Liceo Scientifico Vittorio Sereni Luino indirizzo scientifico tecnologico "brocca"
tesina maturitĂ esame di stato 2011/2012 1
IL REGNO DI VITTORIO EMANUELE III ATTRAVERSO LA NUMISMATICA (1900-1945)
a cura di LUCA PANTANO
Indice : 1. Introduzione - Introduzione generale alla numismatica e allo scopo della tesina - Dalla lira all'euro 2. Biografia di Vittorio Emanuele III - La nascita, l'educazione e il rapporto con Egidio Osio - Periodo Napoletano, viaggi all'estero e incontro con la moglie - L'assassinio del padre e l'incoronazione a Re d'Italia - Prime azioni da re, Libia - 1° Guerra Mondiale -Dopoguerra, politica interna, Etiopia e Albania - 2° Guerra Mondiale - Ultimi anni 3. Vittorio Emanuele III come numismatico - Periodo 1901-1918 - 20 centesimi esagono (1918-20) - Periodo I Dopoguerra - Il fascio littorio - Impero - Colonie Tallero d'italia Tallero di maria teresa l'Italia nella monetazione albanese dal 1914 al 1943 La monetazione della somalia italiana A.F.I.S (amministrazione fiduciaria italiana somala) - La monetazione della Repubblica Sociale Italiana (1943-1945)
4. Italiano: Pascoli in "la grande proletaria si è mossa" 5. Fisica: Il magnetismo
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Introduzione tesina Con questa tesina vorrei cercare di affiancare alla storia le mie conoscenze in numismatica. È bene ricordare che con il termine numismatica si intende lo studio di una moneta sotto l‘aspetto economico, storico, geografico, ed artistico. Ed ecco allora entrare in gioco la mia esperienza personale: io sono un grande appassionato di numismatica, in tale disciplina ho trovato un mondo ricco di storia ed avvenimenti appassionanti che mi hanno spinto ad avviare una collezione di monete in continua evoluzione. Riflettendo, le monete hanno impresso diverse epoche storiche e i simboli delle più svariate civiltà. Mi sono domandato, inoltre, se una moneta potesse essere paragonata ad un libro di storia prettamente illustrativo attraverso il quale con la sola osservazione delle immagini si potesse capire il contesto in cui ci si trovava. I più grandi imperatori, i re, i comandanti, i condottieri e qualsiasi altra persona degna di gloria è stata rappresentata sulle monete del tempo. Questo oggetto immortale, la moneta intesa come denaro vero e proprio, è passato tra le mani di infinite genti, dai contadini più analfabeti che vi riconoscevano l'emblema del proprio governante, ai commercianti che lo usavano come mezzo per compiere i propri acquisti, ai grandi potenti della storia che lo intendevano come simbolo di potere. Negli ultimi anni ho coltivato maggiormente questa mia passione, credendo nel valore non solo materiale delle monete. Difatti, è inevitabile che nasca il desiderio di collezionare monete, studiandole. E così, scoprendo con mio grande piacere ed ammirazione che Re Vittorio Emanuele III fu un grande numismatico (ricercatore, collezionista, redattore) ho pensato di coniugare l'aspetto storico con l'aspetto numismatico in una documentazione che tratti gli avvenimenti più significativi dell'età di Vittorio Emanuele III fino all'epoca contemporanea, passando per le due guerre mondiali, le colonie e il periodo fascista. Ora vorrei illustrare per tappe il percorso della mia collezione e dei diversi tipi di monete dei quali mi sono interessato e mi interesso. Tutto iniziò quando cominciai ad appassionarmi alle lire, ovvero alla moneta presente alla mia nascita. Le rappresentazioni grafiche di queste monete furono richieste da Re Umberto II e raffiguravano per la precisione un arancio, una spiga, dell'uva e un ramo d'olivo ed esse erano tutte accompagnate dalla scritta 'Italia'.
Nonostante ciò non vennero mai messe in circolazione poiché dopo il breve regno del sovrano (9 maggio 1946-18 giugno 1946) gli italiani optarono per la Repubblica e il re dovette recarsi in esilio a Caracas in Portogallo. Le prime monete della Repubblica coniate a partire dal 1946 furono analoghe a quelle pensate da Umberto II ma al posto della scritta 'Italia' vi si trovava 'Repubblica Italiana'.
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Queste monete permasero sino al 1950, anno in cui vennero cambiate nei simboli che tutti noi oggi ricordiamo, ovvero l'olivo, il delfino, la spiga e la cornucopia. Nel 1954 comparvero i primi esemplari di 50 lire con il dio Vulcano rappresentato sul dritto della moneta; l'anno seguente furono coniate le 100 lire che rappresentavano Minerva. Dall'anno 1957 furono emesse le 20 lire raffiguranti un ramo di quercia. Nel 1977 arrivò la moneta da 200 lire denominata 'Lavoro' e cinque anni dopo fu il turno del 500 lire. Infine, nel 1997, furono coniate le 1000 lire 'Italia Turrita'.
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Esse però non furono i primi esemplari realizzati poiché già nel 1970 fu coniata una moneta in argento da 1000 lire per celebrare i 100 anni di Roma capitale; quest'ultima non fu tuttavia la prima moneta d'argento emessa: infatti dal 1958 fu coniato il 500 lire 'Caravelle'. Tra le altre monete in argento emesse e degne di nota vanno sicuramente ricordate quella dedicata al centenario dell'unità d'Italia, coniata nel 1961, e quella che celebrava i 700 anni dalla nascita di Dante Alighieri, emessa nel 1965.
E' bene citare una tipologia di monete che spesso non è conosciuta, ma che per gli appassionati rappresenta qualcosa di importante e raro. Si tratta delle monete commemorative. Esse vengono emesse una volta all'anno e testimoniano personaggi celebri o anniversari di eventi storici. Con l’introduzione dell’euro in Italia, anno 2002, il mondo numismatico si arricchì. Infatti la nuova moneta rappresentò qualcosa di rivoluzionario da un certo punto di vista, poiché quasi tutti i paesi d’Europa col passare degli anni aderirono all’ingresso dell’euro come moneta nazionale. Io stesso provo interesse nel collezionare questi esemplari poiché sono dotati di particolare fascino e, ritornando al tema delle monete commemorative, con l’arrivo dell’euro sono state emesse molte più monete celebrative e il loro valore col passare degli anni sta diventando sempre maggiore. Esistono vari tipi di monete commemorative: vi sono quelle che riguardano eventi caratteristici di un unico Paese e quelle che riguardano ricorrenze comuni a tutti gli Stati aderenti all'euro e perciò vengono coniate delle monete analoghe in tutti i paesi coinvolti ed esse hanno lo scopo di commemorare importanti ricorrenze europee. Ad esempio nel 2007 è stata emessa una serie di
monete commemorative per celebrare i 50 anni dei Trattati di Roma. Con scopo analogo furono coniate altre due serie di monete, una nel 2009 e l'altra proprio nel corso di quest'anno 2012, per ricordare il 10° anniversario dell'unione economico-monetaria europea (sebbene già nel 1999 fossero stati coniati i primi euro in Belgio, Francia e Spagna) e per festeggiare il 10° anno dall'entrata in vigore dell'euro.
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Biografia di Vittorio Emanuele III -Nascita, educazione e rapporto con Egidio Osio Il terzo Re d'Italia Vittorio Emanuele III di Savoia nasce a Napoli il giorno 11 novembre 1869. Figlio unico di Umberto I di Savoia e di Margherita di Savoia, visse sin dall'infanzia in un ambiente rigoroso dovendosi abituare alla lontananza dei genitori, chiaramente occupati dai tanti impegni politici e sociali. Fin da giovane fu abituato alla disciplina militare grazie al generale Egidio Osio, incaricato dal 9 maggio 1881 di occuparsi della formazione del principe. Egli non solo gli insegnò il rigore e l'austerità, ma cercò anche di impartirgli una preparazione opportuna dal punto di vista culturale. Tra le varie discipline studiate vi erano l'arte, la letteratura, la geografia, la storia e le lingue straniere. Inoltre tutto ciò era accompagnato da molte visite ai luoghi di maggiore interesse culturale come le biblioteche e da frequenti viaggi all'estero. Difatti la formazione di un futuro Re d'Italia doveva necessariamente essere in gran parte dedicata alla cultura, virtù fondamentale della storia del paese. Nel 1889 il principe raggiunse la maggiore età e così il suo percorso educativo terminò, ma non fu così per quanto riguarda il rapporto personale tra Vittorio Emanuele ed il generale Osio. Essi mantennero una fitta corrispondenza e dai diari di entrambi si può percepire la stima e l'affetto che intercorreva tra i due. Per di più Osio fu colui che introdusse Vittorio Emanuele III nel mondo della numismatica, passione che il principe seguirà per tutta la vita, comunicando al suo precettore le sue nuove scoperte o facendogli recapitare dei doni che, il più delle volte, consistevano in monete. Le reazioni di Osio verso la passione del principe furono spesso distaccate, forse perché il generale credeva che la numismatica avrebbe potuto distrarre il futuro re dai suoi compiti o più semplicemente perché provava un implicito senso di gelosia verso la spiccata abilità del principe in tale campo. Per arricchire le proprie conoscenze o più semplicemente per diletto
ed interesse personale, Vittorio Emanuele compì diversi viaggi verso l'est, come ad esempio in Russia al termine degli di studi. Tornato in Italia, l'11 Novembre 1890 Vittorio Emanuele ottenne, con il compimento della maggiore età, una promozione militare e un nuovo incarico: gli venne affidato un reggimento di fanteria a Napoli e fu nominato colonnello. Il principe si occupò del suo reggimento in modo rigoroso e professionale e sicuramente il periodo della sua vita trascorso a Napoli fu uno dei più felici e sereni in quanto considerava quella città un luogo molto piacevole dove concedersi anche dei momenti di tranquillità nel tempo libero. Inoltre vi era il mare, grande passione del futuro Re d'Italia che, nel corso della sua vita, acquistò anche diverse imbarcazioni con le quali compì molti viaggi sia nel Mediterraneo che nel Mare del Nord. Il periodo Napoletano terminò nel 1894 quando egli dovette spostarsi a Firenze per motivi militari; Vittorio Emanuele non amò tale città, definendola una città umida, grigia e soprattutto lontana dall'amato mare. Nel 1896 il principe ricevette un incarico di rappresentanza da parte del padre in occasione dell'incoronazione dello zar Nicola II, che si sarebbe svolta il 26 maggio a Mosca. Egli rimase in Russia fino all'8 giugno ed ebbe l'occasione di conoscere Elena di Montenegro, o meglio, di notarla in modo particolare poiché sicuramente i due avevano già avuto parecchie occasioni nelle quali conoscersi. Presumibilmente l'incontro decisivo tra i due fu 'controllato' dalla Regina Margherita e dal ministro Crispi, i quali avrebbero già preso degli accordi ben specifici con il re del Montenegro. Nonostante ciò l'amore tra i due fu sentito e sincero: il 18 Agosto 1896 avvenne il fidanzamento e il 24 Ottobre dello stesso anno i due si sposarono ed andarono a vivere a Firenze. Essi ebbero cinque figli: Jolanda (1901), Mafalda (1902), Umberto (1904) futuro erede al trono, Giovanna (1907) e Maria Francesca (1914). Un evento alquanto inaspettato sconvolse la vita del principe: il 29 luglio 1900 il padre Umberto I venne assassinato da parte di un anarchico a Monza. La notizia della morte del sovrano giunse a Vittorio Emanuele qualche giorno dopo, il 31 luglio, poiché si trovava in crociera nel Mediterraneo. I funerali del padre vennero celebrati il l'8 agosto a Monza e il giorno seguente a Roma. Il giuramento avvenne l'11 agosto e così divenne Re d'Italia. L'ipotesi di un‘imminente ascesa al trono era ancora remota (il padre aveva solo 56 anni) perciò Vittorio Emanuele si trovò catapultato in una realtà alla quale dovette presto abituarsi. Egli riuscì a gestire il suo primo periodo da sovrano in modo abile e risoluto, sebbene le voci riguardanti la non volontà da parte di Vittorio Emanuele di salire al trono furono numerose. Vittorio Emanuele III si dedicò in modo incisivo alla politica
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estera e militare. Egli cercò di effettuare un riavvicinamento con le potenze escluse dalla Triplice Alleanza, in particolare con Russia e Franci, mantenne inoltre dei buoni rapporti con l'Inghilterra. Per quanto riguarda la politica interna il re volle attuare un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione cercando di ottenere una maggiore stabilità economica ed un'esauriente diffusione dell'insegnamento. Egli fu spesso dipinto come un re socialista proprio per questa sua propensione ad aiutare le classi più deboli. Un esempio su tutti fu la fondazione dell'Istituto per l'Agricoltura (trasformatosi a seguito della 2° guerra mondiale nella FAO) voluto fortemente da Vittorio Emanuele e da lui principalmente finanziato. I rapporti tra il sovrano e la Chiesa furono difficili. La prima azione militare del regno di Vittorio Emanuele III avvenne il 29 settembre 1911 con lo sbarco in Libia. Sebbene gli obiettivi di conquista fossero di spessore, l'impresa non fu così vincente. Infatti, nonostante la Libia fosse annessa all'Italia, essa riuscì a conservare negli anni molta libertà ed autonomia a causa della debole occupazione territoriale messa in atto dalle forze italiane. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il 28 luglio 1914, il re decise che l'Italia avrebbe mantenuto una posizione neutrale poiché egli provava una forte ostilità verso l'Austria, che possedeva ancora le terre di Trento e Trieste. La decisione del re venne condivisa dalla maggior parte del parlamento, compreso il presidente del consiglio Giovanni Giolitti. Purtroppo la neutralità italiana non durò a lungo in quanto Salandra e Sonnino intrapresero delle trattative con i due schieramenti per stabilire quale dei due offrisse le garanzie e le ricompense migliori. Così il 26 aprile del 1915 essi sottoscrissero il patto di Londra, che vedeva l'Italia contrapposta all'Impero Austro-Ungarico e alla Germania. Vittorio Emanuele III si guadagnò l'appellativo di “Re soldato” poiché la sua presenza al fronte fu assidua e fissa. Egli dimostrò inoltre grande interesse e preoccupazione per le condizioni dei soldati durante le battaglie ed era solito far loro spesso visita. Dopo la celebre 'disfatta di Caporetto', il sovrano decise di destituire Cadorna e nominare al suo posto Armando Diaz. Con la vittoria, l'Italia conquistò il territorio di Trento e del Friuli Venezia Giulia. La città di Trieste, però, rimase esclusa e fu flagellata da un duro periodo di crisi economica e politica che portò a diversi disordini sociali che fecero temere lo scoppio di una rivoluzione come quella scoppiata poco tempo prima in Russia. Tutte queste agitazioni portarono vantaggio all'ascesa del movimento dei Fasci di Combattimento, guidato da Benito Mussolini, un socialista nel periodo precedente alla guerra. Gli scopi di questo movimento si rivelarono subito chiari: arrivare al potere sovvertendo l'ordine democratico. Dall'ottobre del 1922 cominciarono i primi movimenti squadristi di occupazione che, partiti dall'Italia settentrionale, si diffusero rapidamente in tutto il paese fino ad arrivare alla capitale, con l'obbiettivo di realizzare un ambizioso progetto, la 'marcia su Roma'. Vittorio Emanuele dovette decidere sul da farsi; egli si rifiutò di sottoscrivere l'atto che rappresentava il ricorso allo Stato d'assedio presentatogli dal primo ministro Facta, temendo lo scatenarsi di una guerra civile. Facta allora si dimise e si formò
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un nuovo governo presieduto da Mussolini. L'atteggiamento del sovrano di fronte a tutto ciò rimane tuttora alquanto indecifrabile; si presume che i fascisti in marcia su Roma fossero appena un migliaio, mentre le forze armate erano poco meno di trentamila. Con una tale mole di forze non sarebbe stato per nulla difficile bloccare l'avanzata dei fascisti. Purtroppo vi furono molti fattori che fermarono qualsiasi intervento e sicuramente le incertezze dei vertici militari e la debolezza della classe dirigente furono tra i più decisivi. Se la monarchia avesse attuato un opposizione più energica ed efficace, molto probabilmente il fascismo non avrebbe visto l‘ascesa al potere. Inizialmente, con il nuovo governo non si avvertirono differenze consistenti dal punto di vista liberale, ma con il passare del tempo la situazione si rivelò ben differente e il fascismo si rivelò un vero e proprio regime totalitario determinato a cancellare qualsiasi traccia di vita democratica. Nel giugno del 1924 vi fu l'assassinio del socialista Matteotti, chiara manifestazione del cambiamento in atto, evento nel quale il coinvolgimento di Benito Mussolini fu subito palese. Sebbene al re furono fornite tutte le prove necessarie per incriminare il leader dei fascisti, egli, per l'ennesima volta non intervenne, nonostante capo delle forze armate. Il rapporto tra fascismo e monarchia fu in ogni caso molto contrastato a causa delle diverse innovazioni che Mussolini apportò al regime istituzionale e ai costumi della popolazione. Il motivo di discordanza più significativo, però, fu sicuramente quello che si verificò più tardi con l‘introduzione delle leggi razziali che il fascismo introdusse in Italia dopo le Leggi di Norimberga emanate in Germania. Anche se la monarchia rimaneva ancora il principale punto di riferimento per i vertici militari e la borghesia conservatrice, la diffusione del fascismo nella società continuava a rafforzarsi. Il 9 maggio del 1936. dopo la presa della capitale etiope Addis Abeba, Vittorio Emanuele ricevette il titolo di Imperatore. Le conquiste coloniali italiane non si fermarono allo stato africano, infatti nel 1939 si procedette alla conquista dell'Albania. Nonostante il diffuso scetticismo sull'impresa, Vittorio Emanuele aggiunse ai suoi titoli quello di re d'Albania.Nello stesso anno accadde uno degli eventi più drammatici della storia europea: il 1 settembre 1939, Hitler invase la vicina Polonia e diede inizio al secondo conflitto mondiale. All'inizio l'Italia si proclamò neutrale ma l'anno seguente Mussolini, certo che la guerra sarebbe durata semplicemente pochi mesi e l'Italia avrebbe avuto facili conquiste territoriali, decise di entrare in guerra al fianco della Germania contro Francia e Inghilterra. Vittorio Emanuele si dimostrò sempre contrario all'entrare in guerra dal momento che riconosceva l'impreparazione dell'esercito italiano ed in quanto era contrario alla politica nazista. Pochi mesi prima dell'entrata in guerra, il sovrano tentò di rovesciare il regime di Mussolini, ma non ebbe successo. Il piano consisteva nell'ottenere un voto di sfiducia da parte del Gran Consiglio del fascismo, e quindi di formare un nuovo governo. Il re era molto
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preoccupato per le sorti del proprio Paese in guerra, soprattutto perchè temeva che l'Italia si inchinasse al volere dei nazisti. Il 25 luglio 1943 il re riuscì finalmente a dimissionare Mussolini, dopo che il Gran Consiglio del fascismo ebbe deciso di togliere il proprio supporto al duce. Venne quindi formato un nuovo governo presieduto dal generale Badoglio, che ebbe il gravoso compito di stringere un patto con gli Alleati, per poi continuare la guerra contro la Germania, che si sarebbe ritrovata isolata. Questo cambiamento di fronte fu criticato ed osteggiato da molti politici, ma la volontà di Badoglio e del re prevalsero. L'armistizio con gli Alleati venne reso noto l'8 settembre 1943: nello stesso giorno Vittorio Emanuele si diresse verso la città di Brindisi, dove si trasferì anche il governo, come segno di garanzia e continuità per gli Alleati. Qui il re, dopo aver ricevuto conferma del sostegno alleato, dichiarò ufficialmente guerra alla Germania. Nel giugno del 1944 Vittorio Emanuele decise di affidare la luogotenenza del regno al figlio Umberto II, senza però abdicare. Terminata la guerra con la resa della Germania, in Italia si aprirono le consultazioni per il rinnovamento dello Stato. Con il referendum del 2 giugno ormai alle porte, il re decise di abdicare a favore del figlio, nella speranza di risollevare le sorti della monarchia. Nonostante ciò il referendum si chiuse con la vittoria della repubblica, e Vittorio Emanuele dovette partire in esilio verso Alessandria d'Egitto, dove morì il 28 dicembre 1947. Prima di partire per l'esilio il re scrisse all'allora presidente del consiglio Alcide De Gasperi:'Signor presidente, lascio al popolo italiano la collezione di monete che è stata la più grande passione della mia vita'.
PERIODO 1901-18 1,2,5 lire:Salito al trono, Vittorio Emanuele III decise di realizzare dei nuovi conii, dando loro un’impronta più moderna. Per realizzare questo compito fu fatto chiamare al Quirinale lo scultore Filippo Speranza, incisore capo della Regia Zecca d’Italia. Le caratteristiche delle nuove monte, secondo il Re, dovevano essere improntate ad uno spirito più moderno ed innovativo. Di contro l’incisore, che era il continuatore di una generazione di artisti legata alle espressioni tradizionali, propose di continuare in un primo tempo secondo le vecchie usanze e di analizzare in seguito i cambiamenti. Le discussioni tra il giovane sovrano e lo scultore tradizionalista continuarono fino ai primi giorni del 1901, quando si giunse ad un ragionevole accordo tra le due parti. Lo Speranza portò a compimento il progetto con lo scudo 1901 con l’aquila sabauda sul retro. Questa moneta fu la prima recante l’effigie di Vittorio Emanuele III. Il decreto sulla Gazzetta Ufficiale del Regno riportava la descrizione delle caratteristiche principali della moneta,
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senza alcun cenno sulla sua emissione e il suo importo totale. Il perché di tutto ciò venne spiegato nove anni dopo: non furono riportati i dati riguardanti l’emissione poiché non era ancora stata stabilita la sua regolarità, essendo in corso le trattative per uniformarla agli obblighi derivanti dalla Convenzione Monetaria Internazionale. Perciò di questo scudo si coniarono solamente alcuni pezzi poiché non si poté fare una coniazione regolare. Mentre la Zecca continuava a coniare qualche esemplare a scopo sperimentale, dal Ministero delle Finanze arrivò l’ordine definitivo di sospendere la coniazione. Ma quanti pezzi furono battuti allora? Ce lo dice il Carbonieri nella sua opera “La circolazione monetaria nei diversi Stati”: centoquattordici pezzi. Tali esemplari non dovevano considerarsi vere e proprie monete dato che la Zecca non era stata autorizzata legalmente all’emissione. La Zecca, in accordo col Ministero competente, autorizzò la vendita a privati di quel poco che era stato coniato. Si venne a sapere che non pochi furono invitati all’acquisto; pochissimi gli italiani, per la maggior parte francesi e tedeschi. Il prezzo fu di L.50, che nelle contrattazioni private poteva addirittura arrivare a quadruplicare. Così la moneta si qualificò tra le più rare: rarissima. Essa continuò ad avere sempre un prezzo molto alto e, poiché i collezionisti si dedicano sempre di più alle monete decimali, esso acquisterà ancora quota. 25 centesimi:Nel 1902, per sostituire i poco eleganti pezzi da 20 cent in nichelio coniati durante il regno di Umberto I, lo stato emise dei pezzi da 25 centesimi raffiguranti da un lato l’aquila sabauda, dall’altro la leggenda “Centesimi 25” in una corona d’alloro. Essi, tuttavia, furono presto ritirati dalla circolazione poiché, a causa della loro grandezza e dell’aquila impressavi, potevano essere facilmente confusi con la lira d’argento coniata a partire dal 1901. Le monete da 1 e 2 cent. coniate tra il 1901 e il 1908 erano, a detta del Re, prive di significato artistico in quanto erano le stesse usate sia da Vittorio Emanuele II che da Umberto I. A causa di ciò nel 1905 venne nominata una commissione tecnico-artistico monetaria la quale bandì un concorso per la creazione di nuove monete da sostituire a quelle in circolazione. Lo scopo del concorso tuttavia fallì, in quanto i ventitré concorrenti non furono in grado di soddisfare le richieste della commissione. Di conseguenza quest'ultima scelse direttamente quattro artisti che dovettero realizzare una moneta ciascuno. Fu effettuato un sorteggio per assegnare ad ognuno degli artisti un materiale specifico col quale realizzare la propria moneta: i materiali disponibili erano l'oro, l'argento, il rame ed il nichelio. Le monete dovevano rispettare delle precise norme; quelle realizzare in oro, argento e rame dovevano contenere l'effigie del Re in profilo e la legenda "VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA" sul dritto, mentre sul rovescio doveva campeggiare una personificazione dell'Italia, l'indicazione del valore e l'anno di coniazione. Le monete in nichelio, invece, avrebbero dovuto
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portare al dritto la testa dell'Italia, la leggenda "ITALIA" e l'anno di coniazione, mentre al rovescio un partito ornamentale, nel quale doveva essere compreso lo scudo sabaudo e il valore monetale. I progetti per la realizzazione delle quattro monete furono accettati il 13 dicembre 1906. Argento: per sorteggio fu affidata a Calandra. Egli chiamò la sua serie "Quadriga Veloce" e coniò monete da 1 e 2 lire portanti al dritto il busto del Re volto verso destra con la leggenda "VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA"; al rovescio vi era l'Italia col ramo di ulivo e lo scudo, la quadriga era posta verso sinistra e vi era l'indicazione dell'anno di coniazione e del valore. La moneta fu accolta positivamente ma in molti pensavano che, con l'applicazione di alcune migliorie, essa avrebbe potuto raggiungere il consenso assoluto da parte dei i critici. Le nuove modifiche comprendevano un rilievo maggiore, una quadriga che esprimeva meglio la resa del movimento, la figura dell'Italia sulla quadriga posta in modo diverso rispetto alla precedente, ed infine fu eliminato il cerchio contenente il profilo del Re. Questa nuova modifica di serie fu denominata "Quadriga Briosa”; di essa fa parte anche il 5 lire coniato solo nel 1914; essa è considerata dagli appassionati di numismatica, giustamente, la più bella fra quelle emesse dalla zecca italiana durante il regno di Vittorio Emanuele III. Degna di nota è l’allegoria di gradevole aspetto artistico rappresentata dalla scena della quadriga la quale esprime, anche grazie alle sue importanti dimensioni, il senso della forza congiunta alla bellezza; si volle inoltre mettere in risalto il “liberty italiano”, inserendo un significato simbolico che non sovrasta, ma che accompagna, il valore artistico. Oro: per sorteggio fu affidata a Boninsegna. Egli coniò i pezzi da 10,20,50 e 100 lire raffiguranti al dritto la tipica rappresentazione prestabilita e al rovescio l'allegoria dell'Italia che guida l'aratro tenendo un fascio di spighe. Queste monete non entrarono mai in circolazione e vennero comprate solo dai ricchi numismatici dell'epoca.
Rame: la realizzazione della moneta in rame fu affidata a Canonica. Egli chiamò la sua serie "Italia su prora". Essa porta al dritto la solita effigie del sovrano colla leggenda, mentre al rovescio vi è la figurazione dell'Italia marinara, con l'indicazione del valore e dell'anno di coniazione. Egli coniò pezzi da 1,2 e 5 centesimi. Nell'idea originale vi era anche la presenza del 10 centesimi. Questa
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moneta non entrò mai in circolazione, ma fu coniata nel 1908 in occasione della posa della prima pietra del nuovo edificio della Zecca di Roma; essa insieme alle altre tre monete della serie fu posta come simbolo sulla suddetta pietra. Tutte le monete da 1 e 2 centesimi valore e prora furono coniate grazie al rame ottenuto dalla fusione dei 10 centesimi di Vittorio Emanuele II ed Umberto I. Esse furono dichiarate fuori corso nel 1924.
La moneta commemorativa del cinquantenario Durante la seduta della Commissione annuale del 1911 venne proposta la coniazione di una moneta Commemorativa del Cinquantenario dell'unità d'Italia,da coniarsi nei tre metalli principali:oro (50 lire),argento (5 e 2 lire) e rame ( 10 centesimi). Per quanto riguarda l’artista al quale affidare l’esecuzione, la Commissione unanime si sffidò a Trentacoste, membro egli stesso della Commissione. L’allegoria presente sulla moneta si riferisce a Roma antica che consegna un globo a Roma moderna. Nichelio: Bistolfi ebbe l'incarico di realizzare la moneta in nichelio rappresentante al diritto la testa ideale dell'Italia con una spiga in mano e la legenda "ITALIA". Al rovescio vi era la figura della Libertà librata in volo con una fiaccola. vi furono parecchie perplessità riguardanti la scelta di questo materiale: difatti fu ritenuto poco conveniente importare un materiale come il nichelio per la realizzazione delle monete quando il nostro Paese possiede molto rame, che rappresenta anche la tipologia classica della monetazione italiana. Il 20 centesimi italiano fu certamente il più artisticamente elegante tra tutti i pezzi congeneri. Esso possedeva un valore artistico raramente ripetibile, ma nonostante ciò fu soggetto a parecchie critiche. Difatti la rappresentazione appariva troppo arcaica e difficilmente comprensibile per il popolo. 20 CENTESIMI ESAGONO (1918-20). La coniazione dei 20 centesimi “esagono” ebbe inizio nel 1918, ovvero durante uno dei periodi storici più convulsi ed economicamente più depressi del regno di Vittorio Emanuele III. L'esigenza di immettere nella circolazione monetaria nazionale un nominale da 20 centesimi si era già manifestata l'anno precedente, a seguito della preoccupante e progressiva sparizione dalla massa circolante delle monete spicciole in bronzo e nichelio, incettate dagli speculatori e sottratte alla loro naturale funzione monetaria dalle pressanti necessità belliche della “Grande Guerra”. I tentativi che
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furono messi in atto, però, non ebbero successo e rimasero quindi circoscritti alla sola fase progettuale. Il tempo stringeva e l'ipotesi di riprendere la coniazione del 20 centesimi “Libertà Librata” in nichelio pressoché puro fu scartata, perciò si doveva trovare in tutta fretta una soluzione che conciliasse le esigenze della “cassa dello Stato” con quella dell'introduzione di una moneta che fosse adatta al particolare periodo storico. Che fare dunque? Questo è ciò che riportò il Lanfranco nel saggio pubblicato su “Rassegna Numismatica”: “Si fece strada il pensiero di utilizzare la grossa massa metallica monetaria costituita dai pezzi da 20 centesimi di nichelio misto (mistura di 75 parti di rame e 25 di nichelio) coniati negli anni 1894 e 1895 e poi ritirati per essere sostituiti con pezzi di nichelio puro. Vi erano infatti ancora conservati dei 'nichelini' in grossi quantitativi alla Zecca, sebbene una gran parte di essi fosse già stata alienata all'industria privata come metallo. Non poteva quindi procedersi ad una reviviscenza sic et simpliciter del corso legale del 'nichelino'. Il Lanfranco afferma che venne a lui “la felice idea di ristampare con nuovi coni le vecchie monete” e che il Ministero del Tesoro “senza consultare la Commissione Monetaria, diede incarico alla R.Zecca di allestire rapidamente nuovi coni che bene fossero adatti a cancellare le vecchie impronte, stampandone delle nuove”. È opportuno a questo punto citare i provvedimenti che istituirono la moneta. Il primo e fondamentale atto normativo che istituì la moneta da centesimi 20 “esagono” fu il Decreto Luogotenenziale del 30.12.1917 nr. 2111. L'art. 3 del Decreto rimetteva invece, ad un successivo decreto del Ministero del Tesoro, la determinazione delle dimensioni e delle caratteristiche di tali monete. Dopo il citato Decreto Luogotenenziale nr. 2111 intervenne un altro Decreto Ministeriale che, seppur per pochi giorni (per l'esattezza 19!), introdusse nell'ordinamento monetario del Regno d'Italia una moneta dalle caratteristiche artistiche ben diverse da quelle che poi vennero stabilite per il 20 centesimi “esagono”, con un successivo decreto ministeriale modificativo del primo. Si tratta del Decreto Ministeriale 2 marzo 1918 nr. 130258 che, in attuazione del citato Decreto Luogotenenziale nr. 2111, determinò le caratteristiche della nuova moneta di nichelio misto da centesimi 20. le caratteristiche della nuova moneta non sono affatto quelle che si presenteranno in seguito. Le caratteristiche del rovescio della moneta, inoltre, ricordano molto da vicino un tondello catalogato come “prova”, anche se esso differisce dalla moneta descritta nel decreto ministeriale del 2.3.1918 per la mancanza, al dritto, del “cerchietto di pallini” e per la presenza, al rovescio, del “simbolo di zecca R”. Saremo quindi al cospetto di una moneta mai emessa o comunque di una moneta le cui caratteristiche vennero modificate prima che si procedesse alla sua battitura. Come già anticipato infatti, le caratteristiche del 20 centesimi “esagono” vennero in seguito modificate dall'art. 1 del Decreto Ministeriale 11.4.1918 che, lasciando inalterata l'impronta del dritto, rideterminò quella del rovescio, stabilendo che essa “avrà, entro ad una classica corona romana, circondata da un cerchietto di pallini, un esagono racchiudente nel cerchio l'indicazione 'Cent. 20' con sotto il millesimo di coniazione e l'iniziale R per Zecca”. Vi sono, inoltre, delle anomalie riscontrate nei provvedimenti che istituirono la moneta di cui trattiamo: l'art. 3 del Regio Decreto-Legge 21.1.1923 nr.215 stabilì infatti che “è autorizzato il ritiro delle monete di nichelio in lega di nichel e rame da centesimi 20, emesse in virtù del Decreto Luogotenenziale 30 dicembre 1917 nr.2111”. I possessori della moneta sarebbero stati quindi rimborsati fino alla concorrenza della somma di Lire 16 milioni, senza una scadenza temporale ma solo nei limiti della somma suddetta. Va ricordato infine che gli ottocenteschi “nichelini” di Umberto non furono sufficienti a soddisfare la richiesta complessiva di tondelli su cui imprimere le nuove impronte, cosicché si ricorse all'impiego di tondelli vergini, sui quali, evidentemente, la rigatura del contorno è del tutto assente, a differenza delle monete ristampate il cui taglio lascia quasi sempre intravedere qualche “traccia” di rigatura. La più evidente e macroscopica di esse è che ci si dimenticò di attribuire il corso legale al 20 centesimi “esagono”. Per la verità, un solo elemento ci consente di desumere che alla moneta tale fondamentale prerogativa fosse stata attribuita, ed è l'art. 2 del Decreto Luogotenenziale che stabilisce che “l'accettazione delle monete indicate all'art.1 del presente decreto sarà obbligatoria per tutti per soma inferiore a Lire 5”. La precisazione che il 20 centesimi “esagono” avrebbe avuto potere liberatorio seppure nei limiti della somma di Lire 5, ci consente di ritenere come fu implicitamente accordato alla moneta il corso legale nello Stato, anche se non ci
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permette ovviamente di sapere da quale momento esso ebbe decorrenza. Un'ulteriore lacuna dei provvedimenti è costituita dal fatto che ci si dimenticò, come avviene di consueto per i nuovi tipi monetali, di ordinare il deposito presso l'Archivio di Stato delle impronte in piombo della nuova moneta. Per paradossale coerenza, anche la cessazione della validità legale della nostra moneta avvenne con il ricorso ad una fraseologia alquanto insolita. La moneta di cui ci siamo occupati risulta “figlia” dei suoi tempi ed assume certamente la connotazione di “moneta di necessità o di emergenza”. Riflettendo sulle anomalie illustrate sopra, si ha come l'impressione che le Autorità del Regno d'Italia provassero quasi imbarazzo, dopo le raffinate e ricche produzioni monetali dei primi 15 anni del '900, ad immettere in circolazione una moneta “povera”. Una sorta di “Cenerentola” delle monete, creata in tutta fretta e da dimenticare al più presto. Questo “imbarazzo” si ripercosse anche sulla formulazione, stilisticamente poco elegante ed anzi, persino farraginosa, dei provvedimenti istitutivi della moneta. Nonostante tutto ciò, l'<<esagono>>, soprannominato in numismatica come “il brutto anatroccolo”, si difese con molta dignità se è vero che nel 1940 la moneta “ha tuttavia ancora dei residui di circolazione, quantunque da tempo ne sia stato disposto il ritiro e la sostituzione con monete di nichelio puro”. PERIODO DEL I DOPOGUERRA:Terminata la guerra, la Zecca dovette pensare al rinnovamento monetario emettendo delle nuove monete per lasciarsi definitivamente il passato bellico alle spalle. Vennero coniate nuove monete di rame: 5 cent spiga: al dritto portavano l’effigie del Re volta verso sinistra e la leggenda “VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA”; al rovescio una spiga di grano in verticale, con foglia a sinistra.
10 cent ape: essa riprendeva le monete di Efeso. Portava al diritto la testa nuda del sovrano volta verso destra e la leggenda “VITTORIO EMANUELE III RE D’ITALIA”; al rovescio un’ape che coglie il nettare da un fiore.
50 centesimi: in nichelio, venne denominato Leoni. Al dritto raffiguravano il semibusto del sovrano volto verso sinistra, in uniforme, e la scritta VITT.EM.III/RE.D’ITALIA. ; al rovescio la parola AEQVITAS; la Giustizia, con la fiaccola, era seduta su una quadriga di leoni volti a destra.
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Alla fine della guerra, i buoni cartacei usati durante il conflitto in mancanza di metallo, da 1, 2, 5 e 10 lire vennero cambiati nelle seguenti monete del valore corrispettivo: buono da 1 lira: riporta al dritto la personificazione dell’Italia seduta su un trono che porge con la mano destra un ramo di ulivo (simbolo della pace e quindi allegoria della Patria) e con la sinistra un simulacro della Vittoria (la piccola Nike alata che richiama la tradizione classica, simbolo di trionfo). A grosse lettere vi è scritto “ITALIA” e la data 1922. Sul rovescio vi è una grande corona d’alloro, in cui è chiuso un piccolo stemma d’Italia sormontato dalla corona reale e dalla leggenda “BUONO DA 1 LIRA”. buono da 2 lire: verrà trattato successivamente nella sezione riguardante il fascismo. 5 lire: fu denominato Aquilino. Al dritto porta la testa nuda del sovrano rivolta verso sinistra e la scritta VITTORIO.EMANUELE.III.RE.D’ITALIA.; al rovescio un’aquila con le ali spiegate appoggiata su un fascio littorio. Sul 5 lire è presente un aquila sopra il fascio littorio in quanto le monete da 5 e 10 lire vennero coniate a partire dal 1926, periodo successivo all’ascesa del Duce.
10 lire: venne denominato Biga. Esso riporta la consueta testa nuda del Re rivolta verso sinistra e la scritta VITT.EM.III/RE.D’ITALIA.; al rovescio vi è la personificazione dell’Italia, in piedi su una biga briosa rivolta verso sinistra, che sorregge un fascio littorio.
Con le nuove monete da 1 e 2 lire, col nuovo tipo da 50 centesimi di nichel puro e con la sostituzione dei nominali in bronzo la Zecca lavorò in modo straordinario raggiungendo una produzione veramente enorme. IL FASCIO LITTORIO L'utilizzo dei simboli si rivelò subito una forte caratteristica del fascismo. Oggi è possibile affermare che il regime guidato da Mussolini sia stato un 'regime di simboli' ed è addirittura possibile comparare il fascismo ad una religione laica poiché esso custodiva una natura religiosa che tendeva a valorizzare la funzione essenziale dei miti e dei riti. Gli studi che furono messi in atto
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non si fermarono solamente alla sfera simbolico-mitologica del fascismo, ma scavarono più nel profondo fino ad arrivare all'universo di riferimento dal quale derivavano i simboli e i miti. Di conseguenza appare rilevante il ruolo del mito della Roma antica nelle radici di questa dittatura. Fu proprio Benito a Mussolini ad autenticare il legame indissolubile tra la storia romana e la rivoluzione fascista quando, in un articolo intitolato Passato e Avvenire pubblicato sul “Popolo d'Italia” del 21 aprile 1922, in occasione del Natale di Roma, affermò: “Roma e Italia sono infatti due termini inscindibili […] Roma è il nostro punto di partenza e noi sogniamo l'Italia romana, cioè saggia e forte, disciplinata e imperiale”. Durante quello stesso discorso Mussolini ricordò che l'impronta del fascismo, non ancora salito al potere, era da rintracciare proprio nei suoi cenni alla romanità e nell'acquisizione del fascio littorio come simbolo privilegiato. Con il passare del tempo questa traccia di Roma antica si manifestò in modo sempre più chiaro poiché il fascio littorio iniziò a comparire sempre più spesso nell'iconografia pubblica. Questo simbolo divenne onnipresente e a partire dal dicembre 1925 iniziò un cammino legislativo che nel giro di quattro anni lo avrebbe trasformato da simbolo di partito a simbolo di Stato. In quella data Mussolini dispose che esso venisse affisso su tutti gli edifici ministeriali ed infine il 12 dicembre 1926 fu dichiarato emblema di stato. Il 27 marzo fu inoltre decretato che sulla sinistra dello scudo dei Savoia, stemma dello Stato, doveva essere collocato l'emblema del littorio. L'11 aprile del 1929 avvenne l'evento che caratterizzò la cosiddetta 'fascistizzazione': lo stemma dello Stato, la cui foggia era cristallizzata dal 1890, fu modificato attraverso un Regio decreto legge: lo scudo monarchico dei Savoia sarebbe stato sorretto non più da due leoni, ma da due enormi fasci littori. Ma la compresenza iconografica di un simbolo monarchico come l'effige del Re con il fascio littorio trovò un concreto compimento subito dopo la Marcia su Roma, quando si iniziò a riflettere sulla possibilità di emettere una moneta che simboleggiasse la presa del potere da parte del fascismo. Verso la metà di dicembre del 1922 fu recapitata al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giacomo Acerbo una lettera riservata della quale non conosciamo il mittente e nella quale si avanzava tale proposta, confidando che Mussolini avrebbe potuto indicare l'immagine più idonea alla sua realizzazione: “Caro Acerbo dovresti interessare Mussolini perché costituisca sin da ora un segno imperituro dell'avvento del fascismo al potere. Questo segno potrebbe consistere nella impronta speciale da darsi ad una moneta di circolazione normale. Invece della spiga, del fiore coll'ape, Mussolini saprà trovare una impronta significativa per l'opera restauratrice del fascismo. L'occasione si presenterebbe ora. Sono stati emessi i buoni metallici da Lire una e la legge già autorizza l'emissione di 150 milioni di lire in pezzi da Lire 2 di nichel”. Il 22 dicembre Acerbo propose l'idea al Ministro delle Finanze Alberto De Stefani. Dopo appena due giorni, il 24 dicembre, il Ministro inviò una lettera a Mussolini con la quale garantì al duce che sarebbero state emesse delle monete con simboli fascisti: “[...]mi è gradito assicurare V.E. che ho già da alcuni giorni disposto che fossero preparati i punzoni per le nuove monete divisionali e di appunto, recanti inciso il fascio littorio, simbolo di Roma antica e della nuova Italia”. Dopo tre giorni, il 27 dicembre, la notizia fu riportata sulla prima pagina del giornale più importante dell'epoca, il “Popolo d'Italia”: << Il pubblico ha accolto con piacere le monete di nichel che sostituiscono i piccoli biglietti si Stato. Queste nuove monete porteranno impresse il Fascio Littorio, simbolo dell'antica Roma e della nuova Italia>>. Attraverso le parole del Ministro si percepisce un certo senso si urgenza, come se i tempi per la realizzazione del progetto volessero essere accellerati (il Ministro comunica che i punzoni sono già in preparazione facendo intendere che i lavori per la realizzazione erano già in atto, sebbene non fosse vero). Al di là di tutto ciò, la coniazione di queste monete avvenne solo alcuni mesi dopo dovendo affrontare molti imprevisti che ne rallentarono la realizzazione.
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Un lungo articolo comparso su “Popolo d'Italia” il 4 aprile del 1923 racconta, oltre alle scelte attraverso le quali si arrivò alla selezione del fascio littorio da incidere sulle monete, il motivo per il quale nell'Italia del primo dopoguerra (quindi nel periodo in cui l'ascesa definitiva del fascismo non era ancora avvenuta) fu indispensabile eliminare i buoni di carta per fare spazio alle monete: <<Tali buoni furono emessi come sostituzione degli spezzati di argento allorché l'enorme rincaro del metallo bianco andava determinando la rapida scomparsa dei pezzi metallici da uno e due lire>>. In quel turbato contesto sociale non fu possibile sostituire l'argento poiché tutti gli altri materiali in circolazione (ovvero rame, alluminio, bronzo, acciaio, nichelio ecc.) vennero utilizzati principalmente per scopi bellici, quindi la scelta ricadde inevitabilmente sui buoni cartacei nella speranza <<che breve ne sarebbe stata la vita per il pronto ristabilirsi di una situazione normale>>. Dopo il secondo conflitto mondiale, tuttavia, il prezzo dell'argento non ebbe un calo determinante, così si dovette optare per la coniazione delle monete con un altro tipo do metallo. Si ricorse al nichel, materiale che l'Italia utilizzò già in passato per la coniazione della moneta da centesimi 20. L'uso del nichel portava dei vantaggi, come la lucentezza e la resistenza, ma purtroppo anche degli svantaggi come l'estrema durezza e diversi problemi conseguenti legati alla lavorazione stessa del metallo. L'industria italiana dovette in questo caso fare ricorso a delle nuove metodiche di lavorazione poiché in precedenza i tondelli di nichel erano stati forniti dall'estero. Superati i problemi pratici, fu necessario pensare a ciò che si voleva raffigurare sulle monete come simbolo delle grandezza postbellica italiana. A questo scopo il Ministero del Tesoro bandì nel 1922 un concorso finalizzato a scegliere l'effige più adatta per il buono di cassa metallico da 2 lire. A questo concorso parteciparono gli allievi della Regia Scuola dell'Arte della Medaglia, attiva da qualche tempo presso la Zecca ed istituita nel luglio del 1907. Il vincitore avrebbe avuto il compito di raffigurare al dritto del buono metallico la testa turrita dell'Italia e al rovescio l'immagine dell'aratro italico. Morbiducci ed il suo modello furono scelti come vincitori. Sfortunatamente la situazione dell'Italia cambiò drasticamente nel giro di pochi mesi. L'idea di imprimere il fascio littorio circolò in maniera molto veloce e già il 1 gennaio 1923 il Consiglio dei Ministri si riunì sotto la Presidenza di Mussolini e De Stefani annunciò che “importanti provvedimenti in ordine alla circolazione monetaria” dovevano essere attuati. In questa seduta, oltre alla decisione di quanto ammontare sarebbe stato emesso, si decise il simbolo ufficiale che sarebbe stato impresso sulle nuove monete e fu Mussolini in presentare tale idea: <<Su proposta del Presidente, il Consiglio ha deliberato che le monete di nuovo conio portino da un lato l'effige del Re e dall'altro il Fascio Littorio>>. Il dibattito riguardante i buoni metallici rimase tuttavia sempre in auge. L'attenzione verso i buoni da 2 lire fu richiamata da Margherita Sarfatti, che scrisse una lunga lettera sul “Giornale d'Italia” indirizzata a Mussolini, volendolo informare delle proprie opinioni riguardo al processo in atto e volendogli comunicare le proprie speranze verso una moneta che rispettasse più i canoni artistici che quelli prettamente economici. Essa inseriva la coniazione del nuovo buono all'interno di una antica ed illustre tradizione italica dell'arte “concettosa e compendiosa della moneta”. La Sarfatti notava quanto la nuova moneta potesse allontanarsi dalle tradizionali scelte artistiche e stilistiche italiche per avvicinarsi di più verso scelte convenzionali. Il suo ammonimento doveva servire come esortazione nel rendere le monete grandi quanto l'Italia fascista. Essa ricordava a Mussolini, inoltre, che l'Italia poteva vantare “un Re che fra i numismatici del mondo è reputato forse il più dotto” ribadendo ancora una volta l'importanza di affidare il progetto del nuovo buono a mani esperte poiché “la moneta è arma potentissima per la
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diffusione del senso della bellezza”. Il 24 ottobre 1923, in occasione del primo anniversario della Marcia su Roma, fu emessa une serie si tre francobolli. Gli oppositori del fascismo dovettero presto rendersi contro che con l'imprimere l'immagine del fascio littorio sulle monete vi fu la definitiva consacrazione socio-politica di questa dittatura. Fu esemplare ciò che accadde il 2 gennaio 1923 sulla IV pagina del giornale “Avanti!”, storicamente avverso al fascismo e a Mussolini, che presentava un articolo riguardante i provvedimenti presi il giorno prima durante il Consiglio dei Ministri dicendo sinteticamente: <<il Consiglio dei Ministri ha approvato l'emissione di nuove monete di nichelio da una e due lire che verranno a sostituire i biglietti dello stesso valore>>, senza citare minimamente il nuovo stemma adottato per le monete. L'unico accenno alla nuova effige proposto dalla rivista fu quello riguardante la pubblicità di un nuovo marchio di sigarette sulle quali vi era impresso il fascio littorio. Per scegliere e ricostruire il simbolo del fascio littorio da modellare poi sulle nuove monete fu chiamato un archeologo, il senatore Giacomo Boni, il quale accettò con entusiasmo questo incarico e volle preparare “un modello in natura del Fascio Littorio quale era veramente adoperato dai romani” ed effettivamente riuscì a crearne uno con verghe lunghissime strette da alcune corregge di cuoio e con la scure attaccata esternamente lungo il fascio. Ben diverso, quindi, dall'iconografia classica del fascio durante la Rivoluzione Francese ovvero con la scure prominente dalla sommità del fascio, infatti il “Popolo d'Italia” del 4 aprile scrisse: “Noi sbagliamo quindi se ci figuriamo il fascio littorio quale viene generalmente disegnato con la scure sporgente alla estremità”. E così la nuova immagine del fascio non rimandava solo ad un simbolo di dominio ma anche ad un simbolo di significato religioso. E se a Boni fu affidato il gravoso compito di sancire il nuovo simbolo del fascio, a Morbiducci fu affidata nuovamente la raffigurazione delle nuove monete che avrebbero recato al dritto il semibusto in uniforme del re volto verso destra e, intorno, la dicitura VITTORIOEMANUELE-III-RE-D'ITALIA; al rovescio il fascio littorio con scure rivolta a destra, la legenda BUONO DA 2 LIRE, il segno della Zecca, la data e i nomi dell'autore e dell'incisore. La moneta venne emessa solo dopo alcuni mesi e finalmente il 19 luglio le principali testate riportarono con discreta enfasi la seguente notizia: il giorno precedente il capo del Governo Mussolini aveva fatto visita per oltre un'ora alle officine della Zecca di Roma. Che le azioni fasciste di quel tempo furono perlopiù propagandistiche, a partire dalla scelta del fascio littorio, appare chiaro, e questa visita di Mussolini ed il modo in cui venne riportata dai quotidiani ne sono un esempio. Il 27 luglio la Gazzetta Ufficiale pubblicò il decreto del 14 giugno 1923 n° 1537 con il quale veniva autorizzata la fabbricazione e l'emissione dei buoni di cassa in nichel da 2 lire. Questa moneta“brillante, bella, sicura contro il logorio che il Governo nazionale ha dato all'Italia” può dunque essere definita come una vera e propria conquista da parte dei fascisti della quotidianità e della vita materiale italiana, poiché fissava l'iconografia fascista qualcosa di forte dal punto di vista del potere e della propaganda.
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IMPERO "Fu allorché Badoglio entrò ad Addis Abeba che Mussolini annunciò trionfante la proclamazione dell'impero e pochi giorni dopo convocò a palazzo Venezia il direttore della Zecca per commissionargli una serie di "monete imperiali" celebrative dell'evento, dimenticandosi che sino ad allora era stato sempre Vittorio Emanuele III a seguire personalmente la monetazione". Questo episodio è noto a tutti ed è uno dei pochi grossi screzi tra la diarchia del Regime Fascista (ovvero il Re da una parte e Mussolini dall'altra). Questo evento accadde proprio all'indomani della fondazione dell'Impero, quando Senato e Camera attribuirono al Re e al Duce, senza alcuna distinzione, lo stesso grado di "primo maresciallo dell'impero". Il che significava mettere su un piano di patirà il Re e Mussolini. Vittorio Emanuele III, allora, ebbe uno dei suoi pochi (conosciuti) scatti di collera incontrollati. "Dopo la legge sul Gran Consiglio - disse il Re - questa legge è un altro colpo mortale alle mie prerogative sovrane". Vittorio Emanuele III era diventato imperatore, ma Mussolini si era autoproclamato il "fondatore dell'impero". Perciò agli antichi e venerandi stemmi sabaudi si erano aggiunti i fasci e le aquile imperiali. Alle 19 del 9 maggio 1936 Mussolini annunciò trionfante la proclamazione dell'impero (essendo entrato Badoglio, poco prima, ad Addis Abeba). Appena 6 giorni dopo il Duce pensò di eternare nel metallo la conquista dell'impero e convocò subito a palazzo Venezia il direttore della Zecca ordinandogli una serie di "monete imperiali" celebrative del grande evento, il tutto per l'indomani alle 9. Insomma, la Zecca aveva appena 24 ore di tempo per preparare gli schizzi relativi a tutti i tipi di monete allora in circolazione. Questo atto fu già un primo scavalcamento del Re il quale, da grande numismatico, aveva sempre seguito personalmente la monetazione, dimostrandosi estremamente geloso di questa sua prerogativa numismatica alla quale Mussolini, a dire il vero, non diede molta importanza descrivendola come:"Una mania innocua". In verità anche le monete erano state una spina nel fianco di Mussolini, che lo fece soffrire non poco, poiché il Duce riuscì a invadere tutti i campi del Re, nessuno escluso, salvo la monetazione. Sulle monete era sì comparso qualche simbolo fascista in questi primi 13 anni del Regime (il fascio, un littore) ma i simboli sabaudi, gli antichi stemmi reali, avevano sempre avuto la prevalenza. Mai Mussolini ebbe l'onore e la soddisfazione di vedersi eternato su una moneta; tante medaglie, ma monete no. Le 20 lire che circolano con la testa di Mussolini elmata e il famoso detto "Meglio vivere un giorno da leone che 100 da pecora" sono solo una pacchiana contraffazione di fantasia, mutuata dalle 20 lire Vittorio Emanuele III del 1928 dove l'effige del Re è stata semplicemente sostituita con quella del Duce. Il Professor Romagnoli, incaricato di modellare le monete, dovette sentirsi come un vaso di coccio tra due vasi di ferro. L'indomani - gli ordini erano ordini - i disegni delle 11 monete erano pronti dopo un giorno e una notte di studi e prove. Il Duce lodò la celerità con cui il lavoro era stato eseguito, apprezzò l'ispirazione e, raccolto il materiale, si recò dritto al Quirinale per comunicare la bella sorpresa al Re. Sorpresa sì, bella no. Romagnoli, che conosceva bene Vittorio Emanuele III, si era ben guardato dal rappresentare sulle monete l'immagine del Duce o di farvi apparire il suo nome. Ma dovendo accontentare anche l'altro potente padrone (ci andava di mezzo il posto) aveva cercato di compensare Mussolini rappresentando generosamente simboli fascisti sui rovesci delle monete. Undici i valori di diversi materiali:
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Oro: 100 e 50 lire. Le prime recavano al rovescio un littore recante sulle spalle un pesante fascio littorio. Sotto, a far da base, un piccolo stemma sabaudo, quasi in castigo.
Argento: 20, 10 e 5 lire. Le prime rappresentavano l'Italia in trionfo su una quadriga. Le 10 lire portavano al posto d'onore l'Italia in piedi sulla prora di una nave sempre con vittoria e fascio in mano. Sulle 5 lire Romagnoli aveva disegnato l'allegoria della FeconditĂ : una donna prosperosa attorniata da quattro bambini, uno dei quali al petto. Questa volta stemma sabaudo e fascio erano trattati alla pari, uno destra e uno sinistra: l'equilibrio della diarchia era perfetto.
Nichelio: 2 lire, 1 lira, 50 e 20 centesimi. Le 2 lire e la lira portavano una grande aquila appollaiata su un fascio, quasi a covare i destini dell'Italia imperiale, tutto contornato da un fascio di rami d'alloro. I 50 centesimi ripetevano l'impronta dell'aquila, ma che non era piĂš di prospetto, bensĂŹ volta a destra e con le ali spiegate. Infine i 20 centesimi, una moneta che fece chiacchierare molto i maligni: c'era al rovescio il volto di una bella ragazza con dietro il fascio e sopra, in piccolo, lo stemma dei Savoia. Di chi era questa testa muliebre? Molti sussurravano che Romagnoli, per ingraziarsi il Duce, avesse ritratto nientemeno che Myriam Petacci.
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Rame: 10 e 5 centesimi. I 10 centesimi appaiono come unica moneta della serie in cui lo stemma coronato dei Savoia è posto al centro del campo. Nei 5 centesimi tornava l'aquila imperiale ad ali aperte, vista di fronte, appoggiata su un fascio; sotto lo stemmino coronato. Inoltre Romagnoli, incalzato dalla fretta, scopiazzò le impronte dalle monete già battute in passato. Era scontato che al dritto apparisse sempre il volto del Re come era sempre avvenuto e come sempre sarebbe avvenuto, salvo rare eccezioni, fino alla caduta della monarchia. Ma anche così il Regime, grazie ai rovesci, usciva dalla serie imperiale vittorioso. Come accolse Vittorio Emanuele III le nuove monete? Lo sappiamo da un'indiscrezione che Patrignani raccolse dalla bocca di un intimo di Casa Reale, grande numismatico anche lui, il barone Cunietti, il quale riferì testualmente:"Non tutte le figure dei rovesci riportati sulle monete della serie imperiale erano piaciute a Sua Maestà, che vi aveva trovato troppe aquile e fasci". Su "Il Popolo d'Italia" dell'8 maggio 1937, in un articolo elogiativo delle nuove monete si diceva testualmente "che i venerandi simboli imperiali erano finalmente tornati sulla monetazione di Roma così come sui suoi colli era tornato l'impero" se non altro "per riprendere e rinverdire le gloriose tradizioni del tempo antico". Mentre in realtà, come aveva subito notato il Re che se ne intendeva, di antico non vi era proprio nulla perché le aquile e i fasci impressi sulle monete erano frutto di un "modernismo" a tutti i costi. Il barone commentò:"Con tutte quelle aquile finiremo alla fine per andar via anche noi", e fu un buon profeta: Vittorio Emanuele III dieci anni dopo prendeva la via dell'esilio. Rare le 100 e le 50 lire d'oro emesse rispettivamente in 812 e 790 pezzi e vendute ai collezionisti. Che piccole, quelle monete! Tutto avevano fuorché dimensioni imperiali. Pesavano appena 8,80 e 4,40 grammi e avevano un diametro di mm. 23,5 e 20,5. E pensare che appena undici anni prima le 100 e le 50 lire auree pesavano quattro volte di più e avevano un diametro di mm.35 e 28. E le 20 lire d'argento? Belle, grandi, pesanti, nulla da dire, quasi come i vecchi Scudi di venerata memoria. Con la differenza che valevano quattro volte meno. Molti, troppi ricordavano ancora le 20 lire del 1923 che erano d'oro zecchino, altro che d'argento! Ora che il nichel sembrava troppo caro, prezioso per l'Italia imperiale, tanto è vero che si era progettato di battere i valori da 2 lire, 1 lira, 50 centesimi e 20 centesimi in una nuova lega più economica: l'acmonital, come poi difatti avvenne nel 1938. Anche il rame era diventato raro, serviva alla difesa della patria e doveva essere sostituito col bronzital una speciale lega di alluminio e bronzo. A partire dal 1938 le monete già battute in nichelio furono coniate nella nuova lega di acmonital-nichelio e poi, dal 1940, in solo acmonital, con la conseguenza che le monete coniate nel 1938, nel 1939 e nel 1940 sono amagnetiche, mentre quelle battute negli anni 1940, 1941, 1942 e 1943 sono magnetiche e quindi attratte dalla calamita. Se l'acmonital diede buoni risultati, non altrettanto si verificò per il barion che sostituì il rame a partire dal 1939: queste monete ben presto accusarono una perdita del colore tradizionale, assumendo un colore nerastro che non accontentava nessuno, né gli italiani né gli indigeni africani. "Non bone", dicevano questi ultimi nel ricevere i 10 e i 5 centesimi in bronzital. Non avevano poi tutti i torti, abituati com'erano sempre stati a spendere i talleri d'argento della pettoruta Maria Teresa d'Austria.
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COLONIE IL TALLERO D'ITALIA: Tutto ebbe inizio quando un armatore genovese, Raffaele Rubattino, acquistò da un notabile eritreo per la somma di 30 mila lire il territorio che si affacciava sulla baia di Assab. Essendo i Genovesi rinomati per le loro grandi qualità nel campo degli affari, il progetto di Rubattino si rivelò subito vincente: la sua società costruì una base di rifornimenti e di servizi per le sue navi sulla rotta Genova-India via Mar Rosso. Nel 1882 però, la società decise, per motivi economici, di far appoggiare le proprie navi nei porti di Gedda e di Aden e di cedere Assab allo Stato Italiano e così il governo dell'epoca inviò in quella zona un corpo di spedizione i 1500 uomini. Il 2 dicembre 1885 venne proclamata l'adesione dell'Eritrea al regno d'Italia. Dopo aver posto rimedio alla formazione di un governo e alla costruzione di strutture amministrative capaci di dare alla colonia e ai suoi abitanti una valida garanzia sul nuovo sistema di vita regolato da leggi che inoltre tenevano largamente conto dei diritti degli indigeni, si dovette pensare anche all'adozione di una monetazione idonea a quei territori. Inizialmente vennero battute delle monete rassomiglianti a quelle del negus Menelik nel 1891 e nel 1896, ma nel 1918, sotto il regno di Vittorio Emanuele III, il governo italiano emise un altro tipo di moneta per l'Eritrea, ovvero il Tallero d'Italia. Un particolare degno di nota è dato dal fatto che la figura della donna riportata sul diritto della moneta è tratta da quella che spicca sul tallero per il Levante, battuto a Venezia sotto il doge Ludovico Manin (1789-1797); il volto, l'acconciatura, il diadema, il mantello d'ermellino e le guarnizioni del vestito della donna facevano intendere un chiaro riferimento alla moneta coniata nell'epoca del Manin. Nonostante il nuovo spunto artistico non sia stato dei migliori, l'ispirazione all'altra moneta non fu infelice, anzi, quest'ultima simboleggiava la gloriosa repubblica veneta e perciò poteva benissimo rappresentare l'Italia in tempi più moderni. Immesso in Eritrea, il Tallero d'Italia si trovò di fronte un antagonista d'eccezione: il tallero austriaco di Maria Teresa del 1780, che già circolava nella colonia, nella vicina Abissinia e nel confinante Sudan. È difficile fare un esame comparativo tra i due talleri, a meno che non si voglia fare un'analisi dal punto di vista storico, in quanto entrambi figurano il busto di una donna volto a destra, seppure con sembianze diverse. Nella moneta austriaca colpisce la florida bellezza matrimoniale, anche se un po' appesantita, dell'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo, descritta dal diplomatico inglese Tommaso Robinson con queste parole: “...aveva un aspetto quanto mai imponente, una grande bellezza...perfetta dolcezza di espressione, grazia femminile,...”. Inoltre vi erano le raffigurazioni dell'aquila asburgica e dei Savoia come stemmi delle casate regnanti delle rispettive nazioni che, entrambe bicipiti e con le ali spiegate e caricate in petto erano talmente simili da poter essere facilmente confuse. È evidente, quindi, che questa notevole somiglianza sia stata voluta da parte italiana proprio per far accettare alle popolazioni dell'Eritrea la nuova moneta la quale, nonostante ciò, non trovò un'accoglienza favorevole tanto che lo Stato Italiano, dopo aver posto in circolazione 510 mila pezzi, decise di porre fine alla coniazione. Avendo fatto esperienza, nel 1935 il governo italiano chiese ed ottenne da quello austriaco il diritto di co-coniazione per 25 anni del tallero del 1780, permettendo così all'Italia di fronteggiare con sicurezza il problema della circolazione monetaria in Africa Orientale durante e successivamente la campagna d'Etiopia.
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IL TALLERO DI MARIA TERESA. I talleri di Maria Teresa d'Austria sono facilmente riconoscibili anche per i non esperti poiché si tratta di monete relativamente comuni, in argento, a nome della grande sovrana asburgica e che coprono un ampio arco di tempo, dal 1740 al 1780. La creazione di due porti franchi a Fiume e a Trieste, nel 1719, aveva fornito le condizioni per un vivace scambio di merci attraverso il Mediterraneo e il rinnovamento tecnologico voluto dalla sovrana aveva portato degli effetti anche sulla moneta, che venne ben presto richiesta e accettata nelle transazioni commerciali di tutt'Europa. La coniazione di queste monete si estese inoltre fino all'Arabia, alla Somalia e all'Eritrea dove le ritroviamo, con minime varianti di peso e titolo, come emissioni italiane per sostenere la campagna militare d'Africa Orientale. Per quanto riguarda l'iconografia del tallero, essa può essere considerata piuttosto ripetitiva, specie se si pensa alla durata del regno di Maria Teresa: la varietà dei ritratti è limitata, infatti essi si limitano ad un tipo giovanile e ad uno in età matura. Ed è proprio l'immagine relativa a quest'ultimo periodo che tutti hanno in mente e che ha caratterizzato in modo indimenticabile anche il tallero che ha portato l'immagine di Maria Teresa in giro per il mondo. Si tratta di una moneta in argento che reca al diritto lo stemma dell'Austria con aquila bicipite e dalla leggenda ARCHID.AVST.DUX/BURG.CO.TYR.1780. seguita da una croce di Sant'Andrea che ricordava le convenzioni del 1753 stipulate con la Baviera. Al rovescio troviamo un bellissimo ritratto della sovrana, non più giovane, con il busto drappeggiato e la testa ornata da una delicatissima corona e da un elegante velo che le dona una sembianza molto umana. Il ritratto parla di una donna ormai matura che mantiene i tratti dell'antica bellezza. L'ITALIA NELLA MONETAZIONE ALBANESE DAL 1914 AL 1943. Il 16 aprile 1939 Vittorio Emanuele III accettò la corona d'Albania in un‘unione personale che, per la verità, si concretizzò in una vera e propria annessione. Per ben comprendere tale periodo bisogna risalire ad alcuni eventi del periodo del governo Zogu (1924-1939) ma anche ad un antefatto militare che risale agli ultimi mesi della prima guerra mondiale quando, nel giugno del 1918, l'Italia occupò le regioni albanesi di Berat e città limitrofe, mettendo in circolazione buoni da 1 lira italiana, non datati, in testi bilingue italo-albanese. In seguito gli italiani consegnarono queste regioni ai francesi che le tennero sino al 1920. Seguì, il 25 dicembre 1914, un'altra occupazione “per difendere l'integrità territoriale albanese dall'espansione greca”, finché il 2 agosto 1920 un protocollo preliminare firmato a Tirana sancì il ritiro delle truppe italiane, rendendo possibile la costruzione dello Stato albanese nei confini del 1913. Dopo varie vicende politiche il 31 gennaio 1925 Ahmed Zogu fu eletto presidente
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della repubblica d'Albania. Nel paese il flusso monetario era caotico a causa della circolazione di tante monete di diverso valore e provenienza (residui turchi, lire-carta italiane, franchi svizzeri e belgi). La carenza di banche e di una propria monetazione indusse Zogu a chiedere all'Italia ingenti capitali che portarono alla creazione della Banca Nazionale d'Albania, col privilegio di poter emettere propria carta-moneta e moneta, avente come unità di misura decimale il Lek, dal nome del patriota Scanderberg. Il Patto di Tirana del 27 novembre 1926 ed il Trattato di alleanza italoalbanese del 22 novembre 1927 rafforzarono poi i rapporti di amicizia tra i due paesi. L'Italia contribuì subito a concretizzare i rapporti di emittenza per conto della neo Banca Nazionale d'Albania. Inizialmente la Zecca di Roma predispose diverse prove di conio, realizzando coniazioni di monete d'oro e d'argento negli anni dal 1926 al 1928 con l'effigie del presidente Zogu. Tutte le monete hanno la sigla “R” della Zecca di Roma. Durante questo periodo l'Italia fascista tentò di inserirsi nella monetazione albanese. Zogu, autoproclamandosi re d'Albania il primo settembre 1928, si rivelò un pessimo debitore e non restituì mai le somme considerevoli ricevute in prestito: era perfettamente consapevole che la mancata restituzione era il prezzo che l'Italia doveva pagare per mantenere l'Albania nella propria orbita di influenza. Il 7 aprile 1939 il governo italiano procedette all'occupazione dell'Albania e il Regno d'Italia doveva corrispondere al Regno d'Albania 15 milioni di franchi albanesi come contributo per l'assestamento del bilancio. In seguito la bandiera albanese fu ridisegnata dagli italiani che vi apposero i fasci littori mentre lo stemma sabaudo fu posto sopra l'elmo di Scanderberg. Le monete furono coniate tutte dalla Zecca di Roma su modelli del Romagnoli, incisi da Motti: le prime sono datate 1939 XVII anno dell'era fascista (che, si ricorda, scattava il 28 ottobre dell'anno solare) nei tagli d'argento di L. 5 e 10, mentre in Italia le monete d'argento non si coniavano più dal 1937. nel 1939, anno XVIII E.F., la serie fu completata da un'emissione 'Acmonital' (acciaio col 18% di cromo, nichel, molibdeno e vanadio) non magnetico, nei tagli di Lek 2 e 1, nonché di cent. 50 e 20. Per le monete di bronzo si utilizzò la lega 'Bronzital' già sperimentata in Italia: si ebbero coniazioni di cent. 10 e 5 datate 1940 e 1941. Intanto il 1° settembre 1939, il Commissario Generale per le fabbricazioni di guerra C. Favograssa annotava nel suo diario: “Al 1° settembre 1939 le scorte di nichel erano di tonnellate 250 e poco buone erano le previsioni per l'avvenire. Si dovette ricorrere alla raccolta di nichel monetato per un ammontare di circa tonn. 2.500”. Di conseguenza si provvide a coniare anche monete albanesi con la nuova lega calamitata. Il generale Favograssa continuò a trattare della questione del nichel nel 'Promemoria' per il capo del governo esprimendo così la sua apprensione: <<In caso di conflitto la situazione sarebbe molto grave e minaccerebbe di diventare tragica. Senza nichel non si possono costruire armi automatiche. Si dovrebbe fare affidamento sul poco nichel monetario ancora
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in circolazione, la cui raccolta, se accelerata, potrebbe dare solo alcune centinaia di tonnellate di nichel>>. Non potendo più continuare a coniare monete con la minima quantità di nichel, la moneta di 2 lek, già carente nel circolante (il contingente del 1940 e 1941 era stato perduto, unitamente alla moneta di lek 1, durante il trasporto da Roma a Tirana) fu rimpiazzata da omologhi tagli di buoni cartacei. Pertanto, dal mese di giugno 1939 al 1942 furono emessi i seguenti nuovi tagli di biglietti per la Banca Nazionale d'Albania sui quali vi era rappresentata l'aquila bicipite albanese ed il testo bilingue ( Lek 2, Lek 5, Lek 10, F. 5) LA MONETAZIONE DELLA SOMALIA ITALIANA. Il territorio del Benadir vide la presenza italiana sin dal 1889 e da quel momento numerose trattative portarono all'accordo del 5 marzo 1905, per il quale il Mullah islamico (capo religioso somalo) si era impegnato ad accettare il controllo italiano in quella regione. Di conseguenza, il giorno 19 dello stesso mese, il Benadir veniva a formare il nucleo centrale della Colonia della Somalia, con capitale Mogadiscio. Al momento dell'occupazione italiana,la Somalia non era dotata di proprie monete. In quel momento nel Paese circolavano monete provenienti dai paesi arabi o dall'Inghilterra e la circolazione era principalmente basata sul Tallero di Maria Teresa. Questo sistema ledeva in modo inevitabile il prestigio dell'Italia poiché non era dignitoso, per una potenza coloniale, che in un suo possedimento fossero usate monete estere, nonché spiccioli di piccoli stati limitrofi. Così nell'aprile del 1905 fu sperimentata l'introduzione di due monete italiane, il centesimo di bronzo ed il pezzo da 25 centesimi in nichel. Il tentativo si rivelò deludente per la resistenza della popolazione locale all'uso delle nuove monete. Quattro anni dopo le autorità italiane decisero di dar vita ad un sistema monetario autonomo creando una nuova unità monetaria, la Besa Italiana, in bronzo, con i valori da 4 bese,2 bese,1 besa battuti dalla Zecca di Roma. Al diritto compare l'effigie volta a sinistra del Re e l'iscrizione “VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA”. Sul retro “SOMALIA ITALIANA”, diciture arabe, valore e data. Il provvedimento non fu però soddisfacente a garantire stabilità al mercato monetario somalo data la molteplicità delle monete in circolazione. Pertanto il decreto 8 dicembre 1910 istituì una nuova moneta, la Rupia Italiana d'argento con i valori da 1 rupia,1/2 rupia e 1/4 di rupia. Le Rupie presentavano al diritto l'effigie del Re rivolta a destra e l'epigrafe “VITTORIO EMANUELE III RE D'ITALIA”. Al retro “SOMALIA ITALIANA”, corona, valore, diciture arabe, data tra rami e rose, R, simbolo della Zecca di Roma. Il decreto ordinò il ritiro dei Talleri, per cui la Rupia divenne la base del sistema monetario somalo. L'emissione di Rupie cessò nel 1921 e per supplire alla scarsezza del circolante, la Banca d'Italia stampò una serie di “buoni di cassa” nei tagli da 1, 5 e 10 Rupie. Nel giugno del 1925 entrò in vigore una nuova riforma monetaria che introdusse nella colonia la Lira italiana con i valori da 5 e 10 lire.
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AMMINISTRAZIONE FIDUCIARIA ITALIANA SOMALA (A.F.I.S.) Il trattato di pace del 10 febbraio 1947 privava l'Italia di tutti i suoi possedimenti coloniali, compresa la Somalia, il cui destino definitivo veniva lasciato alle decisioni della futura organizzazione delle nazioni unite. E così il 21 novembre 1949 l'Assemblea Generale dell' O.N.U. si pronunziò a favore dell'indipendenza della Somalia, da realizzare attraverso un periodo transitorio di amministrazione fiduciaria italiana. Gli obbiettivi principali di questa amministrazione fiduciaria erano enunciati già nella carta dell' O.N.U.: favorire la pace e la sicurezza internazionale, promuovere il progresso politico-economico e la democrazia nei territori amministrati per avviarli ad una progressiva autonomia ed una completa indipendenza nazionale. Il 27 gennaio 1950, il Consiglio per amministrazione fiduciaria dell' O.N.U. approvava il progetto di accordo per l'amministrazione della Somalia, che, successivamente, veniva accettato dal governo italiano (il 22 febbraio) e ratificato dal nostro parlamento nazionale il 4 novembre 1951. Già dall'aprile 1950 l'Italia era subentrata alla Gran Bretagna nel governo dell'ex colonia così che la nostra amministrazione provvisoria terminava il 22 dicembre 1951 con l'inizio del funzionamento ufficiale dell' A.F.I.S. (Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia). L'accordo per l'amministrazione fiduciaria prevedeva il mantenimento in Somalia di un contingente di volontari delle forze armate e reparti di polizia italiani per la difesa del paese e il mantenimento dell'ordine pubblico interno.
LA MONETAZIONE DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (1943-45) In quel turbinoso periodo della storia italiana che va dall'armistizio dell'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 non tutti sanno che il Governo della Repubblica Sociale Italiana aveva installato una zecca nella città di Aosta con macchinari trasferiti da quella di Roma. In tale zecca furono battute, nel luglio 1944, monete da 50, 20 e 10 centesimi in acmonital recanti data 1943/XXI. Essendo impossibile, per la fretta, approntare nuovi coni di nuovo tipo, i pezzi da 50 e 20 centesimi furono emessi sugli stessi modelli di pari valore battuti dalla Zecca di Roma. Per le monete da 10 centesimi furono usati, perciò, i modelli dei pezzi corrispondenti coniati a Roma fin
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dal 1936, ma tali modelli furono ridotti di modulo, ne fu modificata affrettatamente la data e, per renderne più agevole la coniazione in acmonital ne fu convenientemente abbassato il rilievo. Dei pezzi da 50 e 20 centesimi furono successivamente coniati anche esemplari di prova con la sigla di zecca A (Aosta). Dei pezzi da 10 centesimi furono coniati, sembra, intorno ai 1.000 esemplari che in piccola parte vennero inviati a Brescia, dove aveva sede il Ministero delle Finanze della Repubblica Sociale. Dopo la caduta della Repubblica Sociale, però, presso la Zecca di Roma si procedette alla distruzione degli esemplari. Secondo notizie provenienti da una fonte attendibile, si sarebbero salvati dalla distruzione solo quei pochissimi esemplari inviati a Brescia del pezzo da 10 centesimi. Due esemplari di questo nominale sono gelosamente conservati nel Museo della Zecca di Roma, con la chiara indicazione della zecca emittente, ovvero Aosta. Purtroppo tutti, o quasi tutti, i documenti di archivio di tale zecca provvisoria sono andati smarriti o distrutti. Il fatto, però, che i dirigenti della Zecca di Roma, dopo la caduta della Repubblica Sociale Italiana e dopo il ritorno a Roma delle maestranze e dei macchinari già trasferiti al Nord, abbiano ritenuto di accogliere nel Museo ufficiale della Zecca di Stato questo piccolo disco di metallo nel quale si concretizza la storia numismatica della R.S.I. sta a dimostrare che effettivamente essi avevano elementi per stabilire che si tratta di monete emesse da una vera e propria Autorità italiana che di diritto o di fatto batteva moneta nel territorio sottoposto al suo controllo. ITALIANO: PASCOLI IN "LA GRANDE PROLETARIA SI È MOSSA" Testo: Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada. Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos! Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano. Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia. Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti! come Garibaldi. Si diceva: — Dante? Ma voi siete un popolo d’analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l’onorata società della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s’è fatto vincere e annientare da africani scalzi! Viva Menelik!
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I miracoli del nostro Risorgimento non erano più ricordati. Così queste opre tornavano in patria poveri come prima e peggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghi delle altre nazionalità. Ma la grande Proletaria ha trovato luogo per loro: una vasta regione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, come sentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale si protende impaziente la nostra isola grande; una vasta regione che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d’acque e di messi, e verdeggiante d’alberi e giardini; e ora, da un pezzo, per l’inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parte un deserto. Là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria; apriranno vie, coltiveranno terre, deriveranno acque, costruiranno case, faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall’immenso palpito del mare nostro il nostro tricolore. E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno espulsi,alla loro prima protesta. Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinale del mare. Troveranno, come in patria, ogni tratto le vestigia dei grandi antenati. Anche là è Roma. E Rumi saranno chiamati. Il che sia augurio buono e promessa certa. SÌ: Romani. SÌ: fare e soffrire da forti. E sopra tutto ai popoli che non usano se non la forza, imporre, come non si può fare altrimenti, mediante la guerra, la pace. — Ma che? — Il mondo guarda attonito o nasconde sotto il ghigno beffardo la sua meraviglia. — La Nazione proletaria, la nostra fornitrice di braccia a prezzi ridotti, non aveva se non il piccone, la vanga e la carriola. Queste le sue arti, queste le armi sue: le armi, per lo meno, che sole sa maneggiare, oltre il coltello col quale partisce il pane e si fa ragione sulle risse. Si diceva bensì che era una potenza; e invero aveva avuto un cotal risveglio che ella chiama risorgimento. Così la nazione era risorta. E risorta, volendo dar prova di sè, era stata vinta da popoli neri e semineri E ora ... — Ecco quel che è accaduto or ora e accade ora. Ora l’Italia, la grande martire delle nazioni, dopo soli cinquant’anni ch’ella rivive, si è presentata al suo dovere di contribuire per la sua parte all’umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro; si è presentata possente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare per terra e per cielo. Nessun’altra nazione, delle più ricche, delle più grandi, è mai riuscita a compiere un simile sforzo. Una lunghissima costa era in pochi giorni, nei suoi punti principali, saldamente occupata. […] Proletari, lavoratori, contadini. Il popolo che l’Italia risorgente non trovò sempre pronto al suo appello, al suo invito, al suo comando, è là. O cinquant’anni del miracolo! I contadini che spesso furono riluttanti e ripugnanti, i contadini che anche lontani dal Lombardo-Veneto chiamavano loro imperatore l’imperatore d’Austria, e ciò quando l’imperio di Roma era nelle mani del dittatore ultimo, i contadini che Garibaldi non trovò mai nelle sue file ... vedeteli!
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[…]Quale e quanta trasformazione! Giova ripeterlo: cinquant’anni fa l’Italia non aveva scuole, non aveva vie, non aveva industrie, non aveva commerci, non aveva coscienza di sè, non aveva ricordo del passato, non aveva, non dico speranza, ma desiderio dell’avvenire. In cinquant’anni è parso che altro non si facesse se non errori e anche delitti; non si cominciasse se non a far sempre male e non si finisse se non col non far mai nulla. La critica era feroce e interminabile e insaziabile. Era forse un desiderio impaziente che la animava. Ebbene in cinquant’anni l’Italia aveva rifoggiato saldamente, duramente, immortalmente, il suo destino. Chi vuol conoscere quale ora ella è, guardi la sua armata e il suo esercito. Li guardi ora in azione. Terra, mare e cielo, alpi e pianura, penisola e isole, settentrione e mezzogiorno, vi sono perfettamente fusi. Il roseo e grave alpino combatte vicino al bruno e snello siciliano, l’alto granatiere lombardo s’affratella col piccolo e adusto fuciliere sardo; i bersaglieri (chi vorrà assegnare ai bersaglieri, fiore della gioventù panitalica, una particolare origine), gli artiglieri della nostra madre terra piemontese dividono i rischi e le guardie coi marinai di Genova e di Venezia, di Napoli e d’Ancona, di Livorno, di Viareggio, di Bari. Scorrete le liste dei morti gloriosi, dei feriti felici della loro luminosa ferita: voi avrete agio di ricordare e ripassare la geografia di questa che appunto era tempo fa, una espressione geografica. E vi sono le classi e le categorie anche là: ma la lotta non v’è o è lotta a chi giunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, a chi prima muore A questo modo là il popolo lotta con la nobiltà e con la borghesia. Così là muore, in questa lotta, l’artigiano e il campagnolo vicino al conte, al marchese, al duca. Nè là esistono classi nè qua. Ciò che perennemente e continuamente si muta, non è. La classe che non è per un minuto solo composta dei medesimi elementi, la classe in cui, con eterna vicenda, si può entrare e se ne può uscire, non è mai sostanzialmente diversa da un’altra classe. […]In guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro. Così risponde l’Italia guerreggiante ai fautori dei pacifici Turchi e della loro benefica scimitarra; degli umani Beduini-Arabi che non usano violare e mutilare soltanto cadaveri; degli industriosi razziatori di negri e mercanti di schiavi. […]Così l’Italia si è affermata e confermata. Ora è incrollabile. Può (perdonate la bestemmia; ché in verità ella non può!) essere ricacciata al mare, essere costretta ad abbandonare l’impresa, essere invasa, corsa, calpestata, divisa e assoggettata ancora: ella è e resterà, non può morir più una nazione in cui le madri raccomandano ai figli che partono per la guerra, di farsi onore.[…] I nostri feriti non trascineranno per le vie le mutile membra e la vita impotente. No. Saranno quello che per la madre e per i fratelli è il figlio e fratello nato o fatto infelice. Saranno i careggiati, i meglio riguardati, i più amati. Essi ci ricorderanno la prima ora che abbiamo avuta, dopo tanti anni, di coscienza di noi, di gloria e vittoria, d’amore e concordia.
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[…]Benedetti voi, morti per la Patria! Riunitevi, eroi gentili, nomi eccelsi, umili nomi, ai vostri precursori meno avventurati di voi, perchè morirono per ciò che non esisteva ancora! Voi l’Italia già grande ha raccolti nelle braccia possenti. […]Benedetti, o morti per la Patria! Voi non sapete che cosa siete per noi e per la Storia! Non sapete che cosa vi debba l’Italia! L’Italia, cinquant’anni or sono, era fatta. Nel sacro cinquantennario voi avete provato, ciò che era voto de’ nostri grandi che non speravano si avesse da avverare in così breve tempo, voi avete provato che sono fatti anche gl’italiani. Analisi del testo: In questo testo compaiono elementi nazionalisti tipici dell’epoca che, inevitabilmente, influenzarono anche il mite e benevolo poeta. Pascoli espone con ardore i suoi più sentiti pensieri riguardo alla rinnovata situazione dell’Italia coloniale, evidenziando accuratamente le varie ragioni per le quali questo nuovo periodo imperiale era visto da lui come un “riscatto italiano”, costituito da rinnovo sociale e culturale ed arrivando anche a discolpare un mezzo come la guerra. Innanzitutto il poeta espone il problema dell’emigrazione, condizione che in precedenza costringeva molti italiani a lasciare la propria patria a causa di condizioni lavorative non accettabili che portavano a disoccupazione e misere retribuzioni. Egli sottolinea in maniera incisiva le fatiche e i soprusi ai quali i poveri compatrioti dovevano sottostare in terre straniere. Questi richiami si collegano alla presenza delle “nazioni ricche”, ormai abituate a tiranneggiare le cosiddette “nazioni proletarie”, più povere e meglio assoggettabili. Il sacrificio di questi uomini, disposti a cambiare luogo geografico e condizioni sociali, è visto come un qualcosa di molto malinconico poiché il distacco dalla madrepatria comporta una condizione di particolare vulnerabilità e fragilità. Pascoli si dimostra un nazionalista persuaso e consapevole, fiero delle grandiose radici storiche italiane che, secondo il suo parere, hanno il diritto ed il dovere di tornare a splendere in questa terza epoca di splendore, preceduta dall’età imperiale romana e dalla fioritura sociale dell’età Comunale medievale. Difatti, un Paese così fecondo di cultura e storia non può essere sminuito o svalutato in alcun modo, perciò l’emigrazione è vista anche come qualcosa di ignobile per un paese del calibro dell’Italia, che non deve più trovarsi nella situazione di non poter garantire degne risorse ai propri cittadini. Nelle parole del poeta si nota una giustificazione ai mezzi bellici; infatti, con la conquista della Libia, gli italiani possono restare nella propria patria in quanto le colonie costituiscono un prolungamento della terra natia. Oltretutto, la Libia era un tempo romana, perciò questa riconferma territoriale è particolarmente sentita poiché la nazione italiana sarebbe stata capace di infondere alla colonia quell’ordine e civilizzazione che, ad esempio, gli arabi non erano riusciti a conferirle, facendo regredire quella regione fino a renderla solo un deserto. Ed è in questo punto che Pascoli manifesta il razzismo: difatti egli non si sottrae dal giudicare come barbare, incivili e feroci popolazioni come quella turca e quella araba. Queste nazioni necessitano un rinnovamento civile che può essere apportato solo dalla nazione italiana, rinnovamento che doveva essere impartito anche attraverso l’uso della forza.Perciò questa guerra di colonizzazione assume un carattere unificante per l’Italia poiché tutti gli sforzi compiuti dai soldati e dalla gente saranno poi “ricompensati” attraverso la dominazione italica, che permetterà al paese di acquisire una posizione di rilievo rinvigorendo lo spirito nazionale e risolvendo molte delle sue problematiche interne. D’altronde tutto quanto il discorso è incentrato asulla lode delle gesta italiane, screditando fortemente il lavoro intrapreso dalle popolazioni locali sul territorio e sottolineando tutto ciò che di
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buono l'Italia poteva realizzare. In questo brano si parla anche della lotta tra le classi, fortemente osteggiata dal poeta. Nel testo troviamo l’esempio dei soldati in guerra: essi combattevano fianco a fianco accomunati da un unico scopo, le differenze date dai diversi luoghi di provenienza regionale o dalle caratteristiche fisiche o piuttosto da quelle sociali passavano in secondo piano. Ciò significa che le classi fanno parte di ogni ambito, persino quello bellico, ma sono destinate a scomparire quando l’interesse comune è mirato verso un bene primario e superiore. Perciò ognuno di noi deve prendere atto della propria condizione sociale, trarne il meglio e cercare di vivere in armonia con gli altri. Ecco perché egli si dimostra tanto benevolo con la condizione italiana, quanto molto puntiglioso per quello che riguarda le critiche ai paesi stranieri. Infine, è notevole l’energia con la quale Pascoli presenta il suo discorso, ed è altrettanto considerevole la foga con la quale l’immagine dell’Italia viene sostenuta. Tuttavia il giudizio del poeta non può essere considerato obbiettivo ed imparziale poiché è frutto del clima nel quale egli vive e pensa. Tutto ciò non rende assolutamente la trattazione meno efficace o ammirevole, anzi, attraverso essa abbiamo una visione puramente nazionalista proprio come se ci trovassimo nell’epoca citata, ma in ogni caso il suo pensiero va compreso valutando i diversi fatti storici che vi ci hanno portato. Fisica: Il magnetismo Un po'di storia: Il termine magnete fu attribuito dai filosofi della Scuola di Mileto: con il sostantivo magnhtis liqos veniva infatti indicata la roccia magnetica che si rinveniva nelle cave adiacenti alla città di Magnesia al Silipo, nell’attuale Turchia. Infatti, sin dai tempi di Talete (VI secolo a.C.), era noto come quest’ossido di ferro, detto MAGNETITE, fosse in grado di attrarre la limatura di ferro. Secondo la leggenda narrata da Plinio il Vecchio (23 79 d.C.) al capitolo 25 del Libro XXXVI della sua opera enciclopedica Historia Naturalis, fu bensì il pastore cretese “Magnes” a scoprire e a dare il suo nome al magnes lapis. Egli stava passeggiando per la campagna, quando, con sua sorpresa, il bastone ricoperto di ferro col quale camminava si attaccò ad una roccia: lottando contro la forza che proveniva dalla roccia magnetica, il pastore cadde a terra. Stupito ed impaurito, Magnes tornò a casa e riferì la sua strana esperienza ai propri compaesani. Le persone del villaggio andarono a vedere con i propri occhi la roccia con la strana proprietà di attrarre qualsiasi oggetto costituito da ferro, pensando che si trattasse di magia … Agli inizi dell’800, l’idea che la natura possedesse un’unità dinamica andò diffondendosi. Il fisico danese Oersted effettuò nel 1820 un famoso esperimento per dimostrare le interazioni tra elettricità e magnetismo. In questo esperimento vi era un ago magnetico che, posto nelle vicinanze di un filo percorso da corrente, subiva l’azione di una forza che ne deviava la posizione iniziale. L’azione di questa forza determinava la rotazione dell’ago magnetico, perciò la causa della rotazione non poteva essere una forza, ma un momento. Un altro dato significativo è da attribuire al fisico francese Ampère che descrisse il magnetismo come un aspetto dell’elettricità in movimento. Mentre in generale un magnete e una carica in quiete non interagiscono tra loro, una carica in moto esercita un’azione su un polo
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magnetico: quindi i magneti non sono le uniche sorgenti di campo magnetico. Dall’esperimento di Oersted consegue che una corrente elettrica circolante in un filo è in grado di produrre un campo magnetico. Con l’unificazione degli studi dei fenomeni elettrici e magnetici e delle loro interazioni nasceva così l’elettromagnetismo. Prendendo in mano una barretta magnetica, la prima cosa della quale ci si accorge è che essa presenta due centri di forza, ovvero due poli magnetici, che corrispondono alle due estremità. Questi due poli sono stati denominati polo nord e polo sud. Successivamente, prendendo in considerazione due magneti, si nota un comportamento regolare di attrazione e repulsione tra le estremità di uno dei magneti e quelle dell’altro: infatti ciascuna estremità di un magnete è attratta verso un’estremità dell’altro magnete e respinta dall’altra. I poli magnetici si presentano sempre in coppia, formando il dipolo magnetico. Pur spezzando una barretta magnetica in due (ottenendo pezzi più piccoli) otterremmo in ogni caso un polo nord e un polo sud. Perciò si ha sempre a che fare con due poli. Questo magnetismo è dovuto a delle cariche elettriche in movimento. Il campo magnetico: Il magnete, sia artificiale che naturale, modifica lo spazio circostante determinando un campo di forze chiamato campo magnetico (grandezza vettoriale rappresentata dal vettore induzione magnetica B). Ogni punto del campo ha un'intensità, una direzione e un verso. Direzione e verso sono definiti come la direzione e il verso in cui punta il polo nord dell'ago di una bussola di prova posta in quel punto. Per trovare l'intensità, consideriamo una particella carica (indichiamo con q la carica stessa) che, muovendosi a velocità costante, penetri in una regione dello spazio in cui è presente un campo magnetico uniforme diretto perpendicolarmente alla velocità della particella. Quando quest’ultima entra nel campo magnetico, essa viene deflessa lungo una traiettoria curva, che analizzata si rivela circolare. Una deflessione del genere deve essere causata da una forza che giace nel piano della traiettoria della particella e che sia in ogni punto perpendicolare la velocità della particella. Di che forza si tratta quindi? Sappiamo per certo che non è presente né un campo elettrico né la forza di gravità, pertanto in un campo magnetico una particella carica può essere soggetta a una forza. Variando l’entità della carica elettrica della particella, la sua velocità e l’intensità del campo magnetico, si trova che l’intensità della forza che devia la particella carica è direttamente proporzionale a ciascuna di queste tre grandezze: F=qvB B rappresenta la forza magnetica per unità di carica in moto e per unità di velocità. Da questa equazione si deduce che l’unità di misura SI del campo magnetico è il N/C x (m/s) (unità di misura chiamata tesla (T)). La forza F che compare nell’equazione precedente è detta forza di Lorentz.
La direzione e il verso della forza che agisce su una carica elettrica in moto in un campo magnetico si possono ricavare attraverso la regola della mano destra:
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a) Se il pollice della mano destra punta nel verso di v e l’indice punta nel verso di B, il medio teso punta nel verso di F, nel caso di una particella carica positivamente. b) Se le dita della mano destra sono puntate nel verso di v e quindi curvate verso la direzione di B, il pollice teso della mano punta, nel caso di una particella carica positivamente, nella direzione e nel verso di F. Se la particella è carica negativamente, il verso della forza F è opposto a quello in cui punta il pollice. Puntando il pollice della mano destra nel verso della velocità e l’indice nel verso del campo, il dito medio, disposto perpendicolarmente al piano individuato dai primi due (dalla parte del palmo) indica il verso di F. Anche il campo magnetico come quello elettrico ha un flusso e una circuitazione. Il flusso è una misura del numero di linee di forza del campo magnetico che attraversano una data superficie. Consideriamo dapprima un piccolo magnete;le linee di forza del campo B escono dal polo nord del magnete per rientrare nel polo sud. Sappiamo che non è possibile scindere i due poli poiché, spezzando il magnete, otterremmo solo due magneti più piccoli ma con caratteristiche uguali al magnete da cui derivano. Ogni microscopico dipolo, all’interno del magnete, crea il proprio campo magnetico e l’inscindibilità dei due poli impedisce alle linee di forza di “spezzarsi”. È come se tali linee proseguissero all’interno del magnete, richiudendosi su se stesse: il campo magnetico è caratterizzato da linee di forze chiuse. Al contrario una carica elettrica puntiforme positiva può essere considerata come una “sorgente”, da cui si originano le linee del campo elettrico, e un “pozzo” in cui le linee di campo hanno termine, quindi le linee del campo elettrico sono linee aperte: hanno un’origine ed eventualmente un termine. Questa fondamentale differenza tra campo elettrico e magnetico si riflette nel calcolo del flusso del campo B attraverso una superficie chiusa. Se indichiamo con S il vettore diretto perpendicolarmente al piano della superficie e avente l’intensità pari all’area di S, avremo che:
Dove Ѳ è l’angolo formato dai vettori B e S, considerando B uniforme nella regione delimitata da S. Nel caso in cui la superficie non sia piana, possiamo immaginare di suddividerla in tante piccole aree elementari ∆S₁, ∆S₂, … ,∆Sn, ciascuna delle quali possa essere considerata piana e formi un angolo Ѳi con il campo Bi, che rappresenta il vettore campo magnetico relativo alla superficie ∆Si. Il flusso complessivo si ottiene dalla somma dei flussi elementari:
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Questa equazione definisce il flusso del campo magnetico attraverso la superficie S, talvolta denominato flusso dell’induzione magnetica. L’unità di misura del flusso dell’induzione magnetica è i weber (Wb), che equivale nel SI al tesla per metro quadrato (Tm²). Consideriamo ora una superficie ideale chiusa S che racchiude un magnete. Se le linee del campo B sono chiuse, necessariamente a ogni linea di forza uscente dalla superficie S ne corrisponde sempre una entrante. Poiché le linee uscenti ed entranti contribuiscono al calcolo del flusso di B con segni opposti, possiamo affermare che il flusso totale che attraversa la superficie S è nullo. Queste semplici osservazioni ci permettono di enunciare il teorema di Gauss per il campo magnetico: Il flusso del campo magnetico attraverso una qualunque superficie chiusa è sempre nullo
La circuitazione del campo magnetico, calcolata lungo una linea chiusa, è proporzionale all’intensità di corrente che attraversa la superficie delimitata dalla linea stessa. Una corrente che attraversa la superficie delimitata dalla linea chiusa viene definita corrente concatenata al circuito. Nel caso in cui più correnti siano concatenate alla linea chiusa, potremmo fare questo esempio: consideriamo un generico circuito, fissiamo come verso di percorrenza della linea il verso antiorario. Al circuito sono concatenati due fili rettilinei percorsi dalle correnti I₁ e I₂. Indichiamo con il simbolo x la corrente entrante nel piano del foglio e con il simbolo . la corrente uscente (I1 e I2). In questo caso la circuitazione del campo magnetico è data da:
La costante μ0 si chiama permeabilità magnetica del vuoto e vale: μ0 = 1,26 10-6 N / A2 Generalizzando ulteriormente potremmo ricavare:
Questa equazione esprime il cosiddetto teorema della circuitazione di Ampère, che possiamo enunciare in questo modo: la circuitazione del campo magnetico lungo una linea chiusa è data dal prodotto fra la permeabilità magnetica µ₀ e la somma algebrica delle correnti che attraversano la superficie delimitata dalla linea chiusa.
Proprietà magnetiche della materia: Le sostanze in base alla loro permeabilità relativa possono essere divise in: paramagnetiche (permeabilità assoluta di poco superiore a quella del vuoto), ferromagnetiche (permeabilità variabile con la saturazione, inizialmente crescente e poi decrescente) e diamagnetiche (permeabilità assoluta di poco inferiore a quella del vuoto).
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Nel 1846 Faraday scoprì che un campione di bismuto avvicinato ad un magnete veniva da esso debolmente respinto. Questo comportamento anomalo si verificava anche con argento, rame, mercurio e acqua. Faraday chiamò diamagnetiche tutte queste sostanze ( chiamate nel parlare tutti i giorni "sostanze non magnetiche"). Le sostanze sotto la forma di diamagnetismo hanno atomi e molecole prive di un momento proprio di dipolo magnetico, in quanto gli effetti magnetici di tutti i moti degli elettroni si annullano. I materiali diamagnetici sono dunque sostanze che vengono debolmente respinte da un campo magnetico. Il paramagnetismo è una forma di magnetismo che alcune sostanze mostrano solo in presenza di campi magnetici, polarizzandosi nello stesso senso rispetto al campo applicato. I materiali paramagnetici sono caratterizzati a livello atomico da dipoli magnetici che si allineano con il campo magnetico applicato, venendone debolmente attratti. In particolare, il paramagnetismo si osserva in quei materiali le cui molecole posseggono un momento di dipolo magnetico proprio, come l'aria e l'alluminio. Nel caso dell'aria, l'effetto paramagnetico è a carico della molecola di ossigeno, che possiede doppietti elettronici spaiati degli orbitali esterni responsabili dell'effetto. Contrariamente ai materiali ferromagnetici (attratti da campi magnetici allo stesso modo), i materiali paramagnetici non conservano la magnetizzazione in assenza di un campo esterno applicato. Esempi di sostanze paramagnetiche sono: alluminio, calcio, ossigeno, platino, sodio, potassio, uranio, magnesio. Il ferromagnetismo è la proprietà di alcuni materiali di essere fortemente magnetizzati anche se non sottoposti ad alcun campo magnetico esterno. Questa proprietà si mantiene solo al di sotto di una certa temperatura, detta temperatura di Curie (per il ferro questa temperatura è 768°C), al di sopra della quale il materiale si comporta come un materiale paramagnetico. Sono materiali ferromagnetici la magnetite e il ferro cobalto, nichel, numerosi metalli di transizione e le loro rispettive leghe. I materiali ferromagnetici diventano a loro volta dei magneti quando vengono immersi in un campo magnetico esterno, poichè l'effetto del campo magnetico è quello di orientare i momenti magnetici propri delle molecole parallelamente alla direzione del campo stesso. Nelle sostanze ferromagnetiche è particolarmente accentuata la tendenza a "catturare" le linee di campo magnetico, propria anche delle sostanze paramagnetiche. Tale fatto viene utilizzato al fine di creare degli schermi magnetici che rendono lo spazio al loro interno praticamente insensibile ai campi magnetici esterni. Anche nei materiali ferromagnetici
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gli atomi hanno un momento magnetico non nullo, ma l’orientamento di questi momenti magnetici non è completamente casuale. Infatti fra gli atomi vicini del materiale vi è una forte interazione che porta alla formazione di gruppi di atomi, detti domini magnetici (o domini di Weiss, dal nome del fisico che nel 1907 ne ipotizzò l’esistenza), all’interno dei quali tutti gli spin sono allineati tra di loro, ma i diversi domini sono disallineati tra di loro. Sotto l’azione del campo magnetico i domini che hanno un orientamento magnetico parallelo alle sue linee di forza tendono a modificare l’orientamento dei domini vicini allineandoli con il campo magnetico esterno o facendo contrarre tutti i domini il cui campo magnetico non è allineato con quello esterno. Si ha quindi un notevole incremento del campo esterno. Applicazioni pratiche dell’elettromagnetismo Grazie all’elettromagnetismo ci è concesso l’utilizzo di diversi strumenti che sono in grado di facilitare gli studiosi e i ricercatori nella loro routine quotidiana. Tra questi dispositivi vi sono:
Il galvanometro:
Il motore in corrente continua:
Il tubo a raggi catodici:
Lo spettrometro di massa:
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BIBLIOGRAFIA Testi scolastici: G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria, Dal testo alla storia, dalla storia al testo. Vol. F. Il Decadentismo. Paravia Editore, 2000.
37 J.D. Wilson, A.J. Buffa, Fisica. Percorsi e Metodo Vol.3, Principato, 2004.
A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto, Nuovi Profili Storici Vol.3: Dal 1900 a oggi, Laterza Edizioni Scolastiche, 2008.
Testi storici e/o riguardanti la disciplina numismatica: Lucia Travaini, Storia di una passione: Vittorio Emanuele III e le monete, Edizioni Quasar, 2005.
Fabio Gigante, Catalogo Nazionale delle monete italiane dal 1700 all’euro: Gigante 2012, Gigante Editore, 2012.
Altre fonti: -
I materiali storici originali dell’epoca (tra cui foto e decreti) sono stati gentilmente donati da alcuni amici di un forum sul web che tratta di numismatica, al quale io stesso sono iscritto: http://www.lamoneta.it.
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Acquisizione immagini: l’80% delle foto sono state realizzate da mio zio, Roberto Palladini (http://www.robertopalladini.it), e le monete che compaiono sono tutte quante appartenenti alla mia collezione. Il 20% rimanente mi è stato prestato da alcuni amici appartenenti al forum sopra citato.
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La mia bella, seppur giovane, collezione numismatica:
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