I MULINI AD ACQUA DELL’ALTO OFANTO
Le rive del fiume Ofanto e dei suoi affluenti sono state abitate, da tempi antichissimi, dai mulini ad acqua; uno studio coordinato dal CRESM Campania e pubblicato nei primi anni ’90 ne aveva rilevati numerosi, per lo più del tipo a ruota orizzontale, alcuni dei quali in uno stato di conservazione discreto che ne faceva ben individuare la distribuzione delle funzioni.1 Uno dei manufatti rilevati, il mulino Donatelli, localizzato nel comune di Morra De Sanctis, è stato ristrutturato nel 2001 con un progetto finanziato dal Piano di Azione Locale “Terre d’Irpinia”: tra le azioni materiali previste dal Piano era stato infatti previsto esplicitamente un intervento di restauro e ripristino funzionale di uno dei mulini ad acqua dell’Alto Ofanto, da rendere fruibile e da destinare a nodo della rete turistica e a sede di manifestazioni culturali legate ai temi della civiltà contadina e della difesa ambientale. Si era scelto dunque di destinare un bene architettonico simbolo della civiltà contadina e con caratteristiche di archeologia industriale, ad una funzione precisa, compatibile, e che ne valorizzasse i caratteri storici e culturali scongiurandone, nel contempo, il processo di degrado. Quella che segue è una sintesi dello studio condotto dal CRESM e riguarda i mulini ad acqua di Sant’Andrea di Conza, Teora, Guardia Lombardi, Morra De Sanctis, Sant’Angelo dei Lombardi, Lioni, Torella dei Lombardi, Villamaina.2 Il meccanismo di funzionamento del mulino a ruota orizzontale, descritto diffusamente per Il caso di Sant’Andrea di Conza3, è sostanzialmente lo stesso per tutti gli altri mulini. Quasi tutti i mulini dell’Alta Irpinia erano a ruota orizzontale; soltanto quelli di Caposele utilizzavano il principio della ruota verticale. Particolarmente diffuso nelle zone collinari e montane, il mulino a ruota orizzontale sfruttava soprattutto la velocità e la pressione dell’acqua del fiume, che era attinta indirettamente, attraverso un canale di derivazione. S. Andrea di Conza è un paese molto ricco di corsi d’acqua a carattere torrentizio, tra cui il Sambuco, l’Arso, l’Arca, che versano le loro acque nel fiume Ofanto e nel Vallone delle Pietre. La sorgente più importante è denominata La Fonte e situata in un bosco chiamato La Selva. Con la costruzione delle rete idrica, avvenuta nel 1957, l’acqua della Fonte è stata deviata ed ha perduto l’importante ruolo di un tempo, quando dava vita alle “canale”. Queste avevano il compito di far funzionare i mulini ad acqua4; in tutto le canale erano sei, una per ogni mulino. L’acqua di rifiuto delle fonti, convogliata a valle del paese, dopo aver fatto girare le grosse maci-
ne dei mulini, serviva per irrigare i campi della fertilissima contrada La Forma. La prima canala risale agli inizi del 1700 e probabilmente è quella ancora esistente vicino alla Fonte, che dava acqua al mulino sottostante. L’ultimo dei sei mulini, situato in contrada La Forma, a valle del paese, è quello meglio conservato anche se versa in uno stato di completo abbandono. La sua costruzione risale ad un periodo compreso tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 ed è stato realizzato completamente in pietra locale. Le due vecchie fabbriche sono state vincolate dalla Soprintendenza ai BB.AA.AA.AA.SS. di Salerno e Avellino ai sensi della Legge 1089/39. Per mezzo delle “canale” l’acqua della sorgente La Fonte, attraversando fondi privati e superando scoscendimenti del terreno, arrivava ai mulini, detti anche “molazze” o “mulini a palmenti”. Per l’attraversamento dei fondi altrui i proprietari dei mulini erano forniti di concessioni di servitù onde poter accedere alle canale per la loro manutenzione e per poter aprire e chiudere, ogni volta che si doveva utilizzare il mulino, le “paratoie”. Dopo aver viaggiato a pelo libero, l’acqua cadeva nella cosiddetta torre (il pozzo di caduta) e una graticola di ferro serviva da filtro per eliminare dall’acqua il materiale solido grossolano. Togliendo la piastra di ferro alla base della “torre” con un paletto di legno, l’acqua veniva fuori a grande velocità e andava a sbattere contro le ruote a palmenti, situate nella parte più bassa del mulino: “lu ‘nfiern”. Ricevuto l’abbrivio la ruota del mulino si metteva in moto e bastava una più piccola quantità d’acqua per mantenere il suo funzionamento. Le ruote a palmenti azionavano le mole della macina del mulino tramite un palo di legno verticale: l’albero di trasmissione. Quest’ultimo era collegato alle molazze, ruote di pietra dura a forma circolare e disposte orizzontalmente in modo che fra di esse avvenisse un’azione di sfregamento per frantumare il cereale e per ridurlo in farina. Delle due mole sovrapposte quella inferiore era liscia e monolitica mentre l’altra era costituita da varie pietre squadrate. Le pietre che componevano questa molazza erano affasciate esternamente da due cerchioni di ferro battuto saldati e poi inchiodati e tenute fisse per mezzo di cunei di legno incastrati negli interstizi delle pietre stesse. La mola superiore era più spessa al centro e rastremata verso l’estremità. Al centro vi era un pezzo monolitico forato che serviva per innestare l’asse di trasmissione perpendicolare alla
PARTE I - IL TERRITORIO
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mola. Il foro centrale non è completamente circolare, in modo da poter meglio incuneare l’asse mediante pezzi di legno. Inoltre possedeva delle scanalature a spigoli taglienti, per cui le mole necessitavano periodicamente di scalpellature. Le scanalature servivano per l’ingresso del cereale e la fuoriuscita della farina, esse erano oblique per fissare l’asse di legno verticale che le faceva ruotare. Un cassone di legno, chiamato “tina”, di diametro maggiore delle mole serviva a sostenere la “tramoggia” in modo che il foro di quest’ultima fosse sulla stessa direzione di quello della mola. La “tramoggia” (dal latino “trimodia”, cioè misura di tre moggi) era una cassetta di legno a forma di tronco di piramide rovesciata, in cui si versava il cereale che, attraverso un foro, andava alla macina. Questa forma permetteva con l’ampia apertura superiore un facile carico e con la lieve inclinazione delle pareti una lenta discesa dei semi verso la bocca inferiore di scarico. La fuoriuscita del cereale veniva regolata dall’oscillazione di un distributore, “la taccaredda”, posto in corrispondenza del foro. La grana del macinato era regolata da una leva di ferro, “lu ped” e un tubo di ferro facilitava il riempimento dei sacchi di farina. In un giorno si riusciva a macinare circa tre quintali di granella. Il deflusso dell’acqua utilizzata avveniva attraverso il canale di smaltimento situato alla base del mulino. Secondo alcune testimonianze orali, risulta che i mulini ad acqua attivi a Teora fino al 1950 dovevano essere almeno nove e quasi tutti risalenti agli anni a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. A favorire lo sviluppo di questa particolare attività era la presenza di numerosi corsi d’acqua all’interno del territorio di Teora, sulla riva destra del fiume Ofanto. Il mulino Stefanelli, alimentato dal vallone dell’Arso e dalla sorgente Castelluzzo, fu costruito alla fine del ‘700 in località Fiumicello, ed è rimasto attivo fino agli anni ‘50. Del fabbricato sono ancora visibili due corpi di fabbrica in pietra, il canale di alimentazione e le macine. Gli eredi Stefanelli conservano inoltre la “tramoggia”. Del mulino Corona, edificato in località Airola e alimentato dal vallone Tarantino, rimangono visibili il canale di alimentazione, la torre con la canna (alla cui imboccatura è fissata una grata di ferro) e alcune tracce del muro perimetrale del bacino di raccolta dell’acqua. Nel comune di Guardia Lombardi rimangono i