoluzione del nostro pianeta, riuscendo a produrre dall’anidride carbonica e dall’acqua glucosio e ossigeno. Cosicché questo processo chimico di straordinaria complessità e precisione ha portato, dopo milioni di anni, alla produzione di quell’abbondanza di ossigeno indispensabile per la vita sulla Terra: se noi oggi esistiamo, lo dobbiamo a quelle grandi colonie sottomarine di batteri.

Ma è l’intero cosmo, come sta sempre più dimostrando la ricerca scientifica contemporanea, a rivelare una natura profondamente olistica, interdipendente e creativa: non una grande macchina le cui componenti agiscono le une sulle altre in modo puramente meccanico – l’orologio-universo della scienza classica –, ma una rete di relazioni dinamiche in cui ogni parte riceve il suo significato dal posto che occupa all’interno del tutto e co-evolve in un unico sistema auto-organizzato. Un’interdipendenza espressa, nel modo più vertiginoso e sconcertante, dal fenomeno dell’entanglement quantistico, in base a cui un incontro avvenuto nel passato tra due particelle crea tra di esse una connessione tale che il comportamento di ciascuna delle due condizionerà in modo diretto e istantaneo quello dell’altra indipendentemente dalla distanza che le separa. Con risonanze per noi profondissime:

«Il mio amico Lee – scrive il fisico Carlo Rovelli – mi ha raccontato che, quando da ragazzo ha studiato l’entanglement, ha poi passato ore sdraiato sul letto a guardare il soffitto, pensando che ciascun atomo del suo corpo aveva interagito in un qualche lontano passato con tanti atomi dell’universo. Ciascun atomo del suo corpo doveva quindi essere allacciato con miliardi di altri atomi sparsi nella galassia... Si sentiva mescolato col cosmo».9

Sembrerà allora inevitabile guardare al cosmo come un organismo vivente con la sua libertà e le sue dinamiche creative («Ecco tutta la storia in un rigo», ha scritto il cosmologo Brian Swimme: «Si prende l’idrogeno e lo si lascia tranquillo, e lui si tramuta in roseti, giraffe ed esseri umani»10). Un cosmo che il teologo ed eco-

9 Carlo rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020, p. 102. 10 Cit. in leonardo boFF e mark hathaway, Il tao della liberazione, Fazi Edi-

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