In viaggio con Barlaam numero 03

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G.A.L. BaTiR - via Torrione, 96 - 89125 Reggio Calabria - tel. e fax 0965 897939 - www.galbatir.it

Barlaam IN viaggio CON

tra mare, montagna, miti e leggende

Misura 313

Rubbettino

Rivista trimestrale su cultura, storia, tradizioni, arte, paesaggio e ambiente a cura del Gruppo di Azione Locale del Basso Tirreno Reggino

N 3/2015




Indice 3 L’unione fa… la filiera!

39 La memoria e il racconto...

Sul traghetto tra Scilla e Cariddi

di Antonio Alvaro - Presidente G.A.L. BaTiR

4 Vele in Aspromonte

di Domenico Zappone

di Filippo Teramo

43 8 Una brigantessa sui Piani

della Corona

di Santino Salerno

12 Su e giù per il Basso

Focus GAL BaTiR

DISTRETTO AGROALIMENTARE DI QUALITÀ DELLA PIANA DI GIOIA TAURO E DELL’AREA DELLO STRETTO di Fortunato Cozzupoli, Giuseppe Critelli e Giuseppe Vincenzo Mancuso

Tirreno Reggino

di Fortunato Cozzupoli, Francesco Vita e Giampiero Pirrò Direttore responsabile Santino Salerno

15 Vendemmia tra i filari

Coordinatore editoriale Filippo Teramo

di Rosario Previtera

Coordinatore redazionale Federica Morabito

della Costa Viola

18 Kaìre Kaìre kaì pìe eù!

Salute salute e bevi bene!

di Ines Cutellè Abenavoli

23 Il torrone di Bagnara:

una delizia a marchio Igp

di Federica Morabito

26 La vegetazione spontanea.

Viaggio tra le erbe “selvatiche”

di Giuseppe Mazzù

30 Usa lo spreco

Un progetto per contrastare la segregazione sociale

di Fortunato Cozzupoli, Giuseppe Critelli e Giuseppe Vincenzo Mancuso

34 Quando Guttuso creò

la “Scuola di Scilla”

di Francesco Burzomato

Cura redazionale Maria Teresa D’Agostino hanno collaborato a questo numero: Ines Cutellè Abenavoli, Francesco Burzomato, Fortunato Cozzupoli, Giuseppe Critelli, Giuseppe Mazzù, Giuseppe Vincenzo Mancuso, Federica Morabito, Rosario Previtera, Giampiero Pirrò, Santino Salerno, Filippo Teramo, Francesco Vita Traduzioni abstract Sebastiano Iaria Foto di: copertina S. Mileto, pag. 1 D. Riefolo; pag. 4 Fonte: Ideeviaggi.it; pag. 5 A. Violi, F. Teramo; pag. 6 F. Teramo; pag. 7 Fonte: Travelux.com, F. Teramo; pagg. 8, 10, 11 Fonte: volume di E. Ciconte, Banditi e briganti Rubbettino 2011; pagg. 12, 13, 14 E. Morano; pag. 15 R. Caratozzolo; pag. 16 R. Previtera, Fonte: archivio bagnaracalabra. biz; pag. 17 R. Previtera, D. Riefolo; pagg. 18, 19, 20, 21 Musée du Louvre, Parigi; pag. 22 I. Cutellè Abenavoli; pagg. 23, 24, 25 M. Gramuglia; pagg. 26, 27, 28, 29 G. Mazzù; pag. 30 Fonte: onuitalia. com; pag. 32 G. Pirrò, G. Sobrio; pag. 33 E. Morano; pag. 34 Fonte: volume di C. Giacomozzi, Omiccioli: Scilla 70 Istituto Romano di Arte e Cultura 1971; pagg. 35, 36, 37, 38 Fonte: volume di C. De Franco Scilla e le sue borgate; pag. 39 Fonte: collezione E. Bevere; pag. 39 Fonte: archivio bagnaracalabra.biz.; pag. 41 foto d’archivio; pag. 42 Fonte: ebayimg.com; pagg. 43, 44, 45, 47 D. Riefolo; pag. 48 G. Sobrio

Copyright Rubbettino Editore S.r.l. Direttore Editoriale - Luigi Franco Redazione - Giuseppe D’Arrò Progetto grafico - Inrete Impaginazione - Tiziana Chirillo Stampa Rubbettino print per conto di Rubbettino Editore S.r.l. 88049 Soveria Mannelli (Catanzaro) Numero 3 in attesa di registrazione Finito di stampare nel mese di settembre 2015

RICICLATO


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L’unione fa… la filiera! di Antonio Alvaro - Presidente G.A.L. BaTiR

Promozione del territorio e identità gastronomica sono due dimensioni inscindibili della realtà locale; il loro legame è talmente stretto da costituire le due facce della stessa medaglia. Se questo è vero, com’è vero, è bene continuare, nonostante le difficoltà del momento, ad investire e a scommettere su quegli eventi che promuovono i prodotti agricoli ed ittici e quelli della loro trasformazione che costituiscono un elemento distintivo del GAL BaTiR, in Italia ed all’estero. In questi anni si è lavorato affinché visitatori e turisti fossero invogliati a raggiungere la Costa Viola e i centri dell’entroterra del GAL BaTiR, non soltanto per le sue indubbie bellezze naturalistiche, paesaggistiche ed architettoniche, ma anche per tutte le altre ricchezze locali, rappresentate dal patrimonio gastronomico e agro-alimentare, che racchiude in un unicum storia e tradizione dell’intera area. Va sottolineato, quindi, come gli enti pubblici e le agenzie di sviluppo, quali il GAL BaTiR e il GAC dello Stretto, se vogliono sopravvivere e, soprattutto, prosperare, debbano agire in sinergia con i soggetti privati e con le associazioni di categoria che operano nel settore turistico, in quello ittico e in quello agro-alimentare. La programmazione turistica e la promozione del territorio – soprattutto nei momenti di crisi – non possono prescindere da questa sinergia se si vuole garantire un’attività che lasci intravedere la possibilità di un concreto e non effimero sviluppo. È proprio alla luce di questa prospettiva che nasce il “Distretto Agroalimentare di Qualità della Piana di Gioia Tauro dell’Area dello Stretto”; una istituzione che punta alla valorizzazione delle risorse locali, aggregando tutte le piccole e medie industrie della filiera agroalimentare, e alla creazione di occupazione stabile o, quanto meno, a lungo termine. La vera innovazione del Distretto, diremmo quasi la peculiarità, consiste nel fatto che esso nasce “dal basso”, ovvero dalla volontà di un comitato promotore formato da GAL BaTiR, dalle Amministrazioni comunali del territorio e da altri soggetti interessati. Proprio per questa sua particolare natura, il nuovo Distretto potrà avvalersi di una governance innovativa, tale da permettere di affrontare le problematiche strutturali dell’agricoltura locale, di unire alle attrattive territoriali le qualità ambientali, e di valorizzare il patrimonio storico-culturale dando vita ad un vero e proprio sistema integrato di azioni dirette a conseguire lo stesso obiettivo: la realizzazione del pieno sviluppo territoriale. Il Distretto Agroalimentare di Qualità della Piana di Gioia Tauro e dell’Area dello Stretto aspira, perciò, a diventare un punto di riferimento per il recupero del sistema agro-economico tradizionale, ritenendolo un fattore di sviluppo sostenibile del territorio, e quindi un potenziale di

crescita ed evoluzione innovativa del sistema agroalimentare regionale. Allo stesso modo è necessario un tavolo permanente di lavoro per il comparto ittico, per poter mettere a confronto proposte ed esigenze dei GAC dell’intera Penisola sui temi dell’innovazione di filiera e dello sviluppo integrato, con l’obbiettivo di costruire le precondizioni di un soggetto di coordinamento, che possa interloquire col Ministero, rappresentando le problematiche dei GAC per ottenere un supporto concreto. In questo contesto risulta evidente quale sia l’importanza del GAC dello Stretto e dell’Assogac Calabria, portavoce delle esigenze di tutto il litorale calabrese, il cui apporto certamente sarà fondamentale nell’ambito delle riflessioni e delle indicazioni programmatiche relative allo sviluppo. Il futuro della filiera del pesce e del suo rapporto con l’economia locale e turistica è solo nelle nostre mani. L’area provinciale tirrenica deve essere al centro delle politiche della prossima programmazione dei fondi per il mare per dare una spinta importante sia alla pesca sia al turismo; se non riusciremo ad allocare risorse mirate, le conseguenze potrebbero essere pesanti, con il rischio di perdere sempre più flotte, tra le più importanti del Mediterraneo, con il conseguente decremento del pescato e con gravi ricadute anche sul comparto turistico. Infine, ma non meno importante, è da considerare la perdita di identità della linea di costa che è strettamente legata alla pesca. Per questo il GAC dello Stretto metterà in atto una strategia globale, una sorta di contratto tra la comunità del mare, per la promozione di incontri nei quali si possano condividere le tematiche della pesca. Insomma, è necessario favorire l’avvio di partenariati per la condivisione delle conoscenze nei settori dell’agricoltura e della pesca. Un lavoro di sensibilizzazione, con una mirata e specifica campagna promozionale, che possa coinvolgere soprattutto i giovani, offrendo loro gli spunti per cominciare a pensare in termini di sviluppo sostenibile, attirando la loro attenzione sulla dimensione globale del cibo, e quindi sui prodotti agricoli e ittici. Ciò costituirà una risorsa importante per aumentare la consapevolezza e l’informazione non solo in Calabria ma anche in Italia, in Europa e nel mondo. Da non trascurare però la ricerca; pertanto va incentivata la partecipazione alle attività di studio e di analisi tese alla creazione di una banca dati sulle buone pratiche al fine di rendere note le potenzialità dell’agricoltura e della pesca così da garantire la sicurezza alimentare. Tutto ciò sarà realizzabile solo con il coinvolgimento di tutti i soggetti interessati poiché è la forza dell’unione che fa... la filiera!


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Vele in Aspromonte di Filippo Teramo

La nave scuola Amerigo Vespucci

A Santa Cristina d’Aspro-

monte, tra ulivi secolari ed abeti bianchi, faggi dall’alto fusto e maestosi pini, sorge un centro di attrezzature nautiche fondato da Rocco Violi, un uomo della montagna con l’amore per il mare che, facendo tesoro dei metodi degli antichi velai, ha creato vele per migliaia di imbarcazioni e anche per la nave scuola italiana “Amerigo Vespucci”.

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l paese si chiama Santa Cristina e ha poco più di mille abitanti. Dai tornanti che dalla Piana di Palmi, attraversati il Ponte Vecchio, Cirello, Castellace, Santa Giorgia e Lubrichi, portano verso lo Zillastro, il piccolo centro s’intravede arroccato sulle falde dell’Aspromonte, immerso in un mare di ulivi e, più in alto, di bianchi abeti, faggi d’alto fusto e pini maestosi. Mimmo Gangemi, lo scrittore, e Santino Salerno, critico letterario, mi sono compagni di viaggio. Parlano di romanzi e scritture. Sono stati loro a rivelarmi che proprio a Santa Cristina, in montagna, c’è una piccola ma fiorente industria di cose marinare che produce perfino le vele per la regina della marineria italiana: la nave scuola “Amerigo Vespucci”. Ma sarà vero?, mi chiedo per tutto il viaggio. Salendo lungo i tornanti mi guardo attorno incantato dal paesaggio ma sempre più perplesso. Ebbene, strano ma vero, a Santa Cristina d’Aspromonte sorge, infatti, un centro di attrezzature nautiche. L’intrepido imprenditore è Rocco Violi; lo incontro nella sua azienda, appena fuori dal centro cittadino. Oggi ha settantadue anni, ma l’entusia-


spucci

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Marco e Antonio Violi alla fiera Mets di Amsterdam

smo e la voglia di fare sono quelli di un giovane pieno di energia e di buona volontà, doti che non gli sono mai venute meno nell’arco della vita. La sua è una storia di ordinaria emigrazione, quella che alla fine degli anni Cinquanta costrinse migliaia di meridionali a lasciare la campagna per le città del centro e del Nord Italia. Rocco Violi è uno dei tanti. Raggiunge Genova in cerca di lavoro e lo trova inizialmente presso una ditta che ripara i teloni dei vagoni ferroviari. È talmente bravo e veloce che arriva a guadagnare “duemila e settecento lire a settimana”, il triplo e forse più dei suoi compagni di lavoro. Non può non essere notato, sicché, nella sua nuova terra, la Liguria, voglia di fare e dedizione gli procurano ulteriori responsabilità e maggiori gratificazioni. Rocco Violi non conosce stanchezza, fin dall’adolescenza aveva sperimentato ben altri sacrifici e compiuto ben altre fatiche: “A nove anni – racconta – a Santa Cristina d’Aspromonte, lavoravo duramente. Raccoglievo le olive e riportavo il carico a spalla per tutto il giorno e per ogni giorno della settimana”. Il “sentimento” del lavoro e del sacrificio, l’uomo di montagna con l’amore per il mare, lo ha trasmesso anche ai suoi due figli, Antonio e Marco, che oggi ricoprono ruoli di responsabilità nell’azienda di famiglia. “Sono oltre cinquant’anni che vivo per il mare. Ho lavorato con i maestri velai che costruivano e riparavano vele. Nella mia lunga esperienza – dice Rocco Violi – ho visitato tanti porti ed ho incontrato migliaia di marinai e di naviganti

e ho confezionato tante vele per le loro imbarcazioni. Creare vele è un’attività che ho appreso sin da giovanissimo aiutando e carpendo i segreti ai vecchi maestri dell’arte, e oggi – aggiunge con emozione – posso dire di essere rimasto uno dei pochi artigiani in grado di confezionare a mano vele di alta qualità”. E a questo punto ricorda con malcelato orgoglio le vele dell’“Amerigo Vespucci” che, prodotte dalle sue mani su questa montagna d’Aspromonte, sfidano i venti di tutti i mari. E gli piace ricordare che la “Provvidenza” dei “Malavoglia”, la barca naufragata sugli scogli di Acitrezza con il suo carico di lupini, oggi ricostruita dai mastri d’ascia catanesi secondo i canoni tradizionali, è munita di una vela di tessuto acrilico con il bordame di canapa tutta cucita a mano, realizzata proprio nello stabilimento di Santa Cristina d’Aspromonte. La voglia di affermarsi, quasi a voler riscattare l’antica situazione di calabrese emigrato, l’esperienza acquisita sul campo, la concretezza e l’intuito terragno, hanno spinto Rocco Violi a sfidare l’intero settore dei corredi per la nautica; cosicché oggi, e da oltre dieci lustri, è leader nella produzione degli accessori di sicurezza per le imbarcazioni, con un know how che si è evoluto nel tempo in uno dei mercati più competitivi

Giubbotto salvagente prodotto a Santa Cristina


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Lo stabilimento Atlantis a Santa Cristina

Rocco Violi, presidente di Atlantis Italia

del mondo: quello nautico, appunto, e con una qualità produttiva che ha raggiunto ormai livelli molto elevati. I risultati raggiunti inorgogliscono Rocco Violi, senza insuperbirlo; le origini povere e il punto di partenza sono sempre presenti nella sua memoria, e costituiscono un buon incentivo per la sua nuova azienda fondata sull’unità familiare, sulla fiducia reciproca, sul lavoro di squadra e su quello delle singole unità produttive, affinché tutti possano sentirsi valorizzati e partecipi dei consensi che vengono dal mercato e dalla clientela. Il processo produttivo si realizza interamente negli oltre 2000 mq. dello stabilimento di Santa Cristina d’Aspromonte, con l’impiego di manodopera specializzata proveniente dai centri vicini; la qual cosa consente un controllo rigoroso e diretto così che ogni singolo pezzo possa es-

sere riconosciuto come prodotto “fatto bene e sicuro”. Oggi, a collaborare con il padre Rocco, in qualità di amministratore del gruppo, c’è il figlio Antonio. Dopo la laurea in Economia marittima e dei trasporti conseguita a Genova, fa nascere, con il padre e il fratello Marco, Atlantis Italia, con una filosofia aziendale che si sintetizza nel motto “Dall’Italia e per il mondo”. E così mi confida “posso dire di avere realizzato il mio sogno: un’azienda made in Italy di alta qualità qualità, apprezzata nel mondo, che dà lavoro a tante famiglie nella nostra terra”. Si punta quindi a nuovi progetti, a joint venture con altri produttori del territorio. Antonio ha il piglio deciso del manager e occhi luminosi e sognanti, come quelli dei vecchi lupi di mare adusi a guardare oltre l’orizzonte. “Mio padre mi ha insegnato ad amare e a rispettare il mare – mi racconta ancora – e la mia vita ha sempre avuto come baricentro i porti ed il mare. Da bambino giocavo, con mio fratello Marco, nella darsena del porto di Genova e ancora oggi, come allora, avverto gli odori della salsedine e quello degli ormeggi bagnati dall’acqua. Osservavo le navi che approdavano e seguivo con lo sguardo quelle che salpavano fino a vederle scomparire pensando ai marinai costretti in ogni condizione meteorologica ad affrontare le insidie del mare aperto. E il pensiero della sicurezza per chi naviga per lavoro o per diporto non mi ha mai abbandonato e per questo ho studiato e ho girato il mondo.” E così, la divisione Recreational Craft (imbarcazioni da diporto), supportata dal centro di ricerca aziendale, ha sperimentato le migliori soluzioni


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Giubbotti salvagente prodotti a Santa Cristina

nell’ambito della sicurezza progettando e realizzando strumenti di salvataggio semplici, sicuri e poco ingombranti, e di alta affidabilità tanto che grandi ed importanti compagnie di navigazione li hanno scelti per dotare le loro motonavi. Innovazione nella tradizione. Tradizione e cultura, sicurezza assoluta, praticità sono i punti fermi della filosofia aziendale. Ogni prodotto è costruito per offrire benessere, robustezza, ergonomia per chi vuole o deve affrontare il mare in ogni condizione. Già, il mare che si approvvigiona di strumenti nautici nati nel “mitico” Aspromonte, in un’area ancora intatta e incontaminata, dalle grandi potenzialità produttive e turistiche, ma che soffre per la mancanza di moderne infrastrutture, dei necessari collegamenti per facilitare quelle importanti sinergie con le altrettante realtà dell’indotto di cui si avvale l’azienda di Rocco Violi, ma di cui si gioverebbe per altri fini di sviluppo economico l’intera zona. Il figlio Antonio cerca e trova la forza per spingere il made in Calabria, in una nuova mission per creare empatia tra le varie aziende, calabresi e nazionali, con due parole d’ordine: sinergia ed operatività. Si punta quindi sulla ripresa anche dei marchi nobili della nautica. Un brand che è pane quotidiano per Marco Violi, art director del gruppo, che se pur giovanissimo ricopre questo ruolo con professionalità. L’esperienza maturata sul campo gli consente di contribuire a realizzare prodotti innovativi che catalizzano i mercati mondiali e tutto “…nel segno del made in Italy – sottolinea con orgoglio Marco – un marchio conosciuto e apprezzato nel mondo per il design e la bellezza che esprime. Trovare il giusto

connubio tra il bello e la funzionalità non è spesso cosa semplice. Contribuire a realizzare prodotti destinati ai mercati mondiali, non solo per la sicurezza e la qualità dei materiali, ma anche per la ricercatezza del gusto, ripaga da ogni sacrificio”. Antonio e Marco, sotto lo sguardo fiero di papà Rocco, non dimenticano di segnalarci uno tra i progetti realizzati, e di grande attualità, come quello della “gabbia recupero naufraghi”. Un lavoro di ricerca, innovazione, efficienza in costante evoluzione, per soddisfare richieste e soluzioni, nel solco distintivo di questa azienda nautica, ubicata nel cuore dell’Aspromonte. E, infine, ancora un sogno da realizzare: mettere insieme diversi settori per progettare un unico prodotto che possa servire sulla superficie e nelle profondità marine e forse anche nel libero volo. La scommessa è aperta ma da quassù, strano ma vero, dall’alto dell’Aspromonte si può, ne siamo sicuri… e a vele spiegate!!!

Santa Cristina

In Santa Cristina d’Aspromonte, sorrounded by ancient olive trees, tall beech trees and majestic pines, is located a nautical equipment manufacturer founded by Rocco Violi. A man coming from the mountain with the love for the sea that, building on the ancient methods of the masters sailmakers, manufactured also the sales of Amerigo Vespucci ship. By frequenting numerous ports he meets many sailors making for them tailored sails for their ships.


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Una brigantessa sui Piani della Corona di Santino Salerno

Brigantessa calabrese


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Durante la campagna napo-

leonica nel Regno di Napoli (1806-1815), una filandiera di Palmi, per vendicare il marito ed i figli vittime di una congiura ordita da un ufficiale francese e ingiustamente condannati a morte, si fa brigantessa. Francesca La Gamba, questo il nome della donna, imperversa nell’estrema regione della Calabria Ultra, tra Palmi e Scilla e nei paesi dell’entroterra aspromontano al comando di una banda di facinorosi. Durante uno scontro sui Piani della Corona, catturerà l’ufficiale francese autore della congiura, gli squarcerà il petto e ne mangerà il cuore ancora palpitante. Gli inglesi conferiranno alla donna il grado di capitano.

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l 23 gennaio 1806 Ferdinando IV di Borbone sotto la spinta dell’avanzata napoleonica abbandona Napoli alla volta di Palermo. Il 14 febbraio dello stesso anno, le truppe francesi del Partenneaux entrano nella capitale del regno, precedendo di poco il luogotenente Giuseppe Bonaparte; un mese più tardi, cedendo all’assedio del generale Reyner, capitolavano le ultime roccaforti calabresi filoborboniche di Scilla e di Reggio. Ma la Calabria, seppure sottomessa, non è vinta del tutto, non essendo terra da sopportare passivamente alcuna forma di soggezione. Ad infiammare gli animi contro i francesi ci pensano i fautori della caduta monarchia; tra questi, nella provincia di Reggio, i più attivi sono il maggiore Musitano, il conciatore di pelli Paolo Mancuso, conosciuto col soprannome di “Pa-

During the Napoleonic campaign against the Kingdom of Naples (1806-1815), a female textile worker of Palmi became a brigand in order to revenge her husband and her children which were unjustly condemned to death following a plot organized by an a French officer. Francesca La Gamba, that’s was her name, raged in the southernmost region of Calabria Ultra, between Palmi and Scilla and some inland villages of Aspromonte, was in command of rioters. During a conflict near Piani della Corona, she captured the French officer that had organized the plot, she tore his chest and ate his heart that was still pumping. The woman was honored by the British army with the rank of Captain.

rafante”, e Geniale Versace di Bagnara, o “Genialitz” a cui gli inglesi avevano conferito il grado di capitano. Costoro sanno bene quali corde toccare per incitare il popolo alla rivolta e, da caso a caso, prospettano i diversi esiti della lotta; parlano di indipendenza, d’onore nazionale a chi sanno animato da spirito patriottico; promettono lauti guadagni agli avidi; a quanti, ed erano in molti, avevano subìto oltraggi ed offese, assicurano pronta e sicura vendetta. Ad alimentare l’avversità contro i francesi concorreva, inoltre, il timore del “nuovo” che minacciava una stabilità consolidata e una realtà che, seppur misera, era comunque preferibile al compimento di un salto nel buio. Ma determinante risultava la baldanza e la scostumatezza dei francesi e la violenza che usavano sulle donne infrangendo leggi non scritte, ma comunque fortemente avvertite e radicate nell’animo dei calabresi: quelle dell’onore personale e familiare. Al generale francese Reyner, che alla fama di grande stratega univa quella di uomo savio e misurato, non sfuggiva questo sentimento di ostilità popolare e, intuendo che l’azione di sottomissione si presentava irta di ostacoli, consigliava ai suoi soldati la prudenza e la moderatezza. Ma la regione era tutta in fermento e la battaglia di Maida del 4 luglio 1806, sfavorevole alle truppe napoleoniche contro il corpo di spedizione inglese al comando del generale John Stuart, aveva acceso speranze ed ardori della corte palermitana che, ora, insigniva di titoli nobiliari e di gradi militari i più feroci guerriglieri che capeggiavano uomini facinorosi e di pura marca banditesca. Nella Calabria Citra spargevano il terrore Giacomo Pisano, detto “Francatrippa”, Raffaele Nicastro, Nicola Cavallo, Giuseppe Necco, Giuseppe Benincasa detto “Vicerè”, Paolo Mancuso detto “Parafante” e il fabbro ferraio Giuseppe Mele. A Sud, nella Calabria Ultra, furoreggiavano per monti e spiagge Fran-


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Briganti avvisati da una loro donna, acquerello di S. Buseettil del 1836

cesco Moscato “detto ‘u Bizzarru”, il prete Nicola Papasidero, Giuseppe Monteleone detto “Ronca”, Giuseppe Basta che indossava la divisa di generale britannico, e il domenicano Padre Rosa che incitava alla rivolta con infuocati sermoni inneggiando con pari entusiasmo a Cristo e a re Ferdinando. Tra costoro, spinta da un’incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l’avevano colpita negli affetti più cari entra, a buon diritto e da pari a pari, Francesca La Gamba. Filandiera di professione, Francesca nasce a Palmi nel 1768; e va sposa a Saverio Saffioti dal quale ha due figli: Carmine e Domenico; rimasta vedova, passa a seconde nozze con Antonio Gramuglia e va a vivere a Bagnara. Bella e avvenente, Francesca desta l’attenzione di

un ufficiale della guardia civica che tenta in ogni modo di sedurla. Non vi riesce e, per vendicarsi, ordisce una terribile trama. Nottetempo fa affiggere manifesti inneggianti alla rivolta contro le truppe francesi e il mattino seguente, indicandoli quali autori del fatto, ordina l’arresto del marito e dei figli adolescenti di Francesca La Gamba. La donna si ribella all’ingiustizia con tutte le forze, implora, prega, ma i due giovani e il marito, tradotti nelle carceri di Reggio, vengono sommariamente processati e immediatamente mandati a fucilazione. Travolta dal dolore e con il cuore pieno di un odio irriducibile, Francesca La Gamba va ad infoltire la schiera di briganti che seminano terrore sui Piani della Corona, le alture che si ergono tra Palmi,


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Seminara e Bagnara, e che imperversano nei paesi dell’entroterra aspromontano da Sant’Eufemia a Sinopoli, da Scido a Pedavoli, da Oppido a Santa Cristina e spingendosi sulla costa fino al Rosarno. Armata fino ai denti con armi da fuoco e da taglio, e in abbigliamento virile e banditesco, Francesca La Gamba sparge terrore sui monti e per le campagne da Scilla a Palmi, assaltando e depredando, tant’è che divenuta famosa per la sua temerarietà, presto assume di fatto il ruolo di “capobanda”. I francesi le danno una caccia spietata ma, quando si avventurano sui Piani della Corona, vengono sbaragliati dai briganti al comando della donna. Tra i prigionieri incappa, ferito, il perfido ufficiale, amante deluso, autore della tragica trama. Francesca La Gamba lo fa condurre al suo cospetto, lo disarma, gli squarcia il petto, gli estirpa il cuore e, senza esitare, lo divora ancora palpitante. Era il mese di aprile del 1807. La fama della donna arriva al principe Philipstadt a Palermo, e da lui, appena sbarcato a Reggio, la brigantessa vendicatrice ottiene i gradi di “capitano” e, al comando di una compagnia regolare di cento uomini, continua a combattere compiendo imprese memorabili. Conclusasi la sanguinosa guerra che aveva sconvolto le Calabrie, si accesero, cruente quanto mai, le lotte tra i più facinorosi e crudeli briganti per i quali

la rivolta era stata niente altro che il pretesto per compiere scorrerie finalizzate all’arricchimento. Il terribile Zagari viene ucciso a fucilate dal suo gregario Francesco Russo da Pellegrina, detto “‘u Pisciallaru”, e il suo teschio e le sue mani vengono portate in giro in cima a una pertica, mentre il corpo resta abbandonato in pasto ai cani. Anche lo spietato “Francatrippa” muore per mano di un prete a cui, in quel di Tiriolo, aveva incendiato la casa. “Parafanti” continua a dare sfogo alla sua ferocia seminando terrore, e il “Boja” e il “Bizzarro” percorrono depredando i centri dei territori dell’Aspromonte e delle Serre. Altri, appressandosi l’inverno e temendone i rigori e le conseguenti prevedibili difficoltà, preferiscono chiedere un’aministia. La “Capitanessa”, invece, approda al di la dello Stretto e, sulle coste della Sicilia orientale, addestra i suoi uomini, sognando ancora momenti di lotta. Tornerà a Palmi, sul cadere del 1815, in divisa da capitano e alla testa di cinquecento seguaci. È sgomento tra la popolazione. Ma non accadde nulla. Francesca La Gamba, che ha ormai 47 anni, si ritira in solitudine nella sua casa nel rione san Rocco e lì fino al 30 giugno 1838, data della sua morte, attenderà al suo lavoro di filandiera e al racconto delle storie avventurose e delle tragiche vicende che, suo malgrado, avevano dolorosamente segnato la propria esistenza.

Rifugio di briganti con ostaggi, acquerello di un artista anonimo dell’Ottocento


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Su e giù per il Basso Tirreno Reggino di Fortunato Cozzupoli,Francesco Vita e Giampiero Pirrò

Attività di Laboratorio presso la Comunità Sant’Arsenio di Reggio Calabria

Up&Down, è un progetto

che il GAL BaTiR ha realizzato in partnership con l’AIPD (Associazione Italiana Persone Down) e la Comunità Sant’Arsenio di Armo. Un’esperienza unica e dal profondo valore umano, sociale e culturale, in cui il patrimonio del Basso Tirreno Reggino si è svelato in tutta la sua ricchezza e varietà. Nuove modalità di coinvolgimento, inclusione e partecipazione. Nuove forme di

interpretazione e promozione del territorio che tracciano direttrici interessanti nelle prospettive future di sviluppo locale.

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on esiste un solo modo di vedere ed osservare ciò che ci circonda. Esistono molteplici prospettive, punti di vista, modalità percettive. Ognuna ha il proprio valore, le proprie qualità intrinseche. Lo sguardo riveste un ruolo di primaria importanza nella rappresentazione dei luoghi, nel loro riconoscimento, nel loro essere prodotto delle culture locali. I luoghi infatti siamo noi, e anche la percezione che abbiamo di noi stessi deriva dal nostro rapporto con lo spazio, per come lo pensiamo, lo viviamo e lo sentiamo. Poter fruire dello spazio e


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delle risorse in esso custodite, deve essere un diritto per tutti, avulso da ogni forma di pregiudizio e di qualsivoglia barriera, architettonica, mentale, sociale. È partendo da questi brevi ed essenziali concetti che nasce UP&DOWN, il progetto che il GAL BaTiR ha realizzato in collaborazione con AIPD - Associazione Italiana Persone Down - sezione Reggio Calabria e la Comunità Sant’Arsenio di Armo (RC). UP&DOWN fa parte del progetto di Cooperazione Interterritoriale “Insieme non per C.A.SO - Cooperare e Accogliere SOcialmente”, attraverso cui sette dei quattordici Gruppi d’Azione Locale presenti in Calabria, hanno voluto sperimentare un’esperienza pilota nel campo dell’Agricoltura Sociale, gettando le prime basi di quella che potrebbe essere la dimensione futura del mondo agricolo calabrese, più aperto alle esigenze dei diversamente abili in termini di accoglienza e fruibilità, più plurale dal punto di vista del coinvolgimento diretto nelle attività agricole, non solo per finalità terapeutiche ma anche come opportunità d’impiego e accesso al lavoro. A poco tempo dalla chiusura del progetto, possiamo affermare che UP&DOWN, ha rappresentato un’esperienza coinvolgente e formativa sia dal punto di vista umano, per tutte le parti coinvolte, sia per le prospettive interpretative che i ragazzi dell’AIPD hanno fornito del patrimonio ambientale e storico-culturale custodito nel Basso Tirreno Reggino. Obiettivo del progetto era di realizzare un sistema di fruibilità turistica del mondo rurale accessibile a tutti, attraverso la creazione di due itinerari di scoperta, uno contemplativo-ambientale, l’altro interattivo-culturale. Il progetto, prima di essere avviato concretamente, ha conosciuto diverse fasi in cui sono state compiute approfondite riflessioni sull’individuazione dei soggetti da coinvolgere, sulle modalità operative da adottare, su come tradurre in realtà, idee, concetti, finalità. La motivazione di fondo è stata sempre quella di contribuire ad avviare un processo di crescita culturale, sociale, civile, cominciando da una partecipazione attiva dei soggetti coinvolti in tutte le fasi operative. In questo senso le periodiche riunioni tecniche tenute con i rappresentanti della Comunità S. Arsenio e le operatrici AIPD, si sono rivelate fondamentali per concertare e condividere l’approccio da seguire e nell’organizzare le uscite su campo. Il primo passo, è stato quello di sollecitare l’interesse dei ragazzi, al fine di stimolarne la personale percezione del paesaggio e degli elementi che lo caratterizzano. La finalità, infatti, non era di realizzare il solito intervento calato dall’alto, ma un prodotto calibra-

to e funzionale, frutto delle indicazioni fornite da loro stessi. Vedere gli stessi posti e gli stessi luoghi con occhi diversi, parafrasando Seneca. Le attività sono state realizzate tra marzo e giugno e sono state suddivise in uscite dedicate alla visita del patrimonio storico-culturale e uscite dedicate alla fruizione del patrimonio ambientale. Parallelamente è stato avviato il laboratorio creativo, presso la sede della Comunità S. Arsenio, gestito dai fratelli Plutino, giovani artisti reggini con all’attivo importanti esposizioni nazionali ed internazionali, in cui, i ragazzi dell’AIPD, sono coinvolti nella realizzazione di una scultura che rappresentasse il mostro di Scilla in chiave contemporanea. È proprio il tema del “mostro” ad aver fornito la chiave narrativa dell’intera esperienza, rappresentando un’idea suggestiva fortemente stimolante per suscitare l’interesse. Prendendo spunto dalle tendenze fantasy di cinema e letteratura, oggi di grande fascino per le giovani generazioni, si è riusciti a creare un filo conduttore che partendo dalla prima uscita con visita a Scilla si è concluso con l’ultima presso la bottega del maestro pignattaro Domenico Ditto nel paese di Seminara, in cui è stato possibile osservare da vicino l’abilità artigiana, i luoghi e gli strumenti di lavoro, le tradizionali ceramiche colorate e le grottesche maschere apotropaiche. Tante le altre tappe previste dal progetto tra cui Sinopoli, il Monte S.Elia, Gambarie, il mausoleo di Garibaldi, Palmi e la Casa della Cultura. In ognuna delle uscite, i ragazzi hanno compilato un cartellone con le foto degli elementi più rappresentativi dei luoghi visitati, appuntando osservazioni, sensazioni, suggestioni: supporti propedeutici da cui estrapolare i preziosi contributi che concorreranno a formare i contenuti delle pubblicazioni previste, tra cui la guida turistica del Basso Tirreno Reggino e la video brochure. Durante i week end

Visita al Castello Ruffo di Scilla


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democratica delle ricchezze di quest’area, che si è tenuto, invece, il laboratorio creativo, in cui i esaltino il valore delle percezioni grazie a mappe ragazzi dell’AIPD hanno potuto dare libero sfogo tattili, stimoli olfattivi, percorsi del gusto, uso della alla proprio manualità ed al proprio senso artistico, narrazione, potrà offrire la possibilità di vivere collaborando e contribuendo materialmente alla esperienze autentiche e senza creazione della scultura. Grande la soddisfazione delle Up&Down is a project organi- barriere. Costruire un turismo aczed by GAL BaTiR in collabo- cessibile e inclusivo è espressione famiglie che hanno potuto osration with AIPD (Italian Asso- di civiltà, cosi come coinvolgere i servare l’entusiasmo dei propri ciation Down Persons) and the residenti affetti da disabilità nelle figli e misurarne il profondo Community of Saint Arsenio in coinvolgimento in tutte le attività. Armo. It’s a unique experience attività lavorative di settore, è soUn’esperienza articolata ed impe- characterized by a strong hu- pratutto un dovere morale prima gnativa che ha fornito, inoltre, un man, social and cultural value ancora che normativo. In questo contributo importante ai percorsi in which the heritage of “Bas- senso, il tema dell’Agricoltura so Tirreno Reggino” reveals its Sociale, è di grande attualità negli sull’autonomia individuale già richness and variety: new me- ultimi tempi, in quanto, la legge promossi dall’AIPD. Il progetto thods of involvement, social inUP&DOWN, lontano dagli stere- clusion and participation. The nazionale che potrà finalmente otipi e in controtendenza rispetto new way to approach things rappresentare il quadro normaalle solite progettualità create nei together with the promotion of tivo a cui far riferimento è in fase the territory are the guidelines di discussione in Senato. Interesconfronti dei diversamente abili, for future prospects of the lo- santi le prospettive e gli sviluppi ha voluto dar voce alle emozioni cal development. che ne potrebbero derivare, e alle espressioni delle persone come la possibilità di realizzare coinvolte, ognuno secondo le progetti trasversali e multifondo, che integrino il proprie qualità ed abilità. terzo settore (sociale) con gli altri settori produttivi Ha rappresentato un nuovo modo d’agire, basato (agricoltura, pesca, turismo, cultura). Realizzare sui principi d’inclusione, accessibilità e pari opun siffatto sistema rappresenta sicuramente una portunità, non solo nei bisogni primari ma anche sfida ardua e complessa, ma anche uno degli in quelli ludici e ricreativi di ognuno, a prescinobiettivi fondamentali che il GAL BaTiR ritiene dere dalla propria condizione fisica e mentale. determinanti per la valorizzazione del patrimonio Le proposte del progetto vogliono tracciare una presente nel Basso Tirreno Reggino. UP&DOWN direttrice per il prossimo futuro, inaugurando un può essere considerato, dunque, un progetto inprecorso di crescita non solo a livello di mercato novativo, un’esperienza apripista, un primo passo e di offerta turistica ma anche sociale e culturale, verso nuove modalità di fruizione e promozione caratterizzato da un elevato standard di qualità. del territorio, nuove visioni di paesaggio e cultura. La creazione di nuovi itinerari attenti alla fruizione

Visita al Castello Ruffo di Scilla


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Vendemmia tra i filari della Costa Viola di Rosario Previtera

Scilla, vecchia cantina

La vendemmia è un rito

quasi ammantato di sacralità. Un tempo ogni famiglia era completamente coinvolta nella vendemmia del proprio vigneto, di quello del parente o dell’amico. Addirittura gli emigranti provenienti dal Nord Italia e dall’estero ritornavano con nostalgia tra i filari e le vecchie armacie della Costa Viola. La vendemmia vede

protagonisti donne e uomini, giovani e anziani. E le donne hanno rappresentato sempre una componente importantissima del “rito”. Grape harvest is a ritual, surrounded by an air of sacredness. Once, each family was deeply involved in the grape harvest of its vineyard, of the relatives or friend. Even the emigrants coming from northern Italy and from abroad came back with sentimentality among the rows and the old “armacié”(typical stone-dry walls) of the Costa Viola. The grape harvest involves men and women, young and old. Women have always represented a very important part of this “ritual”.


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Scilla, monorotaia

La vendemmia 2015 si prospetta come tra le migliori degli ultimi anni per incremento della quantità e per l’elevata qualità delle uve. Certamente gli effetti del clima sempre più “bizzarro” ed in certi casi “estremo” in queste circostanze daranno buoni risultati. Al di là degli aspetti prettamente legati alla qualità del vino, che dipende essenzialmente dalla qualità delle uve, il momento della vendemmia continua a rivestire un ruolo fondamentale tra gli usi e costumi della cultura contadina essendo un rito legato al vino, elemento principe di ogni convivialità. È, insomma, un evento quasi ammantato di sacralità che si ricollega alla mitologia delle antichissime feste dionisiache e che evoca e rinnova momenti felici di unità familiare, riaccende sentimenti di comunione fraterna, di condivisione del lavoro, e induce a ripercorrere e rivivere in allegria storie ed aneddoti, ad esaltare la saggezza dei vecchi e a non perderne la memoria storica. Ma la vendemmia è, nello stesso tempo, fatica e speranza; essa richiede un’organizzazione puntuale, affinché tutto vada per il meglio, e soprattutto deve beneficiare dei buoni auspici affinché le condizioni meteorologiche non compromettano la riuscita del taglio e del trasporto dei preziosi grappoli. È il momento più importante per la raccolta dei frutti (è il caso di dirlo) di un anno di intenso lavoro. Un tempo ogni famiglia era completamente coinvolta nella vendemmia del proprio vigneto o in quello di

Bagnarota con cesta di uva

un parente o di un amico; per gli emigranti costituiva un’attesa occasione per ritornare con nostalgia tra i filari delle vecchie armacìe o armacère (i muri in pietra a secco che sostengono i vigneti in forte pendenza) della Costa Viola; un’occasione, forse l’unica, per rivivere momenti della fanciullezza e per continuare a mantenere salde e vitali le proprie radici, per sentirsi ancora parte di una grande famiglia, per non dimenticare le proprie origini, complici il sapore dolce dell’uva matura e l’intenso profumo del mosto che rimane saldamente fissato nella memoria di ognuno, per sempre. La vendemmia vede protagonisti donne e uomini, giovani ed anziani. E le donne hanno rappresentato sempre una componente importantissima del “rito”. Si pensi ad esempio che a Bagnara Calabra, fino alla metà dell’800, esisteva la categoria delle “trasportatrici”, impegnata nel trasporto delle pietre per il ripristino, durante l’inverno, dei muri a secco tipici dell’area vitata della Costa Viola reggina e al trasporto dell’uva in estate. Il trasporto è la fase più faticosa della vendemmia soprattutto in aree marginali o presso i territori terrazzati: migliaia gli scalini sconnessi e sdrucciolevoli che le donne percorrono lungo ardite pendenze, con “cofane” ricolme dal peso di 3040 chilogrammi sul capo, spesso con grandissimo rischio della propria incolumità. La “monorotaia” di Scilla, ancora funzionante, ci indica un riuscito tentativo di innovazione tecnica risalente agli anni ’90


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Terrazzamenti della Costa Viola, Bagnara

e finalizzato all’abbattimento dei costi di trasporto e a mitigare il fenomeno nefasto dell’esodo rurale che determina l’abbandono dei terrazzamenti ed il conseguente dissesto idrogeologico. Dopo la vendemmia intesa quale raccolta manuale dei grappoli lungo i filari, seguono le fasi della pigiatura, della torchiatura, della fermentazione fino al momento in cui il mosto finisce di “bugghìri”, ovvero di fermentare. Segue allora la fase dello stoccaggio in cisterna o in botte e, infine, l’imbottigliamento. Per secoli la coltivazione della vite è sopravvissuta alle innumerevoli difficoltà cui sono andati incontro generazioni di contadini; difficoltà naturali dovute all’orografia del terreno e agli effetti dei sismi, o più di recente per eventi di natura sociale ed economica quali l’emigrazione e le oscillazioni del mercato e, oggi, ai cambiamenti climatici. È solo grazie alla volontà e all’impegno degli anziani che continuano a tenere duro e all’intraprendenza di qualche giovane ed ostinato imprenditore che si continua a mantenere viva la coltivazione dei vigneti ed a salvaguardare, di riflesso, l’intero territorio. È questo il caso della Coop. “Enopolis Costa Viola”, sorta nel 2004, i cui soci sono veri e propri “viticoltori eroici”. La vendemmia comunque esercita ancora il suo fascino. Anche quest’anno carovane di vecchie auto, di “Ape” e furgoncini, trasportano l’uva dalle vigne fino alle cantine o ai pochi palmenti rimasti, rinnovando così una tradizione millenaria,

se si pensa alla presenza nella locride, di antiche vasche per la pigiatura dell’uva (pinàci) scavate nella roccia e risalenti all’epoca romana e bizantina. Oggi la vendemmia diviene anche evento mondano in alcune aree a forte vocazione vitivinicola e turistica. Vere e proprie schiere di neofiti, appassionati, turisti, partecipano a grosse manifestazioni di “vendemmia notturna”, tra i filari illuminati di grandissime e famose aziende vitivinicole siciliane, toscane, venete. Un modo nuovo di vivere la vendemmia che forse esula dalla tradizione, ma che comunque contribuisce a mantenere viva la memoria e l’interesse nei confronti di un rito arcaico ma ancora attuale.

Zibibbo della Costa Viola


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Kaìre Kaìre kaì pìe eù! Salute salute e bevi bene! di Ines Cutellè Abenavoli

I colonizzatori greci appli-

carono nei territori calabresi gli stessi loro metodi per la coltivazione della vite e per la degustazione del vino, bevanda ritenuta sacra perché dono del dio Dionisio. Il vino, molto alcolico, si beveva dilui-

to durante i simposi che erano un’occasione di dialogo, di cultura e svago. Oggi l’eredità magnogreca offre ai territori del basso Tirreno reggino un futuro ricco di prospettive costituito dalla promozione di quel patrimonio culturale.


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Kylix, coppa di Siana (575-550 a.C. circa), Bellerofonte combatte contro la Chimera

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ialogo, identificazione e appartenenza: erano questi gli aspetti del “bere insieme” presso gli antichi Greci nel momento in cui si apprestavano alla degustazione della sacra bevanda. Era loro costume infatti che il vino, il dono che Dioniso, figlio di Zeus e di Sémele, aveva fatto all’uomo, andasse bevuto in compagnia e non puro, disdicevole usanza barbara, ma miscelato a causa dell’alta gradazione alcolica che poneva dei limiti nell’assunzione. Frutto dell’unione di vitigni orientali con quelli autoctoni, questo era un passito molto

alcolico e dolce, ottenuto dalla raccolta di uva a maturazione tardiva, che solitamente veniva diluito, in proporzioni di tre parti d’acqua e una di vino, con acqua calda o rinfrescato con la neve. Anche in quei territori del basso Tirreno calabrese, che furono scelti dai colonizzatori greci per la coltivazione della vite, la regola era bere il vino con moderazione non tanto durante i pasti, caratterizzati da una certa frugalità, quanto nella cosiddetta seconda tavola, meglio conosciuta come simposio. Il concetto della misura, non comune presso altri popoli ma così caro agli Elleni, veniva così espres-


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Il carattere sacrale del simposio prevedeva l’aso anche nello spazio cerimoniale del simposio, un momento di socialità che avveniva dopo la cena, pertura del convivio col rendere grazie agli dei con l’accensione delle lucerne. Un avvenimento, e, seppur nella loro eterogeneità, anche le coquale ad esempio una vittoria oppure il celebrare lonie calabresi si apprestavano alla degustazioun ospite illustre, era l’occasione per far sì che, ne del vino in modo rituale. L’atmosfera di cui soprattutto gli uomini, si riunissero nell’andron per era pervaso il simposio è quasi pittoricamente condividere argomenti ed emorappresentata da Senofane (570 zioni stando adagiati sui klinai, The Greek settlers in Calabria a.C.- 475 a.C.), che in una sua ovvero i lettucci su cui era conused the same methods concer- elegia così scriveva: “Ora ecco suetudine bere, stando appoggia- ning vine cultivation and wine il pavimento è terso e le mani di tasting which was considered tutti e i calici. C’è chi ci circonda ti sul braccio sinistro. Il “bere insieme”, questo il signi- a sacred beverage, gift of the il capo di ritorte ghirlande, e c’è ficato di simposio, era caratteriz- god Dionysus. The wine was chi porge in una tazza l’essenza very alcoholic and it was diluzato da vere e proprie regole di ted during symposiums which profumata. Il cratere è lì, ripiebuon andamento della cerimowere moments of dialogue, cul- no di allegria, e c’è pronto altro nia di volta in volta stabilite dal ture and leisure activities. Today vino nei vasi, che dice che mai the Greek heritage offers to the verrà meno, dolce come il miesimposiarca. Quest’ultimo, che veniva solitamente tirato a sorte territories of the “Basso Tirreno le, odorante di fiori; nel mezzo Reggino” a future rich of percon i dadi tra i convitati, fissava spectives concerning the promo- l’incenso emana il suo sacro le regole del buon bere decieffluvio; c’è acqua fresca e doltion of that cultural heritage. dendo le proporzioni del taglio ce e limpida; qui accanto sono i acqua-vino ma anche il numero biondi pani e la tavola sontuosa di coppe, in un primo momento piccole poi via oppressa dal peso del cacio e del biondo miele; via più grandi, che i commensali potevano bere. nel mezzo, l’altare è tutto quanto coperto di fiori Eubolo, poeta comico del IV sec. a.C., nei suoi e tutta la casa risuona del canto e del tripudio versi fa descrivere proprio a Dioniso la varietà (…)”. delle possibili conseguenze del bere, dalla moLa sacralità dell’evento aveva i suoi simboli nel derazione dei primi tre calici, propri dell’uomo rituale dell’abluzione delle mani, che veniva saggio, fino all’eccesso del decimo che fa uscire eseguita prima di approcciarsi al vino, che era di senno. esso stesso divinità, e di pronunciare quello che noi oggi chiamiamo brindisi. Kaìre Kaìre kaì pìe eù, salute salute e bevi bene, è una delle formuKyathos (mestolone), Dionysos le che si potevano trovare inscritte sulle coppe inghirlandate d’edera, pianta sacra a Dioniso, per esortare a bere o semplicemente salutare. Il bere-insieme dell’antica civiltà greca com’è noto è magnificamente descritto nella quantità di reperti archeologici caratterizzati da ceramiche dalle forme e dalle decorazioni minuziose: anfore per trasportare, come quelle conservate al Museo Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria, coppe per bere, vasi per miscelare, tutti diversi per stili ed iconografie raffiguranti miti o attimi dello stesso simposio. Oltre che dalle fonti scritte è infatti da questi reperti che apprendiamo che l’acqua per miscelare era contenuta nell’hydria; che il vino puro era conservato in deinos, e che veniva miscelato, da giovani prescelti, con aromi e spezie nel cratere, che di solito stava al centro della stanza, poi prelevato con tazze e kya (una sorta di attingitoio dal lungo manico) e versato da oinochòai in kylikes (coppe a due anse con stelo alto e bocca larga e magari decorata esternamente “ad occhioni”). Questa


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Oinochoe nello "stile della capra selvatica". Ingubbio bianco con capre pascenti in cinque fasce, e oche, grifoni, sfingi e cervi sulla spalla (640-630 a.C.)

decorazione che mostrava due grandi occhi aperti dipinti sul bordo della tazza era spesso presente in kylikes e assumeva un carattere apotropaico, di difesa del bevitore da influssi negativi mentre, nell’atto di bere, era impedito dal guardarsi intorno a causa del largo diametro della coppa che gli copriva il volto. Il bere-insieme greco avveniva dunque in un clima di sacralità e celebrazione in cui tuttavia queste ultime lasciavano spazio alla dimensione umana che diveniva la vera protagonista. La musica introduceva e poi accompagnava la poesia, gli skòlia, i canti letterari, o anche quelli improvvisati di argomenti generali; i convitati partecipavano non solo nel declamare o cantare ma anche nell’ac-

compagnamento musicale, generalmente compito che veniva affidato a giovani donne, con la lira, la cetra o con l’aulòs. Tutta la casa risuonava di canto e poesia e profumava di fiori che ricoprivano l’altare e dell’aroma dello stesso speziato vino che crateri e calici sprigionavano. Alla modalità di degustazione del bere-insieme il vino, appartenevano non solo dialoghi di politica, di filosofia, di poesia o canto ma anche svaghi, quali giochi di abilità, a volte a sfondo erotico, come il kòttabos che consisteva nel riuscire a rovesciare un piattello, posto su un’asta in precario equilibrio, colpendolo con le ultime gocce di vino rimaste sul fondo della kylix dopo aver pronunciato il nome cui era dedicato il lancio “amatorio”. E questa dimensione umana è particolarmente fruibile ancora oggi attraverso la ceramica figurata magno greca laddove forme e decori trovarono la più alta definizione di funzione; eredità che è presente nei magnifici reperti delle antiche Medma, Metauros, e Reghion dislocati nelle diverse realtà museali del basso Tirreno oppure che è presente nella ceramica di quei centri come Seminara con le sue produzioni tipiche, o ancora che rivive nelle realtà scolastiche, come il Liceo Artistico “Preti Frangipane” di Reggio Calabria, quale oggetto di studio o di prospettiva per il futuro nell’accesso al mercato del lavoro. Ma dalla bassa costa tirrenica della Calabria, che ospitò pure gli insediamenti greci in Italia deriva soprattutto quella antica forma di socialità, fatta di ospitalità e condivisione che oggi è ancora parte integrante nelle tradizioni locali relative alle degustazioni tradotte nelle nuove forme di convivialità.


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Gruppo di opere riproducenti l’attività simposiale, Liceo Artistico Preti Frangipane


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Il torrone di Bagnara: una delizia a marchio Igp di Federica Morabito

Torrone di Bagnara IGP

I

« l “Manto di Monaco”, che contraddistingue il torrone IGP, è una delle caratteristiche principali che rendono il croccantissimo dolce di Bagnara

un prodotto unico al mondo; la sua “rottura vitrea” è, poi, la proprietà più amata dai degustatori che lo fa apparire come un blocco di vetro scuro, con delle venature, che si infrange sotto i denti rilasciando il suo ricco sapore, esclusivo e inconfondibile,ottenuto grazie alla genuinità degli ingredienti sapientemente lavorati».


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P

sul fuoco a 180/200 centigradi, temperature arliamo di torrone. Roba da far venire elevatissime che necessitano di grande perizia l’acquolina in bocca! Tutto bene se ci si trova a e padronanza da parte dei maestri pasticcieri; sfogliare questa rivista nel mese basterebbe, infatti, arrivare al «The “Manto di Monaco”, which di dicembre, un po’ meno se ciò punto di bruciatura per rendere the nougat PGI, is avviene nei mesi caldi, in quanto characterized inservibile l’intero impasto; al one of the main characteristics potrebbe apparire inappropria- that makes the crispy sweet of contrario di quanto avviene per to, out of season. Bagnara a product unique of its gli altri tipi di torrone, quello più Questo prodotto dolciario, infat- kind. Its “breaking cleanly” is comune, che viene cotto con la taster’s most beloved property tecnica cosiddetta a bagnomaria, ti, è generalmente considerato which makes it similar to a brown a temperature molto più basse essere strettamente legato alla glass block with some veins that tradizione natalizia, accompabroken under teeth by releasing e, cosa non da poco, controllate gnato da pandori e panettoni, in its rich, unique and unmistaka- elettronicamente. scintillanti confezioni o in ricchi bly flavor given by the genuine- Il manto di monaco, che contradness of the ingredients skillfully distingue il torrone Igp, è una cesti, tra strenne e cadeau. worked». La faccenda cambia compledelle caratteristiche principali che tamente volto se il torrone in rendono il croccantissimo dolce questione è quello Igp (Indicazione Geografica di Bagnara un prodotto unico al mondo; la sua Protetta) di Bagnara. Un prodotto tipico della “rottura vitrea” è, poi, la proprietà più amata dai stagione invernale che però, tanto è amato, che degustatori che lo fa apparire come un blocco ormai entra nelle case degli italiani in tutti i periodi vetro scuro, con delle venature, che si infrandi dell’anno. ge sotto i denti rilasciando il suo ricco sapore, Il torrone di Bagnara Calabra non può, e non esclusivo ed inconfondibile, ottenuto grazie deve, essere degustato solo nel mese di dicemalla genuinità degli ingredienti sapientemente bre… Mandorle tostate non pelate, miele d’agrulavorati. mi e zucchero, le principali materie prime che, Al morso la pasta appare friabile e croccante per sapientemente lavorate, danno vita ad un prodoteffetto della giusta tostatura delle mandorle e to dolciario unico, che nulla ha a che vedere con i dell’alta temperatura alla quale è stata sottopotorroni della produzione industriale. sta la massa zuccherina. Al palato la dolcezza Il vero torrone Igp viene prodotto a Bagnara, dell’impasto è bilanciata dal sapore delle mandorsulla splendida costa Viola, in provincia di Reggio le tostate e da una netta sensazione di brulè, con Calabria. Una tradizione anleggero retrogusto speziato tichissima che viene portata che, nella versione “Torreavanti da dieci aziende che fatto glassato”, ingloba andanno vita ad un prodotto che la percezione di cacao unico nel suo genere, metamaro e cannella. tendo sul mercato circa milEd ecco arrivare il marchio leseicento quintali di ottimo Igp! L’attribuzione rappretorrone. senta un riconoscimento Colore scuro, friabilità e molto prestigioso, conferito croccantezza sono le caratdall’Unione Europea che, teristiche che contraddistininsieme all’onore di poterguono il prodotto originale, sene fregiare, porta con sé inimitabile e irrealizzabile se anche l’onere di proseguire non attraverso una serie di sulla strada intrapresa, sulla delicatissime fasi eseguite via di una produzione d’alto con grande maestria. livello, con prodotti di prima Queste peculiarità, elemenscelta e lavorazioni peculiari ti distintivi del prodotto, si da eseguire con la massima ottengono grazie ad una attenzione. L’importante particolare tecnica di lavoraacronimo, Igp, garantisce il zione delle materie prime. In consumatore sulla sussistenFase di lavorazione del torrone fase di cottura, infatti, l’impaza di determinate caratsto viene cotto direttamente teristiche, prima fra tutte


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l’origine geografica del prodotto, e prevede delle rigide regole alle quali attenersi, attraverso un disciplinare di produzione, il cui rispetto è garantito da uno specifico organismo di controllo. Un importante riconoscimento che assume ancor più valore se si pensa che il Torrone di Bagnara è l’unico torrone italiano ad essere stato ritenuto meritevole di tutela attraverso l’attribuzione del marchio europeo. Un fiore all’occhiello dunque, per tutta la Calabria, che potrebbe diventare volano di sviluppo economico per il settore dolciario grazie ad un know how ottenuto attraverso un’attenta ricerca dei torronai locali, che ha consentito ad alcuni di loro di ottenere, anche negli anni passati, dei brevetti internazionali, sulla spinta della passione per la propria attività artigianale, che oggi diventa anche una promettente opportunità. Tante le versioni del torrone di Bagnara che propone un’ampia scelta tra gli innumerevoli tipi del croccante prodotto. Si parte dai classici: Torrone al cioccolato, ostiato, cannella e mandorla, per proseguire con le specialità: Lingottino, crystal, ostiato, orange, gelato gianduia, Mini Kiss, che vanno ad affiancare il Torrefatto glassato e il

Fase di lavorazione del torrone

Martiniana, i due torroni scuri, quelli di antichissima tradizione, che hanno ottenuto il marchio Igp, divenendo motivo d’orgoglio nel contesto del già rinomato mondo gastronomico e dolciario calabrese. Una vera e propria arte la produzione di questa delizia il cui segreto risiede in una serie di fattori assolutamente unici: l’artigianalità del procedimento, l’accurata scelta delle materie prime e il luogo di produzione che rappresenta fulcro e fucina di storia e tradizione.

Naspratura torrone torrefatto


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La vegetazione spontanea. Viaggio tra le erbe “selvatiche” di Giuseppe Mazzù

Ferula communis


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Un tempo i contadini trat-

tavano molte specie erboree come piante infestanti, ma le loro donne ne utilizzavano abbondantemente alcune di esse in cucina e le raccoglievano e le preparavano per ricavarne empirici rimedi farmacologici.

F

acendo di tutta l’erba… un fascio, molta gente definisce “erbacce” la variegata e lussureggiante vegetazione spontanea che da sempre cresce nei campi, lungo i sentieri e le coste, e perfino sugli scogli lambiti dalle terse acque del mare. Dalle nude rocce della Costa Viola, sbocciano ciuffi di “Garofani delle rupi” o le “Rosette seghettate” del radicchio di scogliera; i sentieri ostentano le ombrelle bianche delle carote selvatiche, i bastoni fioriti del “Tasso barbasso” e una miriade variopinta di piante spontanee che ricoprono anche estese zone di terreni incolti. Ma una notevole varietà di erbe è possibile osservare anche nei centri abitati tanto che, se uno volesse, potrebbe tracciare un vero e proprio itinerario non solo negli spazi verdi, ma anche ai piedi degli edifici, sui marciapiedi, sui muretti, sui tetti delle case abitate o abbandonate e, persino, sui monumenti. Due veri gioielli della natura che attraggono l’attenzione ammirata dei turisti sono i “Fiori di cappero” che spuntano sulla rocca del castello di Scilla e il “Garofano delle rocce” che si mostra presso la cinquecentesca torre di Tauriana di Palmi. Un tempo i contadini trattavano molte specie erboree come

piante infestanti, ma le loro donne ne utilizzavano abbondantemente alcune di esse non solo in cucina ma le raccoglievano e le preparavano per ricavarne empirici rimedi farmacologici. Così la “Minestra sarvaggia” (Sonchus oleraceus) ovvero “zuchi” nel nostro dialetto, o il “Tarassaco” detto anche “Dente di leone” (Taraxacum officinalis), la “Porcellana” (Portulaca oleracea), la Cicoria (Cichorium intybus), la “Bieta selvatica (Beta vulgaris) da noi conosciuta come “Sècara”; la “Borragine” (Borago officinalis), o vengono lasciate seccare, o vengono tagliate o, ancora peggio, trattate con diserbanti. Ho avuto modo di osservare che nelle regioni del Nord Italia, le verdure selvatiche costituiscono una fetta pregiata del mercato. A Bologna il Tarassaco è venduto a 9 euro al chilo, a Torino la Porcellana a 5 euro. Da noi si registra una ripresa, per quanto lenta, della valorizzazione delle “erbe” spontanee commestibili; a Reggio Calabria, per esempio, è possibile acquistarle, la mattina di domenica, nel mercatino di “Calabria Amica” dove le portano piccoli agricoltori dall’area grecanica (Pellaro, Bova) ma soprattutto dei centri preaspomontani della Piana, da Varapodio a Sinopoli. Confesso che, da tempo, ormai, sono incuriosito e attratto dalla bellezza e dalla varietà dei colori delle cosiddette “erbacce”. A pensarci bene forse da sempre c’è un antico rapporto d’attrazione in quanto da bambino correvo i sentieri, le strade del paese e quelle di campagna, e sapevo districarmi nel groviglio multiforme e vario delle piante; raccoglievo le drupe delle more (mura) nelle siepi di rovo o quelle di gelso, bianche o nere, a seconda dell’albero, le cui foglie, anticamente, servivano per allevare il baco da seta, ma sapevo evitare i cardi spinosi e le ortiche (Urtica dioica) di cui spesso accidentalmente sperimentavo la natura irritante. Ecco, la tanto “vituperata” ortica che abbonda dappertutto, è invece una pianta dalle numerose proprietà benefiche, nella cosmesi, in erboristeria, nella farmacologia e anche in cucina dove, attraverso la bollitura, perde il suo potere urticante e costituisce Capparis spinosa un importante ingrediente di piatti tipici.


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A Palmi, lungo il Tracciolino, il sentiero panoramico mediterranea una varietà di circa 100 specie di che corre per lungo tratto della Costa Viola, sul erbe spontanee di grande pregio naturalistico. fianco del monte Sant’Elia, fa bella mostra di sé una Da qui, a fare l’accostamento tra natura, mito pianta dalle alte e bellissime infiopaesaggio e archeologia, il passo rescenze gialle, che si stagliano, in Once the farmers treated many è stato breve. modo deciso, contro l’azzurro del trees species as a weed. On the Infatti, la presenza nel Parco contrary, many of these plants archeologico di alcune piante, mare e del cielo: è il “Tasso barwere abundantly used by the basso”. Comunemente ritenuta, women not only in cooking, but come l’“Alloro”, pianta sacra ad un’“erbaccia”, la pianta è invece also for the preparation of empi- Apollo e legata al mito di Dafne, molto usata in botanica e in fitote- rical pharmacological remedies. l’“Artemisia” sacra ad Artemide rapia e già gli antichi ne apprezza(e da cui si estrae l’assenzio di cui vano le proprietà contro le affezioni respiratorie. fecero largo uso intellettuali e artisti del primo NoveRecentemente, una sorpresa molto importancento), l’“Acanto” le cui foglie, riprodotte nel marmo, te ha riservato la raccolta delle erbe spontanee abbellivano i capitelli corinzi delle colonne degli antinell’area del Parco dei Taureani dove il taglio della chi templi greci, diventano facilmente un argomento vegetazione avveniva, di solito, in modo del tutto di studio parallelo a quello dell’archeologia. indiscriminato comprendendo anche la “CalenLa varietà di queste presenze vegetali, richiama dula”, una margheritina color mattone a cui da l’attenzione dei visitatori italiani e stranieri; alcusecoli vengono attribuite proprietà antibatteriche ni di essi hanno definito il Parco dei Taureani un e antinfiammatorie. luogo “magico ed unico”, anche per l’esistenza di La raccolta e la selezione delle erbe spontanee del quella intensa viva e variopinta vegetazione, che Parco, eseguite sotto la guida del presidente di arricchisce il paesaggio e incornicia i monumenti Italia Nostra, Angela Martino, e la classificazione presenti nella vasta area. delle stesse ad opera di Alessandro Crisafulli, doUn’attrazione particolare esercitano due piante a cente di botanica all’Università degli Studi Messirischio estinzione, individuate dal prof. Crisafulli na, consentì di individuare nella fitta vegetazione sulla facciata della torre cinquecentesca: l’Hyoseris

Dianthus rupicola


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taurina o “Radicchio di scogliera” e il Dianthus rupicola o “Garofano delle rocce”; quest’ultima pianta, oltre che in vari punti della Costa Viola, cresce anche alle isole Eolie. Un esemplare si è recentemente radicato nella cavità di un tronco di ulivo ricadente nel Parco, ma la pianta è diffusa anche sulle rocce del promontorio di località “Motta”, a Palmi, indicata sulle carte nautiche col nome di “Capo Barbi”. Notevole dunque la varietà di erbe spontaee classificate: l’Avena, l’Amaranthus, l’Ecballium elaterium volgarmente detto “Cocomero asinino”, i “Zuchi”, il “Tarassaco”, la “Cicoria”, la Brassica fruticulosa o “Cavolicello”, le “Rape selvatiche”, Cychorium inthibus, la “Malva”, la “Calendula”, il “Cardo”, l’Oleracea bituminosa con il suo singolare odore di bitume e il suo fiore bellissimo, la piantagine, l’Umbilicus Veneris, le cui coppelle richiamano la perfezione dell’ombelico della dea della bellezza, e che incuriosisce ed attrae per la sua strana infiorescenza; e ancora, piante tossiche molto diffuse: l’“Erba morella” Solanum nigrum o il “Pan delle serpi” Arum italicum. Infine, l’allium che cresce, con il suo capolino sferico svettante, nel punto più estremo del pianoro attorno all’antica Torre. In questo luogo si trovano anche piante di asparago, e sul bordo della scarpata che precipita nel mare

sottostante la cornice di piante della vegetazione mediterranea si fa più variegata e più fitta; oltre all’Artemisia, al Lentisco, all’Euforbia, alla Ferula, ci sono anche il Mirto e l’Oleastro. La Carota selvatica (Daucus carota), ha trovato invece, il suo habitat ideale lungo il tracciato delle ferrovie Calabro Lucane, da Gioia Tauro a Palmi e da qui a Sinopoli; un itinerario di grande interesse storico ambientale abbandonato e ormai preda della vegetazione spontanea che… pietosamente, lo ha preso in… custodia. Ebbene, se la gente comune definisce e classifica gran parte della vegetazione spontanea riduttivamente come “erbacce”, i poeti spesso le riscattano restituendo loro la dignità che meritano. Uno di questi è il disperato e incompreso poeta di Melicuccà, Lorenzo Calogero (1910 -1961), il cui luogo natio è un vero e proprio giardino pensile, dove erbe e piante lussureggiano nei parchi abbandonati che contornano gli antichi palazzi gentilizi. Infatti, nel fluire allucinato e fantastico dei suoi versi, non mancano talvolta i nessi con la realtà che si manifestano attraverso l’evocazione di piante spontanee della sua terra. Connotazioni che potrebbero costituire l’occasione per un originale percorso letterario-botanico: un giusto riconoscimento a una natura bistrattata ma che sa parlare anche ai poeti.

Beta maritima secari


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Un progetto per contrastare la segregazione sociale

Usa lo spreco di Fortunato Cozzupoli, Giuseppe Critelli e Giuseppe Vincenzo Mancuso

La borsa del cibo

Il progetto, nell’anno dell’Ex-

po, si basa essenzialmente sul problema dello spreco di cibo e sulla sempre più rilevante presenza di nuovi poveri, ed ha l’obiettivo di fare incontrare domanda ed offerta di cibo in un luogo virtuale, facendo dialogare chi il cibo ce l’ha in esubero e chi invece fatica a procurarselo.

L

e città sono diventate il luogo dove si concentrano sempre più i fenomeni di povertà estrema, di marginalità e, più in generale, di “segregazione sociale”, tanto che si è arrivati alla definizione di “urbanizzazione della povertà”, vera patologia sociale, con caratteristiche strutturali ben definibili. In questa prospettiva l’attenzione viene rivolta al fenomeno della segregazione, come risultato di processi di discriminazione operanti a scala più ampia e, in particolare, nel mercato del lavoro e nei diritti di cittadinanza che, di fatto, promuovono contesti urbani sempre più divisi socialmente. Uno strumento adottato dalla Regione Calabria per combattere il fenomeno è il progetto denominato “Misure di contrasto alla segregazione sociale in area urbana”1.


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Un focus approfondito è stato attivato nella città di Reggio Calabria, con l’istituzione di 13 Centri di Ascolto di quartiere. La scelta è ricaduta su Reggio Calabria per il fatto che essa è la città più popolosa della regione, l’unica città metropolitana calabrese, ma purtroppo lontana dallo sviluppo, con indicatori che la collocano a distanza dalle città meridionali più dinamiche e anche da quelle della media nazionale. La città ha caratteristiche geografiche - amministrative piuttosto complesse estendendosi su una vasta area pari a 236,0 kmq al cui interno risultano localizzati, oltre ai quartieri-frazione, anche 40 nuclei di case sparse dove, al tempo stesso, sono evidenti le carenze delle relazioni gerarchiche e funzionali e dove ancora persiste fortemente il contrasto città campagna. La lettura di alcuni indicatori economici e sociali relativi a Reggio Calabria, rivelano le difficoltà di crescita e di modernizzazione della città: risultano bassi il tasso di attività nel terziario e quello nei servizi avanzati, e da sempre negativo è l’andamento dell’export; vi è poi un quasi totale isolamento dei nuclei pedemontani sparsi nel territorio comunale, con conseguente abbandono e degrado territoriale ed ambientale. Al fine di raggiungere l’obiettivo previsto dal progetto, i Centri di Ascolto di quartiere effettuano una analisi preliminare della domanda sociale e del contesto di appartenenza dei soggetti entrati in contatto con gli operatori, attraverso la somministrazione di una “Scheda di primo contatto”, al fine di rilevare i loro principali bisogni e le necessità più immediate. Molto interessanti, al momento, sono i risultati della domanda con la quale si è inteso indagare sull’utilizzo dell’utenza dei servizi, in particolare su quello dei servizi di sostegno relativi alla difficoltà di “segregazione alimentare”; da essi si evince infatti che “un numero sempre più crescente di persone si rivolgono a strutture e mense pubbliche anche per un semplice pasto giornaliero”. Considerando il dato riferito al 12 Maggio 2015, a quasi un anno dall’inizio del progetto, sulla sola città di Reggio Calabria con un campione di 7.500 utenti, emergono indici che sono stati subito valutati in maniera molto preoccupata: sono l’11,24%

(n. 1.018 in valore assoluto) gli utenti dei centri di ascolto che dichiarano di avere usufruito di servizi di mensa o alloggio offerti dalle associazioni di volontariato e/o di voucher monetari e buoni per la spesa. Le forti difficoltà delle famiglie per quanto concerne la completa e corretta alimentazione, sono emerse in maniera decisa fin dalle prime settimane, tanto che il progetto ha delineato una operatività diretta sul problema. In questo senso, essendo il progetto concepito sotto forma di sistema di rete territoriale su tutto il territorio urbano, coerentemente con la metodologia della ricerca-azione, si è deciso di puntare su una attività contro e/o l’utilizzo dello spreco alimentare e di intessere una relazione consolidata, attraverso un protocollo di intesa, con la Qui Foundation. La Qui Foundation è una fondazione che ha come mission principale quella di creare opportunità con lo spreco alimentare, offrendo cibo a tanti bisognosi, e nello stesso tempo creare presupposti occupazionali lavorando su scala nazionale tramite l’attivazione di reti. L’evoluzione della collaborazione tra il progetto “Misure di contrasto alla segregazione sociale in area urbana” e la Qui Foundation ha permesso a queste due entità di essere parte attiva e fondativa di un progetto molto importante che è stato avviato a Napoli ed a cui ha aderito, per la città di Reggio Calabria in particolare, l’agenzia di sviluppo locale GAL BaTiR. Il progetto, nell’anno dell’Expo, si basa essenzialmente sul problema dello spreco di cibo e sulla sempre


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Lavorazione pesce azzurro

Pescato pronto per il mercato


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più rilevante presenza di nuovi poveri, ed ha l’obiettivo di fare incontrare domanda ed offerta di cibo in un luogo virtuale, facendo dialogare chi il cibo ce l’ha in esubero e chi invece fatica a procurarselo. Il titolo dato al progetto, scelto con processo democratico tra i fondatori, è “UsoLoSpreco”, e si compone di partner molto importanti, da sempre attivi nel sociale: il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università Federico II, la Fondazione di Comunità del Centro Storico di Napoli, il gruppo di imprese sociali Gesco - Farepiù, Qui Fondation, CSV Napoli, il progetto “Misure di contrasto della segregazione sociale in area urbana” della Fondazione Calabria Etica, la Fondazione Banco di Napoli, il Consorzio di Cooperative Sociali Proodos, la Comunità di S. Egidio e il Gruppo di Azione Locale Batir di Reggio Calabria. Il progetto mira ad accompagnare la famiglia indigente in un percorso di affrancamento dalla vergogna, dal senso di fallimento e inadeguatezza sociale, che spesso si respira in chi ha difficoltà, aggredendo alla fonte quel fenomeno che viene definito “barbonismo” domestico.

Pane di castagne

Successivamente invece verrà resa disponibile, per le famiglie che si è riusciti a censire precedentemente, una card, con un tetto massimo di spesa mensile, immaginato sulle esigenze domestiche reali, con la quale si potrà “virtualmente” pagare la spesa, trasformando così in risorsa, in ricchezza, qualcosa che diversamente andrebbe perduto. In particolare in Calabria si cercherà di intervenire direttamente sui produttori agricoli, sfruttando l’esperienza del GAL BaTiR, cercando di sensibilizzarli prospettando loro, oltre ai vantaggi sociali chiaramente visibili, anche vantaggi in alcune fasi della produzione con risparmi netti sui costi di produzione. L’agricoltura oggigiorno ha anche la responsabilità di far capire che il cibo è una ricchezza inestimabile: la lotta allo spreco si combatte, infatti, anche intervenendo con una più attenta gestione e distribuzione della produzione agricola e alimentare, promuovendo forme di agricoltura territoriale e identitaria, che valorizzino le risorse locali e il territorio, da sempre uno dei capisaldi dell’azione del GAL BaTiR. Note

Manifesto di lancio del progetto a Napoli

La prima fase dell’attività progettuale impegnerà tutti i soggetti (rispettivamente per il centro storico di Napoli e per un quartiere di Reggio Calabria) a verificare la disponibilità degli esercenti a rendersi disponibili per il progetto e simultaneamente a censire le famiglie che si trovano in difficoltà e che dovranno essere coinvolte.

1. Il progetto “MISURE DI CONTRASTO ALLA SEGREGAZIONE SOCIALE IN AREA URBANA” è finanziato dal Dipartimento 6 della Regione Calabria alla Fondazione Calabria Etica che è il soggetto attuatore del progetto.

The project, on the occasion of the Expo, is essentially based on the problem of food waste and on the increasingly important presence of the new poor. It aims to bring together demand and supply of food in a virtual place, making dialogue who’s got the food surplus and those who struggle to get it.


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Quando Guttuso creò la “Scuola di Scilla” di Francesco Burzomato

Giovanni Omiccioli - Cantiere di mastro Peppe

Scilla, negli anni tra il 1949

e il 1951, fu dimora di famosi artisti come Renato Guttuso, Giovanni Omiccioli, Tono Zancanaro e lo scultore Giuseppe Mazzullo, ai quali si aggregano in seguito Vincenzo Ciardo e Giuseppe Marino. Nasce così un movimento artistico alla ricerca di una corrispondenza tra il vero e il poetico,

che prese il nome di “Scuola di Scilla”.

E

ra il 1949, quando Renato Guttuso soggiornò per la prima volta a Scilla per trascorrere le vacanze, ospite di “Casa Garnier”. Da allora i suoi ritorni estivi si ripeterono andando avanti negli anni mentre la città, con la suggestione del suo mito, diventava meta per altri importanti artisti che, come per un fatto naturale, si aggregarono spontaneamente dando vita a quel sodalizio che fu definito “Scuola di Scilla”. Non era una scuola pittorica vera e propria e non c’erano maestri e scolari, l’unica maestra era la


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natura: il mare, il paesaggio, l’ambiente cittauna considerevole quantità di opere, la maggior dino, i pescatori, le donne, gli uomini di mare, parte delle quali sono state esposte all’interno le albe e i tramonti, insomma lo spettacolo che della mostra “Scilla 70”. solo la poesia dello Stretto e della Costa Viola La schiera scillese s’infoltisce anche con un sa e può offrire alla sensibilità di chi si lascia artista veneto, il padovano Tono Zancanaro, il incantare e ispirare. Renato Guttuso fu forse il “pavano mediterraneo” che alternava ai paesagcapostipite di questo sodalizio, gi d’acqua le immagini urbane. ma a Scilla era stato preceduDuring the years between 1949 Zancarano aveva appreso la to da Giuseppe Mazzullo che, and 1951, Scilla was home of lezione dell’ultimo Ottone Rosai famous artists such as Renato che, dopo l’esperienza futurista come Guttuso era siciliano, e Guttuso, Giovanni Omiccioli, che dalla sponda calabra amsi era accostato alla saldezza Tono Zancanaro and the sculpmirava incantato dall’alto della tor Giuseppe Mazzullo, to which formale di Cézanne prendendo rocca la sua Messina affacciata join Vincenzo Ciardo and Giu- a rappresentare, con un’impronsull’altra sponda. Mazzullo già seppe Marino. They gave birth ta tonale di tradizione toscana, to an artistic movement called umili e pacifici popolani colti allora godeva di grande fama “School of Scilla” that seeks the in atteggiamenti quotidiani; ed era un’autorità indiscussa nelle accademie dove insegna- correspondence between the re- con questo retroterra artistico ality and the poetry. va con eguale interesse e estro Zancarano tratta soggetti di e genialità il disegno, la scultura area meridionale come i “Carusi e la pittura. Furono queste presenze che risiciliani”, un tematica, peraltro non estranea al chiamarono a Scilla anche un romano di Roma, palermitano Renato Guttuso vicino a ZancanaGiovanni Omiccioli che, con Mario Mafai, Antoro anche per il comune impegno antifascista. nietta Raphaël, Renzo Vespignani, Toti Scialoja Identico ideale libertario e democratico nutriva e altri fece parte della romana “Scuola di Via Saro Mirabella, catanese, antinovecentista come Cavour”. Omiccioli racconta il mondo popolaMario Mafai, Corrado Cagli e come Guttuso, di re scillese, con una cifra narrativa d’impronta cui fu assistente a Roma, dove prese parte alla sociale, quella che aveva già caratterizzato la lotta di Liberazione. La sua “Mareggiata sullo sua produzione dopo la Liberazione e ora che stretto” fa oggi bella mostra di sé nel Palazzo dei rappresenta la vita semplice dei pescatori, dei Normanni di Palermo, mentre “Donna di Scilla”, contadini, dei mendicanti sfumati e collocati “Libecciata sulla scogliera” e “Pescatore” che in una atmosfera onirica non esente da romanfurono esposti a Roma alla galleria del Pincio, ticismo. Omiccioli soggiornò a lungo a Scilla, fanno parte di collezioni private. Mirabella fu anche dopo la scomparsa della Scuola. Contiassistente di Guttuso e le sue produzioni pittonuò a frequentare quei luoghi, dando vita ad riche dalla Marina Grande con barche a Marinai che si preparano per la pesca, da Chianalea ai “cufinettari”, rammagliatori di reti sulla spiagVincenzo Ciardo - Scilla e Chiesa dello Spirito Santo gia, fino agli uliveti della Melia, con le piante dai tronchi contorti come corpi umani devastati dalla fatica risentono tutte della lezione del maestro. Della partita fu anche il salentino Vincenzo Ciardo che aveva studiato ad Urbino, prima di trasferirsi a Napoli dove entrò a far parte del Gruppo Flegreo orientato verso il verismo ottocentesco ma aggiornato e rivisto alla luce dell’esperienza pittorica postimpressionista di Cézanne e poi di Pierre Bonnard. E Ciardo è autore di opere raffiguranti paesaggi e nature morte che, pur restando nell’ambito della tradizione pittorica napoletana, risentono fortemente della scuola impressionista. Durante i suoi lunghi soggiorni a Scilla, Ciardo produsse numerose opere e disegni che raffigurano il paesaggio locale umanizzato attraverso l’inse-


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Saro Mirabella - Uliveto secolare di Nasiti

Renato Guttuso, Scilla, 1949

rimento di persone al lavoro o comunque colte nei momenti della vita quotidiana. Frequentò Scilla anche il calabrese Ugo Ortona che da Borgia, dove era nato nel 1888, balzò a Roma alla scuola di Cambelletti e dove ebbe dimestichezza amicale con lo scultore Giacomo Manzù e con Felice Casorati. Dalla creatività di questi artisti, che avevano eletto a loro sede stabile il borgo della Chianalea, si diffuse una pittura per lo più ispirata al paesaggio scillese e alla gente che lo popolava. Guttuso, in particolare, con la sua pittura socialmente impegnata e politicamente ispirata, ritraeva aspetti e scorci umani. Scilla è nell’arte e nelle parole di Guttuso “…natura e umana miseria, è bellezza e secolare dolore, è un luogo dove chi voglia può essere aiutato a ritrovare la strada dell’arte” (in Antonello Trombadori- Fabio Carapezza, Guttuso, Rizzoli 1999). Il periodo scillese di Guttuso è segnato da una continua ricerca di avvicinamento al vero e al poetico testimoniata dall’opera Piccolo tuffatore del 1949; la spinta sociale di quegli anni s’invera poi nell’ispirazione scaturente dall’osservazione del


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mondo del lavoro, tra gli operai e i pescatori di Scilla, quando il suo neo cubismo si volge verso un nuovo “realismo sociale” con Portella della Ginestra (1953) ma anche con una serie di dipinti che hanno per soggetto scene marine e di caccia al pescespada. Sono da ricordare anche quelli della Chianalea incantata e Cercatori di granchi. Nello stesso periodo frequentò Scilla anche Giovanni Colacicchi che era venuto in Calabria al seguito della famiglia della moglie Amalia Zanotti. Originario di Anagni, ma fiorentino di adozione, fu uno dei protagonisti della vita culturale nella Firenze tra due guerre. Colacicchi produsse interessanti e pregevoli acquarelli riproducenti la magia di Scilla, tele che colpiscono per la delicatezza dei colori e per la finezza interpretativa che fu propria di un artista che non si allontanò mai dal figurativo e che resistette contro tutte le mode e le tentazioni dell’astrattismo e dell’informale.

Renato Guttuso, Uscita per la pesca, 1949

Infine, ma non per ultimo, va ricordato lo scillese Giuseppe Marino che stabilisce un proficuo rapporto con la “Scuola di Scilla” senza tuttavia cedere alle suggestioni che provenivano dai grandi maestri e quindi mantenendo e difendendo la propria identità artistica individuabile nella sobrietà con cui raffigura spiagge, paesaggi, mari, barche e uliveti della sua terra. Fu, insomma, quella, una stagione straordinariamente ricca e fervida dal punto di vista artistico e culturale per la città di Scilla. Una ricostruzione di quel periodo e di quel momento magico, che si prolungò negli anni a partire dal 1949 e che ebbe come elemento di punta Renato Guttuso, è stata operata da Sergio Palumbo sulla rivista Kalòs. Ma sono ancora molti a Scilla ricordare quelle presenze e ne parlano come se si trattasse di personaggi di favola e di un tempo indefinibile, incantato e indelebilmente fisso nella memoria come qualcosa di straordinario, di magico, di miracoloso.


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Saro Mirabella - Contadino scillese


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La memoria e il racconto…

Sul traghetto tra Scilla e Cariddi1 di Domenico Zappone

La nave traghetto Aspromonte in navigazione nello Stretto

N

elle giornate di sole, l’acqua del mare a Villa San Giovanni è così limpida che se ne possono contare le pietre del fondo. È un porticciolo quieto ed angusto, dove non si vedono che rare barchette bianche alla fonda. Non è segnato dalle carte geografiche. Nessun pilota ricorda di avervi doppiato il molo. Ci son vecchi e ragazzi disseminati per le banchine e i blocchi di cemento con lunghe lenze in mano, ma non si preoccupano se il pesce abbocchi o piuttosto se ne vada magari dopo essersi fregata l’esca, felici soltanto di starsene oziosi in contemplazione. S’odono nella gran calma improvvisi fischi di treni, cicalar d’altoparlanti, battere di martelli, richiami e voci. C’è dappertutto un diffuso senso di pace e di vacanza perpetua.

A una cert’ora, però, il silenzio si fa più puro e intenso, come se debba compiersi un prodigio meraviglioso. Tacciono finalmente le donne disposte per terra in circolo davanti a strane ceste piatte colme d’ogni mercanzia, o nascondono con le variopinte sottane i sacchi del contrabbando. Ed ecco: un richiamo giunge dal mare. Tutti di scatto volgono la testa verso un punto preciso oltre la lanterna, alla fine del molo. Bianca e panciuta, ondeggiando, avanza la nave traghetto coi passeggeri aggrappati alle ringhiere e i marinai pronti per le manovre di attracco. È un momento bellissimo. La gente che sta da presso allo sbarcadero o al bar nelle sale d’attesa si raccoglie in un attimo. Chi è seduto scatta in piedi. La folla comincia ad agitarsi, a smaniare, si dispone in due folte file sulle banchine di sbarco, son tutti ansiosi


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di vedere la nave, di prendervi posto, di salirci comunque, come se da un attimo all’altro, appena sbarcati passeggeri e merci, quella se ne possa andare a suo piacimento senza curarsi di chi rimane a terra, sicché i suoi prolungati richiami finiscono per creare un indicibile stato di impazienza e di orgasmo. Intanto la nave ha imboccato il porto, scivola a motori spenti sullo specchio dell’acqua verso l’invasatura, urta alfine contro le murate, sbanda un poco, raddrizza la rotta, va ancora avanti, sfregano i cintoni della nave strisciando sulle travi dell’invasatura, i passeggeri in coperta o assiepati davanti alle porte di sbarco seguono gli allegri sbandamenti, gli urti e si sorreggono l’un l’altro. E già con sveltezza portentosa, come corsari all’arrembaggio, i portabagagli in camiciotto turchino saltano a bordo, si fanno largo tra la ressa, ed i marinai tirano i chiavistelli, spalancano le porte della traghetto, traggono la passerella da terra e la fanno cadere sulla nave come un cetaceo, lasciano che la folla si pigi, si spinga, s’accavalli, smaniosa di prendere posto sui treni che attendono. L’altoparlante dà istruzioni che non ascolta nessuno, avvertimenti inutili ai

passeggeri che irrompono pei sottopassaggi a fiumana, mentre quelli che debbono traghettare fanno ala, e le guardie di finanza adocchiano i contrabbandieri di sale, li pescano senza fallo, e il comandante sul ponte, come al balcone di casa, sorride soddisfatto. Mi piacerebbe vivere a Villa San Giovanni, trascorrere i miei giorni ora fermo allo sbarcadero, ora seduto sui blocchi di cemento coi vecchi e i ragazzetti, ora buttato nelle sale di attesa come un viaggiatore stanco e seccato, e parlare con tutti, specie con la gente che scende dal nord e non ha mai attraversato lo Stretto. Ti fa mille domande, com’è fatta la nave, se è grande, quant’è grande, se è vero che ci sono i binari e vi s’imbarcano i treni, quanto tempo occorre per la traversata, se c’è pericolo, eccetera... Mi piacerebbe assistere alla manovra di attracco, stordirmi al rotolare delle catene, al cupo botto del ponte mobile che adunghia la nave alla terra; vedere i ferrovieri aggrappati al predellino con la bandiera in mano, mentre i vagoni filano via dalle rotaie brontolando; ubriacarmi a tanti odori marini e terrestri, prestare orecchio a tutti i dialetti e

Bagnarote dedite al commercio


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linguaggi senza intenderne alcuno; cullarmi all’altalena della nave scarica quando il cintone sfrega contro le travi dell’invasatura come un’anima in pena. È bello, poi, montar sulla nave confuso tra i passeggeri e immaginare di essere un clandestino diretto a un porto lontanissimo, farsi sorreggere sulla passerella insicura dai marinai che stanno di vedetta come angeli custodi, attraversare corridoi oscuri, imboccare le scalette a zig zag e irrompere sulle passeggiate, passare liberamente da quella di terza classe a quella di prima, parlare con i marinai, coi mozzi, coi passeggeri, fingere magari un po’ di sgomento, accusare un senso di vertigine per vedersi incoraggiato, sorretto, compatito dagli esperti che sorridono compiaciuti, da quei vecchi lupi di mare che credono di essere. E entrare poi nei saloni con poltrone e divani di velluto, affollatissimi di gente che se ne sta, chi sa poi perché, col mento chiuso nella mano in atteggiamento grave e pensoso, o come eterni sofferenti; avvicinarsi al bar, chiedere in francese o in inglese un liquore al cameriere grasso tutto cerimonie ed inchini, e dire oui, o yes, mentre sillabi appena e con

molti mugolii Mes-si-na, e i curiosi ti si affollano attorno, si sussurrano all’orecchio con l’aria di aver fatto una grossa scoperta: «È uno straniero...». La nave traghetto è ricca d’incognite, di angoli sconosciuti, di zone severamente vietate ai viaggiatori. È una città grandissima e misteriosa che non si finirebbe mai di scoprire. Comunque sarebbe bello scendere nei locali delle macchine che ronfano sempre come giganti raffreddati e son tutte sussulti, brontolii, ansiti, vibrano e tremano e l’aria è pesante, sa di nafta, quasi irrespirabile nonostante i ventilatori inquieti. Vorrei vedere come si accendono i motori, chiedere spiegazioni su una valvola, su una vite, di un nonnulla, perché qua non c’è niente che non abbia una ragione. E quanti tipi, quanti personaggi da studiare ci sono. Guardate il comandante. Circondato di persone fidate, vive sdegnoso e solitario. Gli si legge sul viso un’estrema assurda preoccupazione: quella di condurre in salvamento gente e merci a lui affidate, non per un breve tratto di mare com’è qua, ma per oceani e rotte infi-

Nave traghetto


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Villa S. Giovanni. Nave Aspromonte

de popolate di pirati e predoni, tra difficoltà inaudite e tempeste e procelle. Ogni tanto dà un ordine attraverso il telegrafo; dice: «Avanti tutta forza!» e gli batte il cuore. Oppure, pei dannati casi di emergenza che possono, Dio non voglia, sempre verificarsi, vuole accertarsi se funzionano gli altri mezzi di comunicazione, il telefono e l’antico tubo portavoce. Va tutto bene. Allora per consolarsi, col cannocchiale a lunga portata scruta attentamente l’orizzonte a destra e a sinistra. Pure sa che il cannocchiale è perfettamente inutile qua, perché anche a occhio nudo possono distinguersi le persone che passeggiano per il lungomare a Messina, le si potrebbero addirittura chiamare e quelle si volterebbero. Caro, caro comandante della nave traghetto, e voi timonieri, marinai, macchinisti, mozzi, che avete la fortuna di vivere sul mare, tra Scilla e

Cariddi, tra una sponda e l’altra al soffio dei venti e mi concedete di tornare ragazzo, mi permettete quest’ilare ritorno in un mondo meraviglioso e fatato! Traghettavo anch’io con mio padre. Mi diceva di essere forte, di non temere nulla, mi carezzava i capelli. A mezzo lo Stretto, tuttavia, io mi sentivo perduto. Tenevo la mia mano nella sua e al contatto avvertivo il battere del suo sangue ai polsi. Poi quel battito ingrossava, diventava enorme. Il rombo sordo dei motori era lo stesso del mio cuore. Così mi sentivo un altro, felice, smemorato. La vita allora era una libera corsa nel sole. Note 1.

[Giornale d’Italia, 5 giugno 1953].


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focus

DISTRETTO AGROALIMENTARE DI QUALITÀ DELLA PIANA DI GIOIA TAURO E DELL’AREA DELLO STRETTO di Fortunato Cozzupoli, Giuseppe Critelli e Giuseppe Vincenzo Mancuso

Veduta della Costa Viola

Il territorio del Distretto

agroalimentare di qualità della Piana di Gioia Tauro e dell’Area dello Stretto, geograficamente definito dai territori amministrativi di 43 comuni, è caratterizzato dalla presenza di attività agricole che danno luogo a produzioni riconosciute, certificate e tutelate ai sensi della vigente normativa comunitaria e nazionale.

The territory of the agroo-food quality District of the Piana di Gioia Tauro and of the Area of Strait of Messina, geographically delimited by the administrative territories of 43 municipalities, is characterized by the presence of agricultural activities that give rise to productions which are recognized, certified and safeguarded according to the European and national laws in force.

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a proposta d’istituzione del Distretto agroalimentare di qualità della Piana di Gioia Tauro e dell’Area dello Stretto (DAQ-PGAS) si pone in una logica di continuità progettuale con la pianificazione dei presupposti per una compiuta coesione territoriale integrata già in atto con la guida dell’agenzia di sviluppo locale GAL BaTiR. Così concepita, l’istituzione del DAQ-PGAS del


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Uno scorcio dell’area costiera del Distretto


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Tirreno Reggino contribuisce alla realizzazione di un disegno strategico d’area orientato verso la costruzione dello strumento operativo di governance (DAQ) all’interno del quale concentrare gli sforzi organizzativi verso il cambiamento, in termini di innovazione gestionale delle risorse disponibili, da parte dei territori e dei soggetti pubblici e privati altamente rappresentativi aderenti al partenariato locale. Il distretto agroalimentare di qualità ha sempre più, negli anni, guadagnato considerazione nel panorama nazionale e regionale anche se, dopo l’emanazione della Legge 317/1991 (poi aggiornata con la Legge 140/1999), lo strumento che introduce il distretto industriale, sono passati più di dieci anni per avere una legge che avesse il pregio di includere l’agricoltura nelle più ampie politiche distrettuali a livello nazionale. Con il D. Lgs. n. 228-20011 si individuano due tipologie distrettuali: • i distretti rurali, definiti come “aree con un’identità storica e territoriale omogenea e dalla produzione di beni e servizi di particolare specificità, coerenti con le tradizioni e le vocazioni naturali e territoriali”; • i distretti agroalimentari di qualità definiti come “aree omogenee e caratterizzate da produzioni significative, sia per la qualità alimentare offerta sia per le quantità disponibili, dando come pre-condizione acquisita la presenza di un’elevata interdipendenza produttiva e socio-economica tra le imprese agricole e quelle agro-alimentari”. La struttura gestionale dei distretti scelta dalla Regione Calabria poggia su due entità distinte che cooperano tra loro pur svolgendo compiti diversi; e sono: 1. un organo di rappresentanza e di responsabilità, normalmente denominato Comitato di distretto, nel quale sono coinvolti tutti gli enti amministrativi locali; 2. un organismo attuatore, di solito un soggetto societario a carattere privatistico (Società di Distretto) che raggruppa in maggioranza (almeno il 51%) le imprese; Da questi presupposti legislativi, a partire dall’anno 2013, sono state avviate, su iniziativa dell’agenzia di sviluppo territoriale GAL BaTiR, una serie di iniziative al fine di animare il territorio e sensibilizzare gli operatori economici. In particolare, il GAL BaTiR, ha attivato lo sportello itinerante sul territorio che ha avuto il compi-

to di assistere e coinvolgere gli enti ed i soggetti istituzionalmente interessati e di raccogliere il fabbisogno territoriale che emerge dall’operazione. Lo strumento dello sportello itinerante ha facilitato le delicate fasi di aggregazione istituzionale e di costituzione degli organi costituenti per come stabilito dalla nuova normativa in tema di distretti agroalimentari di qualità quale premessa imprescindibile la costituzione del DAQ del Tirreno Reggino. L’attività ha visto la partecipazione di rappresentanti di numerosi enti/organizzazioni2 e, per dare nuovo impulso allo sviluppo territoriale dell’area interessata, si è convenuto sulla necessità di dare vita ad un “Distretto Agro-alimentare di Qualità”, utilizzando le potenzialità della legge regionale. In particolare nei vari step dell’attività di animazione e coinvolgimento istituzionale i partecipanti, in rappresentanza dei vari enti, hanno riconosciuto nel progetto di DAQ-PGAS una reale prospettiva di sviluppo per l’intero territorio al fine di: a) valorizzare le produzioni agricole ed agro‑alimentari; b) favorire la concentrazione dell’offerta in logica di filiera e di multifiliera; c) predisporre condizioni infrastrutturali di servizio e alle esigenze delle produzioni agricole ed agro‑alimentari; d) fornire strumenti tecnici che favoriscono investimenti aventi quali precipuo obiettivo l’ispessimento delle relazioni tra imprese dell’agro‑alimentare e il sostegno sui mercati nazionali ed internazionali delle imprese. I vari incontri territoriali hanno riconosciuto ed identificato nel GAL BaTiR, per via degli ottimi risultati raggiunti, il soggetto capofila col ruolo di coordinatore del Comitato Promotore per l’individuazione del Distretto agroalimentare di qualità della Piana di Gioia Tauro e dell’Area dello Stretto oltre che l’unico rappresentante in tutte le fasi operative ai fini del raggiungimento dell’obiettivo distrettuale. In questo senso il comitato promotore ha, per meglio definire il lavoro successivo, adottato una identificazione del territorio di riferimento in un’area amministrata da 43 comuni per poi procedere, su questa base, alle adesioni formali degli enti e delle associazioni interessate al processo di identificazione. Il territorio del Distretto, geograficamente definito dai territori amministrativi di 43 comuni, è caratterizzato dalla presenza di attività agricole che danno luogo a produzioni riconosciute, certificate e tutelate ai sensi della vigente normativa comunitaria e nazionale.


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In particolare sono presenti: 1) prodotti agroalimentari definiti tradizionali dalla Regione Calabria e riconosciuti ai sensi del Decreto Ministeriale 18 Luglio 2000 e s.m.i. (PAT); 2) prodotti contraddistinti con la Denominazione di Origine Protetta e con la Indicazione Geografica Protetta (IGP)ai sensi del Regolamento CE 510/2006; Attualmente, in riferimento alla ultima redazione dell’elenco nazionale dei PAT di cui al Decreto del Ministero delle politiche agricole e forestali, nell’area considerata risultano presenti numerose tipologie di questi prodotti. Nel territorio in esame si registrano anche le produzioni di 5 prodotti a marchio DOP (4 Carni trasformate ed 1 Olio Essenziale) e di 1 prodotto a marchio IGP (ortofrutticolo e cereali). Senza dubbio l’area costituisce un significativo polo di produzione agricola ed agroalimentare, con una “dominanza” di alcune tipologie di produzioni rispetto alle altre. L’importanza delle attività agricole merita una sottolineatura particolare, in quanto trattasi di un territorio omogeneo che trova elementi unificanti proprio nelle dinamiche produttive agricole. In particolare le principali caratteristiche omogenee del comprensorio identificato possono essere così sintetizzate: • alta specializzazione produttiva della SAU a

coltivazioni legnose agrarie che si caratterizzano per una fortissima incidenza dell’olivo; • alta concentrazione nell’area di una produzione IGP apprezzata a livello nazionale e internazionale; • le Filiere agrumicola e olivicola si realizzano per la maggior parte nel territorio; • forte legame tra produzione agrumicola, olivicola, prodotti tipici e gastronomia con le tradizioni, l’arte, la storia nel territorio; • qualità delle numerose produzioni agroalimentari tradizionali tipiche di questo territorio. Il distretto dovrà svolgere una elevata funzione di governance dello sviluppo locale attraverso un programma fondato su azioni fondamentali ai fini dello sviluppo economico del settore e del territorio del Tirreno Reggino, in primis in tema di Logistica, Formazione, Ricerca, Trasferimento delle Innovazioni di Prodotto e di Processo, Internazionalizzazione. Note 1. 18 maggio 2001, n. 228, “Orientamento e modernizzazione del settore agricolo” in G.U. n. 137 del 15 giugno 2001, 2. Per brevità dell’articolo si omette l’elenco completo dei partecipanti.

Uliveto nell’area del Distretto




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Rivista trimestrale su cultura, storia, tradizioni, arte, paesaggio e ambiente a cura del Gruppo di Azione Locale del Basso Tirreno Reggino

N 3/2015


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