I MULINI AD ACQUA DELL’ALTO OFANTO
Le rive del fiume Ofanto e dei suoi affluenti sono state abitate, da tempi antichissimi, dai mulini ad acqua; uno studio coordinato dal CRESM Campania e pubblicato nei primi anni ’90 ne aveva rilevati numerosi, per lo più del tipo a ruota orizzontale, alcuni dei quali in uno stato di conservazione discreto che ne faceva ben individuare la distribuzione delle funzioni.1 Uno dei manufatti rilevati, il mulino Donatelli, localizzato nel comune di Morra De Sanctis, è stato ristrutturato nel 2001 con un progetto finanziato dal Piano di Azione Locale “Terre d’Irpinia”: tra le azioni materiali previste dal Piano era stato infatti previsto esplicitamente un intervento di restauro e ripristino funzionale di uno dei mulini ad acqua dell’Alto Ofanto, da rendere fruibile e da destinare a nodo della rete turistica e a sede di manifestazioni culturali legate ai temi della civiltà contadina e della difesa ambientale. Si era scelto dunque di destinare un bene architettonico simbolo della civiltà contadina e con caratteristiche di archeologia industriale, ad una funzione precisa, compatibile, e che ne valorizzasse i caratteri storici e culturali scongiurandone, nel contempo, il processo di degrado. Quella che segue è una sintesi dello studio condotto dal CRESM e riguarda i mulini ad acqua di Sant’Andrea di Conza, Teora, Guardia Lombardi, Morra De Sanctis, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella dei Lombardi, Villamaina.2 Il meccanismo di funzionamento del mulino a ruota orizzontale, descritto diffusamente per Il caso di Sant’Andrea di Conza3, è sostanzialmente lo stesso per tutti gli altri mulini. Quasi tutti i mulini dell’Alta Irpinia erano a ruota orizzontale; soltanto quelli di Caposele utilizzavano il principio della ruota verticale. Particolarmente diffuso nelle zone collinari e montane, il mulino a ruota orizzontale sfruttava soprattutto la velocità e la pressione dell’acqua del fiume, che era attinta indirettamente, attraverso un canale di derivazione. S. Andrea di Conza è un paese molto ricco di corsi d’acqua a carattere torrentizio, tra cui il Sambuco, l’Arso, l’Arca, che versano le loro acque nel fiume Ofanto e nel Vallone delle Pietre. La sorgente più importante è denominata La Fonte e situata in un bosco chiamato La Selva. Con la costruzione delle rete idrica, avvenuta nel 1957, l’acqua della Fonte è stata deviata ed ha perduto l’importante ruolo di un tempo, quando dava vita alle “canale”. Queste avevano il compito di far funzionare i mulini ad acqua4; in tutto le canale erano sei, una per ogni mulino. L’acqua di rifiuto delle fonti, convogliata a valle del paese, dopo aver fatto girare le grosse maci-
ne dei mulini, serviva per irrigare i campi della fertilissima contrada La Forma. La prima canala risale agli inizi del 1700 e probabilmente è quella ancora esistente vicino alla Fonte, che dava acqua al mulino sottostante. L’ultimo dei sei mulini, situato in contrada La Forma, a valle del paese, è quello meglio conservato anche se versa in uno stato di completo abbandono. La sua costruzione risale ad un periodo compreso tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 ed è stato realizzato completamente in pietra locale. Le due vecchie fabbriche sono state vincolate dalla Soprintendenza ai BB.AA.AA.AA.SS. di Salerno e Avellino ai sensi della Legge 1089/39. Per mezzo delle “canale” l’acqua della sorgente La Fonte, attraversando fondi privati e superando scoscendimenti del terreno, arrivava ai mulini, detti anche “molazze” o “mulini a palmenti”. Per l’attraversamento dei fondi altrui i proprietari dei mulini erano forniti di concessioni di servitù onde poter accedere alle canale per la loro manutenzione e per poter aprire e chiudere, ogni volta che si doveva utilizzare il mulino, le “paratoie”. Dopo aver viaggiato a pelo libero, l’acqua cadeva nella cosiddetta torre (il pozzo di caduta) e una graticola di ferro serviva da filtro per eliminare dall’acqua il materiale solido grossolano. Togliendo la piastra di ferro alla base della “torre” con un paletto di legno, l’acqua veniva fuori a grande velocità e andava a sbattere contro le ruote a palmenti, situate nella parte più bassa del mulino: “lu ‘nfiern”. Ricevuto l’abbrivio la ruota del mulino si metteva in moto e bastava una più piccola quantità d’acqua per mantenere il suo funzionamento. Le ruote a palmenti azionavano le mole della macina del mulino tramite un palo di legno verticale: l’albero di trasmissione. Quest’ultimo era collegato alle molazze, ruote di pietra dura a forma circolare e disposte orizzontalmente in modo che fra di esse avvenisse un’azione di sfregamento per frantumare il cereale e per ridurlo in farina. Delle due mole sovrapposte quella inferiore era liscia e monolitica mentre l’altra era costituita da varie pietre squadrate. Le pietre che componevano questa molazza erano affasciate esternamente da due cerchioni di ferro battuto saldati e poi inchiodati e tenute fisse per mezzo di cunei di legno incastrati negli interstizi delle pietre stesse. La mola superiore era più spessa al centro e rastremata verso l’estremità. Al centro vi era un pezzo monolitico forato che serviva per innestare l’asse di trasmissione perpendicolare alla
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mola. Il foro centrale non è completamente circolare, in modo da poter meglio incuneare l’asse mediante pezzi di legno. Inoltre possedeva delle scanalature a spigoli taglienti, per cui le mole necessitavano periodicamente di scalpellature. Le scanalature servivano per l’ingresso del cereale e la fuoriuscita della farina, esse erano oblique per fissare l’asse di legno verticale che le faceva ruotare. Un cassone di legno, chiamato “tina”, di diametro maggiore delle mole serviva a sostenere la “tramoggia” in modo che il foro di quest’ultima fosse sulla stessa direzione di quello della mola. La “tramoggia” (dal latino “trimodia”, cioè misura di tre moggi) era una cassetta di legno a forma di tronco di piramide rovesciata, in cui si versava il cereale che, attraverso un foro, andava alla macina. Questa forma permetteva con l’ampia apertura superiore un facile carico e con la lieve inclinazione delle pareti una lenta discesa dei semi verso la bocca inferiore di scarico. La fuoriuscita del cereale veniva regolata dall’oscillazione di un distributore, “la taccaredda”, posto in corrispondenza del foro. La grana del macinato era regolata da una leva di ferro, “lu ped” e un tubo di ferro facilitava il riempimento dei sacchi di farina. In un giorno si riusciva a macinare circa tre quintali di granella. Il deflusso dell’acqua utilizzata avveniva attraverso il canale di smaltimento situato alla base del mulino. Secondo alcune testimonianze orali, risulta che i mulini ad acqua attivi a Teora fino al 1950 dovevano essere almeno nove e quasi tutti risalenti agli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. A favorire lo sviluppo di questa particolare attività era la presenza di numerosi corsi d’acqua all’interno del territorio di Teora, sulla riva destra del fiume Ofanto. Il mulino Stefanelli, alimentato dal vallone dell’Arso e dalla sorgente Castelluzzo, fu costruito alla fine del ‘700 in località Fiumicello, ed è rimasto attivo fino agli anni ‘50. Del fabbricato sono ancora visibili due corpi di fabbrica in pietra, il canale di alimentazione e le macine. Gli eredi Stefanelli conservano inoltre la “tramoggia”. Del mulino Corona, edificato in località Airola e alimentato dal vallone Tarantino, rimangono visibili il canale di alimentazione, la torre con la canna (alla cui imboccatura è fissata una grata di ferro) e alcune tracce del muro perimetrale del bacino di raccolta dell’acqua. Nel comune di Guardia Lombardi rimangono i
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ruderi del mulino detto Burgentatico, situato ai confini tra Guardia e S. Angelo dei Lombardi. Il mulino, alimentato dalle acque provenienti dal torrente Beni e dalle sorgenti Canale e Tolle, è stato funzionante fino al 1942. Dell’antico fabbricato rimane il locale seminterrato dove erano sistemate le pale che, alimentate dall’acqua, facevano girare la macina situata a livello superiore. Il secondo livello dell’edificio è andato quasi completamente distrutto. A Morra De Sanctis, il mulino Donatelli, situato in località Scannacapri, ricostruito nella prima metà del XIX secolo, era costituito da quattro locali: abitazione del mugnaio, deposito, sala macina e torre per la raccolta dell’acqua. A monte del mulino, una canalizzazione portava l’acqua dal torrente Isca alla torre col pozzo di caduta, alla cui base era situata la ruota orizzontale. Il canale di alimentazione era dotato di paratoie che regolavano l’afflusso dell’acqua e permettevano di deviarne le eventuali eccedenze. A Sant’Angelo dei Lombardi, il mulino Pennella è sorto nel 1600 circa in località Pozzo di Tratto, rimanendo attivo fino al 1917. Di questo fabbri-
cato sono ancora visibili la torre del pozzo di caduta, in parte crollata, e il canale di alimentazione realizzato in pietra. Il mulino Di Stasio, in località “li Cavadduni”, era alimentato dal fiume Fredane e fu costruito presumibilmente verso la fine del ’700 dal principe di Guardia Lombardi, cambiando gestione e proprietà nel corso degli anni. Il fabbricato comprende due vani inferiori e la torre del pozzo collegata con il canale di alimentazione poggiante su una struttura ad archi. La struttura muraria è a blocchi irregolari di pietra; si è rilevata inoltre la presenza, nella parte alta della torre del pozzo di caduta, di blocchi di cemento utilizzati probabilmente in un intervento di ristrutturazione. Lungo il corso del fiume Fredane dovevano esistere almeno altri quattro mulini dei quali però non rimane traccia. I blocchi di pietra che ne costituivano i corpi di fabbrica, infatti, furono utilizzati negli anni ’50 per realizzare briglie e sbarramenti lungo il corso del fiume. Il salto d’acqua che a Lioni chiamano “la cascata”, era probabilmente usato per alimentare mulini già in epoca medioevale. La presenza dei
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resti di un antico fortino sull’altura che domina la cascata sembra infatti configurare una situazione tipica del Medioevo feudale, quando il signore del posto imponeva l’esercizio di attività agricole o “industriali” in luoghi di sua proprietà, dietro il pagamento di una tassa. La cascata è stata innalzata artificialmente per creare un bacino da cui derivare l’acqua per i mulini Il mulino “Alifano” è stato costruito nell’800 ed è rimasto in esercizio fino agli ultimi anni venti del ’900. La struttura comprende un doppio impianto di molitura a ruote orizzontali, quindi doppio canale di alimentazione, doppia torre di caduta e doppia coppia di macine (lo stesso schema si ritrova nel mulino rilevato a Villamaina). Accanto al mulino Alifano, ad una quota leggermente più elevata, è visibile il rudere di un altro mulino, più antico, che funzionava probabilmente con ruote verticali. Tra i vari mulini di Torella dei Lombardi quello meglio conservato e che ha resistito ai vari eventi sismici e agli agenti atmosferici è quello denominate “re li Salierno”, ubicato in contrada S. Antuono. L’acqua sfruttata dal mulino è la stes-
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sa che alimenta la fontana pubblica e che arriva al mulino tramite un canale, attualmente in uno stato di conservazione precario. L’edificio risale ai primi anni dell’800 e si sviluppa su due livelli, uno costituito dal mulino propriamente detto e l’altro utilizzato come abitazione del mugnaio. Di questo edificio sono ancora visibili la struttura muraria, la vasca e la piccionaia; la copertura è andata distrutta. Nel territorio di Villamaina dovevano esserci quattro mulini, dei quali quello meglio conservato è il mulino Isca. Non è accertabile l’anno di costruzione, ma si sa che ha funzionato fino agli anni ‘50. Inizialmente era costituito da un solo pozzo, al quale ne è stato poi aggiunto un altro, in modo da permettere la molitura in due locali indipendenti, uno per il grano e l’altro per il granone. L’acqua proveniva dal fiume Fredane tramite un sistema di derivazione costituito da un canale
lungo alcuni chilometri, del quale vi sono ancora tracce. Un ponte di pietra permetteva al canale di oltrepassare un torrente. L’acqua veniva raccolta in un bacino per poi defluire in due canali paralleli, dai quali si riversava nei pozzi alti circa 6,5 metri. Lo stato di conservazione del mulino Isca è discreto, essendo ancora ben visibili la struttura muraria, il serbatoio, il sistema di canalizzazione e i pozzi. Sono andati distrutti i locali adibiti ad abitazione del mugnaio e la copertura.
NOTE 1 Cfr. I mulini ad acqua dell’Alto Ofanto in Itinerario nella storia nella memoria, Lioni 1993. Il volume, pubblicato a cura del CRESM Campania con il sostegno della Comunità Montana Alta Irpinia, rielaborava e divulgava, principalmente, i materiali di ricer-
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ca prodotti dai giovani impegnati in due progetti di utilità collettiva (art. 23 Legge 67/88): Il catalogo attivo dei Beni Ambientali e Museo vivo dell’Alto Ofanto. La pubblicazione era stata curata da Alessandra C. Celano e Donatina Russoniello, con la collaborazione di Donato Merola e Pasquale Ferrara e il coordinamento di Mario Salzarulo. 2 Alcuni dati relativi allo stato di conservazione dei mulini elencati potrebbero non corrispondere allo stato attuale. 3 Per il testo sul mulino di Sant’Andrea di Conza, cfr. Rosa Cerreta, Donatina Russoniello, I mulini ad acqua dell’Alto Ofanto, S. Andrea di Conza e Idee - progetto in Itinerario nella storia nella memoria, cit., p. 289 e pp. 301-302. 4 Si tratta dei canali di derivazione attraverso i quali si attingeva l’acqua che veniva convogliata nel pozzo di caduta, alla base del quale era posizionata la ruota orizzontale.
SOTTO I MONTI AL CENTRO DELL’ITALIA… Viaggio letterario nella Terra di mezzo Paolo Saggese
L’Irpinia è terra di passaggio, perché è terra che sta al centro, al centro dei monti d’Italia, come ebbe a cantare duemila anni fa Virgilio. È terra collocata tra altre terre, tra la Campania felix e il Tavoliere delle Puglie, tra le montagne dei Lucani e quelle dei Sanniti. È dunque “Terra di mezzo”, come l’ha definita efficacemente Giuliano Minichiello1. È una terra che è stata mater e matrigna, che ha suscitato amori e odi profondi, è una terra della miseria o dell’osso - come la definì Manlio RossiDoria -, ma è anche terra d’acque rigogliose e ristoratrici, terra del verde intenso e accecante, terra della natura incontaminata, della pace, del benessere, dei silenzi, del vento, della neve, degli orizzonti sconfinati … È terra di fascino, perché è terra di passione e di fatica, di vita vera. Queste non sono semplicemente nostre “sensazioni”, ma sono le “sensazioni” presenti nei “diari”, nelle cronache, nelle poesie dei tanti uomini, che hanno percorso questi luoghi per un giorno soltanto o per una vita, e che hanno dato quadri indimenticabili di un mondo incantato e seducente. PASSAGGIO
DA
percorre la strada interna che da Lacedonia porta a Bisaccia oppure se si arriva a Monteverde o ad Aquilonia. La vista è più agevole se si procede da Bisaccia a Lacedonia, ma la vetta è comunque visibile, da Guardia Lombardi in poi. E con essa ci accompagnano il vento, il silenzio, i falchi e le poiane, che volteggiano insieme alle pale eoliche: le stesse macchine sembrano volteggiare tra le tante curve, che si devono superare. Ma ad ogni curva il lettore/viaggiatore potrebbe fermarsi, per assistere ad un panorama nuovo, come quello descritto ancora da De Sanctis, dal castello ducale di Bisaccia: “… Poi mi condussero al castello, e mi mostrarono la stanza del Tasso. Chi diceva: è questa, e chi diceva: no, è quella. Mi fermai in una che aveva una vista infinita di selve e di monti e di neve sotto un cielo grigio. Povero Tasso! Pensai; anche nella tua anima il cielo era fatto grigio. Che vale bella vista, quando entro è scuro? Stetti un po’ affascinato. Vedevo certi ultimi monti così sfumati, così fluttuanti, che parevano nuvole, e mi davano l’impressione di quell’interminabile, di quel lontano che spaventa, e rimasi un pezzo balordo, e non indovinavo l’uscita”4.
ORIENTE:
LA TERRA DELL’INFINITO
L’Irpinia si può conoscere arrivando da Oriente, ovvero dalla Puglia, percorrendo la A 16 Canosa - Napoli, superando in autostrada il casello del Calaggio ed inerpicandosi per le ripide e tortuose salite che portano a Lacedonia o Bisaccia. Il nostro viaggiatore/lettore potrebbe varcare l’ingresso d’Irpinia con le parole dell’illustre latinista Antonio La Penna, che, immaginando di rivolgersi al suo componimento (“messaggio”) personificato, gli indica la strada per Bisaccia, “fino ai monti cretosi che declinano / verso il Tavoliere assetato …”2. Prendiamo la strada per Lacedonia, e appena si arriva ad un’altura degna, nei pressi del paese, si può comprendere come l’Irpinia sia terra di vasti orizzonti e di silenzio, come l’immaginò e la descrisse Francesco De Sanctis, e gli apparve in quel principio del 1875, quando intraprese il suo Viaggio elettorale: “… Rimasi solo. E mi affacciai subito. Era dinanzi a me una larga distesa di cielo. Mi parea vedere lontano il Vulture, con la sua cima nevosa, fiammeggiante un giorno, e con le spalle selvose, onde si stende quel bosco infinito e quasi ancora intatto, che si chiama Monticchio. Qui è tanta poesia …”3. Il Vulture domina l’orizzonte, ancor di più se si
Al di là del prezioso riferimento al Tasso, che pare abbia soggiornato nel castello nel 1588, qui colpisce la rappresentazione dell’orizzonte, che l’Irpinia d’Oriente - come l’ha definita Franco Arminio - offre al visitatore: l’Irpinia è un balcone naturale, che regala un’idea d’infinito, che De Sanctis paragona a quello leopardiano, dal momento che il “lontano che spaventa” richiama “ove per poco / il cor non si spaura …”. Stessa idea si trae da una descrizione di Bisaccia di Franco Arminio, che nel suo Viaggio nel cratere (non elettorale) scrive: “A volte su quest’ultima loggia l’aria è così chiara che si può immaginare di vedere l’orario dei treni alla stazione di Foggia. Guardandosi intorno, invece, compaiono portali splendidamente intagliati, i palazzi dei nobili e le piccole case dei braccianti, i vicoli che finiscono a strapiombo su una campagna fatta di fazzoletti di terra lavorati con puntiglio e cura”5. E la bellezza di questi luoghi ha incantato tanti, tra cui Vittorio Sermonti. Lasciata Bisaccia, il percorso può seguire direzioni differenti. Avendo tra le mani il Viaggio elettorale, come un breviario, si può scegliere l’itinerario di De Sanctis, che dopo “Bisaccia la gentile”, descrive “Calitri la nebbiosa”, quindi “Andretta la cavillosa”, “Morra Irpino” - oggi De Sanctis -, e Sant’Angelo dei Lombardi, “La mia
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città”, oppure seguire il percorso dell’Irpinia d’Oriente proposto da Franco Arminio nel suo Viaggio. Libertà al lettore/viaggiatore. Molto suggestivo è anche un diario di viaggio per l’Irpinia d’Oriente di Marco Ciriello6 che tra le altre cose così descrive la strada tra Calitri e Bisaccia: “Desolante bellezza. Un serpente nero che si muove fra terre incolte, mute, sciolte. Nessuna costruzione. Qualche sporadico albero. Solo terra, pettinata dalla neve. Il bianco segna i solchi dei tratturi. Un laccio di sedici chilometri che sono una stagione immobile. Potrebbe essere qualunque luogo. I pali della luce contano la distanza. Lontano lontano, emergono, deposte sui picchi dell’altipiano, le pale enormi dell’energia eolica, spilli giganti, incessanti girano, lancette, sembra, a misura del tempo. Eppure alle spalle si lascia Calitri che appena spunta alta sulla strada mette allegria. Una parete di case, una sull’altra, sembra in posa, colori sgargianti spalla a spalla con lo scuro delle pietre fradice d’acqua, memoria grezza e sfavillante presente”. Noi proseguiamo ancora sulle orme di De Sanctis verso l’interno, verso Occidente, e giungiamo a Morra, che rappresenta il momento centrale del racconto (è il paese di nascita del grande critico), dove ancora domina l’idea di un’Irpinia terra dell’Infinito: “Dunque una costa in pendìo avvallata è Morra. Ed è tutto un bel vedere, posto tra due valloni. A dritta è il vallone stretto e profondo di Sant’Angiolo, sul quale premono le spalle selvose di alte vette, e colassù vedi Sant’Angiolo, e Nusco, e qualche punta di Montella, e in qua folti boschi che ti rubano la vista di Lioni. A sinistra è la valle dell’Isca, impetuoso torrente che va a congiungersi coll’Ofanto, e sopravi ignudi e ripidi monti, quasi un anfiteatro, che dalla vicina Guardia si stende sino a Teora, e ti mostra nel mezzo il Formicoso, quel prato boscoso dietro di cui indovini Bisaccia, e ti mostra Andretta, e il castello di Cairano, avanguardia di Conza, e Sant’Andrea. L’occhio non appagato, navigando per quell’infinito, si stende là dove i contorni appena sfumati cadono in balìa dell’immaginazione, e a dritta indovina Salerno e Napoli e vede il Vesuvio quando fiammeggia, e a mancina corre là dov’è Campagna. Non ci è quasi casa, che non abbia il suo bello sguardo, e non c’è alcun morrese, che non possa dire: io posseggo con l’occhio vasti spazii di terra”7. E già! Abbiamo superato l’altipiano del Formicoso, con il suo vento, con il suo verde, con il suo
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sole, con la solitudine minacciata dalle pale eoliche inverosimilmente alte, e non abbiamo detto quasi nulla! Del resto, il Formicoso è luogo che bisogna visitare, non può essere raccontato se non da un grande poeta. Proseguendo verso l’interno, costeggiata Guardia Lombardi, giungiamo a Sant’Angelo, la città di De Sanctis, ma anche la città dell’italianista di Harvard Dante Della Terza, che ci conduce, attraverso alcuni suoi racconti intensi ed eleganti, nel vivo della quotidianità di questi paesi, negli anni Cinquanta e Sessanta, ma descrive anche il tormento di un “Ulisse”, che abbandona la sua terra e ne sente, sempre, il richiamo doloroso: “… Quando io decisi di concorrere per una borsa di studio presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, mi sottrassi quasi del tutto al commercio quotidiano con gli amici del paese per prepararmi ad un salto di qualità nei miei rapporti col mondo della mia infanzia che doveva rivelarsi con gli anni decisivo. Mi recavo con un libro per le strade di campagna e riflettevo e meditavo sulle molte mie lacune e sulla mia ignoranza e sulle cose che avrei dovuto leggere ed apprendere per superare la prova che prevedevo assai ardua e competitiva. Il paesaggio nel quale mi muovevo o entro il quale gestivo il mio addio imminente alle cose più care e memorabili mi apparteneva ed io stesso mi apparivo come una transitoria espressione di una sua costante operativa, un suo prodotto; e tuttavia sentivo che per potere veramente possederlo o revocarlo con pietà filiale dovevo drasticamente staccarmene …”8.
PASSAGGIO
DA
NORD-EST:
DORÉ Non siamo ancora arrivati nel centro dell’Irpinia. Prima di arrivarci, consiglio dei percorsi alternativi. Il lettore/viaggiatore che arriva da Nord, da Roma o da Napoli, percorrendo l’autostrada A 16 Napoli - Canosa, può decidere di superare Avellino, ed uscire al casello di Grottaminarda o proseguire sino a Vallata e Lacedonia, ma in tal modo allungherà eccessivamente il tragitto. Se esce a Grottaminarda, il paesaggio è in parte diverso rispetto a quello dell’Irpinia ad Oriente, che è già sotto l’influsso del clima pugliese (soprattutto Bisaccia, Lacedonia, Monteverde, Calitri, Cairano): è meno brullo, anzi è ricco di verde, di alberi d’alto fusto, di boschi e di vigne: siamo nella terra del fiume Calore, siamo nell’Irpinia del Calore e dell’Ufita. Per descrivere questo itinerario, non v’è niente di meglio di una celebre pagina di Mario Soldati, scritta in occasione della sua fuga, insieme a Dino de Laurentiis, il futuro produttore cinematografico di fama mondiale, da Roma verso Torella dei Lombardi - dove erano i parenti di de LauLA TERRA DELLA NATURA ALLA
LETTERARIO NELLA
rentiis -, fuga dai tedeschi e verso i liberatori angloamericani. In questa fuga con mezzi di fortuna, prima in treno, poi in bicicletta per le strade polverose e piene di buche dell’Irpinia del settembre 1943, provenendo da una Benevento distrutta dai bombardamenti verso l’Alta Irpinia, ecco lo spettacolo che appare alla vista della valle del Calore:
TERRA
DI MEZZO
fa sino a Brindisi, lungo la via Appia, ad un incontro che propiziasse la riconciliazione tra Ottaviano e Marco Antonio, nella primavera del 37 a. C. Orazio riconobbe allora da Trevico le sue montagne, quella della sua infanzia, il Vulture, e pensò alla sua Venosa, lambendo la verde Irpinia: APULIA NOTOS … “… l’Apulia comincia a mostrarmi le montagne a me note, che lo scirocco brucia: mai ne saremmo venuti a capo, se non ci avesse dato ricovero una taverna vicina a Trevico, piena di fumo da farci lacrimare, giacché ardevano nel camino rami verdi con tutte le foglie. Qui io me ne sto ad aspettare come uno sciocco, fino a notte fonda, una ragazza bugiarda; il sonno, alla fine, mi prende, tutto teso al richiamo di Venere …” (Satire, I 5, vv. 77 ss., nella versione di Mario Labate).
… INCIPIT “Attraversiamo in velocità il ponte sul Calore, lasciamo la strada asfaltata, e ci ingaggiamo per la polverosa via di Taurasi. Siamo ancora incerti se dobbiamo, o no, passare da Paternòpoli. Que-
EX ILLO MONTIS
OSTENTARE MIHI
A proposito di Trevico, il grande Ettore Scola ha descritto, nel bel libro Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini (Officina Edizioni, Cinecittà International, Roma, 1996), questo borgo, un luogo della sua infanzia, e il suo “incontro” miracoloso con il cinema:
ste strade secondarie sono segnate molto sommariamente sulla nostra carta; e Paternòpoli, il nome di questo paese, il suono del nome di questo paese, Paternòpoli, ci affascina. ‘Fuga da Paternòpoli’ ci ripetiamo continuamente: sarebbe un bellissimo titolo per un libro. Ma tutti i nomi di questi paesi hanno uno strano incanto: Paternòpoli, Taurasi, Gesualdo, Fontanarosa, Villa Maina (sic), Frigento, Taverne di Frigento, Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi, Guardia Lombarda (sic), Nusco. Lo stesso paesaggio si trasforma rapidamente sotto i nostri occhi; e man mano che ci allontaniamo dal ponte sul Calore e dalla strada asfaltata, abbiamo l’impressione di avanzare in una natura favolosa ed antica, la stessa dei quadri di Salvator Rosa e Massimo d’Azeglio, o dell’Ariosto illustrato dal Doré. Grandi alberi, boschi disordinati, foltissime forre, campi gremiti di messi che non paion neppur coltivate, piccole valli e lunghi dorsi di colline che si seguono e frastagliano in mille direzioni, e improvvise radure dove scorre tra i ciottoli il filo d’acqua di un torrentello. Irpinia, si chiama questa regione, e non la conoscevo. Com’è varia e bella l’Italia!”9 Sensazioni in parte simili a quelle provate da Orazio, quando, insieme a Mecenate, Virgilio e altri amici, da Roma si recò più di duemila anni
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“Trevico, a 1100 metri sul livello del mare, è sempre squassato dal vento, anche d’estate: il telone ondeggiava, si gonfiava, tirava le corde. La piazza era come una nave, una grande nave in tempesta. Finalmente, quando si fece buio, accadde il grande evento e io vidi il primo film della mia vita: Fra’ diavolo. […] l’emozione della cerimonia, alla quale assistevamo come in una chiesa, era superiore al divertimento. Ricordo dove ero seduto, i bambini che erano vicino a me, i genitori dietro, e … ricordo quel film, che in seguito ho rivisto più volte, ma è l’unico di Stanlio e Ollio che non mi fa ridere”. Arrivati a Grottaminarda, il lettore/viaggiatore potrebbe scegliere la strada della Valle dell’Ufita, spingersi magari sino alla vetta d’Irpinia, Trevico, oppure raggiungere la nobile e alta Ariano, la patria del poeta romantico e libertario Pietro Paolo Parzanese. Questi percorsi potrebbero essere accompagnati dalla lettura del paesologo Arminio oppure di un bel libro-guida storico-letteraria del poeta e scrittore Ugo Piscopo10, che racconta con brio e profondità le valli d’Irpinia, o ancora di un libro affascinante di Emilia Bersabea Cirillo - Il pane e l’argilla - di cui parleremo in seguito. In particolare, per Piscopo, gli uomini della Baronia sono Centauri, che dichiarano la loro diversità dagli altri esseri, persino dagli altri Irpini. E così lo scrittore e poeta rappresenta, pensando a Carife, la sua storia di tremila anni, e gli altri paesi vicini, la loro disposizione geografica:
SOTTO I MONTI AL CENTRO DELL’ITALIA… VIAGGIO
“Le genti della valle dell’Ufita avevano abbandonato le zone pedemontane, scegliendo definitivamente le alture, da sempre. Perché avevano subito capito che c’era poco da fidarsi del fiume. Tu credi che quello sia un fiume e d’improvviso ti si abbatte addosso come un mare, che si trascina appresso pezzi di montagna. Tu confidi nel suo corso per la buona stagione, e quello già in primavera mette a nudo una spiaggia immensa di limo e di sassi bianchi come la calce. Qua e là, sotto le rive ombreggiate da salici, si coagulano e resistono pozzanghere filamentose, viscide, su cui insistono nugoli di moscerini e di zanzare”11. Attraverso i racconti di questi autori, si potrà visitare a caso Flumeri, Castel Baronia, San Nicola, San Sossio, Vallesaccarda, Vallata, Villanova del Battista, Zungoli, con il suo castello, Greci, Scampitella, Savignano Irpino, Montaguto. Dunque, il lettore/viaggiatore potrà seguire il percorso di Piscopo o di Arminio o della Cirillo, oppure quello di Soldati, in questo caso volgendosi verso il centro dell’Irpinia, non in bici, a meno che non si tratti di un appassionato più che dilettante, ma in una comoda auto, lasciandosi alle spalle Mirabella e la sua Aeclanum, e continuando per Fontanarosa, per il valico di Gesualdo, costeggiando Frigento e raggiungendo Gesualdo, ammirando il suo castello, e rievocando le storie di amore e morte con protagonista il principe dei madrigali Carlo Gesualdo, sino a giungere al castello di Torella - terra di Sergio e Vincenzo Leone e dei de Laurentiis -, splendida-
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mente ricostruito, e che appare nella sua imponenza, a dominare la Valle d’Ansanto, insieme alle rovine della torre di Rocca San Felice e del castello di Sant’Angelo. Queste stesse strade percorsero tre viaggiatori inglesi: il vescovo-filosofo Berkeley, in un viaggio del giugno 171612, Henry Swinburne (17431803), nei suoi viaggi effettuati tra il 1777 e il 1780 e descritti in Travels in the Two Sicilies, ed Eduard Lear, scrittore e pittore, famoso soprattutto come autore di “limericks”, non sensi ricchi di umorismo, a metà Ottocento. Del resto, l’Irpinia, come tutto il Sud d’Italia, a partire dalla fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento, diviene una delle mète del “Grand Tour” europeo, uno dei luoghi privilegiati dove artisti e scrittori (si pensi ad esempio a Goethe) potevano scoprire un mondo più “naturale” e incontaminato, in una parola “pittoresco”, ovvero selvaggio, ricco di miti, di resti del passato, di una natura affascinante, esotica, bellissima e al contempo disordinata, imprevedibile, magica e minacciosa. In particolare, l’Irpinia spesso assurge a simbolo, come il Vesuvio e l’Etna, di luogo non semplicemente selvaggio e incontaminato, ma persino lugubre e pauroso, quando, sulla scia di Virgilio, i viaggiatori si volgevano sino alla Mefite. Ma l’arrivo alla Mefite, per il momento, lo rinviamo: rappresenterà una delle mète del nostro viaggio. Swinburne, ad esempio, nel percorrere la strada da Avellino a Montefuscolo, sino a Mirabella, così descrive le “rovine” dell’antica Aeclanum e poi di Frigento:
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“Non si sa da chi ed in quale periodo la città [Aeclanum] fosse stata distrutta; attualmente le uniche rovine presenti sono alcuni terrapieni, muri di pietra, frammenti di colonne di marmo e basamenti di statue di ordine dorico e corinzio. […] Nel pomeriggio ci spostammo sei miglia a sud, verso Frigento, attraverso una vallata estesa, dove i nostri cavalli furono immersi nell’argilla quasi fino alle selle, sebbene non avesse piovuto per lungo tempo. La campagna era in gran parte arabile, ma scarsamente coltivata. Frigento è un luogo in rovina su di una collina, per lo più costruito miseramente, e poveramente provvista del necessario per vivere. I suoi abitanti, in numero di duemila, vivono della vendita di pecore, di maiali e di grano. Nell’intera cittadina non c’era una locanda discreta in cui ci potessimo azzardare a trascorrere la notte …”13. Insomma, l’impressione di luogo selvaggio e affascinante che ne traggono Berkeley, Swinburne e Lear non è molto differente dall’ammirazione che ha suggerito lo straordinario quadro offerto dalla penna di Soldati. Ed è con questo stesso spirito che il viaggiatore moderno dovrebbe affrontare un percorso, reale ma anche dell’anima, nella terra d’Irpinia, e scoprire un mondo altrove ormai perduto e qui presente nei colori, nel vento, nei suoni, nel silenzio, nelle albe, nei tramonti, nel cielo, nei panorami, che si perdono a vista d’occhio. Potrebbe scoprire così l’Irpinia romana di Aeclanum e più a Sud di Compsa (Conza della Campania), quella preromana di Carife, Bisaccia, della Mefite…
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Altra tappa potrebbe essere rappresentata da Gesualdo, la già ricordata patria di Carlo Gesualdo, luogo che fu mèta di Igor Stravinskij, uno dei più grandi musicisti del Novecento, nel 1956 e nel 1959, quando sulle tracce del “principe dei musici” che egli ammirava, si spinse da Napoli sino in Irpinia, rievocando poi questo viaggio con notazioni di colore: “… Il castello di Gesualdo era allora la residenza di qualche gallina, una giovenca e una capra che pascolava, nonché di una popolazione umana che annoverava, in quel decennio ante-pillola e anti-maltusiano, un numero enorme di bambini …”14. Anche da questo comprendiamo quanto siano diverse l’Italia e l’Irpinia di oggi.
prendere il treno Avellino - Rocchetta Sant’Antonio, il paese della talentuosa scrittrice Mariateresa Di Lascia. Ma dovrà prima informarsi accuratamente sugli orari del treno. Dopo le gallerie che non solo idealmente separano la bassa dall’alta Irpinia, il viaggiatore resta incantato dai contrafforti e dalle vette selvose di Volturara, Montemarano, Serino, Montella, Bagnoli Irpino. I Monti Picentini sono ancora luogo incantevole e incontaminato, sede non a caso di un Parco Regionale, luogo che affascinò un grande meridionalista, in una delle sue escursioni in Irpinia, l’alba del 30 luglio del 1883. Raggiunta la vetta del Terminio, ecco le sensazioni di Giustino Fortunato:
PASSAGGIO DA NORD: L’ARCADIA PERDUTA Il nostro lettore/viaggiatore, che proviene da Roma o Napoli, percorrendo la A 16 NapoliCanosa, invece che superare Avellino ed uscire a Grottaminarda, o a Vallata, o ancora a Lacedonia, potrebbe anticipare l’ingresso in Irpinia. Potrebbe uscire al casello di Avellino Est, e proseguire in direzione Montella - Lioni, lungo la nuova Ofantina. Oppure, potrebbe raggiungere la stazione ferroviaria di Avellino - città evocata tra gli altri da Guido Piovene e Carlo Muscetta - e
“La veduta era estesissima a noi intorno, e dapertutto veramente - dai poggi irpini ai contrafforti lucani, dall’acuminato Vesuvio all’ampio Vulture sorridente, su monti e valli di mille colori, fra cielo e mare d’una sola tinta cilestrina, dapertutto regnava dolcissima una quiete serena e splendeva ineffabile una luce tersa e dorata, una luce benigna, che dava all’animo non so che impressione profonda di calma e di riposo. Era una di quelle immense vedute così frequenti su l’alto Appennino, che distraggono più che non sogliono richiamare o fissar occhio: solo la Celi-
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ca, aerea, l’arditissima Celica fatta a mo’ di forca, attirava distinta lo sguardo a cinque miglia in linea retta e, come tutte le altezze solitarie flagellate dai venti, s’imponeva maestosa e solenne …”15. Qui, come Giustino Fortunato, il viaggiatore potrà godere di una montagna pura, incontaminata, godere di acque limpide e straordinarie, “godere più piena e più pura la coscienza della vita”. E così scendiamo verso Montella, con le parole ancora di Giustino Fortunato: “Provavo ormai quel benessere indefinibile, che i grandi spettacoli della natura sogliono infondere nel cuore dell’uomo. […] subito riprendo il cammino a mezzo del Piano di Verteglia, che veramente è la più deliziosa valletta che si possa immaginare, io pensava all’età mitologica dell’oro, al beato regno di Giano e Saturno, ai buoni terrigeni pastori del nostro Appennino: pensavo alla gentile egloga vergiliana, all’idillio amoroso di Dafni e Cloe, alle primavere sacre degli antichi popoli italioti …”16. Queste selve, questa natura pura e perfetta, ricordano all’intellettuale Virgilio e i canti buco-
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lici. Non a caso, si ritiene che l’Irpinia, questi monti in particolare, abbiano ispirato il più famoso libro del Quattrocento e uno dei più imitati della letteratura europea sino alla Rivoluzione francese, l’Arcadia di Iacopo Sannazaro, che sul finire del secolo XV fu ospite dei Cavaniglia di Montella. E così, nelle parole di Elpino della IV egloga, che cerca pace in una valle, si potrebbero riconoscere quelle di Giustino Fortunato: Monti, selve, fontane, piagge e sassi vo cercand’io, se pur potesse un giorno in parte rallentar l’acerbo pianto; ma ben veggi’or che solo in una valle trovo riposo a le mie stanche rime, che murmurando van per mille campi. […] Ben mille notti ho già passate in pianto, tal che quasi paludi ho fatto i campi; al fin m’assisi in una verde valle et una voce udii per mezzo i sassi dirmi: - Elpino, or s’appressa un lieto giorno che ti farà cantar più dolci rime. Ma lasciamoci ancora guidare da Giustino Fortunato verso Montella sino a Bagnoli, dove avviene l’incontro con il “signor Michele Lenzi, il simpatico Lenzi, valoroso garibaldino quanto egregio pittore, che sapemmo tramutato da un sol mese in sindaco del comune”, incontro tra vecchi amici, cordiale, ricco di affetto, che diede sollievo all’instancabile viaggiatore da ogni fatica. Con il sindaco e pittore, dunque, Fortunato organizza l’ascensione al Laceno, l’altipiano ammirato poi anche da Alfonso Gatto, nell’estate del 1956, “magnifica prateria bislunga, dominata in fondo dal gran dosso boscoso del Cervalto, chiusa d’ogni parte da chine vestite di faggi secolari, e traversata dal rivolo perenne della Tremola, che si raccoglie nell’angolo di libeccio e forma un lago ai piedi della ombrosissima Raja Magra”17. Intanto, nella valle tra Bagnoli e Montella, si respira aria di pace e di sacro, con il Convento di San Francesco a Folloni, che vide il passaggio del Santo d’Assisi, e in alto il Santuario del Santissimo Salvatore, e di fronte quello di Santa Maria della Neve, con in cima il castello. Questi luoghi hanno ispirato tanti poeti e scrittori. Qui, un omaggio ad una figura poliedrica d’intellettuale nato a Cassano Irpino, Aurelio Benevento, che ha scritto questa poesia:
Sui monti del Laceno Sono tornato ai monti invernali Dopo tanto tempo E alla fine del tempo Ma ormai è tardi Vi sono soltanto macchie di neve
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In mezzo alla terra nera e motosa Poche ore dopo che la neve s’è sciolta Sull’erba strinata dal gelo Sono già nate sul ciglio Le prime viole dei monti Con il puntino giallo-arancione E la vista si perde nel silenzio infinito Dando la vertigine Che provò centomila anni fa Francesco Petrarca Sul Monte Ventoso … Questa terra, del resto, è stata feconda di poeti: si pensi ai versi di Agostino Astrominica, Giuseppe Iuliano ed Alfonso Attilio Faia, alle pagine dedicate a Luogosano da Angelo Antonio Di Gregorio. Ed ha ispirato un altro “viaggiatore” insolito, Pierre Hugot, un giovane tenente dell’esercito francese, che durante la seconda guerra mondiale aveva aderito all’organizzazione “France Libre”, e che per due settimane, nella primavera - estate del 1944, fu inviato a Nusco insieme ai suoi soldati (componenti del “Battaillon de marche du Cameroun”) per acclimatarsi all’aria di montagna prima della battaglia di Cassino. Da questo soggiorno, nacque un capitolo del memoriale Baroud en Italie dal titolo Les adieux de Nusco. Anche il giovane tenente non riesce a resistere al fascino di questi luoghi: “Tutto intorno c’è l’ammasso romantico delle montagne, il mantello rugoso della foresta e, più in alto, l’erba rasa delle cime, cosparsa di neve. Così è stata la mia prima visione di Nusco: un sole obliquo che modella i rilievi di ombre sfumate; una lunga scia di pulviscolo solare che attraversa da un capo all’altro la valle e che penetra, durante il percorso, nelle finestre del convento di San Francesco, posto come un dado sul cappello appuntito di un brigante degli Abruzzi18. Nella penombra polverosa ed impercettibile della vallata risuona una campana, grave e lontana. C’è in questo paesaggio, una presenza di simboli, un richiamo così diretto all’anima che nessuno può restarne insensibile”19. Eppure, pochi mesi prima, nel settembre 1943, qui aveva infuriato la guerra, come raccontano tantissimi viaggiatori e testimoni, da Soldati ad Edgardo Sogno, da Agostino Minichiello a Pasquale Saggese, da Antonio La Penna a Gianni Raviele20. Fa eco a Pierre Hugo il poeta Giuseppe Iuliano: “Nusco appare come uno sciame bianco, raccolto nel grembo di terrazze, di case che si incuneano, si sommano, in un intreccio di pietra e calce sospeso tra cortine di nebbia. La montagna rende inesauribile, nei colori e nelle atmosfere, questo paesaggio che ha attratto numerosi artisti. La vivacità intellettuale si spiega forse con il capriccio dei venti, che qui hanno tutti libertà di
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soffio …”21. Del resto, Nusco è annoverato tra i “Borghi più belli d’Italia”. Ma anche gli altri borghi, tra le montagne d’Irpinia, hanno un fascino non trascurabile. Alcuni di questi potrebbero essere visitati attraverso i racconti, bellissimi, di un altro figlio di questa terra, il giornalista e scrittore Aldo De Francesco, che così, ad esempio, descrive Montemarano: “A vederlo poi quieto e disteso su un colle, con il castello in cima, disarmato e nudo, l’aria di chi non ha più nulla da nascondere e da difendere, aperto su un orizzonte sconfinato che spazia dal Gran Sasso alle Puglie, subito rasserena. Anzi dà un senso di immediata simpatia e di raccolta familiarità come il paese dell’anima”22. E così siamo arrivati a Nusco e Torella, alle sorgenti dell’Ofanto, e con esse il lettore/viaggiatore può intraprendere un nuovo percorso. Potevamo dire altro di Montemarano - il paese che ospitò l’elegante novelliere Giambattista Basile , raccontare di Castelvetere, Castelfranci, paesi di vini, di tarantelle, di carnevali, e ancora di Salza Irpina, Sorbo Serpico, Lapio (con il suo suggestivo ponte ferroviario), San Mango, Taurasi, Luogosano, paesi di nobili tradizioni e di persone ospitali. Come guida d’eccezione, per questi luoghi, possono ancora servire Piscopo, Arminio, Cirillo, De Francesco … PASSAGGIO
DA
SUD
SULLE TRACCE DI
UNGARETTI:
LA TERRA DELL’ACQUA E DELLE RUPI SCOSCESE
Il lettore/viaggiatore può a questo punto continuare la strada lungo la nuova Ofantina, ed arrivare sino a Lioni, Conza, Sant’Andrea, Calitri, Cairano, Monteverde oppure compiere una virata verso Occidente, in direzione Reggio Calabria, e raggiungere Caposele, Senerchia, Quaglietta: sono tutti luoghi ricchi di storia e di bellezza. Il percorso può, ovviamente, essere compiuto in senso inverso da coloro che provengono dalla Puglia e dalla Basilicata (ripercorrendo la strada che da Foggia porta a Candela e quindi l’Ofantina sino a Monteverde), o dal Sud, da Salerno e dalla Calabria (partendo dall’uscita di Contursi della Salerno-Reggio Calabria). Il viaggiatore che viene dalla Puglia, si imbatte in un paese dai colori bellissimi, l’ultimo della provincia e della regione, Monteverde, paese dal castello incantevole ora in ristrutturazione (quasi completata), dai boschi incontaminati come “La foresta”, a pochi passi dal maniero. Da questo paesaggio sono stati affascinati molti scrittori e viaggiatori, che possono quasi toccar con mano il Vulture e Melfi. Tra questi Gad Lerner, che, nell’illustrare la vita degli operai della Fiat di Torino23, racconta del destino di emigrazione di molti monteverdesi dal Sud estremo al Piemonte. Questo libro è godibile anche per l’eleganza delle descrizioni paesaggistiche, dei ritratti e dei
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bozzetti umani, per la capacità di arrivare diritto al cuore dei problemi e dunque al cuore degli uomini. Non è Gad Lerner un “visitatore incomprensivo”, come era stato più di quaranta anni prima Mario Soldati. In comune con quest’ultimo, comunque, ha la capacità di rappresentare in modo vivo i colori e il fascino della campagna irpina, quando scrive: “I campi neri di cenere delle stoppie già bruciate, il caldo feroce di Vallata, Lacedonia, Candela. Ora siamo proprio nel mezzo, tra le province di Foggia, Avellino, Potenza. Fluendo a zigzag verso la Puglia, il fiume Ofanto reso brillante dal riverbero del sole sulle acque, lascia sulla destra Melfi, il monte Vulture e i colli lucani”. E accanto si trova Aquilonia, con le rovine di Carbonara, con il Museo etnografico, opera somma di Mimì Tartaglia. Descrizione analoga, anche per eleganza, è presente in alcune poesie di Carmelo Capobianco, oppure nel reportage di un inviato di “la Repubblica”, Paolo Rumiz, che in una serie di resoconti (si veda ad esempio quello del 19 agosto 2006, p. 29), ha evocato il fascino degli Appennini italiani. Ma uno dei più illustri viaggiatori d’Irpinia è certo Giuseppe Ungaretti, che, nel 1934, seguendo il percorso dell’Acquedotto pugliese, ha compiuto un itinerario da Est ad Ovest, dal Gargano, dal Tavoliere verso il Sud interno, alla riscoperta di una terra dell’acqua, che dà origine all’Ofanto (il mitico fiume oraziano), al Calore e al Sele. Infatti, negli scritti di viaggio Il deserto e dopo, il grande poeta racconta del viaggio in particola-
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re da Venosa a Caposele (dove arriva il 9 settembre del 1934) alla scoperta dell’acqua e del suo fascino, passando per Venosa, con il Vulture maestoso che domina (“… incontriamo il Vulture nero con i suoi quattro o cinque dentacci. Acqua, fuoco: eruzioni e alluvioni hanno dato l’impronta ai pietroni d’intorno …”), con Calitri e la valle dell’Ofanto: “Poi s’apre la vallata dell’Ofanto e per un’altra strada a girandola arriviamo in cima a Calitri, paesino bianco a 600 metri colle case che si tengono strette sulla frana”24. Oltrepassa la sella di Conza, scorge Castelnuovo, Laviano, e Calabritto, che gli è indicato come “il paese più ricco d’Italia”. Ed ecco l’arrivo a Caposele, che appare ad Ungaretti luogo selvaggio e affascinante, secondo un leitmotiv ormai divenuto consueto per l’Irpinia: “Entrando in paese ci viene incontro una gola di una cinquantina di metri per dieci, spaccata nella roccia e sparsa di macigni ruzzolanti e piombanti dalla montagna; qui si vedono le sorgenti del Sele lasciate in libertà e che alimentano ciò che rimane del fiume che va dalla parte di Pesto: un boccalone vomitante in cima, e sotto un’infinità di fontanini che intrecciano le loro vene fra gli olmi, l’edera, le acacie, il sambuco, un fico che ha l’età di Matusalemme: in fondo fra i pietroni l’acqua scivola sveltissima, in una specie di foro tenebroso, e si perde in quell’occhio”. “... proprio ai piedi della buia parete verde del
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monte Rotoli è captata l’acqua per l’Acquedotto. Ora sono polle non meno vive di prima, ma sepolte. Al loro posto dove formavano lago a ferro di cavallo, appare un prato, e da un lato nello sfondo sorge su un salto un povero campanile distaccato dalla sua chiesa trasportata altrove. Nel mezzo del prato si notano quattro botole ermeticamente chiuse: sono gli accessi al canale che, afferrate le polle, le svia per una brusca storta, ed eccole dentro una stanza di manovra”. La notte, Ungaretti soggiornerà a Calitri, e questa cittadina ispirò una poesia bella e tormentata, studiata accuratamente da Alfonso Nannariello, più volte rimaneggiata tra il 1934 e il 1949. Nell’ultima versione porta appunto il titolo Calitri: Deposto dal torrente c’è un macigno Ancora morso dalla furia Della sua nascita di fuoco. Non pecca in bilico sul baratro Se non con l’emigrare della luce Muovendo ombre alle case Sopra la frana ferme. Attinto il vivere segreto Col sonno della valle non si sperde; Da cicatrici ottenebrate Isola lo spavento, ingigantisce. Qui, il poeta, rivivendo in una chiave completamente personale, intima e “psicopatologica” il
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paesaggio, sembra descrivere, come nota Nannariello, il luogo di una catastrofe. La collina di Calitri appare come un “macigno / Ancora morso dalla furia / Della sua nascita di fuoco”, ossia come una collina frutto dei sommovimenti tellurici, del “fuoco” del nucleo terrestre, sulla cui sommità vi sono le case del paese, “in bilico sul baratro” e “sopra la frana ferme”. Dunque, anche le case sono lì lì per raggiungere l’abisso: il pàthos delle case - osserva Nannariello - è nel loro essere ferme su una terra non ferma. Questa terra si sa non ferma non tanto a causa della “frana” o del “baratro”, immediatamente e attualmente presenti, bensì del terremoto possibile25. Del resto, soltanto quattro anni prima, l’Irpinia era stata funestata dall’ennesimo terremoto. Calitri, comunque, è luogo letterario anche per le testimonianze di tanti, da Francesco De Sanctis ad Alfonso Nannariello, per arrivare alle composizioni di Vinicio Capossela, che, in particolare nei Cd “Il ballo di S. Vito” (1996), in “Canzoni a manovella” (2000) e in “Ovunque proteggi” (2006), ricorda temi e pensieri della terra tra Andretta e Calitri, che ha dato origine alla sua famiglia. Siamo, dunque, nella Valle dell’Ofanto. Sia con l’auto che con il treno, si segue per un buon tratto il corso del fiume, ancora un luogo letterario d’eccezione, perché il fiume del venosino Orazio è descritto anche da Virgilio, Lucano, Silio Italico, e nel mondo greco, tra gli altri, da Polibio e Strabone, e poi ancora da Tito Livio e Plinio il
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Vecchio. Ma l’Ofanto resterà per sempre legato, in modo indissolubile, al nome di Orazio, che lo ricorda “violens”, “acer”, “sonans”, simbolo di una terra arcaica, rigogliosa e incontaminata, specchio dei suoi vigorosi e austeri abitanti. E così, nel congedo del III libro delle Odi, dopo aver esclamato il famosissimo “Exegi monumentum aere perennius”, Orazio penserà alla sua terra lontana, alla fama del suo nome che arriverà sino al Vulture, all’onore che gli sarà tributato: “E dove suona l’Aufido imperioso, / e fu re Dauno, povero d’acqua, / tra i popoli dei campi, / anch’io sarò un signore, / anche di me si parlerà: ‘Fu il primo / che portò qui tra i popoli d’Italia / la poesia dell’Etolia!’ …” (traduzione di Enzo Mandruzzato). Sulla scia di Orazio, hanno celebrato il fiume violento e affascinante, tra gli Irpini, Camillo Miele (Andretta, 1819 - Montella, 1892) e Giovanni Malleone (Trevico, 1778 - 1851). Molti, del resto, hanno amato questo fiume. Famosa è, ad esempio, la descrizione, dal gustoso “sapore” anche letterario, che Giustino Fortunato fornisce in un suo libretto su L’alta Valle dell’Ofanto. Qui, il grande meridionalista proponeva un’immagine puntuale del fiume, propria di chi descriveva i luoghi per averli visitati realmente e con attenzione: “Scaturisce l’Ofanto, umile ruscello, su nei campi di Torella dei Lombardi; di là da Lioni si serra in una gola, donde cade, per un’altezza di ventidue metri, nel piano di Conza della Campania: poi di nuovo si chiude fra le strette di Caira-
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no, ma tosto si riallarga nella insenatura sottostante a Calitri, in cui sbocca la fiumana da Atella, il meno povero di tutti i suoi affluenti …”. E già Fortunato, comunque, nel confrontare la descrizione di Strabone con la realtà del suo tempo, contrapponeva la grandezza del fiume antico alla scarsità d’acque come gli appariva nel lontano 1896, e che conferma nuovamente il carattere selvaggio del luogo: “Ora gli acquitrini sono alla foce, non meno che nelle conche più deserte dell’alta vallata: e da per tutto, per assai lunghi tratti del fiume, nei torridi mesi della estate, il velo delle acque rimane stagnante, come in una immensa, selvaggia palude stigia, sacra alla malaria”26. LA TERRA DELLA NOTTE Vorrei invitare il lettore/viaggiatore anche a scoprire la notte irpina. Qui, la notte è ancora quella di un tempo, è ancora quella delle scarse luci, delle stelle e del vento. Ecco, la riscopriamo attraverso Ugo Piscopo: “Nella valle dell’Ofanto, la notte esiste veramente. Essa viene, questa cosa che è la notte, ti urta, ti scuote, ti prende e ti porta. Inizia, allora un viaggio in mezzo a zone inesplorate, che tuttavia sembra di ricordare e riconoscere. Pur dimorando col corpo in un punto fermo della terra, tu fluisci in un vento di stelle, di querce, di pause e senti, però, che sei in esilio dalle stelle, dalle querce, dalle pause del dolore e della follia. Una voce dentro suggerisce: ‘Sii te stesso. Parla con i sensi’. E con che altro si vorrebbe
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parlare dentro a una notte così corposa, avvolgente, reale?”27. Dall’alto del belvedere di Frigento, così invece rivive la notte Pasquale Martiniello, scorgendo le luci dei cento e più paesi d’Irpinia: “Sulle cime dei flutti irrompenti / centoventi navi stellari, / piccole e grandi, con sparse lampare, / immobili e tacite sfidano i venti”28. LA TERRA DELLA FUGA E DEL TERREMOTO Tuttavia, l’Irpinia non è, anche nell’immaginario letterario, solo luogo dell’idillio. È anche terra del Sud, e dunque terra della fatica, degli stenti, della miseria, del sopruso, quindi dell’emigrazione, della vera e propria “fuga”, della lotta per le terre, di tante sconfitte ideali, dei terremoti, che periodicamente hanno scosso queste valli, queste colline, queste montagne. Ero incerto se in una “guida letteraria” si dovesse far cenno, almeno un cenno, anche a questo. Ma credo che sia necessario. Sono decine i poeti, soprattutto di ispirazione meridionalista, che hanno raccontato questa storia, sulla scia di Rocco Scotellaro, di Salvatore Quasimodo, di Alfonso Gatto: questi poeti irpini rispondono ai nomi di Antonio La Penna, Pasquale Stiso, Pasquale Martiniello, Giuseppe Saggese, Giuseppe Iuliano, Giuseppe Tedeschi, Nicola Arminio, Giuseppe Pisano, Ugo Piscopo, Agostino Minichiello, Nicola Prebenna … Riporto alcuni versi, per tutti, di Pasquale Martiniello:
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un mondo che sembrava finire, calpestato da forze immani. Tra le tante testimonianze in prosa, non può mancare almeno uno stralcio della cronaca, che Alberto Moravia scrisse per “L’Espresso” (7 dicembre 1980). Raggiungendo i luoghi del disastro in elicottero, il grande scrittore sorvola San Mango (“il paese-cimitero”), e fa tappa a Sant’Angelo dei Lombardi e Lioni. Solo poche righe di questa cronaca dal titolo Ho visto morire il Sud: “Eccoci a Lioni, dove atterriamo nel campo sportivo. Prima di tutto c’è una grande casa di sei piani, con tanti balconi, apparentemente intatta
Irpinia, terra mia Questa terra ha funi di radici senza calze, unghie di zoccoli con ferite senza suola, tanti petti, rotti da favole di dolore e nidi in silenzio costruiti, lasciati inseminati. Terra mia, dagli occhi arsi e innamorati, tu mi parli di fughe disperate, di sogni appesi a croci stecchite senza fiori, di lettere in lacrima bruciate, di fiocchi di trecce, strappati in voto …29. Analogo discorso vale per la poesia e la letteratura del terremoto30, che offre non poche testimonianze di eventi drammatici ed epocali quali il sisma del 23 luglio 1930 e del 23 novembre 1980. Decine di poeti, di intellettuali, giornalisti e scrittori (da Alberto Moravia a Vittorio Sermonti a Carlo Muscetta a Dante Della Terza ad Antonio La Penna a Manlio Rossi-Doria a Vega de Martini a Giovanni Russo a Camilla Cederna a Romualdo Marandino a Claudia Iandolo a Marco Ciriello a Franco Arminio) hanno rappresentato
e abitabile. Ma dalle finestre si affacciano non già figure di donne incuriosite ma mucchi inerti di calcinacci. E, come su una faccia devastata da una malattia immonda, crepe nere e tortuose serpeggiano per l’intonaco bianco. Poi, ad una svolta, scorgiamo in una specie di anfiteatro di macerie, una folla immobile e silenziosa che guarda tutta quanta verso un solo punto …”.
VERSO IL CENTRO D’ITALIA: LA MEFITE L’Irpinia non è, dunque, solo luogo d’idillio. L’Irpinia ha un lato di mater, che abbiamo descritto, e uno di “matrigna”. Questo aspetto funesto, quasi lugubre, dell’Irpinia era stato già descritto da Virgilio nel settimo libro dell’Eneide, in un senso differente, quando identificava nella Valle d’Ansanto (nel territorio di Rocca San Felice) la porta degli Inferi, da dove passò la Furia Alletto dopo aver scatenato la guerra tra Rutuli e Troiani:
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Est locus Italiae, medio sub montibus altis, nobilis et fama multis memoratus in oris, Ampsancti valles ... Un luogo c’è sotto i monti al centro d’Italia famoso: la valle d’Amsanto: il fianco boscoso d’un colle con alberi densi la chiude; nel mezzo di gonfio torrente fra’ sassi tortuoso passa lo strepito. Ivi un’orrenda caverna e la cruda porta di Dite si mostrano: vasta voragine dove Acheronte prorompe apre sue fauci pestifere; ed ivi scomparsa l’Erinni, nume dell’incubo, libera il cielo e la terra. (VII 563-570, nella versione di Enzio Cetrangolo) Questi versi esprimono, vigorosamente, un momento di tensione, affidato al lugubre incontro con il mondo degli Inferi, collocato in una valle al cui centro è un laghetto d’acque sulfuree. La cupezza del luogo è in armonia con la sua funzione: il “fianco” che racchiude la valle è “nero” (atrum nel testo latino); il torrente irrompe e causa un suono fragoroso nella valle, dominata da una caverna orrenda. La vasta voragine al centro minaccia quasi di inghiottire ogni cosa, con le sue fauci apportatrici di morte. Come ha notato Romualdo Marandino, il motivo dominante del brano è “l’horrendum che circonda l’ingresso dell’Ade”. La tensione dell’incontro con gli Inferi ha termine con un verso quasi “liberatorio”: “Ed ivi scomparsa l’Erinni, nume dell’incubo, libera il cielo e la terra”31. Colpisce, come ha osservato Marcello Gigante, la precisione della descrizione, che ancora corrisponde allo spettacolo offerto dalla Mefite al nostro viaggiatore. E questa rappresentazione ha fatto, ovviamente, scuola, perché tra tutte le descrizioni antiche, questa ha prevalso sulle altre così da condizionare i poeti e i viaggiatori successivi, tra i quali i già citati Swinburne e Lear. Quest’ultimo scrive, durante il suo passaggio avvenuto nel settembre 1847: “Il bacino in cui giace questa strana e brutta palude vaporosa è orlato, su un lato, da un bosco di querce, alle cui spalle fa da ottimo sfondo la montagna di Chiusano”32. E ancora adesso, la Valle d’Ansanto è cinta, su di un fianco, da una boscaglia (attualmente molto rada); al centro è presente il laghetto di esalazioni sulfuree; inoltre, un osservatore attento può scorgere le cavità, dalle quali - se si chiudono un attimo gli occhi e ci si lascia prendere dalla fantasia - è possibile intravedere una Furia inquieta, la funesta Alletto, che attende un nuovo poeta che sappia ridestarla. Anzi in parte l’ha trovato in Antonio La Penna, che, nella poesia Mephitis, ha risemantizzato la figura della Mefite identificandola con la cattiva politica, che ha causato lo spopolamento di questa terra. Il lettore/viaggiatore non deve tra l’altro dimenti-
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care che qui vicino è Rocca San Felice, luogo ideale per un turista alla ricerca di pace e di eleganza, come ricorda Franco Arminio: “Il borgo è curato come un paesino francese. I numeri civici sono in ceramica, gli infissi in alluminio sono rari. Molte fioriere ai balconi. Un luogo ideale per accogliere turisti, specialmente se si guarda in alto alla splendida rocca dove Federico II rinchiuse suo figlio Enrico …”33. VERSO IL CENTRO: LA TERRA DI FRANCESCO, GUGLIELMO E GERARDO Ma vi è anche un altro centro - anzi più centri dell’Irpinia alta, il Santuario di San Francesco a Folloni di Montella - dove si respira un ascetismo e una spiritualità pienamente francescani e non avulsi dalla vita -, oppure l’Abbazia del Goleto, fondata da san Guglielmo, nel territorio di Sant’Angelo dei Lombardi, incantevole nella sua bellezza desolata e maestosa: “Una fabbrica perfetta” - scrive Emilia Bersabea Cirillo - “il Goleto, magica al centro di un mondo magico. Perché il Goleto è lo spirito che si fa pietra, è una preghiera che si rincorre, è la semplicità delle forme, è quello di cui si ha sempre bisogno, è la fragilità degli eventi, è la madre che accoglie”34. Da non dimenticare è anche un altro Santuario, quello di Montevergine, che domina Avellino, evocato tra gli altri da Vincenzo Padula, Renato Fucini, Giuseppe Marotta e Alfonso Gatto. Accanto a questa religiosità ascetica, v’è una religiosità più popolare, quella presente a San Gerardo a Materdomini (Caposele), così descritta dalla Cirillo: “Fuori al santuario la fabbrica della devozione prosegue in una sequela di baracche, carrette, cesti intrecciati e giocattoli di plastica. Immagini fluorescenti made in Taiwan, placche autoadesive proteggi guidatore, tavolette votive di legno e smalto, il santo è stato riprodotto e annientato in molteplici forme. La sua silhouette, sofferta e pensosa, viene portata come souvenir alle devote rimaste a casa”35. Insomma, anche questo fa parte della varietà e della ricchezza di una terra bellissima, che, come tanti viaggiatori del passato e del presente, ancora il lettore/viaggiatore cui ci rivolgiamo, potrà scoprire, se solo sappia dimenticare il presente e volgere lo sguardo ad un passato autentico e nobile, e che lo indurrà ad esclamare con Mario Soldati: “Irpinia, si chiama questa regione, e non la conoscevo. Com’è varia e bella l’Italia!”
NOTE 1 La
terra di mezzo, luoghi e storie d’Irpinia, Elio Sellino editore, Pratola Serra, Avellino, 2000. 2 Messaggio agli amici di Bisaccia, da Poeti del Sud, a cura di Paolo Saggese, Elio Sellino editore, Avellino, 2003, p. 157.
LETTERARIO NELLA
3 Francesco
De Sanctis, Un viaggio elettorale, a cura di Attilio Marinari, Firenze, La Nuova Italia, 1970, p. 16. 4 Un viaggio elettorale, cit., p. 46. 5 Viaggio nel cratere, con una lettera di Gianni Celati, Sironi editore, Milano, 2003, p. 114. 6 “Il Mattino” del 27 marzo 2005, pp. 1 e 18. 7 Un viaggio elettorale, cit., p. 70. 8 La storia di Michele, da Dagli Appennini alle montagne rocciose (e ritorno). Testimonianze e rimembranze per Dante Della Terza, a cura di Vittorio Russo, Bibliopolis, Napoli, 1996, p. 193. 9 Il racconto di Soldati, dal titolo Fuga in Italia, è stato edito varie volte a partire dal 1947, di recente una parte anche in L’Irpinia nella seconda guerra mondiale. Dalla crisi del regime fascista alla liberazione, a cura di
Francesco Barra; Testimonianze letterarie e cronache, a cura di Paolo Saggese, Prefazione di Antonio Maccanico, Centro Guido Dorso, Studi Meridionali 10, Avellino, 2004, pp. 339-348. 10 Ugo Piscopo, Irpinia sette universi cento campanili. Percorsi e spaccati, ESI, Napoli, 1998. 11 Piscopo, Irpinia sette universi, cit., p. 49. 12 Si veda G. Berkeley, Viaggio in Italia, tr. it. a cura di Th. E. Jessop e M. Fimiani, Bibliopolis, Napoli, 1979, e l’analisi di Minichiello, op. cit., pp. 31-33. 13 Henry Swinburne: un viaggiatore inglese nell’Irpinia del ’700, a cura di Pia Cannavale, introduzione di Francesco Barra, Liberamente liber, Avellino, 1997, p. 25. 14 Cfr. Simonetta Ieppariello, Un compositore sulle tracce del madrigalista, e Gennaro Iannarone, Quelle geniali dissonanze di Stravinskij e Gesualdo, “Ottopagine” del 1° luglio 2007, p. 8. 15 L’opera di Giustino Fortunato si intitola L’Appennino della Campania, a cura della sezione napoletana del Club Alpino italiano, Napoli, 1884. La citazione è tratta da Giustino Fortunato nella Piana di Verteglia, a cura
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TERRA
DI MEZZO
di Carlo Ciociola, “Il Monte”, Anno IV - n. 1, genn. mar. 2007, p. 92. 16 Ibidem (Il corsivo è mio). 17 Op. cit., p. 94. 18 Qui, Hugot descrive il Santuario del Santissimo Salvatore, non quello di San Francesco a Folloni, che sorge sempre nella valle di Montella. 19 Da Gianni Marino, Addio Nusco di Pierre Hugot, il Calamaio, Atripalda (Av), 1992, p. 21. 20 Cfr. L’Irpinia nella seconda guerra mondiale. Dalla crisi del regime fascista alla liberazione, a cura di Francesco Barra; Testimonianze letterarie e cronache, a cura di Paolo Saggese, cit. 21 Tratto da I Borghi più belli d’Italia. Il fascino dell’Italia nascosta, Guida 2005, Società editrice romana, Roma, 2005, p. 359. 22 Paesi dell’anima, Prefazione di Carlo Franco, illustrazioni di Andrea Celano, Rossi Editore, Napoli, 1995, p. 133. 23 Cfr. Operai. Viaggio all’interno della Fiat. La vita, le case, le fabbriche di una classe che non c’è più, Feltrinelli, 1988. 24 Le citazioni sono tratte da G. Ungaretti, Vita d’un uomo II. Prose di viaggio e saggi I, Milano, Mondadori, 1969, pp. 357-362. 25 Si veda Alfonso Nannariello, Calitri. Una poesia di Ungaretti da ritrovare, Delta3 edizioni, Grottaminarda (Av), 2006, da cui è tratto il testo della poesia. 26 Le citazioni dell’opera di Giustino Fortunato sono tratte da Ofanto, a cura di Antonio Ruggiero, Bari, 2004, p. 19. 27 Op. cit., p. 58. 28 Notturno Irpino, da Testimonianze Irpine, Tip. Irpina, Lioni (Av), 1976, p. 6. 29 La poesia, già edita nella raccolta Esodo, è tratta da Poeti del Sud 2, a cura di Paolo Saggese, Elio Sellino editore, Avellino, 2006, p. 176. Per la poesia irpina e per la rappresentazione dell’Irpinia si veda, oltre a questa antologia, anche Poeti del Sud, cit.; Poeti del Sud 3, a cura di Paolo Saggese, Elio Sellino editore, Avellino, 2007; Operai di Sogni. Poeti irpini del Novecento, a cura di Paolo Saggese, Elio Sellino editore, Avellino, 2007. 30 Per la produzione poetica legata al sisma del 23 novembre 1980 cfr. le antologie La poesia del terremoto, presentazione di Franco Compasso, a cura di Luigi Pumpo, Edizioni “Presenza”, Marigliano, Na, 1983, e Quando il terremoto è nell’anima. I poeti del 23 novembre, a cura di Paolo Saggese, Elio Sellino editore, Avellino, 2006. Per la produzione saggistica e letteraria cfr., tra gli altri, di Autori vari Quella sera c’era una luna luminosa, a cura di Angelo Giusto, Edizioni Scriba, 1993, e 19.35. Scritti dalle macerie, a cura di Paolo Speranza, prefazione di Antonio Zollo, Edizioni Laceno, Atripalda (Av), 2005. 31 Per la bibliografia e le citazioni relative alla Mefite rinvio a Paolo Saggese, Virgilio e la Valle d’Ansanto. Un suggestivo incontro con gli Inferi, “L’Irpinia Illustrata”, 0, 2000, pp. 3-5. 32 Viaggio in Basilicata (1847), Edizioni Osanna Venosa, Venosa (Pz), 1990, p. 22. 33 Viaggio nel cratere, cit., p. 127. 34 Il pane e l’argilla, Filema, Napoli, 1999, pp. 97-98. 35 Op. cit., pp. 109-110.
PERCORSI SPIRITUALI IN ALTA IRPINIA Frate Agnello Stoia
I santuari sono luoghi della memoria, di una memoria efficace ed estensiva che, se da un lato raccontano visibilmente con pietre ed opere il passato, allo stesso tempo affermano il valore presente e attuale della fede e della devozione. Per questo nella comunità sono luoghi significativi, sono luoghi dell’incontro e della festa, della fede e del folklore, dell’identità e della tradizione, della fede degli antenati che con grandi sacrifici li hanno edificati. A voler considerare la geografia dei santuari che costellano tutto il territorio dell’Irpinia se ne possono contare a decine, eretti nei centri urbani o nelle campagne, su vette, speroni rocciosi o anfratti. Accanto ad importanti e conosciuti luoghi di culto, come Montevergine o Materdomini di Caposele ad esempio, si sviluppa una serie di luoghi sacri più o meno conosciuti, venerati da secoli dalle popolazioni dell’Alta Irpinia, legati ad apparizioni, culti arcaici e che costituiscono la base per manifestazioni religiose molto radicate. La zona di Montella gravita attorno alla devozione al Santissimo Salvatore, alla Madonna della Neve e al santuario francescano di san Francesco a Folloni. Scendendo verso Avellino, sulla vecchia Ofantina, incontriamo il Santuario della Madonna delle Grazie a Castelvetere e di sant’Anna a San Mango sul Calore. Spostandosi verso oriente abbiamo l’Abbazia del Goleto a Sant’Angelo dei Lombardi, il Santuario di santa Felicita a Rocca San Felice. Andando verso le Puglie c’è Andretta con “La Mattinella”, il santuario della Stella Mattutina. Scendendo verso la Baronia abbiamo il Santuario di santa Maria delle Fratte a Castel Baronia e del Buon Consiglio a Frigento. Allungandosi verso Grottaminarda si incontra il Santuario della Madonna di Carpignano. A Lioni ci sono i santuari di san Rocco e di santa Maria del Piano, e scendendo verso il fondo Valle Sele il Santuario di Materdomini con il gruppo di santuari di Calabritto con la Madonna della Neve, di Grenzi, e quello rupestre della Madonna del Fiume. In questo contesto abbiamo dato spazio ad alcuni santuari molto frequentati, ma soprattutto ne abbiamo segnalato alcuni che rimangono nascosti, spesso misticamente custoditi dal silenzio delle montagne e dei boschi, e per la loro condizione di santuari “minori” hanno conservato molto della genuinità espressiva sia dei luoghi sia della devozione popolare. Il Complesso di san Francesco a Folloni - Montella Aria pulita e natura che ancora impone le stagio-
ni, un dolce piano inclinato a occidente nella ciambella di montagne dai profili spigolosi, l’ansa del fiume Calore: il luogo sembra calcolato per la strategia geografica, per la posizione baricentrica rispetto alla valle. Eppure le fonti e le tradizioni più antiche raccontano che Francesco d’Assisi riparò qui provvidenzialmente nell’inverno del 1221, sotto un leccio. Nonostante il tempo da lupi – è il caso di dire perché di terra irpina si sta parlando – la neve che cadde quella notte non lambì le fronde sempreverdi dell’albero né inzuppò le tonache di quei pochi frati che vi avevano trovato rifugio per la notte. Il fatto prodigioso non tardò molto a passare di bocca in bocca, come l’identità della guida di quel drappello di forestieri, vestiti in modo vile: frate Francesco e i frati minori, diretti alla grotta di san Michele sul Gargano. Alle richieste insistenti della gente e del castellano il santo di Assisi cedette volentieri, lasciando due frati che costruissero accanto all’albero un romitorio dedicato alla Vergine dell’Annunciazione. Il leccio, nascosto nelle fondamenta del convento, è diventato radice dell’albero secolare che è il Complesso Monumentale di san Francesco a Folloni. Questa storia leggendaria e drammatica non è l’unico “documento” della fondazione né l’unico fioretto che si tramanda della prima fraternità che ebbe il privilegio di iniziare un’avventura spirituale che continua da otto secoli. Appena due anni dopo, sempre la neve fa da occasione ad un altro prodigio: i frati sono bloccati da giorni e non hanno da mangiare, né qualche anima pia può portar loro un pane, perché dall’abitato è impossibile percorrere due miglia nella neve alta. Qualcuno bussa alla porta, viene spalancato l’uscio a un altro misero che certo non avrà da mangiare, ma non c’è nessuno. Solo un sacco pieno di pane fragrante sulla neve alta. Si cercano impronte che non ci sono. E il sacco è di lino, ricamato a gigli di Francia. Troppe domande, la fame e il freddo rendono quei poveri uomini avidi di cibo. Ma con stupore mangiano quei pani, intanto si smorzano i morsi della fame ma non le domande: Chi sarà stato? E un sacco tanto prezioso? E i gigli francesi in Irpinia? Solo tempo dopo sapranno che Francesco era in Francia presso la corte di Ludovico VIII: in visione aveva saputo del pericolo per i suoi frati e per mano di angeli aveva inviato quel sacco di pane fino a Montella. Conserveranno allora il sacco come tovaglia d’altare, e nei secoli a venire sarà la reliquia più preziosa del convento.
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La fede e la devozione della gente di questa terra irpina al Poverello sarà proclamata a tutto il mondo dal pennello di Giotto che nella Basilica superiore di Assisi dipinse, tra i tanti miracoli attribuiti a Francesco dopo il suo transito nel 1226, quanto accadde a Montemarano, poco distante da Montella. Una donna devota era morta senza il conforto della confessione. Durante il suo funerale si svegliò chiedendo un confessore: per intercessione del beato Francesco le era stato concesso di tornare in vita per poter essere assolta dai peccati. Una volta ricevuta l’assoluzione si riaddormentò in pace. Sia per la viva tradizione del passaggio di san Francesco, sia per l’importanza strategica che gli Angioini attribuirono al castello di Montella, il luogo dei frati di Folloni fu beneficiato con liberalità dai sovrani che si susseguirono sul trono di Napoli. E alla semplicità del primo insediamento seguirono strutture imponenti, degne di un feudatario quale Bartolomeo di Capua, di Filippo di Taranto che nel 1322 con privilegio trasformava in diritti le acquisite “consuetudini” di pescare nel fiume e legnare nel bosco, della regina Giovanna che nel 1374 si raccomandava in una lettera ai frati, suoi “devoti e fedeli oratori”. Gli Aragonesi, cacciati gli Angioini nella prima metà del ‘400, confermarono i privilegi concessi ai frati sotto la precedente dinastia. In una lettera del Luglio 1441 Alfonso confermava gli stessi favori concessi da Giovanna I. Ferrante negli anni 1460-65 concedeva ai frati sei tomoli di sale annui da prelevarsi alla regia dogana gratuitamente. Tutte queste attenzioni aiutarono l’espansione del convento e lo fecero crescere nelle strutture e nel numero di religiosi. I documenti conservati attestano l’opera che i frati svolgevano tra la gente, e all’evangelizzazione seguiva sempre la divisione del pane, quello materiale e quello della cultura. Quello materiale non c’era pericolo che mancasse: i frati fecero dipingere la scena del sacco sulla porta del convento e nel refettorio, perché a se stessi e a tutti ricordassero la promessa di san Francesco: quando in tutto il mondo rimanessero tre sole pagnotte di pane, una sarebbe per i frati. Quello della cultura lo divisero con i laici, aprendo la biblioteca e gli studi ai giovani del luogo. I due fratelli Lucio, letterati ed umanisti irpini, studiarono in convento. Qui si riparò Jacopo Sannazzaro dopo la morte della madre, trovando tra questi monti – i Picentini - il “locus amoenus” motivo ispiratore della sua Arcadia.
PERCORSI SPIRITUALI IN ALTA IRPINIA
Con lui Gianni Anisio e il Cotta furono ospiti dell’Accademico pontaniano Troiano Cavaniglia, figlio di Diego conte di Montella. Dal ’500 al ’700 il convento ha subito molte trasformazioni in seguito ai frequenti terremoti e ristrutturazioni operate dai frati che non hanno badato a sacrifici per consegnarci un monumento di fede e di arte che oggi lascia sorprese le migliaia di visitatori che non si aspettano di trovare un luogo tanto bello in questa piana. Anche le due soppressioni, napoleonica e sabauda, nonostante abbiano spogliato il convento di beni artistici e documentari, non sono riuscite a impedire a quell’antico leccio di produrre nuovi germogli né a quel pane di continuare ad essere spezzato nell’accoglienza e nella condivisione. L’Abbazia del Goleto Superato il dosso di Fontigliano (Nusco) ci si affaccia nella Valle dell’Ofanto e nei pressi di Sant’Angelo dei Lombardi, lungo la S.S. 7, l’an-
tica Appia, in un suggestivo scenario delimitato dai monti Picentini, si trova l’antica Abbazia del Goleto. Fondata da San Guglielmo da Vercelli (1085-1142) intorno al 1133, il santo monaco vi concluse la sua esistenza il 24 giugno del 1142. La struttura, in origine un monastero doppio a prevalenza femminile, conobbe il suo massimo splendore in epoca normanno-sveva e agli inizi della dominazione angioina. Nel 1152 fu costruita la torre Febronia – il nome lo si deve alla Badessa che la fece costruire – realizzata con pietre di risulta di un mausoleo del periodo romano dedicato a M. Paccio Marcello. Nel 1225 l’arrivo al monastero della reliquia del braccio di san Luca fu occasione per la costruzione della cappella omonima, fatta realizzare dalla Badessa Marina. La cappella, su due livelli, è un gioiello architettonico dell’arte gotica, caratterizzato da capitelli federiciani. Attraverso una scala con un corrimano a forma di serpente si accede al portale in stile romanico-pugliese in
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calcarinite rossa, pietra tipica del territorio. In epoca moderna l’Abbazia fu retta direttamente dai monaci di Montevergine i quali restaurarono il complesso e fecero costruire la grande chiesa settecentesca su progetto di Domenico Antonio Vaccaro (1733-1740 circa), dove furono traslate le ossa del Santo fondatore. L’Abbazia fu soppressa nel 1807 durante il decennio francese e le ossa di San Guglielmo furono traslate definitivamente a Montevergine. Dopo una lunga permanenza di P. Lucio Marino dei monaci di Montevergine l’Abbazia è stata affidata alla Comunità dei Piccoli fratelli della Comunità Jesus Caritas di Charles de Foucauld. Santuario di santa Felicita La storia della martire Felicita e dei suoi sette figli ricalca così da vicino il racconto biblico del libro dei Maccabei che diversi studiosi ne hanno messo in dubbio l’attendibilità. Gli ultimi studi, invece, confortati da testimonianze