Controluce, nuovi linguaggi per la comunicazione sociale

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tesi di laurea in design e comunicazione visiva

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NUOVI LINGUAGGI PER LA COMUNICAZIONE SOCIALE

gaia maritano, elena radis



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Tesi di laurea in Design e Comunicazione Visiva Anno Accademico 2017/2018

CONTROLUCE Nuovi Linguaggi per la Comunicazione Sociale

Relatori Paolo Marco Tamborrini Andrea Di Salvo

Candidate Gaia Maritano Elena Radis In collaborazione con LABORATORIO ZANZARA


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“La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome. L’arte è soprattutto visione e la visione, molte volte, non ha nulla in comune con l’intelligenza né con la logica delle idee.” Jean Dubuffet

È con questa citazione di Jean Dubuffet, ideatore del concetto di Art Brut, che vogliamo introdurre il nostro percorso di analisi, ricerca e progettazione nell’ambito della comunicazione sociale. Come l’Art Brut è stata innovativa nel suo approccio controcorrente rispetto alla tematica del disagio mentale, la nostra tesi si propone di affrontarla da un nuovo punto di vista. Ci siamo rese conto che la comunicazione odierna (mass media, social media, pubblicistica…), nonostante abbia

come nobile intento la sensibilizzazione e l’integrazione verso la disabilità, rimane estremamente mirata a suscitare pietà e compassione. A nostro avviso è proprio questo tipo di approccio che porta ad un’ulteriore alienazione ed isolamento, avendo come effetto un’integrazione solo a parole e non a fatti. Il nostro tentativo è quello di muoverci in un altra direzione, portando un messaggio innovativo, con un tono differente capace di mostrare l’argomento sotto un altra luce.

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INDICE

pp.

INTRODUZIONE

1 CONTROLUCE, NUOVI LINGUAGGI PER LA COMUNICAZIONE SOCIALE 1.1 Abstract

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1.2 Quadro metodologico

2 APPROFONDIMENTO STORICO

2.1 IL DISAGIO MENTALE

11 13

Cos’è il ritardo mentale Cause del ritardo mentale

17 17 19

Timeline In Italia

20 20 22

2.3.2 Gli anni ‘60, fotografia e documentari come denuncia 2.3.3 Art Brut, quando l’istinto vuole comunicare 2.3.4 Marco Cavallo e la Legge Basaglia 2.3.5 Dopo la chiusura dei manicomi, il cinema 2.3.6 Disabilità nell’epoca contemporanea, pubblicistica e media

25 25 28 31 34 37 40

2.2 RAPPORTO CON IL DISAGIO MENTALE 2.3 LA COMUNICAZIONE DEL DISAGIO MENTALE 2.3.1 Il primo novecento e la fotografia come divulgazione scientifica

3 DENTRO IL PROGETTO

3.1 SCENARIO: IL DISAGIO MENTALE 3.1.1 Il contesto Approccio alla disabilità, un sondaggio del Censis Il territorio torinese e le sue realtà

3.1.2 Individuazione del target 3.1.3 Il concept

45 45 46 46 48 51 53

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pp. 3.2 SISTEMA ESIGENZIALE

3.2.1 Le esigenze 3.2.2 Le linee guida 3.3 AVANPROGETTO 3.3.1 La comunicazione 3.3.2 Scelte stilistiche 3.3.3 Il naming 3.3.4 Lo slogan

3.4 FASE ESECUTIVA 3.4.1 Il Laboratorio Zanzara

3.4.2 La progettazione partecipata 3.4.3 Controluce presenta: Rapina al Carrefur di Leinì Ideazione Soggetto Scaletta Trattamento 3.4.4 Il lavoro con i ragazzi Storyboard fotografico Il “fare” 3.4.5 Il video Struttura del video Storyboard

4. CONCLUSIONI

55 56 57 59 60 62 63 63 65 66 67 70 71 71 71 72 73 74 76 86 86 87

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4.1 FEEDBACK INTERNI

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4.2 FEEDBACK ESTERNI

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BIBLIOGRAFIA SITOGRAFIA

RINGRAZIAMENTI

99 101 103

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Umberto Boccioni, Nudo di spalle (Controluce), Collezione L.F., Mart, 1909

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CONTROLUCE

NUOVI LINGUAGGI PER LA COMUNICAZIONE SOCIALE 1.1

ABSTRACT Obiettivo della tesi è trovare un nuovo metodo comunicativo per raccontare una condizione sociale delicata quale il disagio mentale. Il progetto vuole proporre un nuovo linguaggio che alleggerisca la percezione comune che oggi si ha dell’argomento, ancora considerato come tabù o con il quale è difficile relazionarsi.

Il tentativo è quello di rendere la disabilità soggetto della comunicazione e non oggetto, attraverso un percorso di progettazione condiviso in cui ognuno offre qualcosa di proprio. Il lavoro svolto, infatti, vede i ragazzi affetti da disabilità protagonisti dell’intero processo di realizzazione di un video narrativo.

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Foto di Derek Key, Window and clock, Museo d’Orsay, Parigi, 2013

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1.2

QUADRO METODOLOGICO Per fornire una lettura che rispetti il processo seguito nello svolgimento dell’intero progetto, riportiamo il quadro metodologico elaborato che organizza tutti i momenti e le relative connessioni che ci hanno accompagnato nella costruzione del lavoro di tesi. L0 sviluppo è partito da una ricerca storica nell’ambito sociale del disagio mentale, per poi attualizzarsi nello scenario contemporaneo, con particolare attenzione alla comunicazione ad esso relativa. Da qui è emerso il sistema esigenziale da cui sono state tratte le linee guida da rispettare nella fase di avanprogetto.

Il concept è stato poi concretizzato in fase esecutiva grazie all’incontro e alla collaborazione con una realtà come quella del Laboratorio Zanzara che ci ha permesso di portare a termine il nostro output finale. In conclusione abbiamo analizzato il lavoro svolto per valutare gli aspetti più forti e quelli da modificare come indicazione generale in vista di una eventuale successiva rielaborazione.

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Louis Wain, Gatto, 1925 c.a.

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2

APPROFONDIMENTO STORICO La ricerca parte in primo luogo da una definizione che faccia luce su cosa sia effettivamente il disagio mentale, nel tentativo di fare chiarezza sulla confusione che ancora oggi regna intorno al termine. Attraverso un excursus storico, abbiamo quindi proseguito nell’analizzare la disabilità mentale, il suo trattamento e percezione rispetto alla società. Successivamente abbiamo ristretto il campo di analisi alla comunicazione

ad essa legata, cercando di individuare le tappe che hanno segnato la sua evoluzione, anche in relazione allo sviluppo dei mezzi di comunicazione. Per ciascuna fase abbiamo cercato di individuare gli attori principali della comunicazione e le caratteristiche salienti del messaggio, che ci sono state utili nell’analisi dello scenario e nella definizione delle linee guida del progetto.

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2.1

IL DISAGIO MENTALE Cos’è il ritardo mentale Il termine “ritardo mentale” viene utilizzato per far riferimento a specifiche difficoltà di tipo cognitivo generale o intellettivo. Non esiste una definizione univoca del ritardo mentale, convenzionalmente si usa quella del DSM-IV (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali - Associazione Americana di Psichiatria), la quale definisce il ritardo mentale come “la via finale comune di diversi processi patologici, che agiscono sul sistema nervoso centrale […] caratterizzato da un funzionamento intellettivo significativamente sotto la media, da concomitanti deficit o compromissioni del funzionamento adattivo, entrambi insorti prima dei 18 anni di età.”1 Si parla quindi di “una o più alterazioni legate allo sviluppo cognitivo e adattivo che coinvolgono la persona nella sua globalità”.2

Alterazioni di questo tipo comportano una condizione umana complessa, che necessita di una particolare attenzione e impegno per quanto concerne sia gli aspetti diagnostico-riabilitativi sia quelli socio-ambientali. Sono molteplici le forme in cui si manifesta il ritardo mentale: le classificazioni più significative si rifanno al livello di gravità oppure alle cause del ritardo. Nella prassi scientifica per la valutazione e classificazione del ritardo mentale vengono utilizzati dei test d’intelligenza che vanno a valutare il QI (quoziente intellettivo) della persona. Per QI si intende “il rapporto tra l’età mentale e l’età cronologica espresse in mesi, moltiplicando il risultato per 100.”3 L’età mentale è una valutazione di cosa sa fare il soggetto e di quali sono le sue specifiche funzioni cognitive. La compromissione del QI si valuta da 70

Giovanni Gasparro, Schumann al Cigar, 2009 1, 2 www.elenaneri.com/ritardomentale.html 3 www.igorvitale.org/2015/01/23/come-riconoscere-il-ritardo-mentale-lieve-moderato-grave-gravissimo/

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verso il basso: “normalmente il quoziente intellettivo delle persone normodotate si colloca a 100, cioè quando un soggetto raggiunge al test un’età mentale uguale a quella cronologica; il valore medio del QI andrà quindi da 90 a 110: al di sotto e al di sopra di tali valori, ci si discosta dalla media per eccesso o difetto.”4 Il processo che porta ad una perdita o ad una ridotta efficienza localizzata si chiama “deterioramento mentale, il cui quadro clinico prende il nome di demenza, mentre la mancata acquisizione di un patrimonio intellettivo nella norma durante l’età dello sviluppo è definito appunto, ritardo mentale o insufficienza mentale.”5 Il DSM-IV definisce il ritardo mentale in base a tre criteri fondamentali: il quoziente intellettivo inferiore a 70, l’esistenza di limiti nei comportamenti, e la comparsa delle manifestazioni prima dei 18 anni di età. Si considerano quattro gradi di gravità ai quali corrisponde una certa età mentale: Ritardo mentale lieve: da 50-55 a 70 –> 9-13 anni; Ritardo mentale moderato: da 35-40 a 50-55 –> 6-9 anni; Ritardo mentale grave: da 20-25 a 35-40 –> 3-6 anni; Ritardo mentale gravissimo: < 20 –> sotto i 3 anni. Quello che viene definito ritardo mentale gravissimo presenta una totale assenza di linguaggio articolato, sostituito da fonemi. “Manca ogni volontà di comunicare ed inoltre non sono presenti espressioni affettive e tendenza a stabilire rapporti interpersonali.”6 Ci sono episodi di collera con tendenza a manifestazioni di violenza impulsiva; proprio per questi motivi sono pochi i soggetti educabili fino alla capacità di mantenersi puliti ed alimentarsi in modo autonomo. Quando il livello di deterioramento cognitivo è definito grave il linguaggio è prevalentemente ridotto ma acquisito. “Sono gravi le difficoltà di apprendimento

sia per difficoltà di concentrazione, sia per difficoltà di memorizzare, sia per difficoltà di stabilire collegamenti logici tra le nozioni, per cui non sono in grado di seguire un curriculum scolastico.”7 Per quanto concerne lo sviluppo psicomotorio si può dire che è grossolano con poca coordinazione e precisione. Anche in questo caso ci sono difficoltà a stabilire relazioni affettive, poiché vi sono atteggiamenti di chiusura e di isolamento o addirittura di autoaggressività. “La scarica emotiva avviene con scatti corporei, pianti e vocalizzi.”8 L’autonomia è limitata, ma può migliorare con programmi adeguati, è quindi possibile l’inserimento all’interno di un contesto sociale, quale quello familiare o quello di un istituto. Quando parliamo di disabilità mentale moderata, ci riferiamo a soggetti che nella maggior parte dei casi non riescono ad immagazzinare nozioni scolastiche poiché gli apprendimenti sono compromessi a tal punto che solo alcuni apprendono scrittura e lettura, seppur a livello base. Il linguaggio è molto semplice, anche se la comprensione è migliore. “L’assetto psicomotorio è caratterizzato da infantilismi, goffaggine, movimenti poco coordinati, conoscenza corporea scarsa.”9 Nonostante l’autonomia sia ridotta, determinati individui sono in grado di provvedere alla cura di se stessi e di compiere spostamenti in luoghi familiari o noti. In ambito professionale si possono compiere lavori semplici e ripetitivi, che non necessitano di iniziativa o di specifiche capacità. Il ritardo mentale lieve è il più frequente (circa l’85%): l’apprendimento è difficoltoso per problemi nei processi di sintesi e assimilazione, mancano inoltre capacità di compiere operazioni logiche, come conseguenza del fatto che il pensiero è rigido. L’apprendimento è possibile, ma i soggetti necessitano

4, 5, 6, 7, 8, 9 www.igorvitale.org/2015/01/23/come-riconoscere-il-ritardo-mentale-lieve-moderato-grave-gravissimo/

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di particolari aiuti, presentano una maggiore lentezza anche se comunque il linguaggio viene normalmente appreso. “L’aspetto psicomotorio è solitamente evoluto, anche se vi sono difficoltà di conoscenza dello schema corporeo e di organizzazione spazio-temporale. Questi soggetti sono in grado di raggiungere una capacità lavorativa sufficiente a garantire un’indipendenza economica, infatti l’inserimento sociale è buono anche se è comunque difficile il raggiungimento di maturità ed equilibrio affettivo.”10 Vi sono inoltre i soggetti borderline, con QI ai limiti inferiori della norma che comporta deficit poco evidenti. Questi individui possono acquisire anche titoli di studio di scuole superiori ed inserirsi a pieno titolo nel mondo sociale e lavorativo.

Cause del ritardo mentale Le cause connesse alla disabilità mentale possono essere legate a fattori biologici o psicosociali, o ad una combinazione di entrambi. “I principali fattori includono: l’ereditarietà (circa il 5%) […], anomalie di un singolo gene a trasmissione mendeliana e ad espressività variabile (per es. sclerosi tuberosa), aberrazioni cromosomiche (sindrome di Down dovuta a traslocazione, sindrome dell’X fragile); ma anche […] alterazioni precoci dello sviluppo embrionale (circa il 30%) che includono mutazioni cromosomiche (per es. sindrome di Down dovuta a trisomia 21) o danni prenatali dovuti a sostanze tossiche (per es. uso di alcol da parte della madre e infezioni); problemi durante la gravidanza e nel periodo perinatale (circa il 10%), la prematurità, l’ipossia, infezioni virali, altre infezioni e i traumi.”11

Aloïse Corbaz, Poignard Borgia de Venise, 1964

Tra le cause di ritardo mentale dopo la nascita possiamo innanzitutto menzionare traumi cerebrali di diversa natura o comunque, danni generalizzati e gravi coinvolgenti anche le funzioni cognitive. Anche uno svantaggio socioculturale grave può esserne una causa, a tal proposito negli Stati Uniti sono stati condotti interventi con ampia disponibilità di mezzi al fine di favorire uno sviluppo adeguato ai minori con svantaggio socioculturale. Un’analisi critica (Baroff, 1992) ha evidenziato che sono molto utili gli interventi di recupero di tipo scolastico, volti a favorire lo sviluppo linguistico e l’apprendimento del leggere, dello scrivere e del calcolo, in orari extrascolastici; da questi è emerso che gli interventi più efficaci hanno prodotto risultati quantificabili, in media, in un miglioramento del Quoziente Intellettivo di 25 - 30 punti.

10 www.igorvitale.org/2015/01/23/come-riconoscere-il-ritardo-mentale-lieve-moderato-grave-gravissimo/ 11 www.elenaneri.com/ritardomentale.html

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2.2

RAPPORTO CON IL DISAGIO MENTALE Nell’ambito della cultura europea si prende in considerazione un ampio periodo che si estende dallo Impero Romano al Rinascimento italiano, durante il quale compaiono molteplici spiegazioni riguardo alla follia. Nel 200 d.C si sviluppa nel mondo latino la scuola medica di Galeno che spiega il disturbo mentale in termini di squilibrio morale del cervello. Ad essa si contrappone l’interpretazione magica, connessa alla cultura delle superstizioni che mette in relazione tale disabilità con animali e oggetti o a congiunzioni astrali; “tutt’oggi infatti rimane l’idea che alcuni disturbi siano da ricondurre alle fasi lunari, da qui il termine “lunatico” per definire una persona che dà segno di mancanza di equilibrio.”12 La soluzione consiste in pratiche e rituali magici, attraverso l’uso di amuleti e formule, che si pensa possano aiutare contro gli influssi negativi. La spiegazione religiosa pur essendo diversa, presenta alcuni tratti in comune, affermando che “colui che manifesta disturbi psichici è indemoniato, ovvero un posseduto da spiriti maligni.”13 L’intera comunità, sentendosi coinvolta, interviene con solidarietà, preghiera e ricorso ad esorcismi, oppure attraverso la persecuzione e il rogo.

Durante il periodo di fioritura del Rinascimento italiano compare un interesse per il soprannaturale, prevale così la spiegazione religiosa della follia vista come “possessione demoniaca, la cui purificazione richiede pratiche di tortura e ricorso al rogo.”14 Compare anche l’idea di pericolosità che porta all’individuazione di un capro espiatorio, responsabile delle malefatte che colpiscono la città. Inizia quindi una sorta di “intolleranza” verso il soggetto affetto da disturbi mentali che sfocia nella condanna al rogo sulle piazze pubbliche.

La figura del folle si sovrappone a quella del criminale e del povero, è considerato come una vera e propria minaccia alla quiete pubblica e viene quindi inserito in luoghi di reclusione molto simili a delle carceri. In questi posti le condizioni di igiene e di vita sono molto precarie. 12 ,13, www.tartavela.it/la-salute-mentale-nella-storia.html 14 www.storiografia.me/2010/09/22/carta-di-ottawa-sulla-promozione-alla-salute/

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Con l’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino propagati dalla Rivoluzione Francese, si chiudono gli istituti di segregazione e riprende nuovamente l’idea secondo cui la follia viene vista in termini di malattia. Si inizia a vedere il disagio mentale in termini esclusivamente medici, “così il manicomio, istituzione creata da Philippe Pinel in Francia durante la Rivoluzione, diventa il luogo di cura dei malati. Questa nuova istituzione, che durante il secolo si diffonde in tutta Europa, costituisce un passo avanti rispetto ai reclusori del passato, perché è basata su obiettivi di cura e di ricerca medica.”15 Alla fine degli anni Trenta inizia la diffusione delle terapie “di shock”, la più conosciuta era quella dell’elettroshock; tutte erano basate sull’ipotesi che “un trauma (elettrico, febbrile, ipoglicemico, ecc…) opportunamente indotto, avesse virtù terapeutiche.”16 Con l’inizio del XX secolo, si ha la più grande rivoluzione storica nel campo delle conoscenze psicologiche, ovvero la psicoanalisi. Oltre all’importante figura di Freud, si può parlare in generale di un rinnovamento di pensiero riferito alla persona. In particolare, “confluiscono e trovano riscontro nelle nuove tendenze i risultati dell’antropologia e della riflessione fenomenologica.”17 Si revisiona quindi il concetto di identità della persona, soprattutto in relazione al contesto sociale. Intorno alla metà degli anni Cinquanta vengono introdotti gli psicofarmaci: “sostanze che, indipendentemente dai risultati curativi, hanno l’effetto di attenuare i sintomi più gravi e vistosi, e di rendere più governabili i momenti di crisi.”18 Questo tipo di farmaci da una parte serve come strumento di controllo dei pazienti, dall’altra aiuta i soggetti sofferenti nelle situazioni più difficili, come alternativa al manicomio. A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, si diffondono intense iniziative: in Inghilterra prendono piede alcuni esperimenti che provengono da quelle che si possono definire “comunità terapeutiche” e dell’”anti-psichiatria”; in Francia si vedono soprattutto i tentativi della “psicoterapia istituzionale” e della “psichiatria di settore”; nella Germania Federale è importante il ruolo del Collettivo Socialista dei pazienti di Heidelberg, ovvero la prima autoorganizzazione di pazienti. Queste prime manovre, pur mancando di radicalismo hanno comunque il merito di aver rinnovato la psichiatria, recuperando “l’idea di curabilità e di guarigione del disturbo mentale, cui la psichiatria istituzionale aveva di fatto rinunciato;”19 in secondo luogo aprono la strada al trattamento psicoterapeutico. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, si è di fronte ad una nuova realtà poiché si percepiscono sempre di più “i limiti della psichiatria di derivazione ottocentesca e le rigidità create dall’istituzione manicomiale.”20 15 www.ukizero.com/la-follia-nei-secoli/ 16, 17, 19, 20 www.tartavela.it/la-salute-mentale-nella-storia.html 18 www.storiografia.me/2010/09/22/carta-di-ottawa-sulla-promozione-alla-salute/

21


In Italia Una data importante per la storia dell’assistenza psichiatrica in Italia è il 1904, in quanto viene promulgata la legge 36 grazie a Giolitti, legge che regolamenta l’assistenza manicomiale. Grazie ad essa l’Italia può finalmente vantare di un consolidamento giuridico e scientifico del manicomio come luogo “pressoché esclusivo per il trattamento dei disturbi mentali.”21 Anche se rispetto al passato c’è un progresso, rimane comunque la percezione del paziente psichiatrico come un carcerato, il quale viene ricoverato in quanto persona “pericolosa” e di “pubblico scandalo”. Nel 1968 viene approvata la legge 431 che porta un radicale cambiamento nello scenario italiano, poiché stabilisce: “l’insufficienza dell’assistenza psichiatrica basata esclusivamente sull’internamento in manicomio; l’istituzione di un servizio di assistenza psichiatrica territoriale attraverso la creazione dei centri di igiene mentale; la possibilità di entrare in manicomio anche volontariamente; l’abolizione dell’obbligo di annotare nel casellario giudiziario l’ammissione e la dimissione dal manicomio; nuovi criteri di organizzazione degli ospedali psichiatrici.”22 Anche se si tratta ancora di una fase di passaggio, inizia un sistema di assistenza territoriale. Con la legge 180 del 1978 si arriva al culmine di un lungo percorso, che ha avuto al suo interno importanti tappe tra cui l’impegno profondo di Franco Basaglia. Egli ha combattuto per arrivare alla riforma definitiva del sistema psichiatrico, “frutto di un lavoro tenace iniziato diversi anni addietro nell’Ospedale psichiatrico di Gorizia e portato a compimento con il totale smantellamento dell’Ospedale psichiatrico di Trieste, avvenuto nel 1977, un anno prima dell’approvazione della legge 180.”23 La legge 180, approvata il 13 maggio 1978 (Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori), inserita in seguito nella legge di Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (833/23 dicembre 1978), stabilisce che “è il diritto della persona alla cura e alla salute, e non più il giudizio di pericolosità, alla base del trattamento sanitario anche in psichiatria.”24 Di norma tale “trattamento” è volontario e avviene all’interno di specifici presidi e nei servizi extraospedalieri, attivi nel territorio. Inoltre la legge 180 stabilisce che negli ospedali psichiatrici non debba più essere ricoverato nessuno, vengono infatti chiusi definitivamente nel 1999.

21 www.stateofmind.it/2014/11/identita-sociale-disabile/ 22, 23, 24 www.tartavela.it/la-salute-mentale-nella-storia.html

22


Frans Hals, Malle Babbe, Gemäldegalerie, Berlin, 1633

23


Pieter Bruegel Il Giovane, Operando sulla pietra della pazzia, 1600 c.a.

24


2.3

LA COMUNICAZIONE DEL DISAGIO MENTALE 2.3.1

IL PRIMO NOVECENTO E LA FOTOGRAFIA COME DIVULGAZIONE SCIENTIFICA

Autore ignoto, Refettorio Tranquillo, ospedale psichiatrico, Fondazione San Servolo 1951 c.a.

«Sono venuto a Torino, da mio fratello, a lavorare: ho fatto il manovale per un anno, poi sono andato a lavorare in fabbrica di fili elettrici. Poi sono andato dal commissario a dirgli che ero perseguitato, m’ha messo manie di persecuzione e m’ha mandato qua dentro. [...] Ma io ero perseguitato davvero.»25 L’intervista di cui fa parte il breve brano appena citato è stata realizzata tra il marzo del 1995 e il maggio del 1996, nell’ambito di un progetto teso a verificare la condizione in cui si trovavano all’epoca trenta ex degenti dei manicomi torinesi. Alcuni degli intervistati, nel rievocare l’episodio del loro ricovero, non hanno esitato ad attribuirne la responsabilità alla propria famiglia o ad uno in particolare dei suoi membri, di solito il padre. “In altri casi, il ricordo appare decisamente più sfocato, le ragioni e le modalità del ricovero risultano del tutto incomprensibili, non solo a noi ma anche ai diretti interessati: «Mah… diventavo che perdevo i sensi – ha raccontato Giuseppina – cioè, come se svenivo […]. Non me lo ricordo neanche con che sistema mi ci hanno portato perché… io mi sono ritrovata lì eh… cioè, non so se mi hanno fatto qualche puntura per addormentarmi.»”26 Ad ogni modo, al di là delle singole vicende personali, sempre diverse tra loro, le procedure d’ammissione previste dalla legge sono soltanto due: quella ordinaria deve necessariamente prendere avvio da una richiesta, 25, 26 A. Cañedo Cervera, S. Collina, Ero pazzo, scusa, ero pazzo davvero, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997

25


che chiunque può inoltrare “nell’interesse degli infermi e della società” e che spetta al pretore autorizzare in via provvisoria “sulla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà.”27 In particolari condizioni d’urgenza, invece, il ricovero può essere ordinato direttamente dall’autorità locale di pubblica sicurezza, anche senza l’autorizzazione del pretore. In casi del genere, il presunto alienato finisce di fatto per essere trasportato all’ospedale, o al limite in ambulanza, e il solo documento richiesto è il certificato medico. “Giunto a destinazione, il futuro degente veniva accompagnato nella saletta di ammissione. Lì ad attenderlo c’era il dottore, seduto dietro la sua scrivania e in camice bianco, pronto per dare inizio al colloquio […]. Terminato l’interrogatorio, il neo-degente, ormai malato anche dal punto di vista burocratico, veniva trasferito nel reparto di osservazione, spesso e volentieri con qualche raggiro, con qualche piccola bugia detta per vincerne le comprensibili resistenze e per evitare che si verificassero fastidiosi contrattempi davanti ai parenti o al medico. Il cerimoniale proseguiva poi con la requisizione degli oggetti personali e degli abiti del neo-entrato da parte degli ispettori. […] Durante quel periodo il medico doveva cercare di stabilire se il nuovo venuto fosse o meno passibile di ricovero definitivo, se si trovasse cioè nelle condizioni stabilite dall’articolo 1 della legge giolittiana del 1904, articolo che imponeva la custodia in manicomio a tutte le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, ma soltanto se pericolose a sé o agli altri o di pubblico scandalo.”28 “Nel 1877 usciva il primo tomo dell’Iconographie photographique de la Salpêtrière, il grande ospedale psichiatrico parigino sorto alla metà del XVII secolo sulle ceneri di una ex fabbrica di polvere da sparo […] e che all’epoca rappresentava un centro all’avanguardia per le

ricerche sulle malattie nervose, frequentato da medici illustri e da giovani studenti provenienti da tutta Europa. Le fotografie raccolte nel libro […] immortalavano l’insorgere e il successivo decorso dell’attacco isterico[…]. Quelle immagini scenografiche di donne in preda all’estasi o al delirio melanconico, catatoniche, in stato di letargia o ritratte in atteggiamenti passionali si imposero come “insostituibile strumento diagnostico e didattico, con funzioni che si pensavano e si volevano del tutto simili a quelle esercitate dall’anatomia patologica nei confronti della medicina generale e della chirurgia.”29 L’esempio viene poi seguito anche in Italia più o meno contemporaneamente nel manicomio di Aversa, al San Servolo di Venezia e al San Lazzaro di Reggio Emilia, “dove dal 1878, su incarico del direttore Augusto Tamburini, […] Emilio Poli realizzò un accuratissimo censimento iconografico della popolazione ricoverata, costituito perlopiù da ritratti frontali usati a scopo identificativo e di registrazione, in linea con lo spirito della nascente fotografia giudiziaria, o distribuiti dai medici durante lezioni e conferenze come materiale illustrativo.”30 «La scienza saluta con gioia questa bella innovazione», commenta entusiasta dopo una visita al frenocòmio di Reggio il prof. Arrigo Tamassia, cattedratico di medicina legale e assistente di Cesare Lombroso: «qui -aggiungel’espressione ha tutta la spontaneità, non risente nulla di convenzionale o di imposto; talune attività mentali possono essere profondamente eclissate od anche abolite, mentre altre possono relativamente godere d’una certa energia; eccoci quindi davanti ad un vero esperimento fisiologico, offertoci dalla natura, che ci porge l’opportunità di indagare le ragioni ed i rapporti d’una data espressione fisionomica; e poiché ancora certi pazzi, specialmente gli idioti, rappresentano un movimento di regressione della specie, per cui il carattere umano quasi si cancella, si apre la possibilità

27 Legge 14 febbraio 1904 , n. 36 “sui manicomi e sugli alienati”, art. 2, comma 2. In base alle disposizioni del successivo regolamento, approvato con il Regio Decreto 28 A. Cañedo Cervera, S. Collina, Ero pazzo, scusa, ero pazzo davvero, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1997 29 D. Lasagno, Oltre l’istituzione, Ledizioni, 2012 30 V. Fornaciari, Fotografando il manicomio. L’archivio fotografico dell’Istituto psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia, in S. Parmiggiani, Skira, Milano, 2005

26


Autore ignoto, Una sala per bagni di cura, Ospedale psichiatrico, Fondazione San Servolo, 1951 c.a.

di vedere scritte sul volto, a caratteri sicuri, le tracce di remotissimi atavismi.»31 Utilizzata fino ai primi anni del Novecento, la fotografia psichiatrica scompare quando la psichiatria incontra la psicanalisi e al primato dello sguardo si sostituisce quello dell’ascolto. “Tramontate definitivamente le ipotesi fisionomiche e frenologiche, nel corso della prima metà del Novecento anche l’uso delle immagini a fini diagnostici […] conobbe un lento ma inarrestabile declino, e l’attenzione si spostò via via dai volti e dai corpi malati alle istituzioni di ricovero, che cominciarono così ad essere fotografati tanto dall’esterno quanto all’interno, ma sempre in modo tale da farle apparire come luoghi di terapia ospitali e moderni, curati negli arredi e all’avanguardia sul piano scientifico. I soggetti raffigurati erano grossomodo sempre gli stessi: refettori con enormi tavolate apparecchiate di tutto punto, officine e laboratori artigianali perfettamente funzionanti, dormitori spaziosi e con i letti posti alla giusta distanza l’uno dall’altro, biblioteche fornitissime, giardini e viali alberati. Dietro gli scatti più riusciti c’era poi spesso la mano di un professionista del settore, come nel caso di Giuseppe Fantuzzi, chiamato da Tamburini a documentare la grandezza del San Lazzaro.”32 Sono immagini destinate alle grandi esposizioni internazionali e questo spiega l’ordine formale e contenutistico. L’obiettivo è ora quello comunicare l’idea positivistica di una possibilità di cura, da attuarsi attraverso il lavoro e l’obbedienza alle regole di una comunità chiusa e classista, ma non indifferente o crudele. Fin dalle sue primissime applicazioni in campo psichiatrico la fotografia era stata al servizio del potere medico. 31, 32 A. Tamassia, La fotografia nel nostro manicomio, in “Gazzetta del frenocomio di Reggio”, 1878

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2.3.2

GLI ANNI ‘60, FOTOGRAFIA E DOCUMENTARI COME DENUNCIA Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, in Morire di Classe, 1969

Solo intorno alla metà degli anni ’60 si segna una decisa inversione di rotta. “Ciò che l’obbiettivo intendeva ora catturare erano la degradazione e la violenza dell’internamento, erano i danni irreversibili causati sugli esseri umani dall’istituzione totale. «Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.» Così recitava una frase di Primo Levi, tratta da Se questo è un uomo.”33 L’ondata rivoluzionaria di questi anni diviene quindi l’inaugurazione di una stagione di denuncia e impegno che culminerà con l’approvazione della legge 180 e la chiusura delle strutture manicomiali. La fotografia passa così da strumento di oggettivazione 33 D. Lasagno, Oltre l’istituzione, Ledizioni, 2012

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della realtà a veicolo di indagine e conoscenza, capace di far apparire l’invisibile. Per secoli tutto ciò che, in qualsiasi misura, sembrava essere in grado di nuocere all’apparente normalità e al regolare funzionamento della società, è stato oggetto di occultamento. Lontani dagli occhi e lontani dalla consapevolezza. Una delle prime voci a farsi sentire è quella di Riccardo Napolitano, che nel 1966, con il suo cortometraggio 1904, n.36 oltre a mostrare le immagini dei ricoverati, lancia proposte alternative all'esame di esperti psicologi e chiede l'abrogazione della legge vigente ormai superata dalle nuove teorie della psicologia. Le immagini catturate da Napolitano sono volutamente stranianti, ed infatti i malati sono ripresi senza il volto, ma ne vengono riprese le mani, a testimoniare la loro sofferenza. Mani giunte, incerte, operative, tese.Allo stesso modo, nel 1968 Michele Gandin usa lo strumento del documentario per


riprendere dei malati apatici e noncuranti nel giardino dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Negli stessi anni il giornalista Luciano D’Alessandro ha l’opportunità di documentare la vita nel manicomio di Nocera Superiore, con il suo Gli esclusi. Fotoreportage da un’istituzione totale, pubblicato nel 1969. “Attraverso degli scatti che sembrano quasi accostarci al cuore della sofferenza dei soggetti ritratti, a quella solitudine esistenziale che possiamo riconoscere anche dentro noi stessi, e dentro ad ogni uomo, l’autore si era posto l’obiettivo di riscattare l’esclusione sociale, svelando le condizioni inumane in cui si trovavano i malati, per denunciarle.”34 Molto interessante anche il lavoro di Emilio Tremolada all’ospedale psichiatrico di Trieste. Ciò che emerge maggiormente dagli scatti del fotografo è soprattutto una volontà di comunicare da parte dei malati, di essere

34 www.memecult.it/fotografia-e-follia/

riconosciuti come individui, come parte della società. “Ci siamo ancora noi!” campeggia in bianco sulla parete di un armadio abbandonato, scritto con lettere grandi e sicure. Ma l’evento che più sconvolge e colpisce tutta Italia è l’uscita, nel 1969, a cura di Franco e Franca Basaglia, di Morire di Classe. Nella raccolta di immagini, realizzate da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin nei manicomi di Parma, Firenze, Gorizia e Trieste, è adesso lo sfondo a giocare un ruolo determinante. Certo, in primo piano compaiono pur sempre i ricoverati, ma l’accento è posto sui luoghi e gli spazi in cui essi sono confinati e costretti. A margine di alcune delle fotografie, di grande impatto visivo, sono collocate citazioni di Levi, Brecht, Foucault e Goffman, quasi a volerne chiarire meglio il significato, suggerendo un’interpretazione che non può non assumere immediatamente i connotati di una

sopra, Emilo Tremolada, Ospedale Psichiatrico di Trieste, 1977 a lato, Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, in Morire di Classe, 1969

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clamorosa denuncia. I due fotografi, che vantavano all’epoca una certa notorietà, entrano nei manicomi e svelano l’agghiacciante realtà che non era mai stata mostrata, fornendo un contributo fondamentale nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Una denuncia d’obbligo «per convincere gli italiani che era necessario chiuderlo», afferma Berengo Gardin. Franco Basaglia si pone con questa raccolta due obiettivi ben distinti. Il primo obiettivo è “arrivare a creare un terreno dove la libera comunicazione tra malati, infermieri e medici possa sostituire - nell’azione di sostegno e di protezione le mura, le sbarre e la violenza.”35 “Libertà di comunicazione, tendenza a distruggere il rapporto autoritario e la rigida gerarchizzazione dei ruoli, eliminazione del carattere oppressivo-punitivo dell’istituzione: questi possono ritenersi i punti fermi dell’azione di smascheramento delle strutture manicomiali. Il rovesciamento istituzionale inizia, infatti, partendo direttamente dal terreno pratico: le prime esperienze in questo campo nascono cioè come risposta immediata alla violenza della realtà asilare, al di là di ogni pre-giudizio teorico-scientifico che continuerebbe a limitare l’azione a una definizione o codificazione del campo d’indagine. Questo atteggiamento, essenzialmente pragmatico, ha consentito di svelare la faccia nuda del malato mentale, al di là delle etichette che la scienza gli aveva imposto e delle sovrastrutture che l’istituzione aveva provocato. Solo da questo momento, di fronte a questa nudità, è possibile tentare di riavvicinare il malato e la malattia, prima che una nuova ideologia li ricopra, nascondendo ancora una volta la loro vera natura.”36

35, 36 D. Lasagno, Oltre l’istituzione, Ledizioni, 2012

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Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, in Morire di Classe, 1969


2.3.3

ART BRUT, QUANDO L’ISTINTO VUOLE COMUNICARE

Jean Dubuffet, Monsieur d’Hotel, Richard Gray Gallery, 1947

Parallelamente alla denuncia fotografica sociale ad opera di personalità esterne al mondo dei manicomi, si sviluppa un movimento comunemente noto come Art Brut (recentemente ridefinita Outsider Art). Il concetto di Art Brut -in italiano, letteralmente, Arte grezzaera stato inventato nel 1945 dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti o pensionanti di ospedali psichiatrici che operano al di fuori delle norme estetiche convenzionali (autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura artistica). ”Egli intendeva, in tal modo, definire un’arte spontanea, senza pretese culturali e senza alcuna riflessione.”37 La collezione di Dubuffet viene acquisita dalla Svizzera, che nel 1971 la ospita all’interno del Castello di Beaulieu, vicino a Losanna, dove tuttora vive sotto il nome di Collection de l’Art Brut. A Dubuffet spetta il merito di aver incoraggiato e sostenuto con grande rigore, nel corso della sua lunga vita, quello che lo psichiatra Vittorino Andreoli ha definito “il linguaggio grafico della follia e in generale l’espressività non imbrigliata nelle trame della ragione o in quelle della consuetudine iconografica e stilistica.” Secondo Dubuffet, l’arte grezza doveva: «naître du matériau [...] se nourrir des inscriptions, des tracés instinctifs» (sorgere dal materiale [...] nutrirsi delle iscrizioni, delle disposizioni istintive).» Ciò che accomuna tutti gli appartenenti, inconsapevolmente, alla corrente dell’art brut è la forza con cui emerge un’urgenza comunicativa, lontana dalla ricerca di un ideale estetico ma finalizzata ad esprimere il più naturalmente possibile la propria personalità. La collezione iniziata da Dubuffet raccoglie opere da 37 www.wikipedia.org/wiki/jean_dubuffet

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Tarcisio Merati, Aereoplanino, 1963 c.a.

tutto il mondo, ed in Italia, di particolare rilievo negli anni in cui la denuncia sociale fa particolarmente rumore, emergono e prendono piede i nomi di Tarcisio Merati, NOF4, Carlo Zinelli, Filippo Bentivegna. Tarcisio Merati (1934 - 1995) viene ricoverato nell’estate del 1959 nell’ospedale psichiatrico di Bergamo: sindrome dissociativa, schizofrenia e, più tardi: psicosi in ritardo mentale. In quegli anni entra ed esce dal manicomio più volte. Nel campo artistico i suoi soggetti sono spesso ripetuti in una serialità convulsa. Quasi sempre sono delle Story Toy, giocattolini astratti che lo stesso definisce macchinette trombette, o aeroplanino silurino e scaleno, innumerevoli uccellini sul nidino, le pigne e i cactus. «Tarcisio Merati è l’artista manicomiale per eccellenza: al riparo dal mondo ostile contro il quale si è paludato in forma di romanziere, musicista, uomo politico, maestro; al riparo dalle miserie e dalla volgarità può finalmente dedicarsi all’esercizio della meraviglia.»38 «Ancor più vero, unico, eccezionale è il linguaggio grafico con cui Tarcisio si esprime. In esso i contenuti simbolici appaiono chiari, evidenti, indispensabili. Sono questi simboli, espressi nelle forme e nei colori, che rendono ricca, emozionante, intensa, universale l’opera di Tarcisio. Molti dei dipinti di Tarcisio, soprattutto quelli che risalgono agli anni ‘75-’76, ritraggono organi interni del corpo umano. [...] Tarcisio sente questi organi minacciosi e persecutori anche quando li disegna con colori vivacissimi che ricordano la cromia di Klimt, o di Kandinskij.»39 Oreste Fernando Nannetti, noto anche con lo pseudonimo di N.O.F.4 (1927 - 1994), è stato un pittore e graffitista italiano. All’età di sette anni viene affidato a un’opera di carità e poi, a dieci anni, ricoverato in una struttura per persone affette da problemi psichici. Passa poi gli anni successivi della sua vita tra trasferimenti e 38 Estratto da un intervento di Bianca Tosatti. Tarcisio Merati opere 1975-1991, saggio di Maria Rita Parsi, Ceribelli Editore, 1993 39 B. Tosatti, Oltre la ragione, le figure, i maestri, le storie dell’ arte irregolare, Skira, 2006

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NOF4, I viaggi telepatici del colonnello astrale, Manicomio di Volterra, 1962 c.a.


reclusioni. La sigla NOF viene da lui stesso risolta, di volta in volta, come “Nannetti Oreste Ferdinando” o “Nucleare Orientale Francese” o, ancora, “Nazioni Orientali Francesi”, mentre il «4» costituiva il riferimento alla matricola che aveva ricevuto all’entrata della struttura. Durante la reclusione presso l’ospedale psichiatrico di Volterra, è autore di un ciclo di graffiti considerato un capolavoro dell’Art Brut. Nannetti incide una serie di graffiti sugli intonaci del complesso, utilizzando le fibbie delle cinture che facevano parte della divisa degli internati. Uno, lungo 180 metri e alto in media due, corre intorno al padiglione dell’istituto. L’altro, lungo 102 metri e alto in media 20 centimetri, occupa il passamano in cemento di una scala. I due cicli sono organizzati come un sorta di racconto per immagini, e spaziano su visionari racconti fantascientifici spesso incoerenti o di difficile interpretazione. Nei “racconti” Nannetti afferma di poter comunicare telepaticamente con alieni (definiti alti, spinacei, naso ad Y) e narra la conquista di mondi sconosciuti e terribili guerre combattute con armi altamente tecnologiche; nel racconto si intrecciano magie alchemiche e selve di tralicci metallici e antenne. Lo Studio Azzurro dedicò all’opera di Nannetti un filmdocumentario, intitolato L’osservatorio nucleare del signor Nanof, girato da Paolo Rosa. Negli anni si sono susseguite diverse mostre e convegni dedicati a quello che viene oggi considerato un raro e importante esempio di Art Brut. A Carlo Zinelli (1916-1974) viene individuata una personalità schizzofrenica durante la sua partecipazione da volontario alla guerra civile spagnola, e viene quindi immediatamente rilevato dal servizio. Rinchiuso quindi presso il manicomio di S. Giacomo Alla Tomba nel 1947, subisce dieci duri anni di isolamento pressoché totale. Verso la fine degli anni cinquanta, quando lui e altri venti pazienti vengono ammessi all’atelier di pittura

creato dallo scultore irlandese Michael Noble, da quello italiano Pino Castagna, dallo psichiatra Mario Marini e dal direttore di allora Cherubino Trabucchi. In questo atelier, i pazienti sono incoraggiati a dipingere o scolpire liberamente. Completamente assorbito dal suo nuovo lavoro, e pieno di entusiasmo, Carlo Zinelli disegna e colora per otto ore al giorno. Questa cura ergoterapica pare avere degli ottimi benefici sul suo stato generale e le valutazioni cliniche confermano il suo migliorato comportamento. Egli è l’unico italiano a vedere esposte le sue opere nella mostra dal titolo “Insania Pingens”. Lavori basati sull’uso di colori puri con soggetti che raccontano la storia della sua infanzia nel paese, frequentemente numerose figure accalcate per coprire lo sfondo intero in uno stile orrorifico. Le sue figure umane sono forme solide ritratte sempre di profilo, spesso con grandi buchi a rappresentare gli occhi o altre parti anatomiche. Filippo Bentivegna (1888-1967), tornato in Italia dopo la Grande Guerra, è considerato disertore e condannato in contumacia a tre anni di carcere, per cui una volta rientrato allo scopo di eseguire la condanna viene sottoposto ad una visita psichiatrica. La commissione di visita non ebbe alcun dubbio nel considerarlo pazzo, ma non un pericolo sociale. “Nel suo feudo Bentivegna, grazie alle formazioni calcaree che riempivano il fondo, iniziò a scolpire centinaia di teste umane. Teste accatastate, affiancate e bifronti. Anche i suoi tre cani vennero tosati e dipinti sui fianchi con le teste.”40 Quando le pietre del suo feudo diventano scarse si costruisce delle cave ove estrarre delle pietre più duttili creando anche dei cunicoli all’interno del suo fondo. Ma in paese Filippo Bentivegna è chiamato “Filippo delle teste” e “Filippo il pazzo”, deriso dai compaesani per il suo bizzarro atteggiamento. Nel 1968 arriva a Sciacca un collaboratore di Jean Dubuffet, che vuole constatare di 40 G. Manacorda, N. Lagioia, Poesia 2000, Poesia on line, Castelvecchi, 2001

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persona la reale portata dell’arte primitiva del “pazzo di Sciacca”. Contattati i parenti, riesce a visitare il Giardino Incantato, ottenendo delle teste di Bentivegna da portare in dono a Dubuffet, il quale le inserisce nella sua collezione. Oggi quelle stesse teste sono esposte al Museo dell’Art Brut di Losanna, istituito in memoria di Dubuffet.

Filippo Bentivegna nel suo giardino, 1965 c.a.

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2.3.4

MARCO CAVALLO E LA LEGGE BASAGLIA Una volta messa in atto la libera comunicazione tra attori interni, malati, infermieri, medici e operatori, “quale può essere il passo successivo se non dilatare questa comunicazione all’esterno?”41 A conciliare la denuncia sociale e il forte spirito comunicativo dei “pazzi” è un progetto che nasce da un’idea di Vittorio Basaglia, che prende il nome di Marco Cavallo. Marco Cavallo è una scultura itinerante di legno e cartapesta in forma di “installazione” e “macchina teatrale”. È realizzata nel 1973 all’interno del manicomio di Trieste da un’idea di Giuseppe Dell’Acqua, Dino e Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia. È considerata un’opera collettiva elaborata con il contributo dei laboratori artistici creati all’interno della struttura nosocomiale da Franco Basaglia, allora direttore dell’Ospedale Psichiatrico e si avvale del supporto ideale e immaginifico dei pazienti allora reclusi. Alto circa 4 metri e di colore azzurro, come deciso dagli stessi pazienti, lo si volle di così grandi dimensioni per poter idealmente contenere tutti i desideri e i sogni dei ricoverati, e portare all’esterno un simbolo visibile e rappresentativo dell’umanità allora “nascosta” e “misconosciuta” all’interno dei manicomi. Nel giugno del 1972, i ricoverati dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste inviano una lettera al Presidente della provincia di Trieste Michele Zanetti con un appello per la sorte del cavallo Marco, un cavallo reale che dal 1959 era adibito al traino del carretto della lavanderia, dei rifiuti e del trasporto di materiale vario nel manicomio. Il testo, scritto in prima persona come fosse redatto dal cavallo, ne chiedeva in luogo della prevista macellazione, il 41 F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, Morire di Classe, La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Einaudi, 1969


Opera Collettiva, Marco Cavallo, itinerante (Trieste), 1973

dignitoso “pensionamento” all’interno della struttura, per “meriti” lavorativi e per l’affetto che sia il personale che i pazienti nutrivano verso l’animale. In cambio si offriva il versamento di una somma pari al ricavato della vendita dell’animale per la macellazione, e il mantenimento a proprie spese per tutta la restante vita naturale. Il 30 ottobre dello stesso anno la Provincia di Trieste accoglie la richiesta, stanziando l’acquisto di un motocarro in sostituzione del cavallo, che veniva appunto ceduto e affidato alle cure dei pazienti residenti nel manicomio. Questa prima favorevole accoglienza delle autorità di una richiesta diretta da parte di ricoverati di un manicomio, allora privati dei diritti civili, viene vista come una apertura e un’occasione verso un possibile riconoscimento della loro dignità personale. L’artista Vittorio Basaglia, cugino dello psichiatra Franco ìdea il progetto della realizzazione di un cavallo di legno e cartapesta di dimensioni monumentali che prendesse spunto da questo fatto di cronaca reale e potesse diventare “il simbolo della fine dell’isolamento dei malati mentali, un cavallo di Troia che potesse invece essere

contenitore delle istanze di libertà e umanità dei malati mentali.”42 La realizzazione è affidata ai laboratori artistici già presenti all’interno dell’Ospedale psichiatrico. I pazienti non si occupano direttamente della costruzione, ma vengono coinvolti nell’opera di realizzazione dei contenuti artistici da inserire nell’opera. I pazienti dunque decidono il colore azzurro, simbolo della gioia di vivere e che la “pancia” del cavallo debba contenere i loro desideri, sogni e istanze. Un grosso problema sorge in occasione della prima esibizione nel marzo 1973. Costruito all’interno della struttura, non si era tenuto conto delle dimensioni monumentali dell’opera e nessuna delle porte dell’ospedale era sufficientemente grande da permetterne l’uscita. La difficoltà oltre che logistica, causa la profonda frustrazione dei pazienti, dato l’evidente e immediato paragone con il loro stato di di reclusione forzata, dovuta alle allora vigenti leggi ospedaliere in merito ai malati mentali. Il tutto viene risolto lanciando il cavallo contro una delle porte, causando la rottura delle vetrate e di un architrave, ma 42 Dialogo di Claudio Magris con Peppe Dell’Acqua, La battaglia del cavallo che liberò i malati di mente, su www.corriere.it, 2016

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permettendo l’uscita dell’installazione e la rottura anche del muro reale e simbolico fra il “dentro” e il “fuori”. Marco Cavallo diventa pertanto “icona” della lotta etica, sociale, medica e politica a favore della legge sulla chiusura dei manicomi, la cosiddetta Legge Basaglia del 1978, nonché simbolo per gli stessi pazienti delle loro istanze di libertà, liberazione e riconoscimento della loro dignità di persone, fino ad allora negate. Da allora è esibito in tutto il mondo come installazione itinerante per sensibilizzare l’opinione pubblica e il mondo politico sui problemi della salute mentale. In Italia è stato esibito anche all’EXPO 2015 per puntare l’attenzione sulle condizioni degli ospedali psichiatrici giudiziari. “Ebbene, io trovo che di singolare, in questa faccenda, ci sia il fatto che l’esperimento abbia potuto avvenire solo con i matti. Ma chi sono i matti se noi, i sani, riusciamo a concepire la comunicazione solo leggendo un giornale scritto da altri, andando al cinema o a teatro, circolando con tristezza per le mostre dove altri hanno disegnato, scolpito, dipinto, sedendoci compostamente ai concerti dove altri suonano? Come ha potuto l’esercizio dell’inventiva e del gioco diventare una faccenda per specializzati (considerati d’altronde un po’ matti), a cui i sani sono ammessi solo come auditori passivi? Come può un artista che crede a quello che fa adattarsi a produrre oggetti che altri guarderanno senza sapere come sono nati, invece di buttarsi in situazioni di partecipazione in cui gli altri imparino a fare gli oggetti con lui? [...] Ma è chiaro che il messaggio finale di Marco Cavallo è che i matti siamo noi.”43 Opera Collettiva, Marco Cavallo, itinerante (Trieste), 1973

43 www.doppiozero.com/materiali/fuori-busta/un-messaggio-chiamato-cavallo, articolo di Umberto Eco pubblicato sul “Corriere della Sera” il 6 luglio 1976

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2.3.5

Una scena del film Qualcuno volò sul nido del cuculo, Miloš Forman, 1975

DOPO LA CHIUSURA DEI MANICOMI, IL CINEMA “L’apertura dell’ospedale e la libertà di comunicazione sono tali solo se l’esterno vi partecipa come uno dei poli della relazione: la libera comunicazione interna resta un artificio se non si riesce ad aprire e mantenere un dialogo costante fra interno ed esterno. È solo in questa relazione che la malattia può essere affrontata nella sua duplice faccia, reale e sociale, prendendo in causa -assieme ai sintomi e alle manifestazioni morbose- i pregiudizi, le paure, le diffidenze che ancora la circondano e la alimentano; nonché le difficoltà sociali che ne impediscono la riabilitazione a certi ben specifici, livelli […]. Ma finché il nostro sistema sociale non si rivela interessato al recupero di chi è stato escluso […] la riabilitazione del malato mentale -come qualsiasi azione tecnica in ogni altro settore- resta limitata ad un’azione umanitaria all’interno di una istituzione apparentemente non violenta che lascia intatto il nucleo centrale del problema.“44 Dopo il 1978, con la chiusura dei manicomi, resta infatti il grande problema dell’accettazione dei malati all’interno della società, della loro integrazione nella vita di tutti i giorni. In tutto ciò diviene di fondamentale importanza il come la comunicazione di massa improntava i propri messaggi riguardanti la tematica. “Da sempre il cinema è stato intrecciato profondamente con la psichiatria. Possiamo dire che sia il cinema sia la psichiatria sono entrati nella loro età adulta durante lo stesso periodo ed hanno condiviso molte tematiche: l’attenzione sul pensiero umano, le emozioni, il comportamento e le motivazioni profonde che ci spingono a vivere.”45 44 F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, Morire di Classe, La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Einaudi, 1969 45 www.valeriorosso.com/2016/05/13/cinema-e-psichiatria-storia-comune/

Una scena del film The elephant man, David Lynch, 1980

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Tuttavia tra cinema e psichiatria non sono mancati i conflitti: molte pellicole hanno indotto gli spettatori a travisare alcuni disturbi psichiatrici o ad idealizzare e poi svalutare sia pazienti che medici. Il cinema, la vera forma d’arte del Novecento, ha avuto un ruolo fuori misura nel plasmare la comprensione collettiva della malattia mentale tramite il suo potere metaforico. La potenza narrativa e i meccanismi di identificazione che scattano durante la visione di un film rendono il grande schermo un mezzo efficace per veicolare la cultura dell’integrazione sociale, e permettono di cogliere messaggi che vanno oltre i canoni estetici imperanti. È stato infatti dimostrato da uno studio “che un gran numero di pazienti cinematografici sia mal rappresentato. Tale tendenza varrebbe in particolare per i pazienti psichiatrici più gravi, nei confronti dei quali, nel mondo reale, lo stigma ha un ruolo più importante. [...] È ragionevole supporre che gli stereotipi cinematografici influenzino in modo cruciale quelli della vita reale, con cui coincidono e si fondono. Lo stesso stigma, che da sempre accompagna il disturbo psichiatrico, si alimenta attraverso l’idea che la collettività ha nei confronti di chi è malato e di chi cura la malattia.”46 Il periodo è quello della rinascita del nuovo cinema americano degli anni settanta e ottanta, in cui il realismo dello stile si sposa alla protesta civile. Il disabile diviene la lente d’ingrandimento delle ipocrisie di una società malata di bellicismo o di crudeltà verso i più deboli. “Due titoli bastano a segnare un periodo ed ad indicare un’atmosfera culturale: Tornando a casa di Hal Ashby (1978) e Nato il 4 luglio (1989) di Oliver Stone. I corpi piagati dei protagonisti non sono più frammenti separati di uomini che invocano pietà e cura. Esprimono piuttosto una domanda di riconoscimento, una richiesta

di dignità e umana pienezza.”47 Il titolo che sicuramente ha segnato la storia del cinema nella trattazione di un argomento molto delicato come il disagio mentale è Qualcuno volò sul nido del cuculo, un film del 1975 diretto da Miloš Forman. Il film vince cinque premi Oscar, e riscuote un successo che gli fa incassare più di 112 milioni di dollari. “Il nido del cuculo” è una delle molte espressioni del gergo americano che indicano il manicomio, ed è proprio in questo scenario che si svolge l’intera trama del film, denunciando il trattamento inumano cui venivano sottoposti i pazienti ospitati nelle strutture ospedaliere statali, verso i quali vigeva un atteggiamento discriminatorio, alimentato dalla paura dell’aggressività. Nonostante la maestria con cui questo film viene diretto e recitato, la critica ha opinioni contrastanti: “è una pellicola così buona in tante sue parti che c’è la tentazione di perdonarla quando va male, cioè nei momenti in cui insiste sul fare più grandi certi punti di quel che la storia realmente dovrebbe trasmettere, di modo che alla fine le qualità umane dei personaggi si perdono nel significato dell’insieme. Malgrado ciò ci sono dei momenti di luminosità.”48 Ciò che viene imputato al film è la forse l’eccessiva promozione di sentimenti antipsichiatrici che potrebbero aver ulteriormente stigmatizzato i pazienti. Ma l’opera più innovativa è sicuramente The elephant man (1980) di David Lynch. Con un rigore assoluto, il regista illustra il dramma del mostruoso John Merrick, realmente esistito, che nella società vittoriana è respinto dal conformismo sociale, e solo tardivamente accettato. Rimarrà a lungo, nella memoria dello spettatore, il grido di dolore dell’uomo elefante che rivendica la propria dignità di uomo: è un’emozione lucida quella di Lynch, che vuole indurre ad una riflessione non mistificante. Annebbiati e corrotti dai terrificanti luoghi comuni sull’esteriorità

46 E. Tarolla, L. Tristani, R. Brugnoli, P. Pancheri, La rappresentazione della malattia mentale nel cinema. Uno studio sistematico, Università La Sapienza di Roma, 2006 47 www.bandieragialla.it/node/20373 48 www.rogererbert.com, 1975

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Una scena del film Buon compleanno mr. Grape, Lasse Hallström, 1993

delle persone, coloro che incuriositi dalle notizie circa il fatto che il povero mostro fosse incredibilmente in realtà un perfetto gentleman inglese, si avvicineranno ad esso, chi con paura, chi con imbarazzo, chi con tenerezza, chi con compassione, chi ancora con malsana curiosità. Essi scopriranno presto quanto l’oscena creatura sia in realtà ben educata, intelligente e persino fin troppo positiva e solare rispetto alla sua situazione. Proprio questo stupirsi del fatto che in realtà John Merrick sia una persona come tutte le altre è rappresentativo della situazione attuale nei confronti della disabilità: una barriera di pregiudizi per cui anche chi vuole attraversarla si muove con imbarazzo e insicurezza. Altri titoli del cinema americano riguardanti questa tematica hanno riscosso notevole successo, basti pensare a Rain Man (1988, Barry Levinson), Buon compleanno Mr Grape (1993, Lasse Hallström), Forrest Gump (1994, Robert Zemeckis), e ancora Mi chiamo Sam (2001, Jessie Nelson). Ciò che li accomuna è certamente un tentativo di sensibilizzazione e comunicazione verso una classe ancora sconosciuta e delicata. Spostando l’attenzione verso il cinema europeo, troviamo alcuni titoli che è dovere riportare, quale L’ottavo giorno, un film francese del 1996, diretto da Jaco Van Dormael. Il film racconta la storia dell’incontro di un ragazzo down con un uomo. Entrambi non sopportano la solitudine e l’abbandono da parte delle persone amate; entrambi spezzano la routine di una vita divenuta ormai insopportabile, per cercare di ricostruirne un senso ricongiungendosi alla propria famiglia, ed entrambi vengono rifiutati dalla vita stessa fino al momento in cui tutte le sovrastrutture crollano per lasciar spazio a una liberatoria quanto insospettabile semplicità. In Italia, il regista Luca Vendruscolo ha raccontato in Piovono mucche (2003) l’esperienza concreta e quotidiana di una comunità per disabili, nella Roma di oggi, con

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delicati tratti di autenticità, che non rinunciano ad un vitale umorismo.
 È interessante notare in questo film che la narrazione si muove dentro il mondo del volontariato e dei luoghi che oggi lavorano con i disabili. È un tentativo di entrare con la macchina da presa nella realtà sociale: una cosa che il cinema non è abituato a fare spesso. Un altro esempio è Le chiavi di casa di Gianni Amelio (2004), liberamente tratto dal romanzo autobiografico di Giuseppe Pontiggia Nati due volte. Vi si racconta il rapporto tra un padre, Gianni, e Paolo, il figlio quindicenne disabile che non ha mai conosciuto. Per interpretare Paolo è stato scelto Andrea Rossi, ragazzo paraplegico con un estro che da solo vale la visione del film. “Ma da ultimo occorre almeno ricordare altre due opere documentarie, prodotte fuori dai circuiti commerciali. La prima è stata realizzata da un regista tra i più stimati dalla critica come Daniele Segre, da anni attento a leggere le zone più riposte della società. Sto lavorando? (1988) insegue la breve esperienza di lavoro di Matteo presso la sala ristorante della “Cittadella” di Assisi. Il ragazzo ha un handicap psichico grave, e porta nel rapporto quotidiano con i suoi colleghi di lavoro le movenze e i manierismi della sua personalità, ma nelle piccole vicende quotidiane instaura una rete di relazioni con gli altri così ricche e vere da modificare la loro consapevolezza e da fargli modificare qualcuno dei suoi comportamenti costrittivi. Segre osserva con la macchina a mano i suoi protagonisti, nei gesti quotidiani del lavoro, e ne registra l’intensità delle emozioni. Poche volte è stato descritto e narrato con altrettanta asciuttezza ciò che il disabile chiede al mondo normale: rispetto ed amore.”49

49 www.bandieragialla.it/node/20373 50 A. Aghemo, Disabilità e media - Rapporto 2012, Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, 2015

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2.3.6

DISABILITÀ NELL’EPOCA CONTEMPORANEA, PUBBLICISTICA E MEDIA Avvicinandoci ai giorni contemporanei assistiamo all’avvento dei nuovi media e alla crescita esponenziale delle possibilità e delle modalità di comunicazione, volontaria e involontaria, riguardanti la sfera sociale, e più nello specifico l’ambito della disabilità. L’analisi condotta recentemente dalla Fondazione Giacomo Matteotti di Roma, sul rapporto tra media e disabilità, sostiene che “il tema della disabilità purtroppo, non viene ancora trattato del tutto con competenza. Spesso, infatti, le storie proposte sono relative a supereroi dello sport o, al contrario, a casi di disagio sociale che suscitano pietà e compassione negli ascoltatori; inoltre, sin troppo frequentemente la modalità di conduzione delle trasmissioni televisive su argomenti delicati riguardanti il tema della disabilità, non è propriamente corretta e all’altezza delle problematiche che si vogliono presentare, cosicché accade che in genere, a causa soprattutto di superficialità, passino messaggi non condivisibili.”50 Il rapporto ricostruisce la situazione dal 2005, anno in cui si effettuò il primo studio: “Quella ormai lontana ricerca ci diceva cose che già sospettavamo e che ci saremmo ripetuti con crescente fastidio negli anni successivi: la rappresentazione mediatica della disabilità in Italia è inadeguata, modesta, inefficace, parziale, omissiva e, soprattutto, eroica o pietistica.[…] Perché il nodo è proprio questo: il disabile che conquista spazio sui nostri media è, di volta in volta, un eroe - che suscita […] ammirazione - ovvero un infelice - meritevole della nostra compassione. Superomismo e pietismo sono


Luca Lucini, Dear Future Mom, Coordown e Saatchi & Saatchi, 2014

i punti estremi tra i quali oscilla, da sempre, il pendolo della disabilità a mezzo stampa. […] Eppure le novità non sono mancate, a partire dall’affermazione travolgente, dall’inizio degli anni Duemila, dei new media: internet e social network in primo luogo, che hanno trovato ampio spazio nelle nostre precedenti rilevazioni e che sono significativamente presenti anche in questo ricerca.”51 Quattro anni dopo, nel 2009, “il flusso di informazione sulla disabilità sui media era complessivamente cresciuto, ancorché di poco. […]: il trattamento e la collocazione delle notizie sulla disabilità risultavano complessivamente migliorati.” Ma “i Rapporti realizzati […] fra il 2005 e il 2009 hanno testimoniato la sostanziale invarianza dell’approccio dei media nazionali al mondo della disabilità, un approccio scandito dal sensazionalismo o dalla pietà, uniti ad una sostanziale insensibilità alle ragioni della normalità e della cittadinanza del disabile.”52 Nello svolgere il Rapporto del 2012 l’Istituto si propone una nuova via e, insieme, un nuovo metodo di ricerca: la ricerca delle storie del mondo e dal mondo della disabilità, lette in sé e soprattutto per come i media le evidenziano e ce le raccontano. Sono stati selezionati 20 articoli, espressione di altrettante storie, tratti da testate nazionali e siti web specializzati e blog di settore tra cui Il Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa, Il Fatto Quotidiano, L’Unità, Il Messaggero, Il Mattino, Avvenire. A ciascuna storia è stata poi assegnata una o più delle seguenti categorie: scuola (SC); cronaca e famiglia (CF); lavoro (L); risorse economiche (RE); salute e ricerca (SR); mobilità e barriere architettoniche (M); tempo libero e sport (TS); autonomia (A); normativa (N). “Una novità del Rapporto 2012 è costituita dall’utilizzo, accanto alle nove già elencate, di una nuova categoria: comunicazione, ovvero C. […] In alcune delle storie che leggerete il fattore comunicazione si impone in modo

Reed Morano, Tu come mi vedi?, Coordown e Saatchi & Saatchi, 2016

51, 52 A. Aghemo, Disabilità e media - Rapporto 2012, Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, 2015

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autonomo e prepotente, come elemento soggettivo della narrazione. Gli articoli in questione, infatti, sono centrati sulle difficoltà di comunicazione del disabile, a volte apparentemente insuperabili, come nel caso del coma.”53 La presa di coscienza della necessità di aggiungere una categoria dedicata alla comunicazione dimostra la necessità sempre più forte di essere soggetto della comunicazione da parte della sfera della disabilità mentale, e non oggetto. Di non essere trattati come fenomeno da raccontare, ma di poter invece parlare, esprimersi, comunicare. “Capire e non poterlo dire era spaventoso” racconta una delle protagoniste di queste storie. Un altro interessante studio intitolato Media e Disabilità nella pubblicistica contemporanea, uscito nel 2013 a cura di Tamara Zappaterra, del Dipartimento di Scienze della Formazione e Psicologia, Università degli Studi di Firenze, indaga il binomio media e disabilità. Secondo lo studio esso si presenta declinato in una duplice forma: “da un lato i media si sono inseriti ampiamente nei processi formativi delle persone con disabilità, dall’altro essi si presentano come veicolo della concettualizzazione e delle questioni inerenti alla disabilità […] nella pubblicistica contemporanea, da cui emerge un lessico e un discorso sulla disabilità ancora parziale e immaturo, non in linea con gli esiti della ricerca scientifica. […] Entrambe le articolazioni si alimentano in ogni caso a vicenda e soprattutto entrambe le riflessioni si pongono all’interno di una indagine più ampia, che è quella di come i media contribuiscono a formare o a deformare la cultura della disabilità o, per allargare il campo di indagine, la cultura dell’inclusione.”54 L’analisi è stata condotta su tre quotidiani nazionali: il Corriere della Sera, Il Giornale e La Repubblica. Le tre testate, nel periodo tra il 1 gennaio e il 31 maggio 2013, hanno prodotto in media 53, 54 A. Aghemo, Disabilità e media - Rapporto 2012, Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, 2015

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Laboratorio Zanzara, Disegno da Un’ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, 2015

41 articoli sul tema della disabilità, per un totale di 124 articoli selezionati. “Emerge chiaramente che, mentre abbiamo contributi significativi che vanno ad indagare in dettaglio la portata dei media nei processi formativi, prevalentemente in ambito didattico, ma anche nei processi di autodeterminazione delle persone con disabilità, al contrario mancano studi che svolgano una ricognizione globale, quanto meno sul piano nazionale, della cultura della disabilità alimentata dai media nel grande pubblico. […] Cosa emerge dalla pubblicistica contemporanea? Un lessico immaturo, povero ed inadeguato per designare le persone disabili, indignazione e denuncia sociale, ma mancanza di reali politiche di mainstreaming di inclusione, tentativi di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle problematiche della condizione della disabilità effettuati tuttavia in maniera anacronistica, secondo modalità proprie di una non cultura della disabilità, cioè attraverso spettacolarizzazione, pietismo, buonismo. […] Una riflessione intorno al lessico utilizzato per definire chi è il disabile si impone, non solo perché nomina sunt consequentia rerum, come dicevano gli antichi, ma perché la scelta lessicale effettuata individua il sistema etico e valoriale entro cui si inserisce questo tema ed è alla base della qualità della presa in carico sociale dei


soggetti più deboli (Plaisance, 2009). Il lessico relativo alla disabilità ha visto storicamente e continua a vedere oggi slittamenti semantici e concettuali che derivano dalle stigmatizzazioni, dagli occultamenti, dalle decostruzioni dei sistemi di esclusione del passato, fino alle teorizzazioni più recenti. […] Nel Novecento la concettualizzazione relativa al deficit si è imperniata sul modello medico imperante: cieco, muto, sordo, subnormale. Il disabile viene definito essenzialmente per la sua parte malata (Fratini, 1997), non nella globalità del suo funzionamento e della sua persona, come qualcuno da riportare al paradigma della normalità.”55 L’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha poi voluto fornire “uniformità terminologica e lessicale agli operatori sociali, sanitari e dell’educazione di tutto il mondo, connotando di un valore preciso i termini menomazione, disabilità e handicap (WHO, 1980). Per menomazione si intende qualsiasi perdita o anormalità a carico di una struttura o di una funzione psicologica, fisiologica o anatomica; la disabilità è invece la riduzione o la perdita di capacità funzionali conseguente alla menomazione; l’handicap infine è lo svantaggio vissuto a causa della menomazione e della disabilità. Pertanto per l’OMS l’handicap ha una valenza sociale, in quanto è definito non come attributo intrinseco del soggetto, ma come qualcosa che scaturisce nel rapporto tra il soggetto disabile e la società, in forma di barriere culturali, cognitive o architettoniche che generano marginalità.“56 “L’uso delle parole influenza il senso comune […] della disabilità e l’immaginario collettivo. Il linguaggio mediatico produce categorizzazioni e generalizzazioni improprie. Le rappresentazioni mediatiche della disabilità sono riduttive e semplificanti. Il loro

posizionamento all’interno dei media è in una localizzazione isolata, di ghettizzazione o all’interno di contenitori altri quali la salute o il welfare. Ciò significa che la disabilità viene ancora vista come uno iato dalla norma o come una condizione di peculiarità e non viene rapportata alla universalità della condizione umana, secondo la più recente teorizzazione della disabilità espressa dall’OMS (WHO, 2001).”57 Segnaliamo l’articolo Sudafrica, Oscar Pistorius accusato di aver ucciso la fidanzata, del 14/02/2013 di Lucio Di Marzo de Il Giornale, a nostro avviso esemplificativo della concezione comune riguardo il tema: “i disabili sono idealizzati. […] Il senso comune etichetta le persone disabili come persone buone, oneste e impeccabili, non tenendo conto che sono persone uguali a tutte le altre, capaci di errori e sentimenti negativi. […] L’idea comune è che un disabile è una persona per nascita sfortunata, quindi obbligatoriamente buona […] Magicamente, le forme di esclusione legate all’handicap sembrano scomparire dalla realtà. I disabili messi ai margini sono piuttosto invisibili: tendono a scomparire dalla nostra società per ripresentarsi sotto forma di scandalo giornalistico o di spettacolo mediatico.“58 In conclusione, lo studio del ruolo dei media nei processi di costruzione sociale delle rappresentazioni della disabilità è ancora agli inizi, ma i media possono essere visti come strumenti utili per sensibilizzare il grande pubblico su certe tematiche. L’ideologia e il riconoscimento teorico dei diritti, da sole, non riescono a cambiare radicalmente le pratiche sociali. È dunque necessario modificare l’ambiente culturale e sociale, emancipandolo da modelli e tradizioni ormai del tutto estranei al mondo contemporaneo.

53, 54, 55, 56, 57, 58 A. Aghemo, Disabilità e media - Rapporto 2012, Fondazione Giacomo Matteotti Onlus, 2015

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44 Adele, Laboratorio Zanzara, Archivio disegni, 2015


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DENTRO IL PROGETTO

3.1

SCENARIO: IL DISAGIO MENTALE A partire dalle informazioni del contesto storico abbiamo mappato la situazione attuale grazie ad un sondaggio specifico condotto dal Censis che ci ha consentito di avere una visione globale di quella che oggi è la percezione riguardante il tema.

In seguito ci siamo confrontate con le principali realtĂ che lavorano sul territorio torinese e che si muovono nella direzione da noi individuata. Siamo passate poi alla definizione di un target di riferimento e del concept.

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3.1.1

IL CONTESTO Approccio alla disabilità, un sondaggio del Censis Utile e importante è la ricerca condotta dal Censis che racconta come la disabilità “faccia ancora paura” alla maggioranza degli italiani. “Sarebbero 4 milioni e 100.000 le persone con disabilità che vivono in Italia, pari al 6,7% della popolazione. La gran parte della popolazione proverebbe sentimenti positivi, come la solidarietà (91,3%), l’ammirazione per la forza di volontà e la determinazione che comunicano (85,9%), il desiderio di rendersi utili (82,7%). Circa la metà delle persone, inoltre, affermerebbe di provare tranquillità, di fronte a una situazione ritenuta normale, pur essendo diffusi anche sentimenti controversi, come l’imbarazzo e il disagio. Il 54,6% degli italiani proverebbero infatti paura all’eventualità di potersi trovare un giorno a dovere sperimentare la disabilità in prima persona o nella propria famiglia. […] Infine, il timore di poter involontariamente offendere o ferire la persona disabile con parole e comportamenti inopportuni riguarderebbe il 34,6%, mentre il 14,2% proverebbe indifferenza, non ritenendosi minimamente toccati dal problema della disabilità.”59 L’indagine del Censis, come viene esplicitamente dichiarato “è stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione italiana tramite interviste telefoniche, e dunque la stima realizzata si basa sulle dichiarazioni dei rispondenti che hanno indicato la presenza all’interno del proprio nucleo familiare di una persona con disabilità. Evidentemente si tratta di una stima basata sulla percezione soggettiva della disabilità, che non è supportata dall’indicazione di una diagnosi specifica.

Va però sottolineato che il grado di parentela considerato (genitore, fratello, figlio o coniuge) è tale da ridurre probabilmente al minimo le distorsioni in merito all’errata o mancata attribuzione della situazione di disabilità a una quota presumibilmente ridotta di casi”.60 “I sentimenti oscillano tra la partecipazione umana e la paura, costruire una relazione con le persone disabili è difficile. Due terzi degli intervistati (66%) ritengono che le persone con disabilità intellettiva siano accettate solo a parole dalla società, ma che nei fatti vengano spesso emarginate. Quasi un quarto del campione (23,3%) ha un’opinione ancora più negativa, ritenendo che non ci sia nessuna accettazione sociale, perché la disabilità mentale fa paura e queste persone si ritrovano quasi sempre discriminate e sole. Solo il 10,7% degli intervistati ritiene che invece siano accettate pienamente e che nei loro confronti ci sia disponibilità all’aiuto e al sostegno. Sostanzialmente nel nostro paese la percezione sociale della disabilità rimane lacunosa e distorta.”61 C’è una disabilità che si vede e una invisibile. “La maggioranza degli italiani ha un’immagine della disabilità esclusivamente in termini di limitazione del movimento (62,9%), il 15,9% pensa a una disabilità intellettiva (il ritardo mentale o la demenza), il 2,9% a una disabilità sensoriale (sordità o cecità), mentre il 18,4% associa il concetto a un deficit plurimo, ossia alla combinazione di due o più disabilità. Il 68,7% degli intervistati associa poi la disabilità alle conseguenze di un incidente, il 14,2% la riconduce a una malattia congenita, mentre l’ipotesi di una malattia neurologica contratta in età adulta viene citata dall’11,1%.”62 Sebbene gli incidenti rappresentino una causa frequente di disabilità, il fatto che solo un italiano su dieci pensi a

59, 60, 61, 62 Ufficio Stampa Censis, LE DISABILITÀ OLTRE L'INVISIBILITÀ ISTITUZIONALE Il ruolo delle famiglie e dei sistemi di welfare Primo rapporto di ricerca La disabilità, tra immagini, esperienze e emotività, Censis, Roma, 2010

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patologie neurologiche (come la sclerosi multipla e l’ictus) che invece hanno un peso rilevante nel determinare la disabilità nelle fasce d’età giovanili e adulte – è sintomatico di una percezione riduttiva e deformata. “Ma quanto è diffusa tra gli italiani la corretta conoscenza di alcune specifiche forme di disabilità? L’82,9% del campione afferma di conoscere la sindrome di Down, […] mentre il livello più basso di conoscenza si rileva a proposito dell’autismo (noto solo al 59,9% del campione). E tuttavia anche tra chi afferma di sapere di cosa si tratta, le informazioni appaiono generiche e superficiali e le convinzioni errate sembrano essersi sedimentate, all’interno di una sorta di rumore di fondo informativo, come effetto di una comunicazione mediatica che sul tema è spesso confusa e sensazionalistica. […] Tra quanti affermano di conoscere la sindrome di Down, ad esempio, il 55,7% è convinto che nella maggior parte dei casi le persone che ne sono affette muoiano giovani, che non superino i quarant’anni di età, quando in realtà l’aspettativa di vita media per queste persone è oggi superiore ai sessant’anni. E appare molto diffuso il luogo comune secondo il quale le persone Down si assomigliano tutte tra loro, sia esteticamente che come carattere, considerato vero da 2 su 3 (il 66%, e il dato raggiunge il 75,6% tra i soggetti meno scolarizzati e rimane comunque maggioritario anche tra i laureati, che lo ritengono vero nel 60,5% dei casi). […] Per quanto concerne invece la sclerosi multipla, se in effetti l’87,6% di chi afferma di conoscerla sa che è una malattia che colpisce il sistema nervoso centrale, il 62,7% pensa però che le persone che ne sono colpite perdano rapidamente la mobilità e finiscano presto sulla sedia a rotelle. Il 74,6% ha l’errata convinzione che abbiano un’aspettativa di vita molto inferiore alla media e il 60,7% pensa che con la sclerosi multipla non sia possibile

vivere una vita normale. […] A proposito dell’autismo, infine, il 90,8% di quanti affermano di conoscerlo crede correttamente che le persone che ne sono affette soffrano di gravi difficoltà nel comunicare e stabilire relazioni con gli altri, ma è duro a morire il luogo comune circa la presunta genialità di queste persone nella matematica, nella musica o nell’arte, che è condiviso da quasi 3 su 4 (il 73%).”63

63 Ufficio Stampa Censis, LE DISABILITÀ OLTRE L'INVISIBILITÀ ISTITUZIONALE Il ruolo delle famiglie e dei sistemi di welfare Primo rapporto di ricerca La disabilità, tra immagini, esperienze e emotività, Censis, Roma, 2010

Laboratorio Zanzara, Aforisma da Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, 2015

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Il territorio torinese e le sue realtà Fondazione Paideia La Fondazione Paideia nasce nel 1993 per iniziativa delle famiglie torinesi Giubergia e Argentero, volta alla realizzazione di iniziative di solidarietà. Riconosciuta tra le Organizzazioni Non Lucrative di Utilità Sociale (ONLUS) nel 1997, oggi è sostenuta attivamente dal Gruppo Ersel e da numerosi altri donatori. L’obiettivo principale è quello di diffondere una cultura dell’infanzia e partecipare alla costruzione di una società più inclusiva e responsabile. Da oltre vent’anni, questa associazione lavora a fianco di famiglie e bambini in difficoltà, promuovendo progetti innovativi volti alla nascita di contesti attenti e rispettosi delle necessità di tutti. Il loro lavoro si basa principalmente sullo sviluppo delle potenzialità dei bambini, mirando a stimolare la partecipazione di ogni soggetto, proprio per questo la ricerca di interlocutori è fondamentale per rendere la società più responsabile e attenta. La loro comunicazione visiva si basa principalmente su disegni e lavori creativi che nascono in seguito a workshop e attività ludiche organizzate dagli operatori. La fantasia e l’immaginazione sono fondamentali, è grazie però all’impegno e alla passione di chi sostiene la missione di Paideia, che si riescono ad ottenere importanti risultati. “Un uomo non è mai così alto come quando si china ad aiutare un bambino” è la frase che hanno adottato i volontari come punto di partenza del loro impegno quotidiano.

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Foto di Andrea Guermani, Festa di fine estate, Fondazione Paideia, 2017


Ingenio InGenio è una bottega collocata in una posizione ottimale per innescare momenti di integrazione e scambio culturale con il territorio. Nasce nel 2001 da un progetto della Direzione Servizi Sociali, Area Politiche Sociali – Servizio Disabili della Città di Torino, come spazio per dare visibilità alle abilità delle persone più fragili, oltre a voler sostenere le attività artigianali ed artistiche. L’obiettivo è quello di coinvolgere giovani e adulti con disabilità di tipo diverso in una serie di attività manuali e creative, per permettere loro di esprimersi e mettersi alla prova, sperimentando con pennelli, carta, colla, metalli e terracotta. InGenio lavora grazie alla collaborazione di artigiani, insegnanti, studenti, operatori e servizi che condividono il loro sapere senza nulla in cambio. Gli stage, le mostre e i workshop avvengono in un clima di fantasia, originalità e divertimento. Le opere d’arte vanno dai vasi di terracotta dipinti a mano, fino ai complementi d’arredo (tavoli, sedie, armadi) pitturati con colori a tinte accese, o ricoperti di ritagli di giornale. Ci sono anche gioielli, magliette, borse, decorazioni per la casa. Gli oggetti in esposizione e in vendita all’interno del negozio rappresentano l’unicità del singolo artista o del gruppo di lavoro. Il ricavato dei proventi derivanti dalla vendita delle opere realizzate serve a sostenere piccoli progetti di solidarietà nazionali ed internazionali. Cento i laboratori che hanno aderito al progetto InGenio, i quali collaborano attivamente nella programmazione e nella gestione del negozio e degli eventi. In un percorso di riconoscimento e di valorizzazione delle potenzialità della persona il risultato è la creazione di reti e dialoghi fra differenti realtà, traendo, dalla scelta di collaborare, opportunità di scambio, confronto e aiuto pratico. Foto, Bottega Ingenio, Inaugurazione Cicatrici, 2017

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Isola che non c’è

Laboratorio Zanzara

”Voi siete le nostre gambe”, così si esprime l’associazione L’isola che non c’è nei confronti di chi da molti anni ha deciso di sostenere questa organizzazione di volontariato con sede a Grugliasco (TO). È nata nel 1996 con l’obiettivo di inserimento sociale per “capire” e vivere il mondo esterno, attraverso esperienze di socializzazione e condivisione del tempo libero. Si fornisce ai disabili la possibilità di conoscere un gruppo solidale con cui passare del tempo in maniera costruttiva e ai volontari la possibilità di arricchimento e crescita personale che deriva dall’ascolto del prossimo. Lo scopo principale è quello di svolgere attività di vario tipo come la danza, il teatro e la pittura per consentire ai ragazzi disabili l’integrazione e la crescita sotto tutti gli aspetti. La loro comunicazione visiva viene fuori attraverso laboratori di vario genere, attività ludiche, sportive e culturali che permettono ad ogni membro di esprimere la propria personalità e artisticità. L’isola che non c’è non riscontra differenze tra i volontari e le disabilità, tutti i soci sono uguali con la stessa voglia di divertirsi, collaborare, incontrarsi, creare, integrare e condividere le differenze.

Laboratorio Zanzara è una cooperativa sociale ONLUS nata a Torino come progetto d’integrazione per persone con disagio mentale. È un progetto di cittadinanza incentrato sul design, la grafica e la comunicazione alla cui base troviamo la valorizzazione del singolo e delle sue abilità. Al tavolo dove i ragazzi lavorano sulla grafica o la cartapesta, c’è con loro un professionista che percepisce i loro segni e li valorizza nei modi giusti. L’obiettivo è quello di svolgere attività lavorative che possano essere qualitativamente apprezzabili e commercializzate, in questo modo le persone possono integrarsi con il mondo esterno ed essere parte attiva della società. La quotidiana collaborazione tra gli educatori e professionisti porta alla raccolta di molteplici possibilità espressive e creative con il fine di abbattere le barriere culturali. L’idea è che il talento c’è in ogni persona ed inoltre si punta molto sul fatto che bisogna avere la forza per farcela da soli e riuscire a stare “dentro” a questa società che tende all’ esclusione.

Prodotti fatti a mano dal Laboratorio Zanzara, 2018

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3.1.2

INDIVIDUAZIONE DEL TARGET Il processo d’individuazione del target di riferimento per il progetto di comunicazione sociale parte quindi dalla consapevolezza della mancanza di conoscenza e informazione da parte di una determinata fascia di pubblico. Il Censis parla chiaro, la maggior parte dei cittadini, quando deve relazionarsi con una persona disabile, pur mostrando volontà di interazione, non sa come comportarsi. La responsabilità è molto spesso dell’immagine che la comunicazione odierna, dominata da pietismi e buonismi tende a trasmettere. Il progetto si rivolge quindi a quel gruppo di persone che nonostante non sappiano come comportarsi di fronte ad una persona disabile, a causa dei tabù della società attuale, ha la volontà di interagire e comprendere come poter costruire rapporti arricchenti per entrambe le parti. Può rispondere a queste prerogative il cittadino italiano di età superiore ai 18 anni, che abbia la maturità di comprendere e annullare le differenze, e che soprattutto sia incline ad ascoltare storie e all’eliminazione dei pregiudizi sociali. Dallo spirito leggero ma allo stesso tempo profondo.

Adele, Laboratorio Zanzara, Archivio disegni, 2013

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Laboratorio Zanzara, Archivio disegni, 2015

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3.1.3

IL CONCEPT Grazie all’approfondimento storico nel campo della comunicazione sociale, abbiamo toccato con mano le diverse epoche storiche associate ad una diversa concezione di disabilità mentale e ad una relativa modalità di comunicazione. Da qui abbiamo provato ad individuare la direzione da prendere, i mezzi da utilizzare e il linguaggio da impiegare. L’obiettivo è trovare un nuovo metodo comunicativo per raccontare una condizione sociale delicata quale il disagio mentale. Il progetto vuole proporre un nuovo linguaggio che alleggerisca la percezione comune che oggi si ha dell’argomento, ancora considerato come tabù o con il quale è difficile relazionarsi.

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Laboratorio Zanzara, Disegni da Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, 2015

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3.2

SISTEMA ESIGENZIALE L’analisi dello scenario e la successiva individuazione del target ci ha consentito di arrivare alla identificazione delle esigenze rilevanti nel campo della comunicazione del disagio mentale. Il target a cui ci riferiamo presenta diverse sfaccettature che possono essere considerate come spunti di riflessione da cui partire per far sì che l’output finale risulti efficace. La risposta a queste esigenze è avvenuta tramite linee guida specifiche da tenere saldamente in considerazione nello svolgimento del progetto.

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3.2.1

LE ESIGENZE Elaborando a fondo l’analisi condotta dal Censis, abbiamo messo in luce quelle che sono risultate essere le esigenze principali che al momento sembrano prevalere nel contesto di riferimento. In primo luogo emerge che “costruire una relazione con le persone disabili è difficile.”64 Come riporta il Censis, infatti, il 66% degli intervistati sostiene che le persone con disabilità intellettiva vengano spesso emarginate. È quindi necessario trovare un metodo per creare rapporti trasparenti che porti ad un’accettazione sociale a fatti e non soltanto a parole. Un altro punto saliente nello stilare il sistema esigenziale è la mancanza di efficacia negli strumenti di comunicazione riguardanti il disagio mentale, per cui “nel nostro Paese la percezione sociale della disabilità rimane lacunosa e distorta.”65 Anche tra chi apparentemente sembra essere informato sull’argomento, rimane comunque superficialità e smarrimento, come conseguenza di una comunicazione mediatica che, attraverso toni esageratamente pietistici o buonisti, è spesso “confusa e sensazionalistica.”66 L’inadeguatezza della comunicazione odierna si riflette nella mancanza di informazione e conoscenza della tematica. Va infatti riportato che la maggior parte degli italiani collega la disabilità alla limitazione dei movimenti, mentre, del 15% di chi pensa ad una disabilità intellettiva non ne conosce le cause. 64, 65, 66 Ufficio Stampa Censis, LE DISABILITÀ OLTRE L'INVISIBILITÀ ISTITUZIONALE Il ruolo delle famiglie e dei sistemi di welfare Primo rapporto di ricerca La disabilità, tra immagini, esperienze e emotività, Censis, Roma, 2010

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Laboratorio Zanzara, Disegno da Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, 2015


3.2.2

LE LINEE GUIDA Una volta stilate le esigenze occorre procedere alla definizione delle linee guida, che possano essere considerate come soluzioni alle problematiche sopra elencate. Per rispondere alla prima esigenza individuata riteniamo importante che l’output finale si muova verso lo spostare il punto di attenzione dalla persona come disabile alla persona come persona, perciò dovrà trovare un modo per mettere tutti i soggetti sullo stesso piano, senza snaturare ogni personalità. Si dovrà invitare quindi a vedere le persone (disabili e non) per quello che fanno e non soltanto per quello che sono. Tutti gli individui infatti sono accumunati dal “fare”, indipendentemente dalla loro condizione. Per ovviare alla mancanza di efficacia della comunicazione sul tema disabilità è fondamentale fornire una chiave di lettura che contenga un messaggio che si allontani dall’attuale tono intriso di eroismo e compassione. Il tono del messaggio dovrà avere un carattere leggero ma profondo tale da favorire la comprensione e l’avvicinamento alla tematica in modo spontaneo e trasparente.

Giovanni Gasparro, Tuttifäntchen, 2012

Un ulteriore requisito che il progetto dovrà rispettare è quello di incentivare la conoscenza e l’approfondimento dell’argomento. Una comunicazione efficace permette al pubblico di avere un comportamento positivo e propositivo che guidi chi è invogliato a costruire relazioni con persone disabili. L’output finale dovrà consentire una diffusione virale interessando in primo luogo i social network ma anche gli eventi di carattere sociale.

Per far sì che l’intero lavoro soddisfi i prerequisiti individuati, dovrà quindi essere un video di breve durata, che mostri al meglio l’atto del fare, attraverso un linguaggio ironico. Questa tipologia di linguaggio ha l’intento di evidenziare i problemi utilizzando un tono divertente, invitando alla riflessione e spingendo il pubblico ad approfondire l’argomento in un secondo momento.

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Giovanni Gasparro, Vivemmo senza dolore altrui, Collezione privata, Roma, 2009

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3.3

AVANPROGETTO Il sistema esigenziale delineato ha costituito un punto di partenza per la definizione delle scelte stilistiche compiute in fase metaprogettuale. Abbiamo quindi ipotizzato un nuovo tipo di comunicazione, che passi dal vedere il disabile mentale non più come oggetto della comunicazione ma come soggetto. Attraverso un percorso di progettazione condiviso in cui ognuno offre qualcosa di proprio, il risultato atteso è la comunicazione di una sfera sociale per quello che fa e non per quello che è. A questo proposito siamo giunte all’elaborazione di un naming e uno slogan efficaci per la comunicazione del messaggio.

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3.3.1

LA COMUNICAZIONE Il progetto di comunicazione ha come obiettivo quello di coinvolgere, informare e sensibilizzare, ed essere capace di generare un comportamento positivo per il bene comune, e pertanto si colloca nella sfera della Comunicazione Sociale. In particolare, mirando alla tutela di una categoria specifica di persone, si può definire Advocacy Communication. Nello specifico, l’output dovrà andare verso un alleggerimento della percezione comune e al contempo allontanarsi dall’attuale senso di tabù, promuovendo benessere e giustizia. Il messaggio che sta alla base dell’intero progetto presuppone che gli individui appartenenti alla sfera del disagio mentale siano parte della società, da apprezzare e riconoscere sia per quello che sono sia per quello che fanno, attraverso la produzione di materiale di qualità e consistenza. L’output della comunicazione deve essere un prodotto pregiato innanzitutto; il fatto che sia frutto di un processo condiviso, e che arrivi in primo luogo da individui più fragili deve essere un valore aggiunto.

Tipo di comunicazione

Il risultato finale è un breve video che si serve della narrazione di una storia, attraverso l’animazione di disegni che creano un legame empatico e immediato, in grado di raggiungere lo spettatore. Uno slogan finale, breve ma efficace, racchiude il senso generale del video, fungendo da scintilla verso la curiosità del pubblico. I canali di diffusione immaginati sono in primo luogo il web che, attraverso i principali social network, consente una maggiore divulgazione del messaggio, e poi anche eventi specifici di carattere sociale.

Mezzo

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Comunicazione Sociale (Advocacy Communication).

Obiettivo

Sensibilizzare verso il disagio di una categoria di persone, mirando a modificare l’approccio verso questa.

Emittente

Sfera disagio mentale (ragazzi) e operatori.

Messaggio

Apprezzare e riconoscere i soggetti affetti da disagio mentale come parte della società, sia per quello che sono sia per quello che fanno, attraverso la produzione di materiale di qualità e consistenza.

Ricevente

Cittadino comune, incline ad ascoltare storie.

Video narrativo.

Canale

Social network, eventi specifici.


Una scena del video finale Controluce, Rapina al Carrefur di LeinĂŹ, 2018

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3.3.2

SCELTE STILISTICHE Il percorso affrontato finora ha permesso di definire un sistema stilistico: In primo luogo verrà usata l’illustrazione, in grado di caratterizzare fortemente l’insieme visivo. I disegni saranno realizzati da persone affette da disagio mentale, portando con sé istintività e personalità, eliminando filtri e preconcetti, conferendo una carica emotiva molto forte. L’illustrazione è per eccellenza il mezzo evocativo del lavoro manuale, del “fare” che desidera emergere. A fianco del linguaggio illustrativo grande importanza è conferita alla fotografia, pensata per essere in bianco e nero, per mantenere continuità con i disegni, e uniformare i linguaggi. È stata scelta come strumento di introduzione del video, affinché sveli in modo delicato la provenienza del progetto. Soggetto principale è l’azione, il produrre, e quindi sono spesso raffigurate mani o strumenti; l’attenzione non ricade sulla persona disabile ma su quello che fa. Il formato delle fotografie è nelle stesse proporzioni del video finale, ancora una volta per dare uniformità al progetto. Il tono dell’output sarà ironico e leggero, allo stesso tempo in grado di suscitare riflessioni profonde. A questo proposito è stato scelto di integrare una voce narrante che accompagni lo svolgersi della storia, e che accentui il carattere beffardo del racconto. Nel progetto finale dovrà essere chiaro che l’intero lavoro è frutto di un processo condiviso tra noi, ragazzi e operatori. Laboratorio Zanzara, Disegno da Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, 2015

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3.3.3

3.3.4

CONTROLUCE

FACCIO DUNQUE SONO

Uno strumento che ci ha incuriosite fin dal primo incontro è il tavolo luminoso che i ragazzi del Laboratorio Zanzara usano per disegnare. Appoggiato un foglio sopra, emergono netti e staglianti i contorni dei disegni, che ne definiscono le forme. Riflettendo sull’espressione “controluce” abbiamo notato che nascondeva la nostra concezione del progetto: è facile guardare il mondo nella direzione della luce e additare le differenze, invece, guardare controluce richiede uno sforzo; ma una volta che si hanno aperti gli occhi, le forme appaiono tutte uguali e allo stesso tempo si riescono a percepirne le piccole differenze, puramente formali. Bisogna prenderne atto, comprenderle e così annullarle consapevolmente.

Leggendo le parole che lo scrittore Fabio Geda ha impiegato per descrivere il lavoro dei ragazzi, abbiamo individuato un breve messaggio: “faccio dunque sono”. 67 Esso raccoglie lo spirito del progetto, in cui la disabilità mentale è soggetto della comunicazione e non oggetto. L’obiettivo è quello di invertire la concezione attuale basata sul quello che potrebbe essere sintetizzato in sono dunque faccio a quella di tipo faccio dunque sono. Ciò punta al riconoscimento della persona disabile come individuo, attivo e capace. Lo slogan si propone di spostare l’attenzione dalla persona come disabile alla persona come persona: identifica un individuo come in grado di “fare” qualcosa di proprio, e quindi “essere”.

IL NAMING

LO SLOGAN

Foto di Gaia Maritano, Laboratorio Zanzara. 2018 67 Laboratorio Zanzara, Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Add Editore, Torino, 2015

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2018

Giovanni Gasparro, La vita nuova, collezione privata, 2009

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3.4

FASE ESECUTIVA Nel nostro percorso abbiamo poi incontrato il Laboratorio Zanzara, che rispecchiava il nostro intento, e abbiamo iniziato ad occuparci concretamente del progetto. Con loro abbiamo lavorato ad una storia nata dall’immaginazione dei ragazzi e poi rielaborata, in un clima di collaborazione e condivisione. Questa storia è diventata animazione grazie ai disegni sviluppati da loro, che hanno cosĂŹ dato una caratterizzante chiave di lettura e impronta stilistica al risultato finale.

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3.4.1

IL LABORATORIO ZANZARA Per rendere possibile la nostra idea, ci siamo rivolte alla realtà del Laboratorio Zanzara. La sua filosofia ci ha da subito colpite poiché rispecchiava il nostro concept. Riportiamo le parole donate da Fabio Geda al lavoro del laboratorio, all’interno del libro-progetto Un’ora al giorno almeno bisogna essere felici, che a nostro avviso meritano di essere citate. “Entrare nel Laboratorio Zanzara è entrare in una bottega dell’anima. Si lavora con la colla, il cartone, la vernice; alle pareti ci sono uccelli che volano, parole da appendere, poster con frasi poetiche e stranianti; posati sulle mensole e sugli sgabelli ci sono cactus di cartapesta, tazze, robot, ciotole, borse, magliette, spille. Ma questo è solo ciò che si vede e si vende. Perché il lavoro più importante è nascosto agli occhi e avviene nel segreto, in luoghi profondissimi custoditi dentro le persone che quegli oggetti costruiscono: è il lavoro sulla dignità, sulla consapevolezza, sull’inclusione. […] Come funziona? Funziona che i ragazzi del Laboratorio fanno un disegno o semplicemente depositano un segno, quel disegno e quel segno diventano un elemento grafico che andrà a comporre un oggetto, per esempio un oggetto di cartapesta, quell’oggetto di cartapesta è un oggetto bello, di qualità, e quando qualcuno entra, lo vede e lo compra, i ragazzi del Laboratorio possono andare lì, guardarlo negli occhi e dire: «Ti piace? L’ho fatto io». […] La mutualità è fondamentale. Nella costruzione del tavolo di lavoro ci sono sempre ragazzi più abili e altri meno abili, in modo tale che possano migliorarsi a vicenda e che non sia solo la voce dell’educatore o del tecnico a guidarli, ma la comunità intera.«I ragazzi arrivano al Laboratorio Zanzara alle nove del mattino 68 Laboratorio Zanzara, Un’ ora al giorno almeno bisogna essere felici, Prefazione di Fabio Geda, Add Editore, Torino, 2015

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e si suddividono tra i tavoli di lavoro» racconta Carmela (co-fondatrice del Laboratorio, ndr), «uno di grafica e comunicazione visiva, uno di cartapesta e decorazione d’interni e uno di serigrafia. A metà mattina facciamo una pausa. Alle dodici e trenta andiamo in mensa, tutti insieme. Fino alle due c’è tempo libero. Poi si riprende fino alle quattro, che è anche l’orario di chiusura del negozio. […] E se qualcuno entra in negozio per comprare qualcosa vede i ragazzi lavorare e loro vedono il cliente osservare e scegliere. Tutto questo è molto concreto. Da questa concretezza si sviluppano la consapevolezza e la dignità». La cosa straordinaria del Laboratorio Zanzara è che ha rotto i muri dentro cui di solito le cooperative sociali si autoconfinano. Si sono aperti all’esterno, rivolgendosi al mondo fuori dal sociale. Tutto passa dalla ricerca, dall’estetica, dalla qualità. Spesso il sociale si accontenta: perché tanto l’ha fatto un utente. E invece qui prima di tutto viene la qualità del prodotto, e che poi un lavoro così bello e curato venga fatto da persone fragili rende il risultato semplicemente più luminoso.”68 Un laboratorio in cui l’individuo è valorizzato per quello che fa, in cui ognuno può dare qualcosa di proprio ed essere apprezzato, grazie al lavoro degli operatori, i ragazzi coinvolti riescono a credere in sé stessi e creare valore. Grazie ad una serie di incontri volti alla concretizzazione del progetto abbiamo approfondito le idee fondanti del Laboratorio e lavorato alla realizzazione del video.


3.4.2

LA PROGETTAZIONE PARTECIPATA Le storie Il primo passo per la realizzazione del video narrativo è stato quello di individuare una storia da poter raccontare in maniera inedita. “Nel gruppo c’è un filosofo, Antonino, molta grafica prodotta da Zanzara ha i suoi pensieri al centro, sotto forma di lampi di saggezza che finiscono nelle agenda e sui calendari, diventati in 12 anni oggetti di culto.”69 Abbiamo preso spunto dal libro sopracitato, i cui testi sono “considerazioni amare e dolci al tempo stesso, c’è l’assurdo e c’è il sogno, la realtà nascosta e l’ovvietà spiazzante: sì, il re è nudo. A queste parole bisogna sapersi abbandonare, così come al segno ruvido e materico dei disegni che le accompagnano. Questo libro è una degustazione di minuscole, imprescindibili verità. Da infilarsi in un taschino, da legarsi all’orecchio. Da portare con sé, sempre, come un paio d’occhiali polarizzati.”70 Abbiamo quindi tratto una storia divertente scritta da Tripude, che si prestasse ad essere rappresentata e comunicata. Come racconta Gianluca Cannizzo, cofondatore del Laboratorio, le storie possono nascere in diversi modi. «Alcune volte i ragazzi sono ispirati e raccontano aneddoti basati su fatti accaduti realmente nelle loro giornate, altre volte sono io che gli fornisco degli spunti e stimoli da cui si immaginano storie.» Quello che ne risulta è un racconto organico, immaginifico, frutto di collaborazione. Nello schema a fianco riportiamo il flusso di lavoro e gli attori coinvolti. 69 www.lastampa.it/2011/10/23/cronaca/creativi-e-un-po-filosofii-ragazzi-della-zanzara/ 70 Laboratorio Zanzara, Un’ora al giorno almeno bisogna essere felici, Prefazione di Fabio Geda, Add Editore, Torino, 2015

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La nostra storia La storia da cui siamo partite è scritta da Tripude, e racconta di una fantasiosa rapina al Carrefur di Leinì. “I componenti saremmo io e una persona, se questa ci sta. Saremmo in due, Tripude e Quadruple, però c’è il problema che questa persona si ubriacava ma mo non lo fa più, il problema è che magari in quel momento si incazza come se niente fosse se è ubriaco. Facciamo la rapina al Carrefur di Leinì davanti a casa mia. Dovremmo andare al supermercato piano piano, entrare piano piano, rapinare e scappare via correndo, visto che io non guido e lui anche. Entriamo coi passamontagna e con i mitra, sperando che ce li vendano, e diciamo:- FERMI TUTTI QUESTA È ‘NA RAPINA! Prendiamo i soldi della cassa ed i prodotti. Come prodotti io prenderei: acqua gasata, bevande, succhi, sciroppi, merendine, dolci, eccetera. E lui prenderebbe quello che vorrebbe. Usciamo scappiamo e andiamo a casa mia e ci nascondiamo in cameretta, e festeggiamo la rapina aprendo bevande, aprendo merendine.”71

71 Laboratorio Zanzara, Un’ora al giorno almeno bisogna essere felici, Racconto di Tripude, Add Editore, Torino, 2015

Una scena del video finale Controluce, Rapina al Carrefur di Leinì, 2018

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Usando questo testo come punto di partenza abbiamo rielaborato la storia ampliando alcuni tratti in modo da renderli più narrativi e coinvolgenti. Abbiamo poi riordinato i fatti creando una timeline che consentisse di seguire la storia in ordine cronologico con l’inserimento di alcuni flashback. Una voce narrante beffarda e ironica interpreterà il testo così rielaborato, accompagnando le immagini e arricchendole di personalità. “I componenti saremmo io e una persona, se questa ci sta. Saremmo in due: io, Tripude, quello esperto e Quadruple, però c’è il problema che questa persona si ubriacava ma mo non lo fa più, il problema è che magari in quel momento si incazza come se niente fosse, se è ubriaco. Facciamo la rapina al Carrefur di Leinì davanti a casa mia. Dovremmo andare al supermercato piano piano, entrare piano piano coi passamontagna, e sfoderare le “armi”, dei mitra, che con tanto impegno ci siamo guadagnati. Poi dovremmo gridare - FERMI TUTTI QUESTA È ‘NA RAPINA! Prendiamo i prodotti. Come prodotti io prenderei: acqua gasata, bevande, succhi, sciroppi, merendine, dolci, eccetera. E lui prenderebbe quello che vorrebbe. Usciamo scappiamo correndo, visto che io non guido e lui anche. Siamo fortunati, Marcella è all’angolo con l’ape accesa. Andiamo a casa mia e ci nascondiamo in cameretta, e festeggiamo la rapina aprendo bevande, aprendo merendine.”

Una scena del video finale Controluce, Rapina al Carrefur di Leinì, 2018

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3.4.3

CONTROLUCE PRESENTA “RAPINA AL CARREFUR DI LEINÌ” Una volta definito il testo di partenza, ne abbiamo organizzato la scrittura per poter lavorare in maniera strutturata sui disegni in un secondo momento.

Una scena del video finale Controluce, Rapina al Carrefur di Leinì, 2018

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IDEAZIONE

Cosa succederebbe se una coppia di amici dal passato turbolento decidesse di improvvisare una rapina al supermercato?

SOGGETTO

Eventi in ordine cronologico.

1. pianificazione rapina

Due amici, Tripude e Quadruple mettono in atto un piano per rapinare il Carrefur di Leinì. Tripude è la mente, Quadruple il braccio. Il piano è quello di procurarsi dei mitra per accertarsi del compimento, ma non è sicuro che riescano a procurarseli. Per questo mettono tutto il loro impegno nella pesca dei cigni alla fiera di Leinì.

2. rapina

I due entrano piano piano, cercando di non essere visti. Indossano dei passamontagnae tirano fuori le “armi”. Prendono i prodotti, quali dolciumi e bevande.

3. fuga e rapina

Fatto il colpo si danno alla fuga, ma c’è una pecca: nessuno dei due ha la patente. Scappano quindi di corsa. Per fortuna all’angolo incontrano Marcella con l’ape che li salva. I tre complici si rifugiano nella cameretta di Tripude e festeggiano la rapina aprendo bevande e merendine.

SCALETTA

Eventi nell’ordine in cui compaiono sullo schermo. 1. Tripude coinvolge Quadruple in una rapina in un supermercato (“Carrefur di Leinì”). 2. [flashback] Il passato di Tripude è svelato. 3. Tripude si chiede se Quadruple sarà un buon complice, data la sua passata dipendenza dall’alcol. 4. [flashback] Il passato di Quadruple è svelato. 5. I due entrano piano piano e tirano fuori le “armi”. 6. [flashback] La coppia vince le armi perfette alla pesca dei cigni alla Fiera di Leinì. 7. Tripude prende i prodotti dagli scaffali, tra cui dolciumi e bevande. 8. Quadruple prende quello che vuole. 9. Fuggono dal supermercato con i sacchi, correndo perchè non hanno la patente. 10. All’angolo incontrano Marcella con l’ape che li salva. 11. Tutti e tre si rifugiano in camera di Tripude. 12. Aprono bevande e merendine festeggiando la rapina.

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TRATTAMENTO Tripude decide di fare una rapina coinvolgendo il suo amico Quadruple, se questo ci sta. A Tripude, però vengono in mente i passati problemi con l’alcol di Quadruple e si chiede se sarà un buon complice. Questo infatti, quando si ubriacava, si arrabbiava spesso con lui. Per mettere in atto il piano, i due decidono di procurarsi delle armi, dei mitra sarebbero l’ideale, però non sanno come fare. Gli amici, indossati i passamontagna, entrano di soppiatto cercando di non farsi vedere. Tirano fuori le “armi” giocattolo vinte alla pesca dei cigni alla Fiera di Leinì. Tripude e Quadruple hanno speso tutti i loro soldi impegnandosi a vincere gli ambiti premi. Sfoderate le armi gridano FERMI TUTTI, QUESTA È ‘NA RAPINA! A questo punto prendono dagli scaffali quello che più desiderano: Tripude prende acqua gasata, bevande, succhi, sciroppi, merendine, dolci eccetera. Quadruple quello che vuole (spazzolino). Fatto il colpo si danno alla fuga, ma c’è una pecca: nessuno dei due ha la patente. Scappano quindi di corsa. Per fortuna all’angolo incontrano Marcella, che con la sua ape li salva, portandoli a casa. Una volta lì, i tre si rifugiano nella cameretta di Tripude, e aprendo bevande e merendine festeggiano la rapina.

Laboratorio Zanzara, Archivio disegni, 2015

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3.4.4

IL LAVORO CON I RAGAZZI Per il passaggio dalla scrittura del video alla rappresentazione, ci siamo servite di uno storyboard fotografico che ne ripercorresse la struttura e servisse da ispirazione ai ragazzi per la realizzazione dei disegni.

Foto di Gaia Maritano, Laboratorio Zanzara. 2018

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STORYBOARD FOTOGRAFICO 1

2

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tripude “I componenti saremmo io”

“e una persona, se questa ci sta.”

“Saremmo in due: io, Tripude,”

4

5

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quadruple “quello esperto”

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“e Quadruple,”

“però c’è il problema che questa persona si ubriacava ma mo non lo fa più,”


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IL “FARE” Foto di Gaia Maritano, Laboratorio Zanzara. 2018

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3.4.5

IL VIDEO STRUTTURA DEL VIDEO Il video finale è strutturato in tre parti principali:

1. introduzione

I primi secondi vogliono far immergere lo spettatore nell’atmosfera embrionale del progetto: un laboratorio, un sottofondo di voci, mani che disegnano. In maniera velata si dà qualche indizio su quale sarà il tema del video, senza però dichiararlo in maniera esplicita. Le immagini in bianco e nero vogliono destare l’attenzione e incuriosire su quello che sta per succedere.

2. racconto

Il nucleo del progetto grafico sta nella sequenza animata di alcuni disegni, semplici e chiari plasmati sulla storia in questione.

3. chiusura

Il messaggio vero e proprio della comunicazione è contenuto nella conclusione del video; attraverso la comparsa dello slogan “faccio dunque sono” e il breve silenzio viene smorzato il tono ironico tenuto fino a quel momento e viene lasciato il giusto spazio da dedicare alla riflessione. Inoltre soltanto nella conclusione vengono svelati i mittenti della comunicazione: i ragazzi affetti da disagio mentale, attraverso l’uso della fotografia. Essi rimangono attori nascosti durante tutta la durata del video, e solo alla fine viene esplicitato il dietro le quinte.

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STORYBOARD 1. introduzione

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2. racconto

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3. conclusione

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4

CONCLUSIONI

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4.1

FEEDBACK ESTERNI In conclusione del lavoro ci siamo confrontate con Gianluca Cannizzo, che ci ha seguite durante tutto il percorso; insieme abbiamo provato a ragionare su come poter modificare il processo di progettazione condivisa per migliorarne l’efficacia. Dal confronto è emerso che, soprattutto nella fase di stesura del racconto, è importante agire seguendo un preciso schema di lavoro per consentire ai ragazzi di muoversi seguendo una struttura preimpostata. Per esempio, per l’ideazione della trama, è raccomandabile fornire una scaletta con gli elementi salienti, da tenere come punto di riferimento. Nello specifico si può pensare di affrontare le diverse fasi progettuali a seconda del tipo di patologia con cui si ha a che fare. Mentre determinati ragazzi possono lavorare, se coadiuvati dagli operatori, alla scrittura della storia, altri si possono occupare della parte illustrativa. Lasciando da parte per un istante le finalità comunicative del nostro progetto, si può inoltre pensare di traslare il metodo utilizzato per applicarlo ad altri contesti. Uno di questi potrebbe essere quello scolastico (bambini delle elementari), che richiama per molti aspetti il modus operandi dei ragazzi del Laboratorio Zanzara. Il percorso può essere proposto come laboratorio a sè stante, che va dalla nascita di una storia alla realizzazione del relativo video narrativo, in grado di sollecitare diversi aspetti dell’educazione.

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4.2

FEEDBACK INTERNI Giunte al termine di questo percorso abbiamo potuto fare un’autovalutazione del nostro progetto. Avendo avuto l’opportunità di lavorarci concretamente e vederlo realizzato, ci siamo potute confrontare anche su aspetti legati alla fase esecutiva. Nel caso in cui questo processo si volesse ripetere per dare vita ad un nuovo progetto di comunicazione nell’ambito sociale, bisogna tenere conto innanzitutto dei tempi di svolgimento necessari per ogni step del quadro metodologico individuato. Per la nascita dell’intreccio narrativo, che può avvenire spontaneamente o attraverso suggestioni, si immagina una settimana circa. Una storia geniale può sorprendere da un momento all’altro.

Per la scrittura del video nelle sue parti si immagina una decina di giorni. La storia va infatti valutata e strutturata attraverso connessioni logiche per poter dar vita ad una comunicazione efficace. Per la realizzazione dei disegni, a seconda del ragazzo che se ne occupa, si immagina un periodo che può variare dai 5 ai 15 giorni. Infine il montaggio del video richiede circa un mese di lavoro. In vista di un miglioramento si può inoltre immaginare di raccontare una storia maggiormente indirizzata al pubblico di riferimento. Infine, l’idea che potrebbe essere portata avanti, è quella di conferire un’episodicità al lavoro (consentita dai tempi di realizzazione) che permetta una continuità di attenzione al tema.

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www.youtube.com

www.lastampa.it www.memecult.it www.neuropsicomotricista.it

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in copertina, disegno di Rosa, stampa serigrafica di Arbino Serigrafica, tesi di laurea, stampa e rilegatura di Tipografia Ideal Torino 2018

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Arrivate a questo punto non ci resta che ringraziare, Ci ringraziamo a vicenda, per aver accettato la sfida di portare avanti una nostra idea, Andrea Di Salvo per averci supportate nel nostro percorso, La nostra famiglia - mamma, papĂ , fratelli, nonni, zii per averci permesso di percorrerlo, Il Laboratorio Zanzara, per aver dato vita alla nostra idea - in particolare Adele per averci prestato il suo tratto e Mara il suo volto , davides

I nostri amici e compagni, con cui abbiamo condiviso il nostro tempo, E infine tutti coloro che sono entrati a far parte di questa avventura. Che questo sia solo l’inizio. Elena e Gaia.

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