MORIRE UNA RIVOLTA IDEALE
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Sabino Acquaviva
Morire una rivolta ideale
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© 2010 Il Segno dei Gabrielli editori Via Cengia, 67 - 37029 S. Pietro in Cariano (Verona) tel. 045 7725543 fax 034 6858595 e-mail info@gabriellieditori.it www.gabriellieditori.it ISBN 978-88-6099-101-0 Stampa Il Segno dei Gabrielli editori, Marzo 2010
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Soltanto un racconto, in parte un diario, che però contiene alcune riflessioni sulla vita, la morte, questo mondo feroce e ingiusto. Dunque, una rivolta ideale che forse nessuno riesce a vivere, se non meditando sulla fine della propria vita e del tempo che gli è destinato, sulla giustizia, sull’amore, sul significato di miliardi di vite che passano sulla scena del mondo. Sullo sfondo il problema di Dio. La morte, questa la conclusione, può essere una rivolta ideale contro la società, le violenze e le ingiustizie su cui si regge. S. A.
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MORIRE UNA RIVOLTA IDEALE
Sono un intreccio di tubi in una sala di rianimazione: forse non saprò mai cosa mi è accaduto e chi ha stabilito che il mio tempo era finito. Ma qualcuno l’ha deciso? O la parola di Dio, che governa ogni cosa, ha stabilito che la mia vita era conclusa? Tutto è lontano, cancellato, mi attende soltanto la morte. La vita mi ha presentato il conto ed ora devo pagarlo. Mi domina l’angoscia, fatico a respirare, ogni movimento è soltanto sofferenza e fatica. Anche se il tempo del mio dolore non è neppure un’increspatura dell’onda della storia.
La differenza tra ieri e oggi? Ieri vivevo, oggi guardo la vita che scompare nel vuoto dell’infinito. Eppure il passato è vicino, quasi presente. Persone luoghi ed eventi dimenticati ritornano, vivi come mai erano stati. Insieme a una nostalgia del passato che mi opprime. Ma la mia fine è oggi, e tra oggi e domani c’è poco spazio. Il tempo corre, con gli anni la sua corsa diventa più veloce, e ora capisco che ogni vita è un frammento di eternità. Quando vivi nei dettagli dell’eterno comprendi la vanità del tempo. Smetti di inseguire le ore, i giorni, gli anni, –7–
nell’illusione di afferrare qualche frammento del tuo tempo perché speri che viva in eterno nei tuoi ricordi. Ma i ricordi sono troppi, si accumulano e ti impediscono di sentire il calore di nuove emozioni e sentimenti.
Rammento un vecchio libro di uno studioso olandese che, per spiegare cos’è l’eternità, diceva pressappoco: nell’estremo nord c’è una pietra di cento chilometri per cento. Ogni mille anni un uccellino ci si pulisce il becco. Quando la pietra sarà così consumata, e quindi scomparsa, sarà passato un solo istante di eternità. Ma ho paura di pensare a questa eternità simbolo del mio niente. Rende più angosciosa la mia solitudine impotente, fatta di tubi, sangue e dolore.
Un tempo, via via che gli anni passavano, vedevo sempre più da vicino l’immagine della mia morte. Una presenza che immalinconiva le mie notti. Ma forse cominciai veramente a pensarla quando all’improvviso si presentò, mentre l’attendevo in un domani che faticavo a immaginare, in un futuro remoto in cui forse avrei vissuto la mia fine come un evento che mi era quasi estraneo. Ora sono moribondo. Ho dei tubi dell’ossigeno nel naso e sono attaccato a una macchina per il monitoraggio cardiaco, una flebo mi somministra –8–
una misteriosa medicina. Il mio corpo è un marchingegno traforato da cavi in entrata e in uscita. La tracheotomia ha ridotto la mia esistenza al collegamento del corpo con il respiratore. Un corpo che non si può muovere e può soltanto pensare. Ora che tutto sta finendo mi sento come una cosa che si sta rompendo e diventa impossibile riparare. Un oggetto che degli individui in camice bianco manipolano, aggiustano e talvolta rompono senza rimedio.
La mia salute ha mostrato i primi segni del declino molto tempo fa, e da allora ho cominciato ad arretrare davanti alla vita. Il gioco a rimpiattino tra me e la morte è diventato l’unica cosa importante. Però, chi mi ha aiutato a perdere definitivamente, e quindi vincere, la battaglia della morte? Da un lato sono felice e dall’altro sono ossessionato dall’idea di essere quasi alla fine. La mia vita è soltanto una cartella clinica che racconta ogni giorno la mia storia. Una storia faticosa, dolorosa e alla fine forse inutile. Questa fine improvvisa interrompe un lungo itinerario di invecchiamento. Per questa ragione non odio chi mi ha cancellato. Forse mi ha liberato da un drammatico e inesorabile declino. Non l’odio perché, se alcuni sanno che devono morire ma non lo vivono, io l’ho vissuto sempre più con il passare degli anni, però, fingendo di non saperlo. –9–
La morte si aggira tra uomini e donne ignari che non si accorgono della sua presenza o la negano. Compare all’improvviso, poi si nasconde e possono trascorrere anni di assoluto silenzio. La ritroviamo quando entriamo nei cimiteri, negli ospedali geriatrici in cui i corpi si disfano poco a poco, o per strada, quando osserviamo qualche incidente e vediamo i morti sull’asfalto. Possiamo coglierne la presenza anche quando ci guardiamo allo specchio e osserviamo i nostri corpi che si sfasciano più o meno lentamente. Ma per il resto non è la compagna della nostra esistenza. Quindi non abbiamo più la serenità di molti uomini e donne del Medioevo, di quando la morte era presente nella vita quotidiana. Allora nei cimiteri si mangiava, si giocava, si commerciava, ci si prostituiva. Morte e vita si tenevano per mano. Oggi gli obitori sono lontani, le sale degli ospedali in cui sopravvivono uomini e donne come me sono spazi in cui la morte è presente senza consolazione. Ma sono luoghi nascosti, di cui non si deve parlare e nei quali si cerca di non entrare.
La stanza in cui mi trovo è senza finestre, e dunque senza tempo. Ma anche là fuori, con il passare degli anni la distanza fra un fatto e l’altro si diluisce fino a sparire. Il ricordo diventa appunto uno scenario senza tempo, mentre il tempo reale corre sempre più velocemente, anche se uno spirito gio– 10 –
vane e il desiderio di vivere rimangono in un corpo vecchio, in cui la vecchiaia è come una prigione da cui non si può fuggire. Le rughe sono le sbarre di quella prigione. Le immagini del tuo passato illuminano lo spazio di questa dimora oscura, senza luce e senza finestre.
Con il tempo capisci che la vita è un’attesa infinita di qualche cosa o qualcuno che non arriverà mai. Ora ho l’impressione di avere lasciato dietro di me un cimitero di fatti, persone, sentimenti, immagini e dialoghi espressione di nulla. Subentra la percezione del vuoto assoluto. Con il passare degli anni il corpo degli altri, anche delle donne che ho amato, mi diventa estraneo, si modifica poco a poco e ho l’impressione di essere in un mondo di sconosciuti che il tempo ha trasformato. Questo accade anche guardando alla televisione persone famose. Ricordo una sera di qualche anno fa. Fra le immagini televisive c’era quella di Silvester Stallone, allora un attore famoso, che premiava miss Italia. Era gonfio, la sua espressione era cambiata. Una persona differente da quella che per anni avevo visto al cinema e alla televisione. Ma quando compresi che stavo invecchiando e la mia fine era cominciata? Forse quando il mio cervello, macchina meravigliosa ed entusiasmante che mi aveva aiutato a vivere e creare, aveva cominciato a declinare. Non mi aiutava quasi più a – 11 –
pensare, inventare, mettere sinteticamente a fuoco i problemi. La rapidità spariva, quanti erano con me tendevano a vedere ostacoli ed errori nel mio ragionamento. Lo scambio fra parole sensate ed altre, inutile ciarpame della mia fragilità intellettuale, era sempre più frequente. Da qualche tempo il mio pensiero è l’espressione di un cervello che si inceppa facilmente, in cui le parole si raggrumano e diventano senza senso. Pensare diventa sempre più difficile. Forse lo capii quando mi accorsi che una valvola che chiudeva il passaggio ai cibi già deglutiti cominciava a non funzionare. A volte il mio stomaco li spingeva indietro, senza freni. Mi accorgevo che una parte del corpo mi abbandonava, ma non capivo i suoi messaggi. Ad un certo punto ho compreso che mi diventava estraneo, quasi sconosciuto. Non capivo più il suo linguaggio e quel poco che percepivo lo rifiutavo. Anche il bastone che usavo per tenermi ritto raccontava la mia impotenza. Ad ogni passo.
Quando cominciai a pensare alla mia anima? Probabilmente quando mi resi conto che mi stavo allontanando dal mio fisico. Capii di esistere malgrado il corpo. Io c’ero, forse più di prima, e lui se ne andava, ma ero soffocato soprattutto dal distacco tra me e il mio cervello, tra il mio esistere e la mia capacità di pensare. Mi sembrava, e mi sembra, di essere incapace di invecchiare, di convivere – 12 –
con un altro io che è entro di me ma diverso da me. Ora sento che anche l’odore che emano cambia: diventa acre e sgradevole. E so bene che l’odore e il profumo sono strumenti di dialogo. Emanare quell’odore significava che forse ero sempre meno capace di esprimermi. Quel dialogo intimo fra un uomo e una donna, fatto di odori tenui, sottili, era cancellato da un fetore che poco a poco mi portava nella vecchiaia. Tali sintomi sembravano e sembrano sottolineare il decomporsi di un corpo che sempre più spesso manda dei segnali che rifiuto di ascoltare. Ho sempre avuto paura della morte, ma era una paura lontana. Mentre si avvicinava la fine, capivo che non vivevo più una morte astratta, ma una reale. La parola morte significava qualcosa di radicalmente differente. Quando ero bambino lo scorrere degli anni era lento, interminabile, poi cominciò a essere più rapido, in seguito rapidissimo. Allora cinque anni mi apparivano quasi un’eternità. Oggi gli anni sono quasi un istante, il fremito di un battere di ciglia. Forse per me il tempo non esiste più. Una volta vivevo drammaticamente le malattie che potevano accorciarmi la vita. Oggi non più. So che pochi anni, rubati da una malattia, contano nulla di fronte all’infinito e all’eterno. Anche le medicine cambiano di senso. Il loro significato diventa precario. Non mi riguardano più. Fanno il loro lavoro, ma al mio corpo non interessano. Continua a declinare secondo una logica più – 13 –
grande di ogni medicina. Il corpo guarda al nulla e io all’eterno. Questo anche perché nel mondo domina una selva di pensieri e farmaci che travolgono ogni cosa: sono espressione della negazione del significato di vite che, in apparenza, tutelano con amore.
Quanti mi circondano invecchiano, anche loro diventano poco a poco scenari pieni di rughe, e quindi sempre meno comprensibili. Se incontro qualche donna che ho amato quando la sua pelle comunicava con la mia, non riesco più a capire: mi sembra una pelle diversa, con la quale è difficile dialogare. Quella, così fresca, era espressione della vita. Questa, incartapecorita, ingiallita, è un messaggio di morte, mi racconta un significato completamente differente dello scorrere del tempo. Quella era il racconto del fiorire dell’esistenza, questa della sua fine. Più nessuna di quelle donne viene a trovarmi per parlare con me. Ma forse preferisco non vederle: meglio rivivere la loro immagine antica, insieme al ricordo di un frammento di vita che abbiamo vissuto insieme. Se ci incontrassimo tutto sparirebbe come una bolla di sapone. Sembra, almeno a me, che le rughe mi impediscano di cogliere le infinite emozioni e i sentimenti che scoprivo in ogni viso. Questi visi di anziani non sono scheletrici, anche se si intravede sempre più spesso la forma delle ossa, ma sono come di marmo: immo– 14 –
bili e senza vita. Mentre le rughe mi impediscono di capire i sentimenti degli altri, la loro mancanza sembra far slittare i miei su superfici piane. Vengono dimenticati in poco tempo.
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continua...
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