MAURIZIO NOBILE
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N. 23
2020
MAURIZIO NOBILE N. 23
Coordinamento scientifico di Laura Marchesini
Autori delle schede Francesca Baldassari, Gabriele Fattorini, Chiara Fiorini, Giancarlo Gentilini, Francesco Leone, Laura Marchesini, Massimo Pulini, Marco Riccòmini, Davide Trevisani, Francesca Valli
Questo è il XXIII catalogo della mia carriera ormai trentennale. Ogni volta che presento la mia selezione si rinnova in me l’emozione per ogni opera che ho scelto, studiato e acquisito. Fortunatamente è ancora l’entusiasmo, nonostante le difficoltà che attraversa il Mercato dell’Arte da qualche anno, che mi guida nella ricerca quotidiana dei pezzi portandomi a viaggiare in Italia e all’estero e a visitare collezioni private e colleghi. Così nasce questo catalogo come una raccolta di disegni, dipinti e sculture dal XVI al XX secolo che mi rappresenta. Queste opere rispecchiano il mio gusto e, in un certo senso, sono anche le tessere di un «mosaico» ideale che compone la mia stessa storia, perché ciascuna è un amore, una speranza, una riconferma, un insegnamento, il ricordo di un viaggio e di un incontro e, a volte, perché no, anche un’arrabbiatura. La scelta di comprendere grafica, pittura e scultura vuole sottolineare l’ampiezza dei miei interessi e, con l’occasione del TEFAF, presentare anche al pubblico di Works on Paper la poliedricità della mia ricerca e delle mie scelte, anche al di là del Disegno, che resta comunque per me una delle mie grandi passioni. Maurizio Nobile
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GIORGIO GANDINI DEL GRANO parma, fine del xv secolo — 1538
Studio per sette figure, c. 1535 Matita rossa, mm 142 × 184. In basso a destra a penna e inchiostro bruno: 117. Sul verso in alto al centro a matita nera Correggio e in basso a sinistra 32. provenienza: J. H. Wiegersma (Lugt 1552b). bibliografia: Vaccaro 2015, p. 70, fig. 14. La recente scoperta di questo disegno – che può essere aggiunto a un gruppo di altri quattro fogli di soggetto analogo con stesse dimensione e tecnica conservati al Museo del Louvre (fig. 1),1 già catalogati sotto il nome di Correggio (1489–1534), è una significativa aggiunta al piccolo corpus grafico di Giorgio Gandini del Grano. Questi fogli sono stati per la prima volta attribuiti a Gandini da Mary Vaccaro2 e successivamente da Francesca Frucco.3 Nella conferenza Correggio e il suo tempo: Giorgio Gandini del Grano tra Allegri e Bedoli nel Duomo di Parma 4 Mary Vaccaro ha sottolineato il rapporto tra questi disegni e gli affreschi commissionati a Gandini nel 1535, dopo la morte di Correggio, nell’abside e nella volta del coro della Cattedrale di Parma. Tuttavia anche questa commissione al Gandini non fu portata a termine e rimase al suo stato progettuale a causa della prematura morte del pittore (1538), al quale subentrò nel cantiere Girolamo Mazzola Bedoli (1500– 1569) l’anno successivo.5 Non abbiamo molte informazioni su Gandini, ma data l’importanza e il prestigio della commissione, possiamo supporre che la scelta dei canonici e dei fabbriceri della Cattedrale sia ricaduta sul nostro, nonostante la sua giovanissima età, per due motivi: il primo l’indubbia fama e la notorietà di cui certamente godeva, il se-
condo gli stretti legami con il Correggio, di cui era uno dei più stretti seguaci e continuatori del suo stile. Queste premesse avrebbero certamente garantito una maggior uniformità stilistica agli affreschi dei tre intradossi, dei pendenti e della cupola con l’Assunzione della Vergine, che Allegri non aveva potuto completare. Oltre al foglio in esame e ai quattro al Louvre, eseguiti alla maniera di Correggio (studi di un modello per figure viste da sotto in sù disegnate in due registri in delicato e morbido gesso rosso), conosciamo altri tre disegni per questa commissione conservati rispettivamente all’Albertina, agli Uffizi e al Castello di Windsor. In particolare, il disegno preso in esame e i quattro del Louvre sarebbero serviti da modello per quello di Vienna, che raffigura un gruppo di santi e angeli per una delle sezioni della volta a crociera. In questo gruppo di figure Konrad Oberhuber ha riconosciuto uno dei soggetti menzionati nel programma iconografico istituito dai fabbriceri della Cattedrale nel contratto del 1535.6 Il foglio presenta uno studio completo e dettagliato in matita rossa a tratti sottili e senza pentimenti e, come notato dalla Frucco,7 è probabilmente un disegno d’insieme sviluppato da un altro foglio preparatorio, mentre i due conservati agli Uffizi 8 e al Castello di Windsor 9 sono frammenti da riferirsi allo stesso progetto.
1 Inv. nn. 5931-5932-5933-5934, già in collezione Dezallier d’Argenville, 1680–1765. Si veda Frucco 2010, pp. 182–183, nn. 21, 22, 23, 24: figg. 25, 26, 27, 28. 2 Vaccaro 2008. 3 Frucco 2010, pp. 182–183.
8 Inv. 1955F. Si veda ivi, pp. 146– 147; pp, 180–181, n. 19; fig. 22. 9 Inv. n. RL5499. Si veda ivi, pp. 146–147; pp. 181–182, n. 20; fig. 23.
4 Vaccaro 2008, p. 445. 5 Testi 1934, p. 104. 6 Oberhuber 1970, p. 282, in particolare nota 26. 7 Inv. 17629. Si veda Frucco 2010, pp. 146–147; pp. 179–180, n. 18; fig. 24.
fig. 1: Giorgio Gandini Del Grano, Studio per otto figure, in differenti attitudini su due registri, Paris, Musée du Louvre, inv. 5932.
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GIULIO CAMPI cremona 1507/1508 — 1573
Studio di un putto seduto, di una figura maschile in piedi rivolta verso destra, schizzo di una mano, c. 1530 / Sul verso: Studio di un toro Matita rossa, mm 190 × 250. Sul recto in basso a destra di mano di Sir Joshua Reynolds in inchiostro ferrogallico: Parmigiano. provenienza: Sir Joshua Reynolds, 1723–1792 (Lugt 2364); Arthur Melville Champernowne, nato nel 1871 (Lugt 153). Questo inedito foglio recto verso è riconducibile alla e Venezia fossero opere tardive di Boccaccio Boccaccigiovinezza di Giulio Campi, e più precisamente al 1530 no,6 mentre l’influenza di Dürer sulla grafica di Campi quando al pittore furono commissionate da Massimi- fu alla base di errate attribuzioni ad Altobello Melone, i liano Stampa, segretario privato di Francesco II Sforza, cui disegni sono estremamente rari, a Pordenone e perle decorazioni per Santa Maria delle Grazie a Soncino sino a Moretto da Brescia.7 Sebbene queste attribuzioni (Cremona). Per la chiesa Campi realizzò la pala d’alta- fossero scorrette, è significativo che i primi conoscitore con la Madonna e il Bambino, i santi Caterina d’Alessan- ri associassero involontariamente Campi ad artisti del dria, Francesco e Pietro Martire Stampa,1 gli affreschi con Nord Italia di altissimo calibro. l’Assunzione della Vergine sull’arco trionfale, gli EvangeNel foglio in esame, il trattamento della matita roslisti nella volta del presbiterio e i Santi Carmelitani nei sa e la resa delle figure sono tipici degli studi di Campi pendenti dell’abside.2 Quest’insieme omogeneo segna un per Santa Maria delle Grazie, la mancanza di corrisponimportante momento nello sviluppo stilistico nella car- denza palmare con gli affreschi dimostra che il disegno riera dell’artista, in precedenza sostanzialmente influen- rappresenta una prima fase elaborativa del ciclo, fissanzato dalla pittura veneziana e nordeuropea. A Soncino, do i primi pensieri che il pittore avrebbe sviluppato solo infatti, Campi assimila la tavolozza di Pordenone e l’e- successivamente. leganza e la simmetria classiche di Raffaello, attingendo La figura barbuta è evidentemente una prima idea spunti anche dalle stampe di Marcantonio Raimondi.3 per l’apostolo sorpreso drappeggiato in giallo, all’estreI primi dipinti di Campi sono corredati da un note- ma sinistra dell’arcata (fig. 1). La sua posa finale è stavole corpus di disegni, che ha attirato l’attenzione degli ta definita in un disegno pubblicato da Bora,8 ma i tratti studiosi solo negli anni ‘70 del XX secolo, quando Ales- somatici della figura – che ricordano quelli di un rapace sandro Ballarin per primo notò che due disegni a mati- – sono replicati nell’affresco. ta rossa dello Staatliche Museen di Berlino erano studi Inoltre san Giacomo, che si inginocchia al centro della composizione mostrando in maniera irriverente per gli Evangelisti raffigurati nella volta di Santa Maria delle Grazie.4 Altri disegni furono pubblicati da Giulio le terga allo spettatore, ha un profilo aquilino simile a Bora: uno a matita nera per l’Apostolo all’estrema sini- quello del suo omologo abbigliato in giallo, a cui è acstra dell’arco trionfale e un altro a matita rossa per il costato un cranio marcatamente arrotondato e ad una profeta Eliseo nell’abside.5 barba estremamente appuntita. Molti dei primi disegni di Campi, che evidenziano Il suo gesto è riconoscibile nell’immagine speculare la predilezione dell’artista per la matita rossa, sono sta- di una mano che viene rapidamente tracciata in basso a ti in passato erroneamente attribuiti ad altri artisti del sinistra del foglio. Nord Italia noti per impiegare lo stesso medium, come Il putto, apparentemente seduto sulle nuvole, è siGirolamo Romanino e Pordenone. Un tempo si pensava curamente correlato alla tipologia degli angeli, piuttoche i fogli oggi ritenuti di Campi e conservati a Teplice sto muscolosi, che incorniciano l’Assunzione della Vergine
fig. 1: Giulio Campi, Apostoli, Soncino (Cremona), Santa Maria delle Grazie.
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in cima all’arco trionfale. In effetti, vista al contrario, la sua posa è sorprendentemente vicina a quella del putto che gonfia il mantice dell’organo a sinistra dell’affresco. Il verso del foglio evidenzia un aspetto affascinante e completamente diverso della personalità artistica di Campi, ovvero la sua passione per il disegno di animali dal vero. Questo studio straordinariamente acuto e realistico di un toro, la cui testa è disegnata da diverse angolazioni, si accorda perfettamente per tema e tecnica con alcuni studi similari conservati a Teplice – uno dei quali mostra un cucciolo di leone – e con il verso del disegno già citato di Venezia, Due tori e una coppia di Anatre.9 Come dimostra l’iscrizione nell’angolo in basso a destra di questo foglio, la qualità del disegno è tale che Sir Joshua Reynolds, il grande pittore, collezionista e conoscitore del diciottesimo secolo, credeva si trattasse di Parmigianino. La sua ipotesi non era affatto ingiustificata, ed era senza dubbio motivata dalla sicurezza nell’uso della matita rossa e dalle invenzioni figurative estremamente originali. Entrambi questi aspetti fanno dunque ritenere il presente disegno un esempio particolarmente significativo della grafica di Giulio Campi.
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L’attribuzione è stata confermata da Giulio Bora e Marco Tanzi. Oggi conservato alla Pinacoteca di Brera, Milano (Reg. Cron. 1128). I santi Caterina d’Alessandria, Francesco e Pietro Martire Stampa, padre di Massimiliano. Per la chiesa si veda De Santis, Merlo 1992. Gli ultimi affreschi sono stati staccati e trasferiti nel convento adiacente. Per un’analisi della prima parte della sua carriera si veda Tanzi 2004, pp. 7–10; più recentemente Tanzi 2012, pp. 42–43. Kupferstichkabinett, inv. KdZ 5143-5143, con l’attribuzione di Ballarin del 1975 annotata sul montaggio. Il primo di questi disegni era all’epoca in una collezione
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privata Milanese; il secondo presso l’Istituto Nazionale per la Grafica, Roma, inv. 125862. Si veda Bora 1984, pp. 10–11, figg. 15 a–b. Teplice, Regional Museum, inv. CA 501; Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 520. Rispettivamente Bayonne, Musée Bonnat, inv. 1368 (Studio per un uomo seduto); Providence, Rhode Island Museum of Art, inv. 20465 (Madonna col Bambino e san Rocco). Si veda inoltre Bora 1985, p. 281, n. 2.6.1; Bora 1988, p. 15, fig. 39. Bora 1984, pp. 10–11, figg. 15 a–b. Teplice, Regional Museum, inv. CA 503-504, 650. Per ulteriori approfondimenti sulle attribuzioni dei disegni di Campi a Boccaccino e ad altri, si veda Tanzi 1999, pp. 7–8.
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PAOLO GUIDOTTI detto IL CAVALIER BORGHESE lucca 1560 circa — roma 1629
Ritratto di contadino o Allegoria dell’Autunno, c. 1610 Olio su tela, cm 71 × 57,3. Tagliato a mezzo busto contro un fondo scuro, il giovane occupa tutto il primo piano della composizione con il suo fare vigoroso, la barba e i baffi incolti, il naso imponente, gli occhi scuri e la fronte aggrottata, solcata dalle rughe dell’esperienza. La sua veste rossa sfilacciata sembra annodarsi sulla spalla e una camicia bianca gli ricade alla vita, lasciando il petto villoso scoperto in bella vista. In capo porta una pezza da cui fugge qualche ciocca ribelle; alle sue spalle si intravedono, relegati in un angolo, un grappolo d’uva, alcune pere e il riccio aperto di una castagna. Avanza con il braccio destro muscoloso verso l’osservatore, portando in avanti il busto e mostrando quasi con prepotenza una pala da lavoro illuminata sulla punta metallica dalla luce radente. La pennellata è schietta, fortemente chiaroscurata. I dati di stile ci consentono di restituire la tela al catalogo del lucchese Paolo Guidotti, pittore che, dopo aver mosso i primi passi nella sua città natale, decise di cercare migliore fortuna nell’Urbe dove si trasferì intorno al 1589, quando il suo nome compare già tra i membri dell’Accademia di San Luca. Personalità poliedrica e anticonformista, dedito alla matematica, alle lettere, all’astrologia e alla musica, capace di assimilare agevolmente le più disparate influenze, Guidotti seppe distinguersi subito nella Roma pontificia come uno dei massimi protagonisti a cavallo tra la raffinata stagione manieristica, ormai al tramonto, e le nuove tendenze dei caravaggeschi. Nel 1608 Scipione Borghese concesse a Guidotti di fregiarsi del suo stesso cognome (da cui l’epiteto di cavalier Borghese con il quale è ricordato dalle fonti), svelando un rapporto privilegiato che dovete contribuire non poco al suo inserimento in città. Il nostro probabile contadino, forse un’Allegoria dell’Autunno, mostra di essere già informato della parlata del Merisi e compagni, facendoci propendere per
una datazione intorno al 1610. I riscontri più significativi, nella comune materia densa e compatta, nell’uso dei bianchi e dei rossi e nell’intensità dell’espressione, si colgono con il Davide con la testa di Golia, conservato nella basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma, firmato e datato 1608, analogamente aggiornato in chiave naturalistica. Rispetto a quest’ultimo la nostra tela manifesta forse solo un’avvenuta maturazione nella conduzione del pennello e nel trattamento delle ombre, ciò che porterebbe a immaginare una cronologia leggermente più avanzata. Ancora più stringente risulta il confronto con l’Autoritratto del pittore, oggi in collezione privata, di cui si conosce una replica. Qui Guidotti si ritrae con lo sguardo eloquente verso l’osservatore, il colletto rigido della veste castigata, la penna, il libro, e la croce del cavalierato della Milizia di Cristo. Medesima è la pennellata che traccia il pizzetto; nelle nocche delle mani sono assestati gli stessi decisi colpi di luce che riscontriamo nel contadino in esame. Ad avallare l’attribuzione proposta interviene anche la quasi sovrapponibilità della mano sinistra del protagonista del nostro esemplare con quella del poeta raffigurato nella tela del museo di Ajaccio, databile analogamente intorno al 1610. Siamo di fronte ad un’opera che dovette far scuola a Pietro Paolini, suo conterraneo ed erede spirituale, eseguita da Guidotti poco prima che questi decidesse di rientrare a Lucca nel 1611, dopo “27 anni di volontario esilio”, per usare le sue stesse parole. Rientrò a Roma sei anni più tardi, dopo aver girovagato tra Lucca, Pisa e Reggio Emilia, per dedicarsi sostanzialmente alla sua grande impresa poetica: la Gerusalemme distrutta, poema di imitazione tassiana che narrava le imprese dell’imperatore Tito contro gli ebrei ribelli. Francesca Baldassari
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GIAN DOMENICO CERRINI IL CAVALIER PERUGINO
detto
perugia 1606 — roma 1681
San Girolamo Olio su tela in ottagono, cm 97 × 83. provenienza: Firenze, collezione privata. Lione Pascoli assicura che Gian Domenico Cerrini «era di bella statura, e presenza; e conservò fin all’ultimo la solita sua giovialità, e gratitudine verso gli amici, da’ quali per l’ottimo suo costume e per lo nobile, e manieroso suo tratto fu sempre distinto, e venerato, e forse per niun altro professore ebbero in que’ tempi maggior venerazione i letterati».1 Tuttavia, non gli giovò la mancanza di un biografo. Ne tace, infatti, il Passeri,2 e pure il suo conterraneo e conoscente Luigi Pellegrini Scaramuccia,3 mentre Pellegrino Orlandi ricorda solo che «fu molto gradito per il bel modo di colorire, e girare di teste»,4 così che molti dei suo dipinti sono finiti nel tempo nel catalogo di altri pittori più noti tra i quali, in particolar modo, Simone Cantarini e Francesco Romanelli. La riscoperta critica è, dunque, cosa recente e al pittore perugino si è cominciato a guardare con crescente interesse solo dopo l’articolo pioneristico di Evelina Borea del 1978.5 Al pittore è stata, quindi, dedicata una mostra,6 e numerose sue opere sono apparse nell’esposizione allestita presso il Complesso Monumentale di San Pietro a Perugia (dove un particolare della sua Sacra Famiglia con sant’Anna e san Giovannino della Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia ha guadagnato la copertina del catalogo). 7 Formatosi a Perugia, alla scuola di Gianantonio Scaramuccia,8 dove si esercitava nel «colorire, e copiare» e in «qualche operetta d’invenzione», a Cerrini è stato associato storicamente un alunnato bolognese presso Guido Reni, non confermato dalle fonti. È però indubbio che il pittore perugino, giunto a Roma (la sua prima opera certa è l’Apparizione della Trinità a Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, nel transetto destro in Santa Maria Traspontina a Roma, datata 1639), studiasse le opere di Guido e degli altri emiliani e bolognesi, in particolare
del Lanfranco. Il lungo soggiorno romano si interruppe, sebbene solo per qualche anno, in seguito al suo viaggio a Firenze, da porsi tra il 1656–1657 e il 1661. Parrebbe, infatti, che il pittore di Perugia fosse chiamato a Firenze da alcuni membri della Famiglia dei Medici (Mattia, Leopoldo e Ferdinando), per i quali – come risulta dai documenti e inventari medicei – l’artista eseguì numerose opere, parte delle quali identificate a cominciare dalle indagini di Evelina Borea (1978) e dalla ricognizione meticolosa e a più puntate di Marco Chiarini sulla rivista ‘Paragone’.9 Queste ricerche hanno permesso di restituire al Cerrini, tra le altre, anche la grande tela col San Girolamo, oggi nella Certosa di Firenze (fig. 1),10 dove il santo eremita è ricalcato sul modello della tela in esame come, anche, quello nel dipinto nella chiesa di San Paolo del Collegio del Preziosissimo Sangue ad Albano (fig. 2).11 La tela ottagonale e quella oggi presso la Certosa di Firenze mostrano, infatti, il santo in posa quasi speculare, come se il pittore perugino le avesse concepite a breve distanza l’una dall’altra. Se non fosse per qualche particolare assente dalla tela, si sarebbe tentati di identificare questo San Girolamo (la cui forma poligonale denuncia una antica provenienza collezionistica fiorentina) con la tela perduta di stesso soggetto citata negli inventari medicei (Guardaroba 1222, Inventario della collezione del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, 1713): «Un simile alto b. 2 e 1/3 largo b. 1 e s. 18, dipintovi di mano del suddetto San Girolamo a sedere con manto rosso sulle spalle e petto nudo che con la mano sinistra tiene la testa di morte e la destra poggiata al petto, sta in atto di leggere un libro aperto con adornamento simile al suddetto».12 Marco Riccòmini
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12 Borea 1978, p. 21; si veda anche: Chiarini 2005, p. 84; Sframeli 2005, p. 212; Mancini 2005, p. 254, n. 1.
Pascoli 1730, vol. I, pp. 55–56. Passeri 1672. Pellegrini Scaramuccia 1674. Orlandi 1704, p. 216. Borea 1978. Gian Domenico Cerrini 2005. Galassi 2018.
8 Pascoli 1730, vol. I, p. 52. 9 Chiarini 1975; Chiarini 1975 a; Chiarini 1975 b. Inoltre: Chiarini 1992. 10 Borea 1978, p. 21, fig. 20. 11 Mancini 2005, p. 254, n. 1; Sframeli 2005, p. 212.
fig. 1: Gian Domenico Cerrini detto Il Cavalier Perugino, San Girolamo, Firenze, Certosa. fig. 2: Gian Domenico Cerrini detto Il Cavalier Perugino, San Girolamo, Albano, chiesa di San Paolo del Collegio del Preziosissimo Sangue.
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SIMONE CANTARINI pesaro 1612 — verona 1648
Studio per ritrovamento di Mosè (?), 1633–1635 Penna e inchiostro bruno su carta avorio, mm 130 × 180. Sul verso in basso a sinistra a matita: Poussin. Malgrado alcune forme siano solo accennate da un filo di inchiostro bruno, che ne circoscrive il capo e le spalle, si possono stimare in numero di otto le figure in piedi collocate nella parte sinistra di questo foglio. I loro esili corpi, che appaiono succintamente drappeggiati con lunghe vesti, ci permettono di intenderle come giovani donne che stanno rivolgendo la loro attenzione ad altre figure sdraiate a terra, al centro di un paesaggio aperto. La valle nella quale si iscrive la scena è completata da un orizzonte di colline e dalla presenza di alberi che fungono quasi da quinta teatrale. Il racconto in via di ideazione che questo disegno trattiene, in una vibrante serie di pensieri visivi e di loro repentine varianti, dovrebbe essere quello in cui la figlia del faraone egiziano, accompagnata dalle sue ancelle, ritrova il piccolo Mosè sulle sponde del Nilo. All’indomani dell’editto, istituito dal padre, che imponeva l’abbandono dei figli maschi generati dalle famiglie ebree, la giovane figlia deciderà di adottarlo come proprio, facendolo allevare da una serva che il libro dell’Esodo dell’Antico Testamento vuole sia la stessa madre naturale di Mosè. Il momento unisce la sorpresa dimostrata dalle donne in piedi con l’operosità delle figure inginocchiate che si sono prese cura del neonato, celato in un groviglio di segni. Lo stile espresso in questa carta fa comprendere quanto fosse preminente, per l’autore, il fissaggio di una prima idea compositiva, cercata attraverso marcature decise e sottigliezze che vanno a definire volti e gesti. Nei due gruppi di figure si alternano lunghe falciate di penna a intermittenze che spezzano il segno, cercando mezzi toni che fanno poi degradare il paesaggio in secondo piano. 1 Inv. 14647. 2 Fondo Acqua inv. 497. 3 Inv. 1986.7.1.
Come ha per primo rilevato Marco Riccòmini (comunicazione orale), questi modi corrispondono perfettamente alla maniera grafica più spedita di Simone Cantarini, pittore di grande levatura e disegnatore di raro talento. Il ventaglio di segni, ora aggrovigliati a matassa, ora sufficienti a restituire un’espressione in nuce, torna nei tanti fogli conosciuti che servirono al Pesarese per impostare complessi movimenti, tra i protagonisti e le comparse di una composizione. Il bisogno di immaginare una scena nel suo insieme, da un campo lungo che non smarrisca né il sentimento individuale né il carattere della narrazione è un atteggiamento ricorrente nel processo creativo di questo artista. Lo ritroviamo sia agli esordi marchigiani che durante l’alunnato presso Guido Reni, ma anche nell’ultima parte libera della sua breve vita. Disegni giovanili come il foglio del Louvre che studia una Vocazione di San Matteo 1 o la cosiddetta Toletta di Venere di Brera2 (fig. 1) sono costruiti col medesimo approccio, così come si ritrovano assonanze evidenti nel più maturo Riposo durante la fuga in Egitto, conservato alla National Gallery di Washinghton 3 (fig. 2), nel quale si apprezza lo stesso rapporto, dinamico e teatrale, tra figura e paesaggio. Sono propenso a leggere il disegno in esame come un’opera di cerniera tra la fase giovanile, ancora di impronta palmesca (durante un precoce soggiorno veneziano conobbe Palma il Giovane), e la fioritura bolognese del suo stile più elegante e nobile. Tra il 1633 e il 1635 potrebbe collocarsi dunque questo raffinato studio preparatorio per una composizione della quale non si conosce, al momento, una destinazione pittorica o incisoria. Sul retro si scorge una scritta di collezione che riferiva il foglio a Nicolas Poussin. Massimo Pulini
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fig. 1: Simone Cantarini, Toletta di Venere, Milano, Pinacoteca Brera, Fondo Acqua inv. 497 Pinacoteca di Brera, Milano. fig. 2: Simone Cantarini, Riposo durante la fuga in Egitto, Washinghton, National Gallery, inv. 1986.7.1. National Gallery of Art.
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GUILLAUME COURTOIS saint-hyppolite 1628 — roma 1679
Studio di un angelo e volto maschile barbuto di profilo, c. 1660 Matita rossa, mm 240 × 334. bibliografia: Recent Acquisitions 2005, pp. 18–19. Guillaume Courtois fu uno dei migliori studenti di Pietro da Cortona a Roma; si distinse per l’alta qualità del suo lavoro, per il suo stile personale e per le innovazioni stilistiche che attinse da Carlo Maratti e Giovanni Battista Gaulli, detto Baciccio. Alla fine del sesto decennio del secolo, Courtois era il favorito di Giovanni Lorenzo Bernini il quale, a sua volta, era affascinato dalla vivida scala cromatica adottata dal più giovane artista, dalla forza plastica e dal dinamismo delle sue figure. Il nostro disegno è preparatorio per l’Adorazione dei Magi, oggi conservata in Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma (fig. 1),1 ma originariamente proveniente dalle collezioni principesche delle famiglie Colonna e Barberini. Erich Schleier ha datato quest’opera alla fine del 1660 e non a caso spartisce la composizione, anche L’attribuzione è confermata da Dieter Graf e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò. 1 Faldi 1970, nn. IX–X. 2 Schleier 1970, pp. 3–4, fig. 4. 3 Inv. n. FP4553. Si veda Graf 1976, vol. I, p. 54, n. 113; vol. II, p. 86, fig. 157.
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se ribaltata, con la pala dello stesso soggetto (1661–63) nella Cappella Cesi a Santa Prassede a Roma.2 Il nostro foglio è un tipico esempio dello stile di Courtois sul 1660 quando il suo lavoro è caratterizzato da una plasticità derivata dal Bernini, come mostrano il volto e le tornite forme del puttino. Quest’ultima figura la si ritrova, speculare, in un rapido schizzo al Kunstmuseum di Düsseldorf,3 mentre la testa del vecchio è lo studio finale per il Re Magio al centro della scena. Sono noti altri due disegni per questa figura, uno nel Gabinetto Nazionale dei Disegni e Stampe di Roma 4 e il secondo, conservato al Kunstmuseum di Düsseldorf, 5 è uno studio a figura intera del Re Magio svolta sia sul recto sia sul verso.
4 Inv. n. 126876. Si veda Prosperi Valenti Rodinò 1979, p. 63, n. 118; p. 182, fig. 118r. 5 Inv. n. FP7987. Si veda Graf 1976, vol. I, p. 55, nn. 116–117; vol. II, p. 85, figg. 155–156.
fig. 1: Guillaume Courtois, Adorazione dei Magi, Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica d’Arte Antica Palazzo Barberini e Galleria Corsini.
© Gallerie Nazionali
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LORENZO PASINELLI bologna 1629 — 1700
Studio per la Sibilla di casa Budrioli, c. 1677–1678 Sul verso: Studi di visi e di una figura di soldato Sanguigna (recto); penna, inchiostro bruno e nero (verso) mm 212 × 172. Sul verso, a penna e inchiostro bruno: [...] e cigola ad aloro / per scrite / coto[...]. fini marm / [...] mate / [...] sibi / [...] me moderno/ [illeggibile]. provenienza: Liegi (Belgio), collezione Charles Henri Marcellis (?) (1798–1864) (Lugt 609); Firenze, collezione del conte E. R. LamponiLeopardi (seconda metà del XIX secolo) (Lugt 1760); Firenze, collezioni Luigi Grassi (1858–1937) (Lugt 1171b); Francia, collezione privata. È uno degli allievi prediletti di Pasinelli, Giampietro Zanotti, che nella bibliografia dedicata al tanto amato maestro ci informa in rapporto a quale opera fu concepito il disegno qui presentato. Egli precisa infatti nel suo scritto che il maestro fece «una Sibilla molto più grande del vero per li Signori Budrioli, che serve di compagna ad un’altra di mano di Domenico Canuti».1 Se la Sibilla di quest’ultimo è rimasta a Bologna, confluita nel frattempo in una collezione privata,2 il pendant del Pasinelli, da sempre ritenuto perduto o disperso, è invece ricomparso di recente sul mercato inglese (fig. 1),3 territorio nel quale il dipinto sembra si trovasse già a date assai precoci, almeno non più tardi del 1726, anno del suo passaggio alla vendita londinese della collezione Hay. 4 Le fattezze della Sibilla Budrioli tanto declamata da Zanotti erano comunque a tutti note attraverso l’incisione che, come lo stesso autore annota,5 ne trasse un fedele allievo di Domenico Maria Canuti, Giuseppe Rolli (fig. 2). Il nostro disegno è con tutta evidenza un’idea preliminare per la Sibilla Budrioli e daterebbe fra il 1677 e il 1678, gli anni che segnano il rientro del Canuti da Roma e che mettono nuovamente a confronto i due capiscuola; è del resto in uno spirito di competizione accademica che si deve interpretare la commissione ai due pittori delle due sibille, non a caso volutamente identiche nella
composizione, e per la quale il Canuti fu probabilmente coinvolto in seconda battuta rispetto il Pasinelli.6 Il rinvenimento di questo foglio aggiunge dunque un tassello importante per la ricomposizione del corpus grafico dell’artista che ad oggi si raccoglie attorno un numero certamente troppo esiguo di fogli sicuramente autografi; troppo pochi rispetto a quanto ci si attenderebbe dall’allievo più dotato di un maniacale disegnatore, Simone Cantarini, e a quello che di lui narra lo stesso Zanotti 7 e che porta ad escludere che il maestro fu, come nel caso invece dell’allievo Giovan Gioseffo Dal Sole, fra quei pittori che fecero scarso ricorso al disegno. Il caso del suo più dotato erede, Donato Creti, è là a smentire a pieno titolo questa possibilità; del resto, fra i disegni del maestro Cantarini e quelli del talentuoso discepolo Creti corre talvolta un confine assai labile al punto di poterli confondere – come ben dimostra il caso del foglio pubblicato al numero 9 del presente catalogo, tradizionalmente assegnato al Pasinelli, ma spettante invece ad un giovanissimo Donato. Stando ai disegni certi che gli si possono riferire, appare piuttosto chiaro al contrario l’interesse per la prassi disegnativa che egli dispiega impiegando tutte le tecniche, dalla sanguigna, come nel caso del nostro foglio, alla matita nera, fino al monocromo a olio su carta, pas-
fig. 1: Lorenzo Pasinelli, Sibilla Budrioli, già Londra, Sotheby’s, 8/12/2010, lotto n. 31, su gentile concessione della Fototeca della Fondazione Federico Zeri, inv. n. 114009. fig. 2: Giuseppe M. Rolli (da Lorenzo Pasinelli), Sibilla Budrioli, acquaforte, Londra, The British Museum, Inv. n. 1874, 0808.737.
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sando all’inchiostro a penna e/o acqerellato. Sul piano tecnico è comunque chiaro come l’uso della matita rossa a tratto sottile e rapidamente svolto in una matassa di tracciati continui e sovrapposti, quasi senza mai distanziare la punta dal foglio, discendano inequivocabilmente dall’esempio di Simone Cantarini. Stesso può dirsi delle tipiche abbreviazioni con cui sono ripresi i dati anatomici delle figure, per concentrare l’attenzione e lo studio sull’ossatura formale della figura e sul ricco panneggio, dal prezioso effetto bagnato, che l’avvolge dando risalto alla sua postura elegante e altera. Confrontata alla versione pensosa e austera di Canuti, l’indole altezzosa della figura del Pasinelli l’assimila piuttosto ad una rappresentazione di tipo profano, facendola sembrare più una Venere affiancata non tanto da un putto, ma bensì da un vispo Cupido. Simile caratterizzazione ben si comprende in un maestro come Pasinelli spasmodicamente volto all’ideale ricerca di un’eleganza formale classicheggiante ispirata alla statuaria antica, ma non meno all’eletto esempio di Guido Reni passando attraverso il segno distintivo di Cantarini e il nostro foglio ne dà inequivocabilmente una prova evidente. Davide Trevisani 1 Zanotti 1703, p. 36. 2 Stagni 1988, tav. XXX; n. 48, p. 200. 3 Londra, Sotheby’s, 8 Dicembre 2010, lotto n. 31, olio tu tela, cm 151,8× 114,3. Stando alle indicazioni fornite da Sotheby’s circa le vicende collezionistiche dell’opera, da casa Budrioli, per via ereditaria, la tela sarebbe confluita nella collezione del Senatore Grassi (Bologna, 1760 c.), sarebbe poi ricomparsa a New York, sempre ad un’asta Sotheby’s, il 22 Gennaio 2004, lotto n. 82. 4 La vendita Hay ebbe luogo il 19 Febbraio 1726. L’informazione si ricava dalla scheda di catalogo della Fototeca Zeri (n. 56654) in cui sono inventariate tre riproduzioni fotografiche del dipinto (Inv. nn. 114009, 114010, 114011). Oltre a essere indicate misure della tela identiche a quelle
fornite nel catalogo di vendita Sotheby’s sopra citato, è segnalata la presenza del dipinto sul mercato antiquario a Parigi nel 1973 (L’Œil galerie d’art) e a New York nel 1979. Che l’opera possa essere stata venduta per tempo dagli stessi committenti è fatto plausibile confermato indirettamente dallo stesso 5 Zanotti. Di un’Erodiade con la testa di San Giovanni Battista sempre dipinta dal Pasinelli per i Budrioli, egli precisa infatti che fu da questi venduta a caro prezzo a un non meglio precisato Signor francese (Zanotti 1703, p. 37). Che una stessa sorte sia toccata alla Sibilla alcuni anni più tardi? 6 Zanotti 1739, I, p. 407. Si veda Stagni idem e Baroncini 2010, n. 120, p. 390 7 Zanotti 1703, pp. 16–18; pp. 103–104.
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FRANCESCO SOLIMENA canale di serino (av) 1657 — barra (na) 1747
Martirio di Santa Lucia, c. 1680 Olio su carta applicata su tela, cm 24 × 38. bibliografia: Spinosa 2018, n. 57, fig. a p. 125. Francesco Solimena nacque in una borgata del Serino nel 1657 e ricevette la sua prima formazione dal padre Angelo. Trasferitosi a Napoli si perfezionò presso il pittore Francesco De Maria, studiando oltre alla pittura la filosofia, la storia e la poesia. Alla prima fase dell’esuberanza giovanile appartiene il bozzetto raffigurante Il martirio di santa Lucia. L’opera realizzata ad olio su carta – e solo successivamente trasportata su tela – costituisce la prima rapida idea per una composizione della quale non si conosce al momento l’esistenza. Spinosa, che per primo pubblica l’opera nella recente monografia del pittore (2018), ritiene che vada datata attorno al 1680 o poco dopo questa data, ma prima dell’intervento nel Coro di Donnaregina Nuova. «Questo studio su carta che presenta, con stesure dense e rapide di luminose materie cromatiche, soluzioni di forte inclinazione barocca [simili] a quelle che si riscontrano in composizioni anche ‘alla maniera cortonosca’, ma più studiate, elaborate e ‘finite’, quali, ad esempio, la Lapidazione di santo Stefano».1 La velocità delle pennellate generose di colore, il dosato accostamento dei chiaroscuri, la teatralità della scena favorita da una studiata regia delle figure in movimento, catalizza l’attenzione sulla figura di Lucia al centro, rendendo partecipi del pathos vissuto dai protagonisti del dramma. Secondo la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, santa Lucia fu processata per essersi convertita al Cristianesimo dall’arconte di Siracusa Pascasio che nel dipinto è figura abbozzata resa con pennellate sinuose e avvolta dall’oscurità in alto a sinistra. Ad esso si contrappone la santa illuminata nei delicati colori delle vesti, il cui corpo inarcato innaturalmente all’indietro – mentre riceve il fendente del martirio alla gola – sottolinea la diagonale della scena attorno alla quale ogni personaggio agisce un’emozione diversa.
Ai felici esordi di Solimena seguirono le prime importanti commissioni (affreschi della sacrestia di San Paolo Maggiore) caratterizzate da forti contrasti luministici e impaginazioni articolate e scenografiche ispirate dalle opere di Mattia Preti e Pietro da Cortona.2 Alcune esperienze con l’ambiente romano classicista e le opere di Carlo Maratti spinsero Solimena verso una ricerca di maggiore equilibrio formale, chiarezza compositiva e contenuta resa espressiva come Cristo che consegna le chiavi a Pietro (raccolta privata, 1695), San Cristoforo (Monteoliveto, c. 1698) e la Morte di san Giuseppe (Museo Salt Lake City, Utah, 1695–1700).3 Dall’inizio degli anni Trenta del XVIII secolo, contrariamente alla tendenza generale, Solimena recuperò le esperienze giovanili del Barocco, l’eredità di Preti e dell’ultimo Giordano prediligendo una pittura caratterizzata da contrasti cromatici e da una grande invenzione compositiva (lavori eseguiti in collaborazione dei suoi allievi, per il Palazzo Reale in occasione delle nozze di C. di Borbone, Napoli, 1737–38).4 La sua attività ebbe notevoli riflessi sull’ambiente artistico contemporaneo, anche attraverso l’opera dei suoi seguaci, tra i quali Nicola Maria Rossi, Francesco De Mura, Giuseppe Bonito.5 Si narra infatti che fosse un maestro molto severo, attento anche alla moralità dei suoi allievi. Lui stesso infatti viene ricordato come un uomo completamente votato alla pittura e particolarmente virtuoso e modesto, al punto che fin da giovane vestì abiti clericali – gli stessi che scelse per il suo autoritratto di Capidomonte (1720) 6 – che gli valsero il soprannome di Abate Ciccio. Il suo unico divertimento era frequentare la sera la casa del suo grande amico Alessandro Scarlatti, il più celebre compositore tra la fine del Seicento e il Settecento, dilettandosi della di lui musica.7
1 Spinosa 2018, n. 57, p. 215. 2 ivi, pp. 40–54 (da ultimo, cui si rinvia anche per la bibliografia precedente). 3 ivi, p. 73. 4 ivi, pp. 115, 524. 5 ivi, p. 7. 6 ivi, n. 274, pp. 546–547. 7 Fabris 2018, p. 324.
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DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Studio di figure Sul verso: Studio per una Predica del Battista (?) Matita rossa, mm 204× 194. Iscritto lungo il margine destro, a penna e inchiostro bruno: Pasinelli Lorenzo. Timbro del Musée d’Art et Industrie di Lione (come ‘échange’), non in Lugt.1 provenienza: Lione, Musée d’Art et Industrie; Lione, Galerie Mazarini (2000), come «Pasinelli». bibliografia: Riccòmini 2012, p. 39, n. 23.40 (come di ubicazione ignota e misure sconosciute).
Da una parte, il foglio sembra come diviso da una diagonale, che dall’angolo inferiore sinistro punta approssimativamente verso quello superiore destro, o viceversa. Non è marcata, ma è solo suggerita dal profilo del corpo drappeggiato e proteso in avanti d’una donna affannata – le braccia aperte come al cospetto d’una dolorosa scoperta, come una Maria al sepolcro – e da quello del volto d’un giovane corrucciato, di proporzione superiore, ricavato, assieme ad altre teste, barbute, nello spazio che le sta sopra e alle sue spalle. Nel campo di destra c’è, invece, il vuoto, appena alleggerito dalla traccia capovolta d’una donna che si volge alla sua sinistra, come ad un richiamo, la cui testa è ripetuta per due volte. Dall’altra inedita parte (che non v’è, in un foglio come questo, parte di un quaderno di lavoro, ragione di distinguere il recto dal verso, se non per convenienza nel discorrerne), prende corpo un boschereccio tête-à-tête tra quel che si direbbe il Battista – giovane e barbato, la chioma fluente, seduto con le gambe accavallate, le spalle coperte da una sottile tunica allacciata al collo – e un vecchio canuto che gli si rivolge da un piano inferiore, accompagnando con la mano destra il suo pensiero. La carta è solcata dalla traccia nervosa d’una morbida matita rossa, quella prediletta da Creti (e non da Lorenzo Pasinelli, come vorrebbe la scritta antica a penna sul suo recto) negli anni di formazione, e poi abbandonata a favore del segno incancellabile dell’inchiostro bruno sulla punta d’un pennino affilato.
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Come spesso nei fogli di Creti, non c’è traccia d’un approdo su tela delle scene qui tratteggiate. Tuttavia, se si accoglie il suggerimento che la figura sul verso sia san Giovanni Battista, si può immaginare allora come questo possa essere un primo pensiero per la paletta con la Predica del Battista, già a Firenze presso Contini Bonacossi, poi a Houston, oggi allo Smart Museum of Art di Chicago,2 eseguita in vista del perduto «San Giovanni Battista predicante alle Turbe, quadro grande, figure intiere quanto il naturale» ricordato da Marcello Oretti in Casa del conte Fava «di rimpetto le Suore della Maddalena, via di Galliera».3 Roli la datava ai primi anni del Settecento,4 ma andrà pensata un poco più indietro, per via dell’evidente perdurare della ‘malia’ veronesiana, tra aperte citazioni (come la figura inturbantata d’un ‘Vitellio’, sulla destra) e prestiti di tavolozza, nei colori accesi e squillanti mutuati, appunto, da quelli del Veronese, che il giovane Creti vide prima a Modena (dove studiò, ricopiandole a matita, le tele Cuccina), attorno al 1690, poi a Venezia, dove copiò la sua pala in San Zaccaria (come sappiamo dal foglio datato dal conte Alessandro Fava ‘1693’, conservato presso la Fondazione Giorgio Cini).5 Poco prima di quella data, tra il finire degli anni Ottanta del Seicento e i primissimi anni dell’ultimo decennio di quel secolo, andrà dunque posto questo foglio, inedito sino ad ora nel suo verso. Marco Riccòmini 1
Si vedano, in proposito, i nn. L.1699a e L.1699b del Musée des Tissus et des Arts décoratifs di Lione. 2 Inv. n. 1973.46. Gift of the Samuel H. Kress Foundation. Olio su tela, cm 90,5 × 62,6. Si veda: Riccòmini 2012, p. 112, fig. 24.
3 Marcello Oretti 1984, p. 89, [b] 39/11. 4 Roli 1967, pp. 93–94, n. 67, fig. 9. 5 Riccòmini 2012, p. 79, n. 90.44.
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DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Andata al Calvario, 1687 Olio su rame, cm 20 × 39, in ovale. Sul retro del rame, a inchiostro bruno: «4/3/3/5/[ai quattro punti cardinali del rame] la pass e di Sone / per d10 . &30 / li 9 Ott. 1687 /AL° FAa ». provenienza: Bologna, Casa Fava; Milano, Finarte, 2 dicembre 1975, lotto 33. bibliografia: La pittura Bolognese del ’700 1994 n. 1, ad vocem; Riccòmini 2012, p. 85, fig. 5. Seguito da un foglio di identico soggetto ed egualmente in ovale, anch’esso autografato sul verso con le proprie iniziali dal conte Alessandro Fava (con la data «1688») 1 (fig. 1), l’Andata al Calvario su rame del sedicenne Creti va identificata con quella che nel 1745 si trovava nella «Galleria Grande Dipinta dal Carazzi» menzionata nell’«Inventario Legale dell’Eredità Fava in Bologna»: «Nostro Signore che porta la croce al Calvario, dipinto in rame, con cornice dorata e cassa filettata d’oro, del Creti, L. 100»;2 probabilmente, lo stesso «Cristo appassionato», ricordato da Marcello Oretti nella Casa bolognese dei «Signori Conti Fava, rincontro la chiesa dei Padri Filippini, Strada di Galliera».3 Di certo, lo svolgimento d’una delle scene terminali della Passione ricalca quello già ideato per il tondo col medesimo tema neotestamentario, parte dei Misteri del Rosario della chiesa parrocchiale di San Pietro a Fiesso, nei pressi di Bologna, eseguita da Creti attorno al 1688.4 (fig. 2) Torna, infatti, sul rame la posa del Redentore piegato sulle ginocchia, schiacciato dal peso del legno, così come quella dello sgherro in camicia bianca che, mostrandoci le spalle e l’ovale del capo, regge le braccia della croce. Il tocco si fa qui più smaltato, grazie al supporto in metallo, e alla tavolozza terrosa dispiegata a Fiesso si
aggiungono, a distanza d’una decina d’anni, inedite lacche e sottili rialzi di bianco. Il foglio già a Londra, il tondo di Fiesso e il rame in questione, nell’identica mise en page dell’Andata al Calvario, ambientata sotto un cielo striato e ‘lagunare’, con le figure raggruppate lungo l’asse scritto dal legno della croce, quasi fossero scolpite sui fianchi d’un sarcofago tardo romano, denunciano una dipendenza ideale dal modello inventato da Paolo Veronese per la sua tela di medesimo soggetto un tempo a Venezia in Palazzo Cuccina (oggi Papadopoli), poi nella galleria del duca di Modena, dove, assieme alle sue tre compagne, la vide e studiò il giovane Creti (accompagnato allora da Pietro Ercole Fava), oggi presso la Gemäldegalerie di Dresda. A testimoniare l’affiliazione del giovane Creti ai conti Fava, la stessa firma che compare su quattro fogli autografati uno da Alessandro e tre dal figlio Pietro Ercole Fava. Tra questi, uno alterna una scena comica (quella dei Ladri di salumi) a una sacra (una Adorazione dei Magi), mentre i restanti tre narrano in maniera seria (e anche un po’ faceta) storie della vita del Cristo (due sono scene notturne con frati cappuccini che circondano un giovane in un bosco: la Cattura di Cristo), e uno raffigura una Madonna col Bambino e un angelo. 5 Marco Riccòmini
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3 Marcello Oretti 1984, p. 89, [b] 39/11. 4 Roli 1967, pp. 93–94, n. 67, fig. 9.
Si vedano, in proposito, i nn. L.1699a e L.1699b del Musée des Tissus et des Arts décoratifs di Lione.
2 Inv. n. 1973.46. Gift of the Samuel H. Kress Foundation. Olio su tela, cm 90,5 × 62,6. Si veda: Riccòmini 2012, p. 112, fig. 24.
fig. 1: Donato Creti, Andata al Calvario, già Londra, Thomas Williams Fine Art (2001). fig. 2: Donato Creti, Andata al Calvario, Fiesso (Bologna), chiesa parrocchiale di San Pietro.
5 Riccòmini 2012, p. 79, n. 90.44.
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DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Studio di giovane seduto (recto), c. 1711; Sul verso: Studio di tre figure. Matita rossa (recto); matita nera (verso), mm 230× 175. In basso a sinistra, la scritta (non autografa) a penna e inchiostro nero: Donato Creti. Sul verso, a penna e inchiostro bruno: S. Donato Creti 21:10. bibliografia: Italian Old Master Drawings 1990, pp. 86–87, n. 36, ill. recto e verso; Riccòmini 2012, p. 71, n. 88.1. Berretto piumato e ampia sottana di stoffa pesante (che sia taffetà?), lunga fino ai piedi, e anche oltre, da sollevare ai bordi quando ci si siede, come se si fosse in costume, nel mezzo d’una fiaba ariostea ambientata al tempo lontano di Niccolò dell’Abate; il profilo perduto, anzi, smarrito, ben oltre il confine terreno (e terrestre) del foglio bianco. Seduto a scrutare il cielo di notte, è il giovane tratteggiato con la matita rossa dal Creti maturo. Guarda, forse, il distante pianeta Marte, visibile dalla Terra anche a occhio nudo nelle terse sere d’estate, magari al fresco d’un colle sopra il profilo della città di Bologna. C’è da immaginare che sia il pianeta rosso l’oggetto della sua attenzione, perché in un angolo al verso del foglio, sono schizzate a matita nera tre figure, una delle quali indica con il dito un punto lontano; proprio come fa il giovane, anch’egli con le piume sul cappello, agghindato con un ampio manto arancio, nel Marte dipinto da Creti attorno al 1711 (fig. 1).1 A ben guardare, lo stesso giovane rapito dalla poesia dei cieli e delle stelle torna anche sul verso del foglio, pressappoco nella medesima posa. Sembra come ascoltare l’uomo che, in piedi, rivolgendosi a lui, indica con la mano l’astro luminoso nel buio del cielo. Nel dipinto c’è, invece, chi, seduto a terra, sembra prendere nota delle osservazioni fatte senza uso di strumenti scientifici. La serie cosiddetta dei Pianeti (oggi in Pinacoteca Vaticana, dove arrivarono dal palazzo pontificio di Castel Gandolfo) nasceva attorno al 1711 su comando del generale conte Luigi Marsili. Dietro suggerimento
fig. 1: Donato Creti, Marte, Roma, Pinacoteca Vaticana.
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dell’illustre scienziato nonché uomo di lettere Eustachio Manfredi (autore, tra le altre cose, delle Ephemerides motuum Coelestium ... Ad usum Bononiensis Scientiarum Instituti, stampate a Bologna nel 1715), a Creti si affiancò nella realizzazione il miniatore Raimondo Manzini, affinché quest’ultimo eseguisse nella maniera la più accurata possibile e rispondente al vero gli astri designati: Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno e una Cometa. L’intento del conte Marsili, fondatore in casa propria dell’Accademia degli Inquieti (con annessa piccola specola «atta a quell’osservazioni che erano necessarie»),2 e promotore della fondazione dell’Istituto delle Scienze a Bologna, era quello di donare la serie commessa al Creti (e al Manzini) al papa Clemente XI (l’urbinate Giovanni Francesco Albani cui, per inciso, il Manfredi avrebbe di lì a quattro anni, dedicato i suoi due tomi sul calcolo delle effemeridi), affinché questi, si convincesse a sponsorizzare la ricerca astronomica del neonato istituto bolognese. Di quella speranza caduta nel vuoto (difficile immaginare, anche in un pontefice illuminato, il desiderio di indagare le stelle con mezzi scientifici, quando nel secolo passato Galileo Galilei passò non pochi guai proprio per aver, tra l’altro, puntato per primo un telescopio verso Marte) restano, però, le piccole tele del Creti, tra le più sognanti e poetiche opere dell’intero Settecento, non solo nostrano; e a queste si affiancano una manciata di studi preparatori,3 come quello in questione; il cui recto, finito, andrà pensato come foglio a sé stante, da collezione, destinato al cabinet d’un amante delle scienze come delle arti. Marco Riccòmini 1 Roli 1967, p. 96, n. 87, fig. 21. 2 Cavazzoni Zanotti 1745, p. 17. 3 A questo si aggiungono soltanto i due fogli di Dresda (Inv. nn. C 6465 e C 7341; Riccòmini 2012, nn. 31.8 e 31.9); quello già presso Phillips
a Londra (Riccòmini 2012, n. 73.1); il Giovane con sestante dell’Ermitage (Inv. n. 20670; Riccòmini 2012, n. 80.3) e gli Astronomi della Pinacoteca Nazionale di Bologna (Inv. n. 38.34; Riccòmini 2012, n. 11.13).
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FRANCESCO FONTEBASSO venezia 1701 — 1769
Studio per la testa di un fanciullo, c. 1730 Sul verso: Studio per la figura di san Leonardo Matita nera (recto); penna e inchiostro bruno (verso), mm 350 × 258. provenienza: L. Pollak (Lugt Suppl. 788b). bibliografia: Magrini 1988, p. 194, n. 179; Italian Old Master Drawings 1998, n. 17. Francesco Fontebasso fu dapprima allievo di Sebastiano Ricci, si recò poi a Roma per perfezionare la sua formazione e nel 1728 fu tra i vincitori del Concorso Clementino. Al suo ritorno a Venezia nello stesso anno, si fermò a Bologna, dove rimase molto colpito dall’opera di Vittorio Maria Bigari e di Donato Creti. Rientrato a Venezia raggiunse molto presto il successo annoverando tra i suoi committenti l’aristocrazia cittadina e la Chiesa, per i quali realizzò grandi cicli decorativi e dipinti da camera. Tra le opere principali si ricordano gli affreschi nella chiesa dei Gesuiti (1734), quelli a Palazzo Duodo (1742–53) e a Palazzo Barbarigo (1745) e, prima ancora, a Trento, il ciclo decorativo per la Chiesa dell’Annunziata (1736). Nel 1761, Fontebasso si trasferì a San Pietroburgo, dove eseguì lavori di decorazione nel Palazzo d’Inverno. Ritornato a Venezia nel 1762 fu nominato professore all’Accademia, istituzione della quale divenne presidente nel 1768. L’arte di Francesco rimase sostanzialmente debitrice dello stile del suo primo maestro, Sebastiano Ricci, anche se, col passare del tempo, fu influenzato da Giovanbattista Tiepolo, il cui lavoro gli era ben noto. Fontebasso fu anche un prolifico disegnatore e i suoi disegni mostrano una gamma sorprendente di tecniche e medium: dai rapidi schizzi a matita nera, agli accurati studi a penna resi con tratto incisorio (l’artista era anche incisore) a disegni finiti preparatori per i suoi dipinti.
fig. 1: Francesco Fontebasso, San Lorenzo Giustiniani, Leonardo e Nicola da Bari, Venezia, chiesa di San Salvador.
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Il nostro foglio, disegnato recto verso, è preparatorio per la pala d’altare con i Santi Lorenzo Giustiniani, Leonardo e Nicola di Bari, nella chiesa veneziana di San Salvador (fig. 1). Il dipinto fu commissionato e pagato dalla famiglia Cornaro nel 1737 1 ed era considerato sia dalla critica sia dal pubblico dell’epoca uno dei meglio riusciti di Fontebasso. Il recto del nostro disegno è uno studio, ancora fortemente Riccesco nel carattere, per l’accolito a sinistra nella pala d’altare ed è paragonabile stilisticamente a uno Studio di una figura e una mano maschile, venduto a New York.2 Il verso del nostro foglio mostra invece vari studi per la figura centrale di san Leonardo. Uno di questi mostra il santo contro uno sfondo, forse l’architettura della pala d’altare. Questi schizzi, dai quali affiora l’influenza di Gaspare Diziani e Donato Creti, sono tipici della grafica di Fontebasso degli anni attorno al 1730. 1
Si veda Magrini 1988, p. 194, n. 179, fig. 24. 2 New York, Sotheby’s, 10 gennaio 1995, lot 7.
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UBALDO GANDOLFI san matteo della decima, 1728 — ravenna, 1781
Ritratto di fanciulla di profilo (la nipote Marta?) Matita rossa e gesso bianco su carta cerulea, mm 305 × 220. In alto a destra, a penna e inchiostro bruno: Gandolfi Mauro. Sul verso, a penna e inchiostro bruno: 9. provenienza: Bologna, collezione privata. bibliografia: Bagni 1992, p. 28, n. 24; Riccòmini 2016, pp. 50–51, scheda 15. Sorta di fermoimmagine, il foglio ci cala in un momento di quotidiana intimità familiare presentandoci il ritratto di una fanciulla di casa Gandolfi; forse si tratta di Marta,1 l’unica figlia di Gaetano o una delle figlie del fratello Ubaldo, l’autore di questo bel disegno. Dal tepore del lume, si direbbe d’essere nel bel mezzo di una giornata di fine primavera o di già inizio estate. È comunque un momento privato, forse si è a colazione, chissà, un momento lontano dall’impegno formale del lavoro in atelier e in cui il pittore prende piacere a che sia il reale, nella sua banale franchezza, a ispirarlo, fissando lo scorrere di un attimo di vita del suo stretto entourage. Il disegno, almeno nelle sue parti portanti, è condotto con estrema immediatezza e libertà, per poi essere lumeggiato nei chiaroscuri con maggior cura, ma sempre con estrema rapidità di tocco che fa quasi vibrare i contorni dei profili; come nella bocca, dove la sinuosità delle labbra è rincorsa attraverso un doppio tracciato quasi a bloccarne un movimento in corso. Ubaldo prende probabilmente di riflesso dal fratello Gaetano lo spunto di ritrarre i pargoli di famiglia liberandoli dall’ufficialità di una posa impettita o formale; 2 è soprattutto quest’ultimo che svilupperà questa idea in una ricca serie di fogli in cui ritrarrà la sua innumerevole prole in ritratti singoli o doppi (figg. 1 e 2) scrutandone affettuosamente l’attività quasi fosse un osservatore invisibile. Se la delicatezza della sanguigna impiegata da Ubaldo certo esprime la carezzevole tenerezza con cui egli riprende le fattezze della fanciulla, l’impiego di più matite permette invece a Gaetano di giungere all’e-
spressione di un sentimento di affettività paterna di altissima intensità. La delicatezza di alcuni passaggi tonali nei chiaroscuri finisce col convincerci che per Ubaldo il senso della luce di quella giornata sia l’altro grande soggetto del disegno. Tutto è messo in opera perché la figura l’accolga. Ecco allora che un insieme di trecce un po’ scomposte liberano la nuca dai capelli per metterla a nudo mentre la torsione del collo porta in un cono d’ombra il volto e il profilo dando risalto agli occhi tondi e al naso a patata. È solo in seconda battuta, scorrendo lo sguardo tra la zona in luce e quella in ombra, che ci si accorge della piccola anella infilata nel lobo dell’orecchio; sorpresi da questa scoperta, si è tentati di credere che il vero soggetto del ritratto sia appunto questo piccolo orecchino cui il volto della nostra fanciulla fa da cornice. Si può essere spinti a credere che, specie nei fogli di Gaetano, le trecce che ornano il capo dei suoi piccoli pargoli rispecchino un gusto di moda all’epoca. Come ben dimostra il foglio del British Museum qui pubblicato (fig. 1), non è tuttavia da considerare un’acconciatura esclusivamente maschile. Si tratta in realtà molto più banalmente di un’espediente pratico, semplice quanto efficace, che si aveva in casa Gandolfi per liberare i volti dai lunghi capelli e poterli così meglio ritrarre, rendendo più leggibili l’espressione degli occhi e gli sbattimenti di luce sulla pelle. Lo stesso Mauro, cui questo è foglio è stato erroneamente attribuito, ricorrerà all’uso di questa soluzione paterna, liberando il volto del suo modello preferito col medesimo tipo di treccia raccolta sul capo come ben illustrano alcuni fogli della Raccolta Certani.3 Davide Trevisani
1 Ringraziamo John Marciari per averci suggerito la possibilità che, in base alla morfologia nota del naso materno, nella nostra giovinetta sia identificabile Marta Gandolfi.
la sospensione di un punto interrogativo. 2 Sull’argomento si veda: Cazort 1990, pp. 87–98. 3 Si rimada a M. Riccomini, n. 147 in URL www.pan-
Stando al ritratto che Gaetano esegue della moglie poco dopo il loro matrimonio, il naso delle due figure è in effetti tanto simile da confermare l’ipotesi; cautela vuole
dolfini.it/it/asta-0316/gaetano-gandolfi.asp; cfr. anche Riccòmini 2018, pp. 121–123, nn. 87–88.
fig. 1: Gaetano Gandolfi, Ritratto di ragazza leggente, Londra, The British Museum, inv. n. 1946,0713.1321; fig. 2: Gaetano Gandolfi, Ritratti di due dei figli dell’artista, su gentile concessione di Pandolfini Casa d’Aste, Firenze.
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GAETANO GANDOLFI san matteo della decima, 1734 — bologna, 1802
Studio per la Comunione degli Apostoli, 1797 Matita nera, mm 430 × 307. Sul verso firmato a matita: G. G. f. ‘1797’. Il foglio prepara la metà sinistra della grande pala d’altare con la Comunione degli Apostoli in San Lorenzo del monastero dei Servi di Maria a Budrio (Bologna),1 siglata e datata al verso da Gaetano Gandolfi ‘1797’ (fig. 1). È Prisco Bagni a raccontare la gustosa storia della commissione del dipinto, appresa dal Libro dei Partiti del convento: «Settanta parrocchiani, allettatisi da quanto erasi fatto per ridurre la chiesa nello stato summenzionato [quando, ossia, venne riedificata] si misero in capo di voler tentare ... di fare anche la cappella maggiore ... e determinarono di sborsare la tenue somma di nove baiocchi per ciascheduno, e con questi giocare per un anno intiero in tutte le estrazioni di Roma un terno di trentacinque baiocchi, con questa ardita espressione che se S. Lorenzo voleva la chiesa finita gli avrebbe fatti vincere il terno». E, per quanto possa sembrare inverosimile, il desiderio dei parrocchiani fu esaudito e, alla fine, vinsero davvero al lotto: «Doppo aver seguitato tutto l’anno a giocare, ma sempre indarno, l’ultima volta e con l’ultimi quattrini, vincono il terno di novemilla lire bolognesi». Con quel gruzzolo, subito depositato al Monte di Pietà, si diedero inizio ai lavori per la cappella maggiore. Per l’abbellimento della chiesa, a Gaetano 1 Biagi Maino 1995, p. 407, n. 240, figg. 266–267. 2 Bagni 1992, p. 415, n. 391. 3 Vangelo secondo Giovanni, XIII, 27. 4 Vangelo secondo Giovanni, XIII, 2–32; Vangelo secondo Matteo, XXVI, 20.
Gandolfi vennero chieste due pale, una Comunione degli Apostoli per l’altare del SS. Sacramento e un Martirio di San Lorenzo, per il coro, entrambe ancora in situ.2 Dieci sono gli Apostoli sul foglio, tutti e dodici sono, a contarli, quelli sulla tela. Dieci ‘in coda’, in attesa del loro turno per ricevere l’ostia consacrata dalle mani del Cristo, uno, il più giovane, a noi di spalle, lo sguardo rivolto al cielo, e l’ultimo, il προδότης ossia il ‘traditore’, Giuda ‘iscariota’, ‘uomo di Qeriyyoth’ (nella Giudea meridionale), nascosto dietro l’altare, tormentato dal demonio («Satana entrò in lui», scrive Giovanni nel suo Vangelo),3 sotto le forme d’un orribile rapace dalle ali uncinate e il muso affilato d’un cane. Eppure non sappiamo se costui partecipò o meno all’istituzione dell’Eucarestia, tra chi ne ricorda la presenza, come Giovanni e Matteo 4 e chi, invece, la nega, come Sant’ Agostino.5 Attento alla narrazione dei testi evangelici, nel foglio di studio, Gaetano si concentra sulla metà di sinistra della pala che, come sua prassi, ricalca esattamente l’invenzione su carta, cui segue, pure identica, la prima stesura su tela, nel bozzetto ancora conservato nella sagrestia della parrocchiale di Budrio.6 Marco Riccòmini
5
Sant’Agostino, In Evangelium Ioannis tractatus centum viginti quatuor, LXII, 3. 6 Bagni 1992, p. 413, n. 389. Olio su tela, cm 68,5 × 45,3.
fig. 1: Gaetano Gandolfi, Comunione degli Apostoli, Budrio (Bologna), chiesa di San Lorenzo, su gentile concessione della Fototeca della Fondazione Federico Zeri (n. 70338).
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JACOPO ALESSANDRO CALVI
detto
IL SORDINO
bologna 1740 — 1815
Studio di volto maschile Sanguigna, mm 234 × 205. provenienza: Parigi, collezione privata. La testa è reclinata verso sinistra, gli occhi sono rivolti al cielo a dialogare con l’altrove, la bocca dischiusa tra stupore e rapimento. Quell’attitudine e quello sguardo di reniana memoria sono per Jacopo Alessandro Calvi quasi un motivo firma che il pittore impiega nei volti di tanti comprimari dei suoi dipinti, attori o semplici spettatori di Martiri, Crocifissioni, Sacre Conversazioni. Il bel volto nel foglio trova confronti con opere che coprono l’intero arco della sua carriera. Solo per menzionare qualche esempio significativo il medesimo sguardo, la stessa lunga e aggraziata canna del naso e le labbra carnose sono dell’Apostolo alla sinistra della Vergine nella Pentecoste di Cingoli 1 (1771), dell’angelo sulla sinistra del Cristo nella pala del Sacro Cuore in San Giuliano a Bologna, (circa 1780) (fig. 1) e, sempre nella città felsinea, del giovane san Lorenzo2 della pala dei Santi Erasmo e Lorenzo in San Petronio (1795) (fig. 2). Gli omologhi dipinti rispetto al disegno hanno tuttavia capelli più fluenti, partecipi anch’essi del moto emotivo del personaggio a cui attribuiscono enfasi e non presentano quella graziosa e leggera barbetta a collare della sanguigna. Quest’ultima indaga nel dettaglio il volto con un tratto fine che si dirada e si infittisce per definire ombre e luci, arrivando a descrivere il più lezioso dei dettagli: il ricciolo di giovane barba dalla crescita irregolare formatosi sotto l’orecchio sinistro. Questa aderenza al reale suggerisce che si tratti di un modello in carne ed ossa, un giovanotto dell’epoca del Calvi che per lui, nel suo studio, dovette posare. L’inedito foglio va ad arricchire il corpus delle opere dell’artista per il quale manca ad oggi un studio monografico che ne indaghi l’intera produzione.3 Precocemente dimenticato a pochi anni dalla sua morte, Jacopo Alessandro Calvi fu in realtà un protagonista assoluto In ricordo di Eugenio Busmanti conoscitore e studioso del Calvi. 1 Bergomi 2016. 2 Il disegno preparatorio a carboncino per la figura di san
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Lorenzo, priva del capo, appartiene alle Collezioni della Cassa di Risparmio di Bologna, (Varignana 1973, scheda 338, tav 124). 3 Per il Calvi si veda: Roli 1977,
della pittura bolognese del Settecento, assieme al ben più noto e talentuoso Gaetano Gandolfi. Calvi, soprannominato Sordino per la menomazione uditiva causatagli in giovane età da una malattia, fu avviato allo studio della pittura presso Giuseppe Varotti (1715–1780) e successivamente fu affidato al letterato e pittore Giampietro Zanotti (1674–1755) del quale divenne l’allievo prediletto. Rimeditando sui grandi della pittura bolognese del Seicento e aggiornandosi con numerosi viaggi studio in Toscana, Veneto ed Emilia, Calvi elaborò un suo originale linguaggio pittorico incentrato su canoni di equilibrio e di armonia, solidità di disegno e caratterizzato da una tavolozza capace di accostare ai colori tenui, tinte cangianti e luminose. Divenuto esponente di quel classicismo i cui centri propulsivi erano le Accademie, si fece interprete in pittura di una devozione sentita nella quale l’intera comunità, in particolare quella bolognese, poteva rispecchiarsi. Coltivò interesse per la letteratura, licenziando alcuni interessanti scritti tra i quali si ricorda, Notizie della vita, e delle opere del Cav. Gio. Francesco Barbieri detto il Guercino da Cento,4 pittore a cui si sentiva stilisticamente affine e forse affettivamente vicino per il soprannome che anche nel centese sottolineava un difetto fisico. Fu collezionista appassionato di libri antichi, disegni e dipinti sviluppando grandi doti da connoisseur grazie alle quali era spesso convocato, anche all’estero, a dirimere questioni attributive. La sua committenza riflette la rete di relazioni che seppe tessere lungo tutto l’arco della sua vita entrando in contatto con le persone più in vista della sua epoca. Le sue opere furono richieste non solo nel bolognese ma anche a Spoleto, Bergamo, Siena, Maggiano, Cingoli, York, Wesel in Vestfalia, Barcellona e Cracovia.5 pp. 125–126, ill. XI, 295a-299a; Zamboni 1979, p. 222, ill. 316317; Busmanti 1979; Busmanti, Pierallini 1989; Si vedano anche i più recenti contributi: Conti 2006; Iseppi 2015; Ber-
gomi 2011; Conti 2010. 4 Calvi 1842. 5 Busmanti 1989; Biagi Maino 2004, ad vocem; Conti 2006.
fig. 1: Jacopo Alessandro Calvi, Sacro Cuore, Bologna, San Giuliano, su gentile concessione della Fototeca della Fondazione Federico Zeri (n. 71271). / fig. 2: Jacopo Alessandro Calvi, Santi Erasmo e Lorenzo (dettaglio) Bologna, San Petronio.
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FELICE GIANI san sebastiano curone 1758 — roma 1823
Autoritratto al cavalletto, 1790 circa Inchiostro bruno su carta, mm 235 × 183. bibliografia: Leone 2009, p. 31, fig. II.5 a p. 85. Questo foglio, riemerso in tempi relativamente recenti, avrebbe certamente trovato degna collocazione nell’illuminante sezione dedicata all’immagine dell’artista contenuta nella monumentale e definitiva monografia gianesca firmata da Anna Ottani Cavina.1 Più precisamente, sarebbe andato ad arricchire la serie di opere in cui Giani si raffigura en artiste, che comprende, in particolare, un altro autoritratto (New York, Cooper-Hewitt Museum) dove il pittore si rappresenta chino sul cavalletto durante una sessione di lavoro «a lume di notte» (fig. 1), di cui il nostro può essere ad evidenza considerato l’omologo diurno: i raggi solari, provenienti da una piccola finestra, sono indirizzati da Giani con frenetici tratti di inchiostro verso il cavalletto davanti al quale il pittore siede in ciabatte e veste da camera mentre fa vibrare il pennello sulla tela all’interno di un ambiente spoglio che rispecchia il suo spirito votato allo stoicismo. Anche Francesco Leone mette in stretta relazione i due autoritratti, «per formato e ispirazione», e avvicina il nostro, che reputa «bellissimo», anche «a taluni fogli del Fondo Dubini del Museo Civico di Torino con figure singole rese in modo caricato, provenienti chiaramente da uno stesso taccuino e tra i quali spicca il ben noto Autoritratto con l’immagine della Diana Efesia datato 1789, e soprattutto le enigmatiche effigi dell’Incappucciato e del Macellaio». Queste affinità stilistiche inducono Leone a datare il foglio qui descritto intorno al 1790, in corrispondenza dell’arrivo del pittore a Roma e delle conseguenti prime esperienze dell’Accademia de’ Pensieri,2 fondata dallo stesso Giani, dove erano soliti riunirsi artisti di diverse provenienze divenuti insofferenti agli insegnamenti tradizionali impartiti nelle accademie tradizionali. Nelle riunioni serali di Palazzo Corea in via Ripetta, una spontanea assemblea di artisti già formati intendeva misurare le proprie doti, il bagaglio culturale accumulato, le proprie conoscenze della storia, del mito,
delle lettere, non più sulla copia ma su un tema d’invenzione che necessitava dunque il ricorso a qualità creative e virtù impaginative.3 Avendo acquisito dagli artisti gravitanti attorno al cosiddetto Fuessli circle, che erano stazionati a Roma fino a pochi anni prima, l’uso della linea quale «congegno rappresentativo di essenzialità astrattiva a scopo conoscitivo»,4 Giani e gli altri avevano eletto il disegno quale strumento ideale di espressione delle loro sperimentazioni anticlassiche. Proprio nei nordici come John Flaxman, James Barry e Jakob Carstens, «nell’autoanalisi e nella propensione al profondo» che contraddistingue i loro autoritratti, Ottani Cavina ritrova gli elementi caratterizzanti l’immagine che Giani volle perpetuare di sé. «Disegnare, a quel punto – scrive la studiosa – non era più un’operazione diretta (tanto meno innocente), anche se nell’autoritratto l’artista lavorava necessariamente sulla realtà. Disegnare era invece l’esplorazione più profonda che un soggetto potesse tentare di sé, un’operazione complessa che passava attraverso le fasi del diario, dell’autobiografia, della deformazione, della messa in scena, mai assolutamente certezza naturalistica».5 In base a queste considerazioni non può non lasciare inizialmente spiazzati la modalità con cui Giani sceglie di rappresentarsi in questo Autoritratto al cavalletto, ovvero con in mano la tavolozza. Potrebbe essere il suo spirito guascone e irriverente a suggerirci una chiave di lettura per questa apparente anomalia: Giani qui si mostra vestito in tono dimesso, con papalina e ciabatte, all’interno di una stanza spoglia, priva di qualsiasi attributo qualificante, in netta controtendenza con gli autoritratti ridondanti a cui gli accademici paludati affidavano l’affermazione del loro status sociale. A dare ulteriore brio allo sberleffo, la presenza degli strumenti da disegno, in posizione defilata ma ben visibili sopra la cassetta, riposti temporaneamente per essere ripresi al termine della messa in scena.
1 Ottani Cavina 1999. 2 Leone 2009, pp. 19–34, 78, 85 (fig. II.5).
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3 Rudolph 1977, p. 176 passim. 4 Leone 2009, pp. 19–34, 78, 85 (fig. II.5).
Ottani Cavina 1999, I, pp. 51–60; II, pp. 927–929.
fig. 1: Felice Giani, Autoritratto al lume, New York, Cooper-Hewitt Museum, inv. 1901-39-2040.
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GASPARE LANDI piacenza 1765 — 1830
Ritratto di dama, c. 1800 Olio su tela, cm 65 × 50. bibliografia: Sgarbi 2004, ill. p. 126; Sgarbi 2005, ill. p. 138; Busmanti 2009. Insieme a Camuccini e Appiani, Gaspare Landi si contende il ruolo di più grande pittore italiano del primo trentennio dell’Ottocento. Di questa contesa ne erano già consapevoli i contemporanei, fu infatti un suo amico sincero e stimato, Antonio Canova, che così lo promosse a Parigi al cospetto di Napoleone. Si può anzi dire che, ancor più dei suoi comprimari, Gasperi Landi incarni per la pittura il ruolo straordinario che ebbe l’amico Canova per la scultura. Attraverso l’esempio della sublime pittura di Pompeo Batoni, prima, e di Domenico Corvi, poi, maestri presso i quali il pittore piacentino svolse un suo alunnato, Gaspare Landi contribuì alla definizione formale di una bellezza neoclassica, fatta di sublime grazia e delicata espressione, trovando eco e ispirazione nella politezza di splendore dei marmi scolpiti dall’amico Canova. Soprattutto dedito alla grande pittura d’historia di soggetto elevato e tono aulico, si trovò suo malgrado, ma non a torto, come ben dimostra l’opera qui presentata, a essere particolarmente apprezzato e richiesto per le sue doti di grande ritrattista. Non amava fare ritratti né soprattutto avere riconoscimenti in un genere di pittura che riteneva non alla sua altezza, accettava tuttavia di buon grado, com’egli stesso precisa,1 per la certezza e la facilità del guadagno, garantendosi così l’occasione di potersi dedicare con più serenità ai suoi soggetti e al suo genere preferiti. Il ritratto femminile qui presentato ben spiega tuttavia le ragioni del grande apprezzamento di cui il pittore godette presso aristocratici e alto borghesi dell’epoca.
Forse per quel più denso senso del reale, la resa più umanizzata nell’attitudine della figura cui fa eco l’impiego di una tavolozza dai toni più ribassati e naturali, si dovrebbe essere a date un po’ più avanzate, più sul crinale del 1800, che non quelle prospettate da Eugenio Busmanti all’inizio del nono decennio del Settecento. Di straordinaria puntualità critica sono invece le parole usate da quest’ultimo nel mettere in luce l’altissima quota di Gaspare Landi ritrattista raggiunta in questa tela. «Si converrà … [scrive Busmanti] … non potersi incontrare uno sguardo così limpido e franco, un sorriso così godibile, come la quintessenza di una femminilità trattenuta. Uniti a un tocco così inglese, un’immediatezza così francese, la grazia del Correggio e il colore dei veneti e si avrà il sospetto di contemplare un piccolo capolavoro».2 Inutile provarsi a cercare formule migliori per rimarcare l’eccellenza di resa pittorica e psicologica di questo «ritratto parlante» e che ben delineano non soltanto l’intenzione, riuscitissima, di renderci un’immagine franca e naturale di questa giovane donna, d’istantanea vitalità, suggerendone anche nello sguardo una passione languida eppur discreta, ma anche l’eccellenza della sintesi stilistica di cui il Landi fu capace e che ben si può apprezzare nella vaporosa delicatezza della luce sui capelli, nei rosa porcellanati degli incarnati, nella limpida brillantezza degli occhi finanche nei rapidi tocchi sprezzanti di colore nella bordura dello scialle di seta che avvolge la figura. Davide Trevisani
1 Busmanti 2009, scheda n. 16. 2 Busmanti ibidem.
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LUIGI SABATELLI firenze 1772 — milano 1850
Autoritratto ‘senza specchio’, 1792 Matita nera e gessetto rosso su carta, mm 225 × 180. Sul verso: Luigi Sabatelli disegnò se stesso in 20 minuti / il dì 5 giugno 1702 / Senza Specchio. bibliografia: Valli 2006, n. II, 11, fig. p. 78; L’officina neoclassica, 2009, pp. 69, 73, fig. I.3. Dichiarato di Interesse storico artistico particolarmente importante ai sensi dell’art. 10, co. 3, lett. a), del D. Lgs. 42/2004. Dei vari autoritratti su carta riemersi progressivamente dagli studi,1 questo inedito risulta il primo in ordine di tempo. A matita, a penna, alcuni tradotti poi al bulino o all’acquaforte, sono riferibili alla «gioventù filosofica» dell’artista – come l’ha definita Carlo del Bravo fino al suo trasferimento a Milano nel 1808, come professore di Pittura all’Accademia di Brera. «Luigi Sabatelli – scrive Mazzini 2 – è nato dal popolo. Figlio di un cuoco dei Capponi a Firenze, dovette a costoro se poté andare a Roma, per studiarvi ed essere mantenuto nella sua carriera d’artista; il suo merito si sviluppò lentamente, ma brillò infine di uno splendore che dovette ricompensare ben dolcemente i suoi protettori. Per lungo tempo mandò a tastoni, incerto tra gli esempi che lo circondavano e i suoi nobili istinti […], non tuttavia senza che guizzi di rivolta, segni di una vita propria apparissero qua e là, come una promessa di emancipazione e di cose migliori». Sullo stereotipo illuminista della leggenda d’artista, il riscatto sociale conquistato attraverso la professione,3 a distanza di un cinquantennio, si innesta una nuova immagine romantica, prossima al mito coltivato dalla letteratura tedesca,4 che predilige la ricerca inquieta dello «scopo da perseguire», la consapevolezza della divinità della propria «missione».5 A Roma infatti Sabatelli arriva nel 1788.6 Frequentatore assiduo prima dell’accademia di Domenico Corvi, compagno di Vincenzo Camuccini, Pietro Benvenuti e Giuseppe Bossi,7 quindi, e insieme a questi, dal 1790, all’Accademia dei Pensieri,8 fondata da Felice Giani e Michele Kock, in amichevole sodalizio con Bénigne Gagneraux, Giambattista Dell’Era, Humbert de Supreville, Jean Fabre e ancora Wicar, Girodet, Gaspare Landi, ecc. Ciò significa da un lato, lo studio sistematico del corpo, nel rispetto «scientifico» delle regole delle proporzioni e della prospettiva – l’odiosa, seppur salda, «correttezza» della scuola neoclassica, secondo Mazzini «palpando contorni, misurando forme» 9 –, ma dall’altro un’attenzione rinnovata per il soggetto, coscienziosa, rispettosa della lettura dei testi – che garantirà a Sabatelli «il suo posto intermedio tra la vecchia e la giovine scuola».10 Cresce nell’intermezzo una gioventù curiosa che trae alimento dalla sfida, sensibile alle continue sollecitazioni della parola scritta. Per l’artista toscano è decisiva la vicinanza con Tommaso Puccini, pistoiese, intel-
lettuale e collezionista aggiornato, a Roma in relazione con Monti, Baretti, Alessandro Verri e Quirino Visconti.11 Nel cimento quotidiano dei «Pensieri», oltre alla lettura, si sperimentano tecniche, si misurano velocità nel confronto, quasi una ginnica prodezza – «disegnò se stesso in 20 minuti» – un exploit memorabile, da registrare «il dì 5 giugno 1792», come scrive sul recto di questo piccolo autoritratto Sabatelli. E «senza specchio», per l’esercizio della memoria. L’artista si presenta di tre quarti, a mezzo busto, senza camicia, spettinato, i capelli raccolti a codino, che gli costeranno a breve un brutto spavento, durante la rivolta antifrancese del 1793, «vedutomi con quella cera alla finestra e coi capelli lunghi e ricciuti, mi presero per un giacobino e si misero a gridare ‘ammazza, ammazza il Francese! E su per le scale a furia».12 Un tratto sommario, ma incisivo, condotto su uno sfondo spoglio, scava i lineamenti piuttosto che descriverli, esaspera i tratti fisiognomici, caricandoli con il rosso del gessetto – come, nel 1795, nell’autoritratto della Collezione Pernati 13 –, nella traccia forse degli studi J. Caspar Lavater. Il segno di Guercino, tradotto dalle incisioni di Bartolozzi,14 diventa lo strumento vulgato, quasi sempre a penna, comune a Dell’Era – il piccolo autoritratto di profilo 15 – o a Gagneraux – 1793–1795 (collezione privata) –, funzionale a catturare nell’attimo l’inclinazione autentica, il carattere più profondo. Allo stesso modo che per un David o un filosofo Talete che Sabatelli disegna per i Pensieri diversi pubblicati da Damiano Pernati dopo la sua fuga da Roma. È un modo spontaneo di rappresentarsi sempre più diffuso fra gli artisti che, sull’esempio di Fuessli e di Flaxman, grazie alla sensibilità del mezzo ordinario, aveva consentito di rappresentare se stessi e reciprocamente i compagni a distanza ravvicinata, riferendosi a una precisa circostanza o a un evento condiviso, come testimoniano le dediche e le annotazioni sui fogli. Una specie di diario sentimentale, tenuto parimenti da Wicar 16 e, ancora nel 1808, da Sabatelli che, al momento di lasciare gli amici toscani, diretto a Milano, farà a ognuno e a se stesso un piccolo ritratto a penna,17 per fissare il ricordo del distacco. Francesca Valli
La presente scheda è una ristampa di Valli 2006. 1 Pietro Benvenuti 1969, n. 101; Disegni italiani 1971, n. 11; Bairati 1975, n. 172; Paolozzi Strozzi 1978, n. 53; Cifani, Monetti 2001.
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Mazzini 1841, ed. 1995, p. 47. Barroero, Susinno 2000. Marcuse 1985. Mazzini 1841, ed. 1995, p. 7. Cenni biografici 1900, p. 9. Visconti 1845, p. 7; Luigi Sabatelli 1978, p. 24.
Rudolph 1977. Mazzini 1841 ed. 1995, p. 41. ivi, p. 53. Cultura dell’Ottocento a Pistoia 1977; Spalletti 1983; Mazzi 1986.
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Cenni biografici 1900, p. 10. Cifani, Monetti 2001. Del Bravo 1978, p. 10. Calbi 2000, p. 44, n. 4. Caracciolo 2004. Ojetti 1934.
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LUIGI SABATELLI firenze 1772 — milano 1850
Ritratto di Antonio Canova, 1805 Penna e inchiostro nero su carta ocra, mm 355 × 243. Sul verso a penna: Canova. Nel novembre del 1805, di ritorno da Vienna dove aveva completato il Monumento funebre a Maria Cristina d’Austria all’interno della Chiesa degli Agostiniani, Antonio Canova passò per Firenze per incontrare la regina Maria Luisa di Borbone che gli avrebbe affidato in via definitiva l’esecuzione della Venere Italica da destinare alla Tribuna degli Uffizi. Canova, a Firenze, era solito soggiornare presso l’amico Giovanni degli Alessandri, figura centrale della politica artistica toscana, presidente dell’Accademia fiorentina di belle arti e futuro direttore degli Uffizi. E proprio dopo un pasto consumato in casa degli Alessandri, Luigi Sabatelli imprime sul foglio, con la tradizionale rapidità di tratto, l’effigie dello scultore. Questa informazione ed altre ancora più dettagliate si ricavano dall’iscrizione presente sul retro di un’altra versione di questo ritratto, inclusa nel nutrito corpus di disegni di Sabatelli conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Roma: «disegnato a penna da Luigi Sabatelli pittore Fiorentino un dopo pranzo in Casa Alessandri dove alloggiava il detto Canova di passaggio per Firenze l’anno del Signore 1805 mese di novembre giorno diciotto». La pratica di ricavare una seconda versione di un ritratto non era rara per Sabatelli, anzi. Infatti, per buona parte di quelli descritti nel catalogo della mostra fiorentina del 1978, provenienti dall’altro grande fondo sabatelliano del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, è segnalato un foglio «gemello» o, tutt’al più, caratterizzato da minime varianti.1 Nel nostro caso, dal confronto emerge una sostanziale identità nella composizione e una minima differenza nel segno, che nel disegno della GAM di Roma appare più robusto; quest’ultimo, poi, è penalizzato da un precario stato di conservazione – foxing uniforme sulla superficie del foglio –, mentre sono decisamente migliori le condizioni del ritratto qui descritto, che mostra soltanto una lieve sofferenza della carta lungo i margini. Nella panoramica delle immagini celebri di Canova presentata da Hugh Honour in Studi in onore di Elena
Bassi,2 quella di Sabatelli è certamente per lo stile la più essenziale, e come registro la più intima e familiare. Il pittore fiorentino, con l’immediatezza espressiva che il suo stile gli concede, riesce a fissare sulla carta l’attimo in cui lo scultore si volge verso di lui con l’aria stupita e la bocca ancora aperta, come se fosse stato interrotto durante una conversazione. Per cogliere gli altri requisiti fondamentali e per certi versi unici della ritrattistica sabatelliana sono ancora oggi indispensabili le pagine che Ugo Ojetti nel 1934 sulla rivista Pan dedica a questo particolare versante della produzione grafica dell’artista toscano: «egli prende questi appunti alla brava, giorno per giorno: ricordi, come ho detto, sui suoi parenti e amici, pagine stese in punta di penna, a Firenze o a Milano, conversando col modello; e sovente nel chiaroscuro contrastato ritrovi le ombre scure e le luci bianche della lampada sulla tavola vicino al modello. A leggere quel che egli stesso ha scritto dietro ciascun foglio s’ha altra prova dell’intimità e rapidità di questi disegni […] tutti pregevoli per l’acutezza nel definire l’indole del modello, pel vigore del modellato, per la finezza del chiaroscuro e quasi del colore. Taluno, come quello del Canova, è più rapido e chiaro, ma d’una prontezza senza pentimenti che è la prima dote di chi vuole improvvisare a penna. Nel Sabatelli la pratica dell’incisione era ormai tanta ch’egli maneggiava sulla lastra (carta?) la penna con la sicurezza e anche coi diversi artifici con cui sapeva maneggiare la punta sulla lastra per incidere […] Il disegno è insomma, per questo fiorentino, il più sicuro modo di capire, di scegliere cioè quello che importa per giungere a definire senza equivoci una persona o un oggetto. Questa volontà di capire, di riuscire, come è l’etimologia della parola, a prendere e quasi ad afferrare l’animo segreto dell’uomo o della donna che il pittore ha davanti, è infatti la prima dote del ritrattista […] Schizzi dal vivo come questi non sono dunque che la prima presa di possesso del vero».3
1 Luigi Sabatelli 1978, pp. 57–62. 2 Honour 1998, p. 170, fig. p. 171. 3 Ojetti 1934, pp. 240–242.
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GIOVANNI BATTISTA LAMPI JUNIOR trento 1775 — vienna 1837
Ritratto di Antonio Canova, post 1806 Olio su tela, cm 60 × 50. bibliografia: Intorno alla scultura 2007, p. 40; Busmanti 2008, pp. 32–33. Canova fu uno degli scultori più ritrattati di tutti i tempi.1 La sua eccezionale reputazione stimolò artisti di ogni disciplina a immortalarne le sembianze e privati collezionisti a procurarsi quell’effigie divenuta ormai iconica e simbolo stesso dell’arte. Sono innumerevoli i ritratti di Canova 2 tra i quali è da annoverare anche la tela in esame, opera di Giovanni Battista Lampi junior, che utilizzò come prototipo un quadro realizzato dal padre, pittore anch’egli e omonimo del figlio.3 Il modello paterno è forse uno dei più famosi ritratti di Canova, realizzato tra il 1805 e il 1806 in occasione del soggiorno dello scultore a Vienna per l’installazione del monumento funerario per l’arciduchessa Maria Cristina d’Asburgo-Lorena. Proprio l’imponente scultura fa da sfondo ad un fiero Canova raffigurato per tre quarti mentre stringe gli attrezzi del mestiere avvolto in un’ampia tunica porpora e dal bordo ricamato (fig. 1).4 Giovanni Battista Lampi junior sceglie di ritrarre il solo busto dello scultore, colto nella medesima posa, concentrando l’impaginato sull’intensità dello sguardo e la potenza evocativa della sua figura, epurando lo sfondo da qualsiasi riferimento e semplificando la veste scevra dalla greca dorata. L’opera riscosse un tale consenso che se ne conoscono diverse versioni come nel caso della replica in ovato alla Nationalgalerie di Berlino di poco più grande del nostro.5
La stretta collaborazione tra i due Lampi era prassi assai consolidata, così come l’esecuzione di repliche da parte del figlio, creando non pochi problemi alla critica chiamata a distinguere le diverse mani, soprattutto nelle vicende legate alla ritrattistica canoviana.6 Lampi senior, originario di Trento, aveva fatto fortuna a Vienna dove ritrasse Canova e dove era riuscito ad ottenere i favori della famiglia asburgica grazie alla sua aggraziata «fusione di colorismo veneto e analisi psicologica di derivazione inglese e di solidità di disegno».7 Nel suo pennello Giuseppe II vide un utile strumento da impiegare nella sua innovativa riforma culturale, che prevedeva un uso politico della pittura di storia e soprattutto della ritrattistica. Furono molti gli esponenti di Casa d’Austria e personalità dell’epoca a farsi ritrarre dal Lampi senior, al quale si affiancò a partire dal 1804 il figlio prediletto, Lampi junior, ormai pittore maturo che condivise con il padre studio e committenza. A proseguire l’attività paterna fu anche il figlio minore Johann Baptist Ferdinand III Lampi, nato a Vienna nel 1807 e permeato pienamente dalla cultura Biedermeier. Con la sua morte nel 1855 si estingueva una stirpe di ritrattisti che aveva saputo interpretare i desideri di una corte e instaurare con gli Asburgo un rapporto privilegiato e straordinariamente longevo.8 Laura Marchesini
1 Mazzocca 2019, p. 149. 2 Honour 1998, p. 155. 3 Giovanni Battista Lampi (Romeno 1751 – Vienna 1830). 4 Olio su tela, cm 113 × 92 inv. 356 Vaduz, Kunstsammlungen
l’appassionante vicenda collezionistica si veda Pancheri 2001, n. 58, cfr Pancheri 1996– 1998, pp. 236–237. 5 Olio su tela, cm 62 × 75,5 inv. A. II. 980; si veda Pancheri
des Fürsten von Liechtenstein; l’opera era stata commissionata dal diplomatico russo Andrej Kyrillovič Razumovskij (1752–1836), grande estimatore di Canova, per
1996–1998, p. 246. 6 Honour 1998, p. 160, n. 10. 7 Busmanti 2008, p. 32. 8 Pancheri 2001, pp. 95, 100, 110–112.
fig. 1: Giovanni Battista Lampi senior, Ritratto di Antonio Canova, Vaduz – Vienna, Liechtenstein Pricely Collection, inv. 356.
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AUGUSTE JEAN-BAPTISTE VINCHON paris 1789 — ems, duchy of nassau 1855
Collezione di cinque dipinti con studi di teste di cavalli dalle Stanze di Raffaello in Vaticano, Roma, 1815–1817 Olio su carta riportata su tela, 60 × 74 cm ognuno. Il primo dipinto è uno studio della testa del cavallo dell’imperatore Costantino che si trova al centro del grande affresco della Battaglia di Ponte Milvio di Costantino contro Massenzio della cosiddetta Sala di Costantino, l’ultima delle quattro Stanze Vaticane di Raffaello dipinta dopo subito dopo la morte dell’Urbinate dai suoi allievi usando i cartoni del maestro. Il grande affresco della Battaglia di Ponte Milvio di Costantino contro Massenzio fu dipinto da Giulio Romano. Anche il secondo, il terzo e il quarto dipinto riprendono tre cavalli dello stesso affresco: rispettivamente quello bigio in primo nella parte sinistra del dipinto che sta perdendo il suo cavaliere, quello baio dell’imperatore Massenzio immerso nell’acqua nella parte in basso a destra della composizione e quello baio pezzato di bianco sullo sfondo all’estrema sinistra dell’affresco. Il quinto è invece uno studio del cavallo pezzato imbizzarrito che compare nell’angolo destro dell’affresco che raffigura L’incontro di papa Leone Magno con Attila sulla strada di Roma dipinto nella Stanza di Eliodoro da Raffaello tra 1513 e 1514.
La palmare identità di stile tra questi cinque dipinti e un altro con lo stesso soggetto passato in asta a Parigi nel 2011 nella vendita della collezione dei discendenti dell’artista (fig. 1), permette di riferire con certezza i dipinti qui presentati al pittore di Auguste Vinchon. I dipinti furono eseguiti da Vinchon tra il 1815 e il 1817 durante gli anni di permanenza a Roma come vincitore del prestigioso Prix de Rome bandito dall’Academie Royale di Parigi nel 1814. Vinchon fu tra i maggiori pittori di storia e di ritratto della Francia della Restaurazione. Rientrato a Parigi dopo i tre anni di pensionato artistico a Roma, eseguì gli affreschi della cappella di San Maurizio (oggi cappella di Santa Giovanna d’Arco) nella chiesa di Saint-Sulpice. Tra le decorazioni compiute a Parigi c’è anche la pittura en grisaille della volta di Palazzo Brongniart. Eseguì inoltre importanti dipinti di storia, celebrativi della gloria di Francia. Un suo enorme dipinto con L’arruolamento volontario del 22 luglio 1792 è conservato al Musée de la Revolution française di Vizille. Francesco Leone
fig. 1: Auguste Jean-Baptiste Vinchon, Studio dall’affresco della battaglia di Ponte Milvio di Raffaello in Vaticano, 1815–1817, olio su tela, 72 × 162,5 cm, Paris, Galerie Mendes.
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GIUSEPPE MOLTENI affori 1800 — milano 1867
Ritratto di scultore (?) di profilo, 1840 circa Olio su carta, mm 330 × 255. Sul recto in basso a destra firmato e datato: Molteni f. 1840. Questo inedito olio su carta è stato recentemente riferito alla mano di Giuseppe Molteni, del quale si riconosce a prima vista l’inconfondibile cifra stilistica caratterizzata da una materia densa e corposa distribuita sul supporto con rapide ma precise pennellate che definiscono la figura attraverso la giustapposizione delle tinte irrorate da sapienti colpi di luce. Campione assoluto del ritratto ambientato,1 Molteni qui ritorna ad una composizione essenziale che coglie il ritrattato a mezzo busto di profilo su uno sfondo neutro, trattato sul lato sinistro con un progressivo stemperamento dei toni bruni che virano verso sfumature rosacee, mentre a destra, in corrispondenza del volto, le tonalità scure sono bruscamente interrotte dall’irruzione diretta della fonte luminosa. Il proverbiale estro del pittore, guidato da un impareggiabile virtuosismo tecnico, si dispiega liberamente, del tutto affrancato dai vincoli imposti nell’elaborazione dei ritratti ordinati su commissione. Un’opera intima, non destinata a circolare attraverso i canali ufficiali, sconosciuta dunque agli elenchi delle rassegne a cui Molteni partecipò. Un probabile omaggio reso al ritrattato, ancora privo di un nome: un artista, si direbbe, dall’abbigliamento, forse uno scultore, per la foggia del berretto, interprete,
immaginiamo, di uno spaccato di vita all’interno dello studio del pittore, che a partire dagli anni venti diventò il frequentatissimo punto d’incontro della vita artistica milanese.2 Luogo di lavoro e di intense collaborazioni, come testimonia il famoso acquerello che ritrae Molteni e Massimo d’Azeglio impegnati a dipingere insieme (Firenze, collezione privata), ma anche spazio deputato agli eventi mondani: lì si svolse il celebre Brindisi ispirato da Tommaso Grossi per celebrare la guarigione di Hayez alla presenza di tutti gli artisti più noti della città e si celebrò l’omaggio alla cantante Giuditta Pasta, protagonista di uno dei suoi ritratti più amati (Milano, collezione privata),3 che ricevette in dono un’opera ciascuno dai frequentatori più assidui dell’atelier (Francesco Hayez, Giovanni Migliara, Vitale Sala, Giuseppe Longhi e Francesco Durelli). Il pittore utilizzava il suo studio, magnificato da celebri riviste internazionali, anche come luogo di rappresentanza, ospitando collezionisti e viaggiatori italiani e stranieri, che arrivavano per un ritratto, per sfruttare le sue doti di restauratore o per ammirare la sua collezione di dipinti antichi e la raccolta di archeologia, che avrà certamente attirato l’interesse del protagonista del nostro ritratto mentre Molteni era intento a coglierne l’effigie.
1 Mazzocca 2000, pp. 24–27, 30–31. 2 Mazzocca 2000 a, p. 99; cfr. Mazzocca 2000 b, n. 5, pp. 198–199, fig. a p. 104. 3 Mazzocca 2000 c, n. 38, pp. 208–209, fig. a p. 149.
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ENRICO SCURI bergamo 1806 — 1884
Alceste resa da Ercole ad Admeto, ante 1828 Carboncino, sfumino, gesso bianco, carta applicata su tela, mm 1260 × 1630. «Compiuto è dunque o Admeto il giuramento tuo: costei t’ha sciolto! Eccola; mira! Alceste viva è questa» 1 in tali parole è racchiuso l’atto conclusivo dell’Alceste Seconda di Vittorio Alfieri, ultima tragedia del conte piemontese ispirata all’omonima opera di Euripide.2 Il pathos del momento è potentemente reso dalla composizione del grande disegno di Enrico Scuri, cartone preparatorio di un dipinto portato all’esposizione annuale di Brera del 1828 e oggi, sfortunatamente, disperso. La presenza corporea dei personaggi dimostra un attento studio dell’anatomia e della statuaria antica (da notare la muscolatura maestosa e guizzante del semidio che richiama quella dell’Ercole Farnese); 3 la forza gestuale, invece, trascende la razionalità dei modelli classici indirizzandosi verso una maggior attenzione all’emotività e al sentimento. La composizione dell’opera fa risaltare uno spiccato senso di teatralità che non cela la passione del pittore per la recitazione, verso la quale era stato indirizzato sin dalla tenera età frequentando la famiglia svizzera Mariton.4 Il disegno, quindi, può essere inserito in quel filone di transizione fra Neoclassicismo, che trovava ampio respiro nella tradizione romana, e Romanticismo, il cui centro avanguardistico fu Milano, che ebbe il suo momento culmine nella battaglia per il monumento commemorativo ad Andrea Appiani. 5 Enrico Scuri risulta una personalità particolare di questa querelle artistica perché da una parte si formò sotto Giuseppe Diotti che «aveva autorevolmente individuato nel classicismo primitivista e nel linguaggio eroico durante l’alunnato romano (1805–
1809) l’argine al verbo romantico»6 ma, nel contempo, sviluppò uno stile autonomo, non pedissequo, inserendosi fra quei «geniali interpreti di questa crisi del Romanticismo storico [...]. Questi pittori ribelli, [che] spesso attaccati dalla stampa o incompresi dal pubblico, ricercavano nuove suggestioni sentimentali, inedite aperture narrative e formali [...]».7 Enrico Scuri nacque a Bergamo nel 1806 e sin da giovane evidenziò una tale propensione per la pittura che nel 1819, appena raggiunta l’età minima richiesta, fu iscritto alla prestigiosa Accademia di Carrara.8 In quell’occasione entrò in contatto con Giuseppe Diotti, del quale divenne l’allievo prediletto oltre che un collaboratore: Diotti lo prenderà sotto la sua ala protettiva 9 sia come aiuto sia cedendogli alcune importanti commissioni come quella della Cupola dell’Incoronata di Lodi.10 Scuri, sin da giovane età, si dedicò ad un’intensa attività privata, specializzandosi nella ritrattistica e nelle opere a tema sacro, ma rimarrà sempre fortemente legato al mondo accademico: 11 non solo ebbe la possibilità di seguire altri quattro anni di corso oltre ai dieci canonici 12 ma ricevette numerosi riconoscimenti anche al di fuori dell’ambito lombardo. Inoltre, successe alla cattedra del suo stesso insegnante tenendola per quarantatré anni, mantenendo una posizione di spicco nel mondo culturale del suo tempo13 nonostante la sua predilezione per un’estetica più influenzata dal canone accademico e, solo all’apparenza, non recettiva dei nuovi codici linguistici.14 Chiara Fiorini
1 Alfieri 1842, p. 472. 2 La tragedia è incentrata sul sacrificio di Alceste, giovane moglie di Admeto, re di Fere in Tessaglia, che offre la sua vita per salvare quella del marito. Il finale, però, è esente dalla drammaticità che queste composizioni richiedono, essendo positivo: Ercole, di passaggio dalla Tessaglia per una delle sue dodici fatiche, libera la donna dalla
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morte e la riporta al marito. 3 Cfr. Mangili 2002, p. 179. 4 L’interesse che Scuri rivolgeva all’arte drammatica era talmente forte che trovò più volte uno scontro con il suo professore e mentore, Giuseppe Diotti, che sosteneva che «la pittura non avesse rivali», oltre che con il consiglio d’amministrazione dell’Accademia di Carrara. Cfr. Ivi, pp. 77–81.
Cfr. Leone 2018, pp. 41–43. Cfr. Ivi, p. 44. Cfr. Mazzocca 2018, p. 31. Cfr. Mangili 2002, p. 80. Per capire la profondità del loro rapporto vi è un pittoresco aneddoto del 1825: il maestro porterà Scuri con sé a Soresina per aiutarlo a chiudere una relazione amorosa malvista dalla sua famiglia. E proprio lì, mentre era ospite della famiglia Landriani, co-
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nobbe la sua futura moglie Caterina. Cfr. Ivi, 80–81. Cfr. Ivi, p. 23. Cfr. Ivi, pp. 81–82. Cfr. Ivi, p. 82. Quest’occasione era riservata solo ad «allievi di singolare attitudine e buona condotta». Cfr. Ivi, pp. 21–33. Mangili 2018, p. 352.
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HENRYK HEKTOR SIEMIRADZKI bielgorod, ucraina 1843 — strzałkówo, polonia 1902
Banchetto di Dionìsio I di Siracusa, c. 1882–1885 Olio su tela di lino, cm 100 × 175,5. Il dipinto è documentato sopra la porta di un salone del primo piano del villino Siemiradzki di via Gaeta 1 a Roma – città in cui il pittore ha lavorato e vissuto dal 1872 fino alla morte – da una fotografia risalente agli anni novanta dell’Ottocento (fig. 1).1 Questa grande tela è un ritrovamento di notevole rilievo per il catalogo di questo importante pittore polacco, insieme a Lawrence Alma-Tadema e Jean-Léon Gérôme tra i maggiori esponenti di quella pittura «archeologica», meglio nota come «neopompeiana», che ebbe enorme popolarità in tutta Europa nel corso della seconda metà dell’Ottocento, in particolar modo tra gli anni settanta e gli anni novanta. Una prima idea grafica del dipinto, molto precisa, è tra i disegni contenuti in un taccuino di Siemiradzki conservato al Museo Nazionale di Varsavia (fig. 2).2 Mentre in un altro taccuino di Siemiradzki custodito al Museo Nazionale di Cracovia, il pittore appuntò da Mosca nell’agosto del 1882 questa intenzione: «Leggere la storia di Dionisio di Siracusa e trovarci un tema per un dipinto». 3 Questa notazione è un sicuro terminus post quem per la prima idea dell’opera. Il dipinto, lasciato non finito dal pittore, è stato oggetto di un’approfondita indagine diagnostica da parte di Dominika Sarkowicz del Laboratorio di Restauro di Pittura e Scultura del Museo Nazionale di Cracovia (Muzeum Narodowe w Krakowie), dove è conservato un grande numero di opere di Siemiradzki donate dal figlio Leon. Lo studio ha inequivocabilmente confermato la paternità di Siemiradzki – tra compatibilità delle stesure cromatiche e analogie stilistiche con altre opere – e ha evidenziato alcuni elementi di rilevanza decisiva per la storia del dipinto. Soprattutto le fotografie del dipinto a luce infrarossa e le radiografie hanno svelato che per il quadro Siemiradzki impiegò una tela di riuso su cui era originariamente dipinto, in verticale, un abbozzo di grandi dimensioni della parte sinistra dell’enorme dipinto Le torce di Nerone compiuto nel 1876 (il dipin-
to, conservato al Museo Nazionale di Cracovia, misura 305 × 704 cm senza cornice). Se ne scorgono alcuni incontrovertibili elementi architettonici come la balaustra di gusto archeologico su cui sono assiepati gli astanti, le scale e parti della terrazza. Sul piano stilistico questo dipinto con Il banchetto di Dionìsio I di Siracusa mostra numerose analogie con alcune opere realizzate da Siemiradzki intorno alla metà degli anni ottanta dell’Ottocento. Si deve dunque immaginare che Siemiradzki, affascinato da questo celebre e sanguinario tiranno siracusano (432–367 a.C.), così come lo era stato poco prima da un altro personaggio controverso dell’antichità come Nerone, pensò di realizzare un dipinto che lo avesse come protagonista e che poi, non avendo trovato un committente per l’opera, il dipinto sia rimasto incompiuto nel suo studio. Le fattezze di Dionìsio I come ci sono tramandate dalla tradizione – barba allungata, capelli lunghi fermati da una fascia sulla fronte – sono rintracciabili nel personaggio a torso nudo con una decorazione d’oro sul braccio destro, ammantato di un ricco drappo bordato d’oro avvolto sulle gambe, seduto mentre cinge una cortigiana adagiata sul triclinio nella parte centrale verso sinistra del dipinto. Altre ancelle sono intente nella musica, mentre sul lato destro una figura maschile conduce forzatamente al cospetto del tiranno una donna che si sta dimenando. Sebbene allo stadio di abbozzo, il dipinto rivela già – anche grazie alla resa vivida e materica delle stesure cromatiche e al genio compositivo del pittore – l’attenzione maniacale di Siemiradzki per il dettaglio archeologico degli oggetti e dei particolari architettonici che egli studiava minutamente osservando dal vero, tra Roma e Pompei, i resti delle antichità romane. In questo empito alla restituzione palpabile, realistica, quotidiana dell’antichità – tipica della pittura neopompeiana – Siemiradzki aveva toccato un vertice insuperato con Le torce di Nerone, ispirato a un brano degli Annali di Ta-
fig. 1: Fotografia d’archivio del salone al primo piano del villino Siemiradzki a Roma, 1890 circa. Sulla porta, al di sopra di un modelletto delle Torce di Nerone, si scorge il Banchetto di Dionìsio I di Siracusa. fig. 2: Henryk Hektor Siemiradkzi, Disegno con il Banchetto di Dionìsio, da un taccuino di disegni di Siemiradzki, Varsavia Museo Nazionale, inv. Rys. Pol. 8949/3.
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cito (XV, 44), in cui è raffigurato il supplizio imposto dall’imperatore ai martiri cristiani nei giardini antistanti la Domus Aurea. Quando il dipinto fu esposto a Roma nel 1876, prima nello studio di Siemiradzki che allora si trovava ancora in via Margutta e poi all’Accademia di San Luca, questo enorme quadro suscitò sulla stampa periodica romana un coro di critiche entusiastiche. Poi, prima di essere donato alla città di Cracovia, il dipinto partì per una trionfale tournée che toccò un incredibile numero di capitali europee.4 Uscendo dalla banalità del soggetto antico di genere, dal racconto dei fatti quotidiani dei romani antichi che contraddistingueva la pittura archeologica, Siemiradzki fu tra i primi a cimentarsi con il sadismo e la ferocia di Nerone, inaugurando una popolarità che tra fine Ottocento e inizi Novecento non conobbe confini, tra teatro, letteratura, musica e arti. Fu proprio dalla sua intensa amicizia con Siemiradzki, maturata durante i suoi ripetuti soggiorni a Roma, che Henryk Sienkiewicz maturò l’idea di scrivere il bestseller Quo Vadis? Romanzo dei tempi di Nerone. Dal romanzo, pubblicato nel 1895 e tradotto in italiano nel 1899, Enrico Guazzoni avrebbe tratto nel 1913 la sua celebre trasposizione cinematografica. Francesco Leone 1 Dal 1872 Siemiradzki visse sempre a Roma. Ma aveva una casa a Strzałków in Polonia dove trascorreva l’estate. Qui, durante le vacanze estive del 1902, trovò la morte il 23 agosto. Progettato dall’architetto Francesco Azzurri, il villino Siemiradzki era addirittura inserito nelle guide di Roma pubblicate dalla casa editrice Baedecker. Era molto visitato dai viaggiatori stranieri. Nel 1888 fu visitato anche dalla regina Margherita. Al primo piano, in un salone arredato in modo lussuoso, il pittore esponeva le sue opere. Al secondo piano, dove raramente erano ammessi i visitatori, c’era il suo studio. I Siemiradzki vi organizzavano ricevimenti di Natale e di Pa-
squa per i polacchi residenti a Roma. Alla morte del pittore, il villino fu trasformato in un museo dalla moglie Maria Pruszyńska (morta nel 1937). Fu distrutto negli anni trenta del Novecento e le opere di Siemiradzki furono donate per la gran parte dal figlio Leon al Museo Nazionale di Cracovia. 2 Museo Nazionale di Varsavia, inv. Rys.Pol.8949/3. 3 Museo Nazionale di Cracovia, inv. III-r.a. 18392, p. 19. 4 Gozzoli 1883, pp. 190–191; Miziołek 2010, p. 86: Vienna, Monaco di Baviera, Berlino, Stoccolma, Copenaghen, Amsterdam, Lviv, Varsavia, Cracovia, Mosca, San Pietroburgo, Praga, Torino.
fig. 3: H. Siemiradkzi, Le torce di Nerone, 1876, olio su tela, 385 × 704, Cracovia, National Museum, Inv. no. MNK II-a-1 ; fotografia su gentile concessione del «Laboratory Stock National Museum in Krakow».
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FRANCESCO PAOLO MICHETTI tocco di casauria 1851 — francavilla al mare 1929
Scogli, 1903 Carboncino e pastelli colorati su carta grigio-blu, mm 300 × 410. Sul recto in basso a sinistra a penna e inchiostro blu firmato Michetti; al verso in alto a destra in carboncino firmato; in basso a destra datato 2 VIII 3 (2 Agosto 1903). Questo pastello, eseguito «en plein air» firmato e datato dall’artista il 2 agosto 1903, raffigura una piccola baia marina. Le sue dimensioni e la qualità dell’esecuzione lo collegano a un gruppo di pastelli riscoperti dagli studiosi ed esposti durante la mostra di Michetti a Roma nel 1999.1 Questi disegni sono particolarmente interessanti poiché sono stati eseguiti immediatamente dopo la profonda delusione subita da Michetti per la fredda accoglienza che il suo lavoro ricevette durante l’Exposition Universelle di Parigi del 1900.2 Dopo tale data Michetti decise di abbandonare quasi completamente la pittura e di consacrarsi, per la sua sola soddisfazione personale, alla fotografia e alla produzione di piccoli disegni e pastelli ricchi di effetti luministici e atmosferici. Libero dall’onere di compiacere una clientela apparentemente
ingrata, Michetti ha raggiunto in questi disegni un’estrema autonomia di espressione pittorica, catturando i soggetti con un’immediatezza paragonabile a quella di cui era capace in fotografia. La piccola insenatura raffigurata nel notro foglio era probabilmente un luogo che l’artista conosceva molto bene. Potrebbe trovarsi lungo la costa di Francavilla Mare, forse vicino al Conventino nell’ex monastero di Santa Maria di Gesù, che alla fine del XIX secolo divenne un punto d’incontro per eminenti figure artistiche e letterarie. In realtà l’intera zona ricadde nell’interesse di Michetti3 che sedotto anche dall’entroterra immortalò la bellezza del fiume Orfento in un pastello intitolato Acque e Rupi datato 6 luglio 1903 4 e nel quale si coglie la medesima poetica del nostro foglio (fig. 1).
1 Barilli 1999, pp. 15–18. 2 Francesco Paolo Michetti 1999, pp. 172–180; figg. 48–62. 3 Sillani 1932, pl. CXXXV. 4 Francesco Paolo Michetti 2018, n. 727
fig. 1: Francesco Paolo Michetti, Acque e Rupi, collezione A. Michetti.
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VINCENZO GEMITO napoli 1852 — 1929
Ritratto di Bertolini, 1914 Matita e carboncino su carta, mm 360 × 250. Sul recto in basso a destra firmato e datato: V. Gemito / 1914 / Napoli. bibliografia: Pagano 2009, p. 21. Per Vincenzo Gemito l’esercizio del disegno fu costante, del tutto parallelo e connaturato all’attività scultorea. Fu per lui infatti pratica finalizzata allo studio della forma plastica, e strumento principe di indagine e conoscenza del reale, sin da quando, giovanissimo, condivise con il coetaneo pittore Antonio Mancini (1852–1930), suo grande amico, l’abitudine di ritrarre dal vero scene di vita quotidiana nei vicoli e nelle piazze di Napoli. Soggetto ricorrente di tali esercitazioni era per entrambi il mondo infantile degli scolaretti e degli scugnizzi, dei piccoli pescatori o degli acquaioli, di piccoli cantori o di «malatielli». Per Gemito, dunque, nella prima parte della sua attività artistica, il disegno fu il mezzo per approfondire lo studio della fisicità corporea e del movimento della figura, come dimostra la serie grafica in relazione con l’esecuzione del Pescatoriello del 1875. Ma dal momento in cui deflagrò in lui l’instabilità mentale che lo portò al ricovero nel 1887 – come Mancini, d’altronde, pochi anni prima – nell’Ospedale psichiatrico di Napoli, e, da quando, dopo essere scappato dal nosocomio, egli si rifugiò nel completo isolamento della propria casa in Via Tasso, ove rimase sino al 1909 senza uscirne, ecco che il disegno divenne, per forza di cose rispetto alla scultura, il suo mezzo principale di espressione.1 Ed egli vi andava fermando un vario e molteplice insieme di «progetti di ornati, modelli decorativi, nature morte, fiori e frutta,
composizioni di pesci e di uccelli o studi di figura e veri e propri ritratti».2 E la grafica diventò per lui il tramite di una meditazione visiva dal carattere quasi iper-realista, carica di una sensibilità astraente e allucinata, come è dato riscontrare nei suoi bellissimi Autoritratti. Al 1914 risalgono due Ritratti a matita e biacca, di grande formato, che raffigurano due giovani adolescenti appartenenti alla famiglia Bertolini di Napoli. I Bertolini possedevano e gestivano il Palace Hotel Bertolini al Parco Grifeo di Napoli, e probabilmente i due disegni furono commissionati a Gemito per essere poi esposti nei saloni dell’Hotel. I due ritratti, ora nelle collezioni del Philadelphia Museum of Art, presentano Laura Bertolini 3 e suo fratello 4 (fig. 1), circondati di attributi infantili: vestita ancora da bimba lei, con il gioco del cerchio e un cagnolino accanto, ma con il corpo e il volto già quasi adulto, offre un singolare contrasto tra apparenza ed intima essenza dell’identità ritratta. Così il ritratto di suo fratello, vestito in abito signorile e con largo colletto bianco da bambino borghese, appare così differente dagli scugnizzi di strada ritratti quasi trent’anni prima dallo scultore: egli sosta in piedi in un corridoio, posando languido davanti ad una misteriosa scalea, e tiene in spalla un fucile, con una mano per metà infilata nel taschino dei pantaloni guarda misterioso di lato, sfuggendo lo sguardo dell’osservatore.
fig. 1: Vincenzo Gemito, Figlio di Bertolini, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art: 125th Anniversary Acquisition. Purchased with the Lola Downin Peck Fund, the Alice Newton Osborn Fund, and with funds contributed by Marilyn L. Steinbright and the J. J. Medveckis Foundation, 1999-4-2.
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Ci siamo soffermati su questi due Ritratti dei fratelli Bertolini perché il disegno che qui si presenta è conosciuto con il titolo di Ritratto di Bertolini. 5 Di un giovane uomo dell’età di circa vent’anni è ritratta solo la testa, molto accuratamente e sensibilmente chiaroscurata, mentre parte del busto con giacca, camicia e cravatta è solo appena schizzata. Egli guarda pensieroso, diritto verso l’osservatore, con una espressione sospesa di malinconia. Ha un cappello portato all’indietro, la larga tesa rialzata sulla bella fronte, in un atteggiamento che potrebbe essere di spavalderia, ma che invece – data la tristezza soffusa dello sguardo e la dolcezza con cui il chiaroscuro definisce il modellato – esprime solo la contemporaneità, l’appartenenza di quel volto bello al tempo dello scultore. La forma del viso, il taglio degli occhi, la bocca carnosa, sembrerebbero in tutto corrispondere ai tratti fisiognomici del Ritratto del ragazzo con fucile del Philadelphia Museum of Art. Stando alla datazione dei fogli, però, entrambe le prove grafiche sarebbero state eseguite nello stesso anno, il 1914, e i due personaggi mostrano una differente età. Si potrebbe credere che il personaggio del nostro foglio sia da identificare con un altro membro della famiglia Bertolini, ma sarebbe anche possibile pensare che il Ritratto del ragazzo con il fucile sia stato eseguito da Gemito nel 1914 sulla scorta di una fotografia più antica, e che il nostro Ritratto sia stato realizzato attribuendo al giovane, sempre nel 1914, la sua vera età. 1 2 3 4 5
Di Giacomo 1905, pp. 155–156. Villari 2009, p. 567. Inv. 1999-4-1. Inv. 1999-4-2. Illustrato in Pagano 2009, p. 21.
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LUDOVICO MARCHETTI roma 1853 — parigi 1909
Prometeo incatenato alle cime del Caucaso, 1897 Olio su tela, cm 116 × 147. Firmato e datato in basso a sinistra: L. Marchetti ‘97. Il dipinto si colloca autorevolmente e con originalità nel contesto del simbolismo esoterico che conquistò artisti e intellettuali europei – soprattutto in Francia e Belgio – tra fine Ottocento e primi anni del Novecento. La composizione si ispira alla prima scena del Prometeo incatenato di Eschilo, che insieme al Prometeo portatore del fuoco e al Prometeo liberato forma la trilogia di Prometeo che ci è nota da frammenti. Nella tragedia di Eschilo, come nel dipinto di Marchetti, il titano compare imprigionato a una rupe, nelle desolate terre della Scizia ai confini del mondo, al cospetto di Efesto, il dio del fuoco raffigurato con il tipico attributo del martello (il Vulcano del pantheon romano), e delle personificazioni femminili del Potere e della Forza, seduta su una roccia con una clava nella mano sinistra. Nell’ambito dell’occultismo europeo la figura di Prometeo godette di un’enorme fortuna. Diversamente dalla cultura romantica che lo aveva esaltato come eroe di una titanica ribellione solitaria, l’occultismo di fine secolo vide nel titano una sorta di salvatore, artefice di una rivelazione che aveva dato all’uomo la conoscenza. Donando al genere umano il fuoco divino rubato a Zeus, Prometeo aveva simbolicamente aperto all’uomo la strada della consapevolezza, di fatto lo aveva salvato elevandolo dagli istinti alla ragione. Quel gesto d’amore verso l’umanità aveva scatenato l’ira di Zeus che aveva condannato Prometeo a essere legato a una roccia. Un personaggio chiave per la cultura europea di fine Ottocento come l’occultista e filosofa russa Helena Blavatsky, cofondatrice nel 1875 della Società Teosofica e cultrice dell’esoterismo, per prima aveva interpretato in questi termini salvifici la figura di Prometeo nel suo famosissimo The Secret Doctrine pubblicato a Londra nel 1888. Lo aveva definito «the personified symbol of the collettive Logos», «the HEAVENLY MAN, who incarnated in Humanity», «the fire and light-giver».1 Prometeo era di-
ventato l’allegoria di uno spirito superiore che dischiude agli iniziati un patrimonio di conoscenze ermetiche, di dottrine segrete appunto. Anni dopo, proprio a ridosso del dipinto di Luigi Marchetti, l’esoterista Joséphin Péladan, uno dei teorici più significativi del Simbolismo europeo, promotore dei celebri Salons parigini dell’ordine dei Rose + Croix, pubblicò a Parigi nel 1895 la trilogia teatrale Prométhéide.2 Rifacendosi a Eschilo, Péladan aveva posto al centro del suo trittico il Prometeo incatenato, preceduto dal Prometeo portatore del fuoco e seguito dal Prometeo liberato. Nel sincretismo religioso di fine Ottocento e nella particolare visione cristiana di Péladan, Prometeo diventava una sorta di prefigurazione di Cristo: entrambi avevano donato all’uomo la rilevazione, si erano sacrificati per il bene dell’umanità ed erano infine tornati a nuova vita (nel Prometeo liberato di Eschilo il titano viene liberato da Eracle). Per Péladan Prometeo, il cui operato si colloca ai primordi dell’umanità, è il daïmon capostipite di una stirpe di eletti che abitano la terra. In questa visione sincretista che lo avvicinava a Cristo, in effetti, Prometeo era definito «Crucified Titan» nel The Secret Doctrine della Blavatsky.3 Prometeo era dunque un liberatore e come tale venne descritto anche nel dramma Prométhée libérateur pubblicato da Stanislas Millet a Parigi proprio nel 1897, l’anno in cui Marchetti dipingeva quest’opera. Nel dipinto la postura di Prometeo – che non trova precedenti nella tradizione pittorica – deriva senz’altro dall’immagine del «Crucified Titan» evocata dalla Blavatsky nel The Secret Doctrine, che evidentemente Marchetti conosceva. Quello stesso anno a Parigi il tema fu trattato come prova per il concorso del Prix de Rome da Laurent Jacquot-Defrance in un dipinto molto simile a questo di Marchetti sia per l’ispirazione che per il linguaggio formalista di matrice accademica a cui entrambi i pittori si affidano (fig. 1). Ma se Jacquot-Defrance risultava ancora legato alla poetica del
fig. 1: Laurent Jacquot-Defrance, Prometeo incatenato da Efesto sulle cime del Caucaso, 1897, collezione privata.
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vero e soprattutto al retaggio secentesco (un precedente preciso per il suo quadro è il Prometeo incatenato da Efesto di Dirck van Baburen del Rijksmuseum), Marchetti appariva invece più in linea con gli esiti recenti di certo realismo profondo ed enigmatico promosso da alcuni artisti del circuito dei Rose + Croix di Péladan o da figure come Fernand Khnopff. In ambito figurativo comunque, sebbene nel contesto di un simbolismo precoce ancora non permeato da teorie occultiste, Prometeo aveva già fatto la sua comparsa al Salon parigino del 1868 in un dipinto piuttosto famoso di Gustave Moreau (fig. 2). Quest’opera segna un profondo cambiamento nella poetica figurativa di Marchetti. Marca una svolta verso una pittura di idee e di simboli che si colloca agli antipodi della facile e modaiola arte di genere promossa nei Salon parigini, di cui Marchetti era stato un interprete di grande successo sin dai primi anni del suo definitivo trasferimento a Parigi nel 1878.4 Francesco Leone 1. Blavatsky 1888, II, pp. 413–414. Composto di due volumi: il primo intitolato Cosmogenesi, il secondo Antropogenesi. 2. Péladan 1895.
3. Blavatsky 1888, II, p. 413. 4. Notizie biografiche sul pittore sono in Comanducci ed. 1970–1974, III (1972), pp. 1866–1867.
fig. 2: Gustave Moreau, Prometeo incatenato, 1868, Parigi, Musée Gustave Moreau.
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SCULTURA SENESE DEL XVI SECOLO: DUE IMPORTANTI TERRECOTTE DEL MARRINA
LORENZO DI MARIANO, IL MARRINA
detto
siena, 1476 — 1534
Nato a Siena nel 1476, Lorenzo di Mariano è ormai riconosciuto come il più importante scultore senese dei primi decenni del Cinquecento, non solo per la virtuosistica capacità di intagliare in marmo straordinarie grottesche e motivi antiquari all’antica (fig. 1), ma anche perché alla sua mano si possono riconoscere diverse figure in terracotta policroma, che attestano un’ottima dimestichezza pure con la statuaria «per via di porre». Fin dal 1490, mentre il padre Mariano di Domenico aiutava Francesco di Giorgio a rinettare la coppia di Angeli bronzei oggi sull’altare del Duomo di Siena, Lorenzo avviava la sua formazione di scalpellino nel cantiere dell’Opera diretto da Giovanni di Stefano. Qui egli seppe dare prova precocemente delle sue qualità, collaborando prima alla decorazione della facciata della Cappella di San Giovanni Battista (destinata ad accogliere sull’altare la statua bronzea di San Giovanni Battista di Donatello) e realizzando poi il prospetto della Libreria Piccolomini (1495–1498), il cui interno sarebbe stato affrescato nel decennio successivo dal Pinturicchio con il celeberrimo ciclo di Storie di Pio II. In entrambi i casi il Marrina dimostra di avere un grande talento nella lavorazione del marmo, intagliando fantasiosi ornati all’antica di rara qualità. Il coinvolgimento nei lavori della Libreria permise a Lorenzo di entrare in contatto con i più influenti membri della famiglia Piccolomini – nipoti di papa Pio II e fratelli di papa Pio III – che fin dal 1504 gli commissionarono la decorazione della cappella di Sant’Andrea nella chiesa di San Francesco (distrutta nel 1655 da un in-
cendio; restano in loco, pur restaurate, le Virtù cardinali del pavimento) e nel 1509 lo incaricarono di eseguire alcuni capitelli e peducci per il grande palazzo alle Logge del Papa. Risale al 1514 il bel tabernacolo della chiesa di San Lorenzo a Sarteano, che si può riferire al Marrina e si crede commissionato da Francesco di Nanni da Sarteano, uomo della cerchia piccolominea. Una volta scolpito verso il 1507, per la chiesa dell’ospedale di Santa Maria della Scala, il piccolo monumento funebre del rettore Giovanni Battista Tondi, alla fine del 1509 Lorenzo ebbe la commissione dell’altare maggiore della chiesa senese di Santa Maria in Portico a Fontegiusta, che reca la data 1517 ed è da giudicare tra i suoi capolavori più alti. Si tratta di una sorta di monumentale cornice marmorea, ispirata al prospetto di un tempio antico, e montata intorno a una delle immagini mariane più venerate di Siena (fig. 1). In tale impresa il Marrina non mancò di avvalersi di collaboratori: i documenti ricordano in particolare Michele Cioli da Settignano, mentre le ragioni dello stile hanno permesso di individuare nella Pietà della lunetta la mano del fratello Angelo, cui una successiva attività romana avrebbe conquistato una breve biografia nelle Vite di Giorgio Vasari sotto l’epiteto di «Michelangelo senese». A queste date il Marrina doveva essere dunque a capo di una efficiente bottega familiare, che da Siena avrebbe saputo ramificarsi fino a Roma non solo tramite Angelo, ma anche grazie all’altro fratello Ludovico e probabilmente in virtù della protezione di Baldassarre Peruzzi, con il quale Lorenzo condivideva una grande passione per
fig. 1: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, altare (intero e particolari degli ornati), Siena, Santa Maria in Portico a Fontegiusta.
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l’antico. Si può parlare in tal senso di famiglia «Marrini», recuperando un cognome che la letteratura artistica senese di età moderna usava associare con gli ornati di carattere antiquario. Ormai quarantenne, Lorenzo dovette evitare le avventure romane, preferendo restarsene a Siena: con la scomparsa di Giacomo Cozzarelli nel 1515, egli aveva ormai campo libero per imporsi definitivamente come il maggiore scultore della città. A Siena sarebbe morto nel 1534 e per gli ultimi decenni non mancano notizie dei suoi lavori: per le monache del Paradiso eseguì, in terracotta policroma, un busto di Santa Caterina da Siena (1517) (fig. 3) e una figura di Vergine annunciata (1521–1524), che si conservano oggi nell’oratorio della Contrada del Drago; entro gli inizi del 1523 aveva scolpito la notevole cornice marmorea all’antica dell’altare di Anastasia Marsili in San Martino, che di lì a poco avrebbe accolto la Natività di Domenico Beccafumi (fig. 2); nel 1529–1531 realizzò un gruppo di Annunciazione fittile per San Girolamo in Campansi – perduto o da ritrovare – che fu dipinto da Beccafumi e stimato da Peruzzi (cosa che la dice lunga sulle sue importanti frequentazioni) e nel 1531 ebbe infine la commissione di un pancale per la Loggia della Mercanzia, ultimato dopo la sua morte e andato distrutto nel Settecento. Muovendo dalle due sculture per le monache del Paradiso, gli studi più recenti hanno riconosciuto al Marrina un corposo gruppo di statue fittili policrome, Nota bibliografica: per la carriera del Marrina si può adesso rimandare alla monografia di Ranfagni 2017, che tuttavia presenta un apparato foto-
grafico assai debole, e mostra una generale difficoltà nel comprendere il vero «carattere» del Marrina plasticatore. Tra i contributi più recenti
dalle quali si intende che nell’ambiente artistico senese figure del genere continuavano a riscuotere un buon successo, quando i maggiori scultori d’Italia – Michelangelo, Andrea e Jacopo Sansovino, Giancristoforo Romano, Tullio Lombardo – avevano ormai estinto il colore dalla scultura in marmo, in nome della devozione per il perfetto candore della materia, inteso a riproporre l’effetto di marmi antichi, privati dal tempo delle originarie e immancabili policromie. Il Marrina plasticatore, invece, rinuncia orgogliosamente al dialogo con Michelangelo e i Sansovino: segnato dalla lezione tardoquattrocentesca di Francesco di Giorgio e Cozzarelli, egli entra piuttosto in sintonia con l’interpretazione della «maniera moderna» offerta a Siena, in pittura, dal Sodoma e soprattutto dal Beccafumi, come palesano alcune tra le più significative sculture policrome che si possono riferire alla sua mano: dalla Santa Caterina da Siena in Santo Spirito al San Giuseppe dell’omonimo oratorio di Siena, dalla Santa Caterina d’Alessandria di Santa Maria Assunta a Rapolano ai Santi Pietro e Paolo di Montefollonico ora nel Museo Diocesano di Pienza, fino alle due statue presentate di seguito, che da un lato appaiono esemplari della sua notevole abilità nella lavorazione della terracotta, e dall’altro lasciano intendere le potenzialità di una officina familiare in cui Lorenzo seppe coinvolgere con intelligenza il fratello minore Angelo. Gabriele Fattorini su questi temi: Fattorini e Angelini 2017; Fattorini 2015; Fattorini 2014; Martini 2014; Angelini 2005, pp. 341–383; Fattorini 2005, pp. 560–571 e le
relative note a pp. 581–582. Per Angelo di Mariano resta fondamentale l’apertura di Angelini 1998.
fig. 2: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, altare Marsili (con la Natività di Domenico Beccafumi), Siena, San Martino. fig. 3: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, Santa Caterina da Siena, Siena, oratorio di Santa Caterina del Paradiso della Contrada del Drago.
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LORENZO DI MARIANO, IL MARRINA
detto
siena, 1476 — 1534
ANGELO DI MARIANO, detto MICHELANGELO SENESE siena, 1491 — siena ?, 1540 circa
Vergine Annunciata Terracotta, cm 171 × 65 × 55 circa– cm 160 senza la base, in parte rifatta. Questa statua in terracotta dipinta, grande al vero, raffigura la Vergine Annunciata (figg. 1–4) come dichiarano il manto disseminato di stelle a otto punte, attributo prettamente mariano simbolo di perfezione e di splendore, e la gestualità allusiva alla ‘interrogatione’, terza ‘condizione’ mentale di Maria durante l’ ‘angelica confabulatione’ con l’Arcangelo Gabriele: postura dalla quale si deduce che in origine era certamente congiunta ad una simile immagine del messo celeste. L’opera fu pubblicata nel 1921, quando si trovava in una collezione privata di Amsterdam, da Wilhelm R. Valentiner 1 che la riteneva da collegare ad un Angelo annunciante conservato nel Metropolitan Museum of Art di New York, pure in terracotta dipinta (cm 156,2 compresa la base; venduto al museo nel 1911 da Marx Frères di Parigi), e attribuibile, come l’angelo (che si crede provenire dall’oratorio dell’Annunziata di Lucca, ampliato nel 1493) allo scultore lucchese Matteo Civitali (1436–1501). Questa proposta, già contraddetta dalle misure diverse delle due figure, priva di convincenti riscontri stilistici non ha trovato conferme nella recente letteratura critica sull’artista, dove è venuto a cadere anche l’Arcangelo del Metropolitan riferito oggi in modo dubitativo al nipote Masseo Civitali, come suggerisce Martina Harms.2 Dall’articolo del Valentiner apprendiamo inoltre che il collezionista olandese aveva acquistato la Vergine in Italia ‘several years ago’, quindi intorno al 1900 se non già alla fine dell’Ottocento, attribuendola ad Agostino di Duccio. La Harms chiarisce che si tratta del medico svizzero Otto Lanz (1865–1935), noto collezionista di arte rinascimentale, e ci informa che l’opera nel 1986 era poi transitata in una vendita all’asta di Sotheby’s a Londra. La scultura compare infatti nel catalogo della vendita dell’11 dicembre 1986 3 dove veniva attribuita a Masseo Civitali. In occasione dell’asta fu inoltre effettuato dal Research Laboratory for Archaeology and the History of Art dell’Università di Oxford il test della termoluminescenza dove si attesta che i campioni di argilla sottoposti all’esame furono cotti ‘more than 300 years ago’. Presumibilmente fu a seguito dell’asta di Sotheby’s che la statua fece ritorno in Italia, esposta l’anno seguente alla 15a Biennale Mostra Mercato Internazionale dell’Antiquariato 4 dalla Galleria Barberini di Lamberto Galeazzi di Terni con un’attribuzione a Masseo Civitali.5 Un successivo passaggio di proprietà è attestato dal certificato della vendita da parte dell’antiquario de L’Aquila
Antonio Di Brisco al collezionista bolognese Gennaro Filippini, in data 10 gennaio 1993, dove si riproponeva la vecchia attribuzione a Matteo Civitali. Alla morte dell’architetto Filippini (5 febbraio 2008), l’opera è stata ereditata dalla figlia Petra Chiara, e, dopo un interessamento da parte dell’antiquario Luca Squarcina (2008), temporaneamente esposta presso la Galleria Arcadia Antichità di Bologna (2010), sempre con il tradizionale riferimento a Matteo Civitali e un accostamento all’Angelo del Metropolitan. La Vergine in esame è invece sicuramente da collocare in ambito senese, trovando puntuali riscontri stilistici nella produzione riferita a Lorenzo di Mariano, detto il Marrina (1476–1534), che, accanto ai celebrati, virtuosi intagli marmorei ‘all’antica’, conta anche un cospicuo nucleo di lavori in terracotta dai caratteri assai peculiari.6 La scultura in origine dialogava con la statua in terracotta dell’Arcangelo Gabriele conservata nel Szépművészeti Múzeum di Budapest (cm 164; fig. 5), acquistata a Firenze presso l’antiquario Emilio Costantini nel 1895.7 L’Angelo di Budapest risulta infatti strettamente imparentato con la Madonna (fig. 6) nelle dimensioni (lo scarto di qualche centimetro è imputabile ai rifacimenti della base), nelle peculiarità formali, come la postura solenne, pausata, i volumi espansi o il panneggio solcato da fitte pieghe dall’andamento ovoidale, negli aspetti tecnici, come la costruzione in vari pezzi sovrapposti, nella fastosa ridipintura (documentata da foto anteriori al restauro del 1949) che, come qui, occultava tracce ormai esigue della policromia originaria, ed anche nella tipologia circolare rastremata dei basamenti. Già attribuito a Neroccio,8 questo Arcangelo (fig. 7) è stato ricondotto a Lorenzo Marrina, o alla sua stretta «cerchia», da Maria Grazia Ciardi Duprè dal Poggetto,9 per le evidenti affinità tipologiche e formali con gli Angeli nella lunetta marmorea dell’altare maggiore della chiesa di Fontegiusta (Cristo in Pietà tra angeli; fig. 8), principale impresa marmorea documentata del maestro (datata 1517), condotta in collaborazione coi fratelli minori Ludovico e Angelo e col settignanese Michele Cioli. Nello stesso contributo la Ciardi Duprè dal Poggetto collegava alla scultura di Budapest un’altra statua in terracotta, raffigurante Sant’Agata (Corsano, pieve di San Giovanni Battista), poi confermata dalla critica,10 in tutto sovrapponibile alla nostra Madonna Annunciata.
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Non priva di motivazioni è inoltre la recente proposta di riferire la scultura di Budapest (fig. 7) al fratello del Marrina, Angelo di Mariano (1491–1540 circa), avanzata da Alessandro Angelini.11 Lo studioso vi riscontra infatti spiccate analogie con l’Angelo di sinistra della Pietà di Fontegiusta (fig. 8) dove si ravvisa un classicismo più esuberante, monumentale e forbito, in sentore dei modi sansovineschi, che meglio si addice alla formazione di un giovane scultore della generazione successiva, di lì a poco impegnato nei cantieri romani a fianco di Baldassarre Peruzzi (Monumento di Alessandro VI in Santa Maria dell’Anima e Monumento Armellini in Santa Maria in Trastevere, 1524–27) 12. Tali caratteristiche hanno indotto Angelini a riferire a Michelangelo senese anche altre terrecotte marriniane del secondo decennio, come il San Giovanni Battista in San Giovanni della Staffa a Siena,13 chiamando in causa il problema, ancora da approfondire, della formazione dei fratelli di Lorenzo Marrina e delle relative spettanze all’interno della sua bottega. 1 Valentiner 1921, pp. 202–205. 2 Harms 1995, pp. 175, 182, 246, 254. 3 Important medieval works of art 1986, lot. 43. 4 Firenze, Palazzo Strozzi, 19 settembre – 11 ottobre 1987. 5 15a Biennale Mostra 1987, p. 517. 6 Ranfagni 2017, pp. 77–132. 7 Balogh 1975, pp. 84–85, n. 87, fig. 115. 8 Ivi.
In merito alla datazione e alla destinazione originaria dell’Annunciazione qui ricomposta, possiamo ricordare che per l’Angelo di Budapest era stato ventilato un possibile collegamento con la Vergine Annunciata nella chiesa senese di Santa Caterina del Paradiso, parte di un’Annunciazione realizzata da Lorenzo Marrina tra il 1521 e il 1524, proposta già confutata da Marco Ciampolini 14. Se da una parte il confronto con l’Annunciata di Santa Caterina può confermare la stessa paternità per l’opera che qui si presenta, dall’altra indica per quest’ultima – dove le memorie quattrocentesche sono stemperate in un più robusto classicismo – una cronologia leggermente più avanzata. Plausibile dunque suggerire per l’Angelo di Budapest e la Vergine Annunciata in questione un collegamento con le due figure di terracotta rappresentanti l’Annunciazione eseguite tra il 1529 e il 1531 da Lorenzo di Mariano e dipinte da Domenico Beccafumi per il monastero senese di San Girolamo in Campansi.15 Giancarlo Gentilini
9 Ciardi Duprè dal Poggetto 1977, p. 66. 10 Ranfagni 2017, p. 113. 11 Angelini 1998, pp. 130–133; Angelini 2005, pp. 369–382. 12 Fattorini 2005, pp. 554–583. 13 Angelini 2005, pp. 370, 379. 14 Ciampolini 1988, pp. 109–116, p. 115 nota 18 cfr. anche Carli 1996, pp. 141–145. 15 Ranfagni 2017, pp. 116, 125, 181–182.
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fig. 1–4: Lorenzo di Mariano, detto il Marrina, Angelo di Mariano, detto Michelangelo senese, Vergine Annunciata.
fig. 5: Lorenzo e Angelo di Mariano, Angelo annunciante, Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 1190.
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fig. 6: Lorenzo di Mariano, detto il Marrina, Angelo di Mariano, detto Michelangelo senese, Vergine Annunciata.
fig. 7: Lorenzo e Angelo di Mariano, Angelo annunciante, Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 1190.
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fig. 8: Angelo di Mariano, Cristo in pietĂ con angeli, particolare, Siena, Santa Maria in Portico a Fontegiusta.
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LORENZO DI MARIANO, IL MARRINA
detto
siena, 1476 — 1534
San Paolo, 1530 circa Terracotta, h cm 125. provenienza: Siena, Collezione Chigi o Collezione Chigi Saracini (?). bibliografia: Petrucci 2002; Bagnoli 2008; Sotheby’s 2011, lotto. 432; Fattorini 2014, pp. 52 e 53 nota 14, p. 49 figg. 2–3; Ranfagni 2017, p. 125 nota 194. Questa vigorosa figura in terracotta, plasmata insieme con il suo piedistallo quadrato, raffigura una possente e impaludata immagine di San Paolo, facilmente riconoscibile per i suoi attributi iconografici più tipici: i pochi capelli, la lunga barba, il libro nella sinistra e la spada, di cui rimane il frammento dell’elsa sorretto elegantemente nella mano destra. Nonostante questa mancanza, e quella del brano della piega di panneggio all’altezza del costato, la scultura si presenta in ottimo stato di conservazione, contraddistinta dal tono caldo della terracotta, che a prima vista rischia di farla assomigliare a certi capolavori dell’emiliano Antonio Begarelli. In origine, tuttavia, la scultura era certamente dipinta: forse di bianco, per farla somigliare a una statua antica, o più probabilmente colorata di una viva policromia, allo stesso modo di altre figure fittili che oggi si riconoscono al suo vero autore: il senese Lorenzo di Mariano detto il Marrina. Soltanto di recente, tuttavia, gli studi hanno approfondito l’attività di plasticatore di questo maestro, giustificando così gli equivoci che ci sono stati in passato sull’identità dell’autore del San Paolo. È possibile, infatti, che la nostra statua sia da riconoscere nel «San Paolo di coccio di Mecarino» (alias Domenico Beccafumi) che l’illustre collezionista senese Galgano Saracini, insieme con «2 bustini di marmo», acquistò il 6 agosto 1808 per la somma di 29 lire, desti-
nandolo ovviamente alla sua galleria.1 Del rapporto con il linguaggio di Domenico Beccafumi – il maggiore tra i pittori senesi del Cinquecento, che ebbe pure grande dimestichezza con la scultura – diremo in seguito, mentre, a proposito della provenienza, merita subito ricordare che Francesca Petrucci, schedando la statua poco meno di vent’anni fa, affermava che, stando alle notizie fornite da un precedente – e anonimo – proprietario, il San Paolo sarebbe un tempo appartenuto, insieme con un San Pietro che metteremo in campo oltre, alla collezione Chigi di Siena.2 Accostando le due notizie, si può dunque provare a immaginare che la scultura fosse andata ad arricchire la Galleria che Galgano Saracini inaugurò nel 1806 a Siena, e che oggi, a distanza di due secoli, è ben nota come Collezione Chigi Saracini, in virtù del suo ultimo proprietario: il conte, appassionato di musica, Guido Chigi Saracini. Va detto che la raccolta senese è in gran parte quella messa insieme da Galgano, ma non completamente: i suoi successori, secondo i gusti e le necessità, hanno infatti provveduto ad alcuni acquisti e ad alienazioni; il San Paolo, dunque, potrebbe essere appartenuto a tale collezione, o in alternativa a quella degli eredi della famiglia Chigi (ramo Zondadari), che a Siena possiedono ancora edifici monumentali, come il Palazzo Chigi Zondadari in Piazza del Campo e la Villa di Vico Bello.3
fig. 1: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, San Giuseppe, Siena, chiesa di San Giuseppe della Contrada Capitana dell’Onda. fig. 2: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, Vergine annunciata, Siena, oratorio di Santa Caterina del Paradiso della Contrada del Drago. fig. 3: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, Figura allegorica, Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures, R.F. 899.
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Nel rendere noto il San Paolo, la Petrucci riconosceva giustamente che esso spettava al medesimo autore dei Santi Pietro e Paolo in terracotta policroma che un tempo si trovavano nella pieve di Montefollonico (ai confini delle provincia di Siena, verso la Val di Chiana) e oggi si conservano nel Museo Diocesano di Pienza (fig. 4).4 Dopo avere attratto l’attenzione di Adolfo Venturi (che le associava al nome di Beccafumi),5 le due sculture di Montefollonico dovettero attendere diversi decenni per essere restaurate e presentate alla grande mostra beccafumiana senese del 1990, con una datazione verso il 1535 e l’attribuzione a uno scultore senese associato ipoteticamente al nome di Giovanni Andrea Galletti (Siena, 1499–1539). Fonditore e plasticatore, figlio dello scultore Carlo Galletti, Giovanni Andrea emergeva allora come un nome cui accostare cautamente un coerente gruppo di sculture costituito dalla Sant’Agata della pieve di Corsano, dai Dolenti di Santo Spirito a Siena e dal così detto Angelo del Musée du Louvre di Parigi.6 In conseguenza di ciò la Petrucci riferiva a Giovanni Andrea Galletti pure il San Paolo,7 che sotto tale nome sarebbe poi comparso a un’asta newyorkese di Sotheby’s nel 2011.8 Frattanto il corpus delle opere associate al Galletti era stato meglio riconsiderato, finendo per essere riconosciuto all’attività di plasticatore di Lorenzo di Mariano detto il Marrina, indipendentemente, da Alessandro Angelini, da chi scrive e da Alessandro Bagnoli;9 quest’ultimo, presentando nel 2008 il restauro della Madonna col Bambino in stucco dei Conservatori Riuniti del Refugio a Siena, provò tra l’altro a ordinare brevemente nel tempo le sculture fittili del Marrina, inserendo nella sua fase tarda il nostro San Paolo, cui ritrovava un compagno nel San Pietro della Casa d’Arte Bruschi di Anita Almehagen a Firenze (una scultura che peraltro mantiene evidenti tracce di una vecchia imbiancatura, che sappiamo avere riguardato pure la statua della
quale ci stiamo occupando; fig. 5).10 Scrivendo in seguito del gruppo di Montefollonico oggi a Pienza, confermavo la profonda relazione stilistica con il nostro San Paolo e l’altro San Pietro, riproducendo questi ultimi per la prima volta l’uno accanto all’altro.11 Ciò nonostante Tommaso Ranfagni, nella sua monografia sul Marrina, ha infine affermato che, rispetto ai Santi Pietro e Paolo di Montefollonico, l’omonima coppia sarebbe «qualitativamente inferiore» e da considerare «eventualmente come un prodotto della bottega senese che faceva capo a Lorenzo e che delle sue creazioni si nutriva».12 Un’affermazione veramente sorprendente, di fronte alla quale c’è da chiedersi quanto abbia veramente inteso del linguaggio del Marrina plasticatore colui che al Marrina ha dedicato una monografia. In attesa, e nella speranza, che ulteriori ricerche possano chiarire meglio la cronologia delle molte statue fittili ormai riconosciute a Lorenzo di Mariano, e la questione del coinvolgimento della bottega in tali imprese, si può sostenere che il San Paolo rappresenta un memorabile canto del cigno del Marrina, quanto alla scultura tridimensionale in terracotta. L’assenza della policromia, al confronto delle sculture di Montefollonico, mette in rilievo la qualità altissima del plasticatore, nell’esecuzione dei panni dilatati e taglienti della veste, nella resa dettagliata dei calzari all’antica e del libro, nell’efficace naturalismo delle mani, dei piedi e del volto, completato dal calligrafico fiammeggiare della barba e dall’espressione torva e severa dell’Apostolo, che si direbbe figlia di una volontà di emulare i «moti dell’animo» leonardeschi (si pensi al Fariseo che Giovanni Francesco Rustici, su modello di Leonardo, realizzò per il gruppo della Porta Nord del Battistero di Firenze tra il 1506 e il 1511), e l’interpretazione che di questi, oltre che degli aspetti più malinconici del linguaggio michelangiolesco, seppe offrire Beccafumi, tra gli anni venti e gli anni trenta. Pro-
fig. 4: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, Santi Pietro e Paolo, Pienza, Museo Diocesano (da Montefollonico). fig. 5: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, Santi Pietro e Paolo, rispettivamente Firenze, Casa d’Arte Bruschi di Anita Almehagen e Bologna Galleria Nobile.
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pongo in tal senso alcuni confronti, con un dettaglio della Storia di Mosè spianata nel pavimento del Duomo di Siena verso il 1529 su disegno di Beccafumi, con il quale la somiglianza è veramente strettissima (fig. 6),13 con un bozzetto mecarinesco del Fogg Art Museum di Harvard (n. 1965.359; fig. 7) preparatorio per la testa del vecchio che assiste all’Uccisione di Spurio Melio nel ciclo del Concistoro del Palazzo Pubblico di Siena, avviato nel 1529 e compiuto entro il 1536, e con il burbero San Paolo di Montefollonico (fig. 8). E se quest’ultimo non bastasse a fugare ogni dubbio sull’attribuzione del San Paolo al Marrina, si possono chiamare in causa le corrispondenze strettissime con altre sculture ben assestate nel catalogo di Lorenzo: dalla documentata Annunciata dell’oratorio della Contrada del Drago a Siena del 1521–1524 (cui si può guardare per le peculiarità marrinesche della postura impostata sulla flessione di un arto inferiore, e per il panneggiare ampio e avvolgente, siglato da pieghe taglienti (fig. 2), al San Giuseppe dell’oratorio della Contrada Capitana dell’Onda a Siena (dai tratti molto simili, ma dal drappeggiare più allentato, probabile sintomo di una precedenza cronologica; fig. 1), fino alla così detta Figura allegoria (a lungo scambiata per un Angelo, del Musée du Louvre di Parigi, tanto diversa per soggetto, ma tanto simile per la sinuosa precarietà dell’equilibrio e i calzari all’antica (fig. 3). Mancano certezze su quale fosse l’originale funzione dei due Santi: per i consanguinei di Montefollonico mi sono chiesto se non potesse esserci da un lato 1 Fattorini 2014, pp. 52–53 nota 14, con riferimento a Moscadelli 1989, p. 527, per la citazione. 2 Petrucci 2002. 3 Tra le opere d’arte ancora di proprietà degli eredi Chigi mi limito a ricordare un celeberrimo busto di Alessandro VII di Gian Lorenzo Bernini, una spalliera dipinta da Guidoccio Cozzarelli con tre Eroine
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antiche e il Cristo risorto intagliato in legno da Domenico di Niccolò “dei cori”. Petrucci 2002. Venturi 1937, p. 965 e figg. 844–845. Bagnoli 1990, in particolare pp. 572–575, n. 195. Petrucci 2002. Sotheby’s 2011, lotto 432. Angelini 2005, pp. 381–382;
qualche rapporto con la tradizione dei polittici popolati di statue di Jacopo della Quercia,14 e dall’altro una qualche dipendenza dal mai compiuto progetto di realizzare un ciclo di Apostoli in bronzo per i pilastri della navata della Cattedrale di Siena, che avrebbe dovuto sostituire l’Apostolato marmoreo trecentesco ora nel Museo dell’Opera. L’idea venne a Francesco di Giorgio prima della morte (1501) e l’esecuzione fu poi affidata a Giacomo Cozzarelli nel 1505, vedendo quindi un breve coinvolgimento del Sodoma (1515), e infine un interesse del vecchio Beccafumi, che «diede principio a fare i dodici Apostoli per mettergli alle colonne di sotto [cioè della navata del Duomo senese], dove ne sono ora alcuni di marmo, vecchi e di cattiva maniera; ma non seguitò, perché non visse poi molto».15 Possibile allora che il Marrina, data la familiarità con Cozzarelli e col cantiere del Duomo (di cui era capomaestro nel 1506), traesse ispirazione per i suoi Santi Pietro e Paolo dalle idee elaborate da Giacomo, sulla scorta di quanto lasciato dal suo mentore Francesco di Giorgio, per questo progetto? Possibile, inoltre, che Beccafumi conoscesse queste figure di Lorenzo, quando anche lui si mise a studiare statue di Apostoli da realizzare in bronzo? Sono quesiti cui è impossibile dare risposta, ma che lasciano intendere il posto di assoluto rilievo spettante al nostro San Paolo, al suo compare Pietro, e agli Apostoli di Montefollonico nel contesto della scultura senese della prima metà del Cinquecento. Gabriele Fattorini
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Fattorini 2005, pp. 562–563, 581– 582 note 28–30; Bagnoli 2008. Bagnoli 2008. Fattorini 2014, pp. 52, 49 figg. 2–3. Ranfagni 2017, p. 125, nota 194. Si tratta di un dettaglio che avevo richiamato a confronto già per i Santi di Montefollonico: Fattorini 2014, p. 53. Fattorini 2014, pp. 54–57.
15 Vasari 1550 e 1568, V, p. 176 (per la sola Giuntina), richiamato già per i Santi di Montefollonico in Fattorini 2014, p. 57, cui rimando per la vicenda degli Apostoli del Duomo e la relativa bibliografia (ivi, nota 23).
fig. 6: Domenico Beccafumi, Storie di Mosé (particolare), Siena, Duomo, pavimento. fig. 7: Domenico Beccafumi, studio di testa (per l’Uccisione di Spurio Cassio nel ciclo del Concistoro), Cambridge, Fogg Art Museum, n 1965.359. fig. 8: Lorenzo di Mariano detto il Marrina, San Paolo (particolare), Pienza, Museo Diocesano (da Montefollonico).
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ENGLISH TEXTS
This is the twenty third catalogue of my almost thirty-year career. Every time that I present my latest selection of works, I am once again moved by every piece that I’ve selected, studied and acquired. Fortunately, it is still an enthusiasm that guides me in my everyday pursuit of works, despite the challenges in the art market during recent years. This enthusiasm has allowed me to travel across Italy and abroad and visit private collections and colleagues. It is thus that this catalogue was born, as a collection of drawings, paintings and sculptures from the sixteenth to the twentieth century. These works reflect my personal taste and, in one sense, are also the pieces of an ideal «mosaic» that forms my own history: each work is love in its own right, a hope, a reconfirmation, a lesson, the memory of a journey and of an encounter and, at times, why not, even a moment of anger. The choice to understand drawing, painting and sculpture intends to underline the fullness of my interests and, on the occasion of TEFAF, present to the public in attendance at Works on Paper the versatility of my search and my choices, even beyond drawing, that, however, remains one of my greatest passions. Maurizio Nobile
1. GIORGIO GANDINI DEL GRANO parma, end of the 15th century — 1538
Study for seven figures, c. 1535 Red chalk, 142 × 184 mm. Inscribed in pen and brown ink on the recto at the lower right: 117. Inscribed in black chalk on the verso at the upper centre Correggio, and ‘32’ at the lower left. provenance: J. H. Wiegersma (Lugt 1552b). literature: Vaccaro 2015, p. 70, fig. 14. The recent discovery of this drawing, which can be added to a group of four drawings of analogous subjects and of the same size and technique in the Louvre 1 (from the Collection Dezallier d’Argenville, 1680–1765), (fig. 1) where they were catalogued under the name of Correggio (1489–1534), is a significant addition to the small corpus graficum of Giorgio Gandini del Grano. These sheets were first attributed to Gandini by Mary Vaccaro (2008) 2 and then by Francesca Frucco (2010) 3. In her lecture: Correggio e il suo tempo: Giorgio Gandini del Grano tra Allegri e Bedoli nel Duomo di Parma 4 Vaccaro pointed out the relation between the drawings and the frescoes commissioned from Gandini in 1535, after Correggio died, in the apse and in the vault of the choir of the Cathedral in Parma. These frescoes, however, remained in the project phase because of the premature death of the artist (1538), and were then assigned to Girolamo Mazzola Bedoli (1500–1569), who took over the following year 5. We do not have a great deal of information about Gandini, but since the commission in the Cathedral must have undoubtedly been an important, prestigious one, we can surmise that the choice of the canons and english texts
fabbriceri fell upon an artist who was still so young, as ours was, for two reasons: the first, that he must have already been famous and capable, and the second, that since he had been one of Correggio’s closest followers and surely the one that understood him best, he would have carried them out in a style that conformed with what was already in the three soffits, pendentives and cupola with the Assumption of the Virgin that Allegri had not completed. Apart from our sheet and the four at the Louvre, executed in Correggio’s manner (studies from a model for figures seen da sotto in sù drawn in two registers in delicate, soft red chalk), we know of three more sheets for this commission: at the Albertina, at the Uffizi and at Windsor Castle. The drawing in Vienna, for which the little figurines of the one presented here and those at the Louvre might have served as models, portrays a Study for a group of saints and angels for one of the sections of the cross vault in which Konrad Oberhuber recognised the subject in the iconographical programme established by the fabbriceri of the Cathedral in the contract of 1535 6. It is a complete, detailed study in red chalk with subtle, minute strokes and with no pentimenti, and as noted by Frucco 7, is probably an outline drawing developed from another preparatory sheet, while the two in the Uffizi 8 and Windsor Castle 9 are fragments that lead back to the same project. 1. Inv. nos. 5931-5932-5933-5934. See Frucco 2010, pp. 182–183, nos. 21, 22, 23, 24: figs. 25, 26, 27, 28. 2. Vaccaro 2008. 3. Frucco 2010, pp. 182–183. 4. Vaccaro 2008, p. 445. 5. Testi 1934, p. 104. 6. Oberhuber 1970, pp. 276–287. 7. Inv. 17629. See Frucco 2010, pp. 146–147; pp. 179–180, no. 18; fig. 24. 8. Inv. no.1955F. See ivi, pp.146–147; pp, 180–181, no. 19; fig. 22. 9. Inv. no. RL5499. See ivi, pp. 146–147; pp. 181–182, no. 20; fig. 23.
fig. 1: Giorgio Gandini Del Grano, Study for eight figures, Paris, Musée du Louvre, inv. 5932.
2. GIULIO CAMPI cremona 1507/1508 — 1573
Study of a Seated Putto, a Standing Bearded Man facing right, and a sketch of a Hand, ca. 1530 Studies of a Bull (verso) Red chalk on white paper, 190 × 250 mm. Inscribed ‘Parmigiano’ in iron gall ink at the lower right by Sir Joshua Reynolds (verso). provenance: Sir Joshua Reynolds, 1723–1792 (Lugt 2364); Arthur Melville Champernowne, born 1871 (Lugt 153). This unpublished double-sided sheet is entirely characteristic of the young Giulio Campi. It can be dated precisely to 1530 when he was commissioned by Massimiliano Stampa, private secretary to Francesco II Sforza, to decorate the church of Santa Maria delle Grazie, Soncino. He executed the High Altarpiece, showing the Virgin and Child in Glory with Saints Catherine and Francis.1 Campi also frescoed the Assumption of the Virgin on the triumphal arch, the Evangelists in the vault of the presbytery, and the Carmelite Saints in the pendentives of the apse.2 Together these works represented a major stylistic 98
development in the artist’s career. While his earlier style was much influenced by Venetian and Northern-European painting, here we see Campi assimilating Pordenone’s palette and Raphael’s classical elegance and symmetry, alongside precise quotations from Marcantonio Raimondi’s prints.3 Campi’s early paintings are complemented by a remarkable corpus of drawings, which only began to receive scholarly attention in the 1970s. Alessandro Ballarin noted that two red chalk drawings in Berlin were studies for the Evangelists depicted in the vault of Santa Maria delle Grazie 4. Further studies were published by Giulio Bora: one in black chalk for the Apostle at the far left of the triumphal arch, and another in red chalk for the Prophet Elisha in the apse.5 Many of Campi’s early drawings, which are largely characterised by his preference for red chalk, have in the past been incorrectly ascribed to a host of Northern Italian artists who employed the same medium; for example Girolamo Romanino and Pordenone. Sheets in Teplice and Venice were once believed to be late works by Boccaccio Boccaccino,6 and Campi’s nuances of Dürer resulted in misattributions to Altobello Melone, whose drawings are extremely rare, to Pordenone, and even To Moretto da Brescia 7. Though these attributions were erroneous, it is significant that early connoisseurs inadvertently associated Campi with Northern Italian artists of the highest calibre. While the handling and media of the figures on the recto are typical of Campi’s studies for Santa Maria delle Grazie, their lack of precise correspondence with the frescoes demonstrates that they represent the earliest stage of the creative process; first thoughts which he would subsequently develop. The bearded figure is evidently an early idea for the startled Apostle draped in yellow, on the far left of the triumphal arch (fig. 1). His final pose was established in a drawing published by Bora,8 but the hooked raptorlike features of the figure in the present drawing, reminiscent of a bird of prey, is replicated in the fresco. Moreover St James, who audaciously kneels at the centre of the composition with his posterior to the spectator, has a similar bird-like profile framed by a unnaturally domed cranium and a sharply pointed beard. Moreover, his hand gesture is the mirror image of the hand rapidly sketched at the foot of the present drawing. The putto, apparently seated on clouds, is certainly related in type to the rather more muscular angels that frame the Assumption of the Virgin at the summit of the triumphal arch. Indeed, seen in reverse, his pose is strikingly close to that of the putto pumping the bellows of the organ to the left of the fresco. The verso of the present drawing highlights a fascinating and completely different aspect of Campi’s artistic personality, namely his passion for life drawing of animals. This extraordinarily perceptive and sympathetic study of a bull, its head drawn from different angles, accords perfectly in subject and technique with similar studies in Teplice — one of them showing a Lion Cub — and the verso of the aforementioned drawing in Venice of Two Bulls and a pair of Ducks.9 As demonstrated by the inscription in the lower right corner of this sheet, its sheer quality is such that Sir Joshua Reynolds, the great eighteenth-century painter, collector and connoisseur, believed it to be by 99
Parmigianino. His assumption was by no means isolated, and was doubtless triggered by the accomplished handling of red chalk and highly original figural inventions. In both respects the present drawing is an especially striking example of Giulio Campi’s draughtsmanship. * The attribution has been confirmed by Giulio Bora and Marco Tanzi. 1. Now preserved in the Pinacoteca di Brera, Milan (Reg. Cron. 1128). Saints Catherine and Francis are shown presenting Pietro Martire Stampa, Massimiliano’s father, to the Virgin and Child. For the history of the church see De Santis, Merlo 1992. 2. The latter frescoes have since been detached and transferred to the adjacent convent. 3. For an analysis of his early career see further Tanzi 2004, pp. 7–10; and more recently Tanzi 2012, pp. 42–43. 4. Kupferstichkabinett, inv. KdZ 5143-5143, with Ballarin’s attribution of 1975 annotated on the mounts. 5. The first of these drawings was at the time in a private Milanese collection; the second is in the Istituto Nazionale per la Grafica, Rome, inv. 125862. See Bora 1984, pp. 10–11, figs. 15 a–b. 6. Teplice, Regional Museum, inv. CA 501; Venice, Gallerie dell’Accademia, inv. 520. 7. Respectively Bayonne, Musée Bonnat, inv. 1368 (Study of a Seated Man); Providence, Rhode Island Museum of Art, inv. 20465 (Virgin and Child with St Roch). See further Bora 1985, p. 281, no. 2.6.1; also Bora 1988, p. 15, fig. 39. 8. Bora 1984, pp. 10–11, figs. 15 a–b. 9. Teplice, Regional Museum, inv. CA 503-504, 650. See n. 6 above for the drawing in Venice. For further discussion of the attribution of Campi’s drawings to Boccaccino and others, see Tanzi 1999, pp. 7–8.
fig. 1: Giulio Campi, Apostles, Soncino (Cremona), Santa Maria delle Grazie.
3. PAOLO GUIDOTTI called IL CAVALIER BORGHESE lucca c. 1560 — rome 1629
Portrait of a farmer or Allegory of Autumn, c. 1610 Oil on canvas, 71 × 57.3 cm. Captured at shoulder-height against a dark background, the young man occupies all of the foreground of the composition with his vigorous activity, his unkempt beard and moustache, his dark eyes and furrowed brow, grooved with frown lines. His frayed jacket seems to knot itself around his shoulders and a white shirt falls to his waist, leaving his hairy chest open in full-view. He carries a swathe of fabric on his head, from which a curl of hair falls; behind him we can make out — stored away in the corner of the work — a bunch of grapes, pears and the open hedgehog of a chestnut. He advances with his muscular right arm, towards the spectator, bringing forward the portrait and almost vehemently displaying a spade illuminated by radiant light. The brushstrokes are blunt, with a strong use of chiaroscuro tonality. The style elements of the work allow us to attribute the work to the catalogue of Paolo Guidotti, a painter from Lucca who, after having made steps in his birth city, decided to seek better fortune in Urbe, where he moved around 1589, when his name already appeared amongst the members of the Accademia di San Luca. A multi-faceted and non-conformist personality, devoted to mathematics, literature, astrology and music, and capable of skillfully bringing together the most disparate influences, Guidotti knew how to stand out straight away in the papal city of Rome as one of the great masters of the refined Mannerist period, then nearing its english texts
end, as well as of the new Carravagesque style. In 1608, Scipione Borghese allowed Guidotti to decorate himself with the same family name (from which the epithet of ‘Knight Borghese’ appears on the records for the artist), revealing a special relationship that indeed contributed in no small matter to his relocating to the city. Our likely farmer, perhaps an allegory of Autumn, demonstrates a painterly expression already informed by Caravaggio and his followers, bringing us to a dating around 1610. The most significant comparisons can be made in the same use of dense and compact material, the use of whites and reds, and in the intensity of the expressions. All such comparisons can indeed be made with the David with the head of Goliath, held at St Paul’s Basilica outside its main wall, signed and dated 1608, similarly revised with a naturalistic tone. With regard to this latter work, our example perhaps demonstrates greater artistic maturity with the use of the paintbrush and in the treatment of the shades, which could suggest a slightly later chronology. Even more convincing is the comparison with the Self-portrait by the artist, today held in a private collection, with a replica also in existence. With this work, Guidotti depicts himself with a meaningful glance towards the observer, a stiff collar and smart jacket, pen, book, and the cross of the knighthood of the Militia of Christ. The brushwork capturing the figure’s facial hair is the same as in our work, with the same decisive strokes of light captured in the knuckles of the figure’s hand: a technique that can be directly compared with our image of the farmer. Confirming the attribution to Guidotti is the left hand of the farmer figure that can be almost completely overlapped with that of the poet depicted in the canvas found at the Ajaccio Museum, similarly datable to around 1610. We are in front of a work that would teach Pietro Paolini, Guidotti’s peer and spiritual heir, completed by Guidotti just before he decided to return to Lucca in 1611, after, to quote the artist, “27 years of self-imposed exile”. He returned to Rome six years later, after having crossed Lucca, Pisa and Reggio Emilia, in order to dedicate himself entirely to his great poetic endeavour: the Jerusalem destroyed poem, in the style of Torquato Tasso, narrating the pursuits of the Emperor Titus and rebel Jews. Francesca Baldassari
4. GIAN DOMENICO CERRINI called IL CAVALIER PERUGINO perugia 1606 — rome 1681
Saint Jerome Oil on octagonal canvas, 97 × 83 cm. provenance: Florence, private collection. Lione Pascoli assures that Gian Domenico Cerrini «was of great stature and presence; and he cultivated a regular joviality right up until his death, as well as a sense of gratitude towards his friends. These friends admired him for his great decorum and manners, making him stand out, and perhaps no other professor in those times was quite as respected by his students as he was».1 Despite this, he did not benefit from a written biography. english texts
Passeri didn’t talk about him,2 and nor did his acquaintance and fellow Perugian, Luigi Pellegrini Scaramuccia,3 whilst Pellegrino Orlandi writes only that «he wa admired for his great way of using colour, and turning heads».4 It was for this reason that many of Cerrini ended up in the catalogues of other more well-known painters, particularly, those of Simone Cantarini and Francesco Romanelli. The critical rediscovery is, thus, very recent, with many starting to show growing interest for the Perugian artist, only after the pioneering article written by Evelina Borea in 1978.5 An exhibition was thus dedicated to the artist,6 with a number of his works appearing in the exhibition held at the Complesso Monumentale di San Pietro in Perugia (where a detail of his Holy Family with Saint Anna and Saint John at the Galleria Nazionale dell’Umbria in Perugia earned the place of the catalogue’s front cover). 7 Trained in Perugia, at the school of Gianantonio Scaramuccia,8 where he trained in «colouring and copying» and in «some small invented works». It has been suggested that Cerrini completed an apprenticeship in Bologna with Guido Reni, but this has not been confirmed by historical archives. It is, however, certain that the painter studied the works of Guido and other artists from Emilia Romagna and Bologna, particularly that of Lanfranco. His first work was also certainly The Apparition of the Trinity to Saint Mary Magdalene de’ Pazzi, in the right-hand transept in Santa Maria Traspontina, Rome, dated 1639. It would seem, in fact, that Cerrini had been called to Florence by members of the Medici family (Mattia, Leopoldo and Ferdinando), for whom — as noted in the Medici family archives — the artist completed numerous works, some of which have been identified, starting with the investigations carried out by Evelina Borea (1978) and by a number of meticulous acknowledgements in several copies of Marco Chiarini’s magazine, ‘Paragone’.9 This research has given back works to Cerrini’s authorship, amongst other, the large canvas of Saint Jerome, today in the Certosa in Florence (fig. 1),10 where the hermit saint is based on the model of the canvas in question as, also, that of the painting in the church of San Paolo del Collegio del Preziosissimo Sangue in Albano (fig. 2).11 The octagonal canvas and that today found at the Certosa in Florence show the saint in almost mirrored poses, as if the painter completed the works within a short amount of time of each other. If it were not for a couple of details absent from the canvas, one would be tempted to identify this Saint Jerome (whose polygon shape does away with an older provenance from a collection in Florence) with the lost canvas of the same subject mentioned in the Medici inventories (Cabinet 1222, Inventario della collezione del Gran Principe Ferdinando de’ Medici, 1713): «A similar height b. 2 and ⅓ width b. 1 and s. 18, hand-painted of the above-mentioned Saint Jerome, seated with a red cloak over his shoulders, bare-chested, holding a skull with his left hand, whilst his right rests on his chest. He is shown reading from an open book, embellished in a similar fashion to the figure depicted».12 Marco Riccòmini 1. Pascoli 1730, vol. I, pp. 55–56. 2. Passeri 1672. 3. Pellegrini Scaramuccia, 1674. 4. Orlandi 1704, p. 216.
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5. Borea 1978. 6. Gian Domenico Cerrini 2005. 7. Galassi 2018. 8. Pascoli 1730, vol. I, p. 52. 9. Chiarini 1975; Chiarini 1975 a; Chiarini 1975 b. In addition: Chiarini 1992. 10. Borea 1978, p. 21, fig. 20. 11. Mancini 2015, p. 254, n. 1; Sframeli 2005, p. 212. 12. Borea 1978, p. 21; see also: Chiarini 2005, p. 84; Sframeli 2005, p. 212; Mancini 2005, p. 254, n. 1.
fig. 1: Gian Domenico Cerrini called Il Cavalier Perugino, Saint Jerome, Florence, Certosa. fig. 2: Gian Domenico Cerrini called Il Cavalier Perugino, Saint Jerome, Albano, church of San Paolo del Collegio del Preziosissimo Sangue.
5. SIMONE CANTARINI pesaro 1612 — Verona 1648
Study for ‘The Discovery of Moses’ (?), 1633 – 1635 Pen and brown ink on ivory paper, 130 × 180 mm. On the verso, on the lower left, in pencil: Poussin. Despite some forms only hinted at by a line of brown ink that outlines the hat and shoulders, we can estimate eight standing figures gathered on the left-side of the paper. Their slender bodies, that appear revealingly draped with long cloth, allow us to interpret them as young women who are focussing their attention on other figures lounging in the centre of open countryside. The valley in which the scene takes place is completed with a horizon of hills and the presence of trees that almost imitate a theatrical backdrop. The story being told — as captured by this drawing — is a vibrant series of figurative thoughts and their unforeseen modifications. It shows the daughter of the Egyptian pharaoh, accompanied by her maidservants, as she discovers the young Moses on the bank of the Nile. This, of course, being the day after the Pharaoh’s edict that the eldest-born son of every Jewish family be abandoned. His daughter decides to adopt the baby as her own, allowing him to be brought up by a female servant who, as the book of Exodus in the Old Testaments tells us, is Moses’s natural mother. The moment brings together the surprise shown by the standing women with the industriousness of the kneeling figures who have taken care of the newborn, concealed by a tangle of markings. The style expressed in this work allows us to understand how important it was for the artist to be attached to an initial compositional idea, sought via decisive marking and subtle details that serve to define faces and gestures. In the two groups of figures, intermittent swathes of pen lines break the marks, seeking a tonal method that breaks down the landscape in the background. As first noted Marco Riccòmini (oral communication), these methods perfectly correspond to Simone Cantarini’s — a painter of great standing and draughtsman of rare talent — swiftest drawing technique. The range of marks, at once a tangled mass, also render an expression in its essence, which returns in many known works that Pesarese will make use of in order to develop complex movements between the main characters and the apparitions of a composition. The need to imagine a scene in its entirety, from a distance that doesn’t lose 101
the individual feeling nor the character of the narration, is a recurring approach in Cantarini’s creative process. We find it both at the beginning of his career, during his training with Guido Reni, but also in the last part of his brief life. Drawings from his youth, like the work at the Louvre, Vocation of St Matthew 1 or the so-called The Toilet of Venus in Brera2 (fig. 1) are developed using the very same approach, as well as with the evident harmony seen in the more mature The Rest on the Flight into Egypt, held at the National Gallery of Art, Washington 3 (fig. 2), where we can recognise the same dynamic and theatrical relationship between figures and landscape. I am inclined to read this current drawing as a linking work between the artist’s early phase, still influenced by Palma’s style (during an early stay in Venice, he met Palma il Giovane), and the blossoming in Bologna of his own more elegant and noble style. Between 1633 and 1635 this preparatory study could be linked to a finished composition for an as yet still undiscovered painting or engraving. On the reverse of the work, we can just about decipher a collection note, attributing the work to Nicolas Poussin. Massimo Pulini 1. Inv. 14647. 2. Fondo Acqua inv. 497. 3. Inv. 1986.7.1.
fig. 1: Simone Cantarini, The Toilet of Venus, Milan, Pinacoteca di Brera, Fondo Acqua inv. 497. Pinacoteca di Brera. fig. 2: Simone Cantarini, The Rest on the Flight into Egypt, Washington, National Gallery, inv. 1986.7.1. National Gallery of Art.
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6. GUILLAUME COURTOIS saint-hyppolite 1628 — rome 1679
Study of an Angel and of a Head in Profile Red chalk, 240 × 334 mm. literature: Recent Acquisitions 2005, pp. 18–19. Guillaume Courtois was one of Pietro da Cortona’s best pupils in Rome; he distinguished himself by the high quality of his work, by his personal style, and by the stylistic innovations that he adopts from Carlo Maratti and Giovanni Battista Gaulli, called Baciccio. By the end of the sixth decade of the century, Courtois was a favourite of Giovanni Lorenzo Bernini who, in turn, was fascinated by the younger artist’s vivid chromatic scale, by the plastic force and dynamism of his figures. Our drawing is preparatory for the Adoration of the Magi, a picture now in the Galleria Nazionale di Arte Antica in Rome (fig. 1),1 which originally comes from the princely collections of the Colonna and Barberini families. Erich Schleier has dated this work to the end of the 1660s, and it shares the composition, in this case reversed, with the altarpiece of the same subject (1661–63) in the Cesi Chapel in Santa Prassede in Rome.2 The Study of an Angel and of a Head in Profile is a typical example of Courtois’ style of the 1660s when his work is characterised by a plasticity derived from Bernini. This is evident in the profile of the old man at english texts
the lower right and by the corporality of the angel in flight. The latter figure is found, in reverse, in a rapid sketch in the Kunstmuseum, Düsseldorf 3 whereas the head of the old man is the final study for the Magus in the centre of the scene. Two more drawings for this figure are known, one is in the Gabinetto Nazionale dei D isegni e Stampe in Rome 4 and the second, conserved in the Kunstmuseum at Düsseldorf 5, is a full-length study, on both the recto and verso, for the king. *The attribution has been confirmed by Dieter Graf e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò. 1. Faldi 1970, nos. IX-X. 2. Schleier 1970, pp. 3–4, fig. 4. 3. Inv. no. FP4553. See Graf 1976, vol. I, p. 54, no. 113; vol. II, p. 86, fig. 157. 4. Inv. no. 126876. See Prosperi Valenti Rodinò 1979, p. 63, no. 118; p. 182, fig. 118r. 5. Inv. no. FP7987. See Graf 1976, vol. I, p. 55, nos. 116-17; vol. II, p. 85, figs. 155–56.
fig. 1: Guillaume Courtois, Adoration of the Magi, Galleria Nazionale di Arte Antica, Rome. Gallerie Nazionali d’Arte Antica Palazzo Barberini e Galleria Corsini.
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7. LORENZO PASINELLI bologna 1629 — 1700
Study for the Budrioli house Sibyl On the verso: Studies of faces and the figure of a soldier Red chalk (recto); pen, brown and black ink (verso) 212 × 172 mm. On the verso; in pen and brown ink: [...] e cigola ad aloro / per scrite / coto[...]. fini marm / [...] mate / [...]sibi / [...] me moderno / [unreadable]. provenance: Liege (Belgium), Charles Henri Marcellis collection (?) (1798–1864) (Lugt 609); Florence, collection of Count E. R. Lamponi–Leopardi (second half of the nineteenth-century) (Lugt 1760); Florence, Luigi Grassi collections (1858–1937) (Lugt 1171b); France, private collection. It is one of Pasinelli’s favourite pupils, Giampietro Zanotti, who, in the biography dedicated to the muchloved master, informs us of the work for which this preparatory drawing was created. He specifies, in fact, in his writing that Pasinelli completed “a larger-than-life Sibyl for the Budrioli family, that served as a companion piece for another by Domenico Canuti”.1 If this latter Sibyl remained in Bologna, eventually merging with a private collection,2 the Pasinelli pendant, always recorded as lost or location unknown, has now recently reappeared on the English art market (fig. 1),3 a country where the painting seems to have found itself already at a very early date, no later than 1726, year of its journey to London for the sale of the Hay collection.4 The features of the Budrioli Sybil, much mentioned by Zanotti were, however, captured entirely using the engraving that, as Zanotti himself notes,5 was traced by a close pupil of Domenico Maria Canuti, Giuseppe Rolli (fig. 2). Our drawing seems almost certainly, given the evidence, a preliminary study for the Budrioli Sibyl and dates to between 1677 and 1678, the period that marks the return of Canuti from Rome and once again places the two pioneers in comparison with each other. It is english texts
from moreover in a spirit of academic competition that we must interpret the commission given to the two painters of the two sibyls, not by chance requested to be identical in their composition, and for which Canuti was probably involved in a second moment after Pasinelli.6 The reappearance of this work on paper thus adds an important piece for a renewed construction of the corpus of Pasinelli’s graphic works that even today gathers around a far too scarce number of drawings definitively referred to the artist; too little when compared to how much one would expect from the most gifted pupil of a prodigious draughtsman like Simone Cantarini. From what Zanotti himself narrates 7 we can exclude the possibility that the master was, as was instead the case of another of his pupils, Giovan Gioseffo Dal Sole, amongst one of those painters who scarcely made recourse to drawing. In the case of his most gifted pupil, Donato Creti, it is there that this possibility can be totally proven wrong; from what remains, between the Cantarini drawings and those of the talented disciple of his, Creti, sometimes runs a somewhat ephemeral border to the extent that they are often confused with each other — as is well shown with the case of the drawing here published at catalogue number 9, traditionally assigned to Pasinelli, but instead actually from a very young Donato. Regarding the drawings that can be attributed to the artist with certainty, it appears rather clearly to the contrary an interest in the drawing method that the artist unravels using all techniques, from red chalk — as in the case of our work on paper — to black pencil, even with monochrome oil painting on paper, to pen ink and/ or watercolour. On the technical level, however, it is clear as the use of red chalk in thin lines and rapidly gathered in a mass of tangled, continually overlapping strokes, almost without the pen ever leaving the paper, unequivocally coming from the example of Simone Cantarini. The same can be said of the typical abbreviations with which the anatomical elements of the figures are captured, in order to concentrate attention on the study of the formal bone structure of the figure and its rich drapery, with a precious wet-effect that enfolds it, highlighting its elegant and lofty posture. Compared to the thoughtful and austere version by Canuti, the haughty nature of Pasinelli’s figure melds it instead to a representation of a more profane kind, rendering it more a Venus flanked not so much by a putto, rather a sprightly Cupid. A similar characterisation can be well understood in a master like Pasinelli spasmodically intended for the ideal pursuit of a formal elegance classically inspired by ancient statuary, but no less by the chosen example of Guido Reni, via the distinct line of Cantarini: our work on paper gives us unequivocal proof of such. Davide Trevisani 1. Zanotti 1703, p. 36. 2. Stagni 1988, tav. XXX; n. 48, p. 200. 3. London, Sotheby’s, 8 December 2010, lot n. 31, oil on canvas, 151.8 × 14.3 cm. Going by the Sotheby’s information regarding the work’s provenance, after being part of the Budrioli collection, the work was inherited and became part of the collection of Senatore Grassi (Bologna, c. 1760), before reappearing in a different Sotheby’s auction, in New York, on 22 January, 2004, lot no. 82. 4. The Hay sale took place on 19 February, 1726. Information can be taken from the Fototeca Zeri fund (catalogue file n. 56654) where
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three photographic reproductions of the painting are inventoried (Inv. nn. 114099, 114010, 114011). Other than being recorded with measurements identical to those provided in the cited Sotheby’s sale catalogue, the presence of the work on the antiques’ market in Paris in 1973 is also cited (L’Œil galerie d’art), as well as the New York art market in 1979. That the work can be sold by the same clients is made plausible indirectly by Zanotti himself. He specifies that Herodias with the head of St John the Baptist, also painted by Pasinelli for the Budrioli family, was sold at a high price by the Budriolis to an otherwise unspecified French gentleman (Zanotti 1703, p. 37). Could the same fate not have awaited Sibyl some years later? 5. Zanotti 1739, I, p. 407. 6. See Stagni idem and Baroncini 2010, n. 120, p. 390. 7. Zanotti 1703, pp. 16–18; pp. 103–104.
fig. 1: Lorenzo Pasinelli, Budrioli Sibyl, London, Sotheby’s, 8/12/2010, lot n. 31 (Fototeca Zeri inv. n. 114009). fig. 2: Giuseppe M. Rolli (after Lorenzo Pasinelli), Budrioli Sibyl, etching, London, The British Museum, Inv. n. 1874, 0808.737.
8. FRANCESCO SOLIMENA canale di serino (av) 1657 — barra (na) 1747
Martyrdom of Saint Lucy, c. 1680 Oil on paper laid down on canvas, 24 × 38 cm. literature: Spinosa 2018, n. 57, fig. p. 125. Francesco Solimena was born in a small village in Serino in 1657 and received early training from his father, Angelo. Upon moving to Naples, he continued his education with the painter, Francesco De Maria, studying not just painting but philosophy, history and poetry. The sketch depicting The Martyrdom of Saint Lucy belongs to the first phase of his artistic output as a young exuberant artist. The work is oil on paper - only after being laid down on canvas - and forms the first, rapid idea for a composition for an as yet unknown final work. Spinosa, who included the work in the recently published monograph of the painter (2018), maintains that it is to be dated around 1680 or soon after this date, but before the artist’s work on the Choir of Donnaregina Nuova. «This study on paper that shows, with a dense and luminous application of paint and colour, strong Baroque inclinations [similar] to those encountered in other compositions in the ‘Cortonesque style’, but more studied, elaborated and ‘finished’ like, for example, the Stoning of Saint Steven».1 The speed of the brushstrokes, generous with colour, the measured juxtaposition of the chiaroscuro, the theatricality of the scene nurtured by a studied direction of the figures in movement, encourages our attention towards the central figure of Luke, rendering us participants in the pathos lived by the protagonists of the drama. According to the Golden Legend by Jacopo da Varagine, Saint Lucy was tried by the archon of Siracusa Pascasio for having converted to Christianity. He is depicted in the painting, sketched with sinuous brush marks and wrapped in darkness in the upper left. Contrasting to this figure, Lucy is illuminated with the delicate colours of her dress, her body unnaturally arched back - as she receives the cutting blow of martyrdom to her throat - underlines the diagonal of the scene, around which each figure displays a different emotion. From Solimena’s happy beginnings would follow the first important commissions (frescoes from the Sacristy of San Paolo Maggiore) characterised by strong contrasts in light, articulated layouts and scenes inspired 103
by the works of Mattia Preti and Pietro da Cortona.2 A number of experiences with the world of Roman Classicism and the works of Carlo Maratti pushed Solimena towards a search for greater formal balance, compositional clarity and content rendered with expression, such as Christ giving the keys to Peter (private collection, 1695), Saint Christopher (Monteoliveto, c. 1698) and the Death of Saint John (Salt Lake City Museum, Utah, 1695–1700).3 From the beginning of the 1730s, contrary to common practice, Solimena cultivated his youthful experience of the Baroque, the influence of Preti and of the last Giordano, preferring a painting technique characterised by chromatic contrasts and great compositional imagination (works carried out in collaboration with his students, for the Palazzo Reale on the occasion of the marriage of C. di Borbone, Naples, 1737–38).4 Solimena’s output had notable references to his contemporary artistic environment, even through the work of his followers, amongst them, Maria Rossi, Francesco De Mura, and Giuseppe Bonito.5 It has been recorded that Solimena was a very strict teacher, even attentive to the moral standing of his students. He himself was recorded as a man totally committed to painting and particularly virtuous and modest, to the extent that from a young age he dressed in the clothes of a religious cleric — the same that he selected for his Capodimonte self-portrait (1720) 6 — that earned him the nickname of Abbot Ciccio. His only enjoyment was frequenting by evening the home of his great friend, Alessandro Scarlatti, the famous composer, between the end of the seventeenthand beginning of the eighteenth-century, delighting in his music.7 Laura Marchesini 1. Spinosa 2018, n. 57, p. 215. 2. ivi, pp. 40-54 (from the previous, refer also to the previous bibliography). 3. ivi, p. 73. 4. ivi, pp. 115, 524. 5. ivi, p. 7. 6. ivi, n. 274, pp. 546–547. 7. Fabris 2018, p. 324.
9. DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Study of a figure (recto) Study for a Preaching of John the Baptist (?) (verso) Red chalk, 204 × 194 mm. Inscribed the right-hand margin, in pen and brown ink: Pasinelli Lorenzo. Collector’s Mark of the Musée d’Art et Industrie, Lyon (as ‘échange’), not in Lugt.1 provenance : Lyon, Musée d’Art et Industrie; Lyon, Galerie Mazarini (2000), as «Pasinelli». literature: Riccòmini 2012, p. 39, n. 23.40 (as unknown location and unknown measurements). From one side, the work seems to be divided by a diagonal, that points from the lower left corner towards the upper right corner, or vice versa. It’s not marked, but just suggested by the profile of the draped body and extended outwards from an anguished woman — her arms outstretched at the sign of a painful discovery, like english texts
the Madonna at the tomb — and that of the face of a worried looking young boy, of larger proportions, extracted, together with other bearded heads, in the space that lies above him and behind him. In the area to the right there is, instead, an emptiness, just barely lightened by the upturned trace of a woman turning to her left, as though responding to a call, her head repeated twice. From the other unseen side (that isn’t quite unseen, on a sheet from a sketch pad like this one, thus the need to distinguish the recto from the verso when referring to it), a woodland tête-à-tête takes shape between who we can assume to be the Baptist — young and bearded with a full head of hair, sat with his legs crossed, his shoulders covered by a thin tunic fastened to his neck — and an old white-haired man that turns towards him from a lower plane, thinking whilst gesturing with his right hand. The paper is inscribed with the nervous trace of soft red pencil, that preferred by Creti (and not by Lorenzi Pasinelli, as he would prefer handwriting on the recto of his work) during his years of training, and then abandoned in favour of a permanent mark in brown ink using the thin point of a pen. As often seen with the works of Creti, there isn’t a trace of a completed work on canvas of the scene here depicted. Despite this, if we welcome the suggestion that the figure on the verso is Saint John the Baptist, we can thus imagine this work as a first idea for the palette with the Baptist’s Sermon, already found at Florence with Contini Bonacossi, then at Houston, and today at the Smart Museum of Art in Chicago.2 This was carried out from observation of the lost «Saint John the Baptist preaching to the crowds, large canvas, entire figures and entirely naturalistic» recorded by Marcello Oretti in Casa del conte Fava «in front of the Nuns of Mary Magdalene, via di Galliera».3 Roli dates it to the first years of the seventeenth-century, 4 but it would be considered as earlier than this, given the evident perseverance of the charm of Veronese, with obvious references (like the turbaned figure of a ‘Vitellio’, on the right) and a borrowed palette, inspired by Veronese’s bright colours and inspired vividness just like that of Veronese, seen by the young Creti first in Modena (where he studied, copying the Cuccina canvases in pencil) around 1690, then in Venice, where he copied Veronese’s altarpiece in San Zaccaria (as we know from the work dated by Count Alessandro Fava ‘1693’, held at the Fondazione Giorgio Cini).5 Just before this date, between the end of the 1680s and the first years of the 1690s, he would create this work, until now unseen, on its verso. Marco Riccòmini 1. See, i nn. L.1699a e L.1699b del Musée des Tissus et des Arts décoratifs, Lyon. 2. Inv. n. 1973.46. Gift of the Samuel H. Kress Foundation. Oil on canvas, 90,5 × 62,6 cm. See: Riccòmini 2012, p. 112, fig. 24. 3. Marcello Oretti 1984, p. 89, [b] 39/11. 4. Roli 1967, pp. 93–94, n. 67, fig. 9. 5. Riccòmini 2012, p. 79, n. 90.44.
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10. DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Journey to Calvary, 1687 Oil on copper, 20 × 39 cm, oval. On the reverse of the copper, in brown ink: «4/3/3/5/ [referring to the main points of the copper] la passe di Son e / per d10 . &30 / li 9 Ott. 1687 /AL° FAa ». provenance: Bologna, Casa Fava; Milan, Finarte, 2 December 1975, lot 33. literature: La pittura Bolognese del ‘700 1994 n. 1, ad vocem; Riccòmini 2012, p. 85, fig. 5. Followed by a drawing of the same subject, also oval, as well as being signed on the reverse with the initials of Count Alessandro Fava (dated «1688») 1 (fig. 1), Journey to Calvary on copper by the sixteen year old Creti can be identified with the work found in 1745 in the «Galleria Grande Dipinta dal Carazzi» [Galleria Grande painted by Carazzi], mentioned in the «Inventario Legale dell’Eredità Fava in Bologna» [Legal Inventory of the Fava Inheritance in Bologna]: «Our Lord who carries that cross to Calvary, painted on copper, with golden frame and gold-leaf case, from Creti, L. 100»; 2 probably the same «Passion of Christ», recorded by Marcello Oretti in the Bolognese home of the «Conti Fava family, meeting the church of the Padri Filippini, Strada di Galliera».3 Certainly, the unfolding of one of the final scenes of the Passion retraces one already thought up for the tondo with the same New Testament theme, part of the Mysteries of the Rosary of the parish church of Saint Peter in Fiesso, close to Bologna, carried out by Creti around 1688.4 (fig. 2) Indeed, the same pose can be found on the copper with Jesus kneeling, weighed down by the weight of the wood, in the same way as the condemned criminal in the white shirt who, showing us his shoulders and the oval of his head, carries the arm of the cross. The paint here appears more like a glaze, given the metal surface, and to this earthly palette carried out in Fiesso, a varnish and subtle white highlights were added ten years later. The work on paper in London, the tondo from Fiesso and our copper example, in the same vein as the Journey to Calvary, envisioned beneath a striated and lagoon-like sky, with figures grouped along an axis captured by the wood of the cross, almost as though they were sculpted on the sides of a late Roman sarcophagus, declaring a reliance on the model created by Paolo Veronese for a canvas of the same subject in Venice in Palazzo Cuccina (today Papadopoli). The work was then in the gallery of the Duke of Modena, where, together with his other three companions, the young Creti saw it and studied it (then accompanied by Pietro Ercole Fava), today held at the Gemäldegalerie in Dresden. Attesting to the affiliation of the young Creti to the Fava Counts, the signature is the same that appears on four signed works on paper, one by Alessandro and the other three by his son, Pietro Ercole Fava. Amongst these, one alternates between a comic scene (that of the Sausage thieves) and a sacred scene (an Adoration of the Magi), whilst the remaining three narrate in a serious manner (and even somewhat witty) stories of the life of Christ 104
(two are nocturnal scenes with Cappucine monks who surround a young man in a forest: the Capture of Christ), and another depicts a Madonna with Child and angel.5 Marco Riccòmini 1. «Donato Creti f.t il 25 Feb.o 1688 /AL.o FA:». See also: Riccòmini 2012, p. 85, n. 95.3. 2. Campori 1870, p. 608 (where the inventory of the Casa Fava art works are shown, signed by Creti himself in 1745). 3. Oretti, Ms. B 104, circa 1769–1779. See: Marcello Oretti 1984, p. 90, [b] 62/21. 4. Riccòmini 2012, p. 85, fig. 6. For other tondos by Fiesso: Mazza 1992. 5. Riccòmini 2012, p. 32, n. 21.1 (Nocturnal scene with Cappucine monks who surround a young man in a wood: Capture of Christ. Chicago, The Art Institute of Chicago, Inv. n. 1922.708 a. wv 2576 b); p. 36, n. 23.9 (Sausage thieves, recto; Adoration of the Magi, verso. Bologna, private collection); p. 51, n. 37.44 (Nocturnal scene with Cappucine monks who surround a young man in a wood: Capture of Christ. Florence, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Inv. n. 4268 S); p. 80, n. 90.46 (Madonna with Child and angel. Venice, Fondazione Giorgio Cini, Inv. n. 31495. Certani n. 484).
fig. 1: Donato Creti, The Way to Calvary. Formerly London, Thomas Williams Fine Art (2001). fig. 2: Donato Creti, The Way to Calvary. Fiesso (Bologna), parish church of San Pietro.
11. DONATO CRETI cremona 1671 — bologna 1749
Study of a seated man (recto), c. 1711 Study of three figures (verso) Red chalk (recto); black chalk (verso), 230× 175 mm. In lower left, inscribed (not signed) in black ink pen: Donato Creti. On verso, in brown ink pen: S. Donato Creti 21:10. literature: Italian Old Master Drawings 1990, pp. 86–87, n. 36, ill. recto e verso; Riccòmini 2012, p. 71, n. 88.1. Feathered beret and ample robe of heavy fabric (perhaps taffeta?), floor-length and indeed longer, needing the hem lifted when seated, as if in costume, in the middle of a Ariostan fairytale set in a far-away time by Niccolò dell’Abate; his profile lost, in fact, blurred, beyond territorial — and, indeed, earthly — borders of white paper. Sat and scrutinising the night sky is the young man outlined with red pencil by a mature Creti. Perhaps watching the distant planet of Mars, visible from Earth even with the naked eye during the clear nights of summer, maybe in the fresh air of a hill above the profile of the city of Bologna. We can imagine that the red planet is the object of his attention, given that in the corner of the work’s verso are sketched three figures in black pencil, one of whom point its finger to a point at a distance, precisely as the young seated figure does with his feather in his cap,overdressed with an ample orange mantle, in the Mars painted by Creti around 1711 (fig. 1).1 To look more closely, the same young figure enraptured by the poetry of the skies and stars returns on the verso of the work, almost exactly in the same pose. He seems to be listening to the man who, standing, turns towards him, indicating with his hand the bright star in the darkness of the sky. In the painting there is, instead, he who is sat on the ground and seems to take note of the observations he has made without using scientific instruments. 105
The so-called series of the Planets (today in the Pinacoteca Vaticana, where they arrived from the papal palace of Castel Gandolfo) was born around 1711 on the command of general Count Luigi Marsili. Upon the suggestion of the illustrious scientist as well as man of letters, Eustachio Manfredi (author, amongst other things, of the Ephemerides motuum Coelestium ... Ad usum Bononiensis Scientiarum Instituti, printed in Bologna in 1715), the miniaturist, Raimondo Manzini, approached Creti in its creation so that Manzini carried out the work in the most accurate way possible, including the accurate placement of celestial bodies: Sun, Moon, Mercury, Venus, Mars, Jupiter, Saturn and a Comet. The intention of Count Marsili, founder of the Accademia degli Inquieti in his own home (with a small observatory annex «suitable for those observations that were necessary»),2 and promoter of the foundation of the Istituto delle Scienze in Bologna was to gift the series created by Creti (and Manzini) to Pope Clement XI (Giovanni Francesco Albani, from Urbino, to whom, Manfredi four years later, dedicated his two books on the calculation of the skies) aso that he was convinced to sponsor the spatial research of the new institute in Bologna. From that lost hope (it was difficult to imagine, even with an enlightened pontiff, a desire to investigate the stars with scientific methods, given that, in the previous century, Galileo Galilei endeavoured with great difficulty to have been able, amongst other things, to point a telescope towards Mars) remains, however, the small canvases by Creti, amongst the most dreamy and poetic works from within the eighteenth-century, not just in Italy; and accompanying these are a handful of preparatory studies 3, like those in discussion; whose recto, completed, will be thought of as an independent work on paper, from a collection, destined for the cabinet of a lover of sciences as of the arts. Marco Riccòmini 1. Roli 1967, p. 96, n. 87, fig. 21. 2. Cavazzoni Zanotti 1745, p. 17. 3. To these can be added two Dresden works (Inv. nn. C 6465 and C 7341; Riccòmini 2012, nn. 31.8 e 31.9); That formerly at Phillips in London (Riccòmini 2012, n. 73.1); Young man with sextant at the Hermitage (Inv. n. 20670; Riccòmini 2012, n. 80.3) and the Astronomers at the Pinacoteca Nazionale in Bologna (Inv. n. 38.34; Riccòmini 2012, n. 11.13).
fig. 1: Donato Creti, Mars, Rome, Pinacoteca Vaticana.
12. FRANCESCO FONTEBASSO venice 1701 — 1769
A Head of a Youth, c. 1730 Studies for the Figure of Saint Leonard (verso) Black chalk (recto). Pen and brown ink (verso), 350 × 258 mm. provenance: L. Pollak (Lugt Suppl. 788b). literature: Magrini 1988, p. 194, n. 179; Italian Old Masters Drawings 1998, n. 17. Francesco Fontebasso was first trained by Sebastiano Ricci; he then went to Rome where, in 1728, he was among the winners of the Concorso Clementino. On his return to Venice in the same year, he stopped in Bologna where he was much impressed by the work of Vittorio Maria Bigari and Donato Creti. english texts
Fontebasso was very successful in Venice. His patrons included members of the aristocracy and the Church, and the artist produced grand decorative schemes and cabinet pictures for both. We should note, among Francesco’s main works, the frescoes in the Jesuit church (1734), in Palazzo Duodo (1742–53), in Palazzo Barbarigo (1745), and earlier, in Trento, the decorative cycle for the Chiesa dell’Annunziata (1736). In 1761, Fontebasso went to St. Petersburg where he executed work in the Winter Palace. He returned to Venice in 1762 and was appointed professor at the Accademia. In 1768, he was named president of that institution. Francesco’s art remained basically indebted to his first master, Sebastiano Ricci, although, as time went on, he was influenced by Giovanbattista Tiepolo whose work was well known to him. Fontebasso was also a prolific draftsman, and his drawings show a surprising range, from rapid chalk sketches and engraving-like pen studies (the artist was also a print maker) to finished drawings, preparatory to his paintings. Our drawing, both recto and verso, is preparatory for the altarpiece, Saints Lawrence Giustiniani, Leonard and Nicolas of Bari, in the Venetian church of San Salvador (fig. 1). The painting was commissioned and paid by the Cornaro family in 1737,1 and it was considered one of Fontebasso’s best by both the critics and the public of the time. The recto of our drawing is a study, still Riccesque in character, for the acolyte on the left in the altarpiece and is comparable stylistically to a Study of a Male Figure and Hand, recently sold in New York.2 The verso of our sheet shows various studies for the central figure of Saint Leonard. One notation shows the saint against the architectural background of the altarpiece. These sketches are typical of Fontebasso’s draftsmanship of the 1730’s in which the influence of Gaspare Diziani and Donato Creti is seen. 1. See Magrini 1988, p. 194, n. 179, fig. 24. 2. New York, Sotheby’s, 10 January 1995, lot 7.
fig. 1: Francesco Fontebasso, Saints Lawrence Giustiniani, Leonard and Nicolas of Bari, Venice, church of San Salvador.
13. UBALDO GANDOLFI san matteo della decima, 1728 — ravenna, 1781
Portrait of a young girl, profile (his niece, Marta?) Red pencil and white chalk on cerulean paper, 305 × 220 mm. In upper right, in pen and brown ink: Gandolfi Mauro. On the reverse, in pen and brown ink: 9. provenance: Bologna, private collection. literature: Bagni 1992, p. 28, n. 24; Riccòmini 2016, pp. 50–51, text 15. An image that captures a moment, this drawing presents us with a moment of everyday intimacy with the portrait of a young girl from the Gandolfi household; perhaps Marta,1 Gaetano’s only daughter, brother of Ubaldo — the creator of this beautiful drawing - or one of Ubaldo’s daughters. From the warmth and intensity of the light that fills the image, one would say that one were in the middle of a day in late spring or early summer. It is, however, a english texts
private moment, perhaps at breakfast, but in any case a moment far away from the formal pressures of work in the studio; a moment in which the painter takes pleasure in the real, in its everyday honesty. He is inspired by it: an instant when the painter activates his mastery to gather and fix on paper the flow of an everyday moment from his closest loved ones. The drawing, at least in its supporting elements, is carried out with great immediacy and freedom, to then be recaptured in its highlights and its shaded parts, with great care and attention but always with an extreme rapidity of touch that literally makes the edges of the painting vibrate. This is seen, for example, with the mouth: the sinuous lips are captured via a double parallel line, almost seeming to crystallise a moment in time. Ubaldo probably took his brother, Gaetano’s, example when deciding to depict the children of the family, freeing them from the formality of a pose or particular attitude.2 It’s above all this style of depiction that the latter brother will go on to develop in a large series of works on paper that, even with the passing of time, depict the many children in single or double portraits (fig. 1 and 2): depicted affectionately intent on some activity almost as though the observer were totally invisible. If the delicacy of the sanguine — always the artist’s preferred medium — expresses the touching tenderness with which he captures the features of the young girl, the use of even more pencil that Gaetano instead pursues, allows him to reach an expression of great paternal affection. The delicacy of some of the colour expressions in the chiaroscuro end up convincing us that the light of that day was the other major element of the drawing for Ubaldo. Everything is placed in the work because the figure welcomes it. This is thus why a gathering of loose plaits free the nape, whilst the turning of the neck places the face and profile partly in shadow, making the round nose and eyes stand out. It’s only with a second glance, tracing one’s gaze from the area in light with that in dark that one notices the small ring that pierces the earlobe of the sitter; surprised by this discovery, one is tempted to believe that the true subject of this portrait is actually the earring itself, framed by the face of the young girl. One could also be easily convinced that, particularly in the works by Gaetano, those plaits that decorate the heads of his young children reflect a popular fashion of the time. It’s not, however, to be considered as a hairstyle exclusively for boys, as shown in this work at the British Museum (fig. 1). It was probably, in reality, a more practical and efficient method in the Gandolfi household to show the childrens’ faces and thus better depict them, rendering the expressions of their eyes more legible as well as the bursts of light on their skin. The same, Mauro, to whom this work has been erroneously attributed, also turned to this fatherly solution for his children’s long hair, freeing the face of his favourite model with an identical style of plait gathered on top of the head as shown with a number of drawings from the Certani Collection.3 Davide Trevisani 1. We owe John Marciari, who we wholeheartedly thank, for the suggestion that the young girl depicted could be identified as Marta on the basis of the shape of her nose and her mother’s. Indeed, based on the portrait Gaetano clearly painted of his wife, Giovanna Spisani, soon after their marriage in 1763 and today held in a private collec-
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tion in Bologna, the nose of the two figures seems similar enough to to prove Marciari’s hypothesis. It is, however, still prudent to place a question mark next to Marta’s name. 2. On this point, see Cazort 1990, pp. 87–98. 3. See also M. Riccòmini, n. 147, in URL: https://www.pandolfini.it/ it/asta-0316/gaetano-gandolfi.asp; also M. Riccòmini 2018, pp. 121–123, nn. 87–88.
fig. 1: Gaetano Gandolfi, Portrait of a girl reading, London, The British Museum, inv. n. 1946,0713.1321; fig. 2: Gaetano Gandolfi, Portrait of two of the artist’s children, on loan from the Pandolfini Casa d’Aste, Florence.
14. GAETANO GANDOLFI san matteo della decima 1734 — bologna 1802
Study for the Communion of the Apostles Black chalk, 430 × 307 mm. Signed in black chalk: G. G. f. 1797 (verso). The work is a preparatory study for the left half of the large altarpiece with the Communion of the Apostles in San Lorenzo of the monastery of the Servi di Maria in Budrio (Bologna),1 signed and dated on the verso by Gaetano Gandolfi ‘1797’ (fig. 1). It is Prisco Bagni who told the delightful story of the commission of the painting, discovered in the convent’s visitors’ book: «Seventy parishioners, shocked by how much had been done to reduce the church to the state mentioned [when, namely, it was rebuilt] decided to want to try… to also do the main chapel… and they decided to pay the small sum of nine baiocchi 2 from each of them, and with this they played for an entire year in all of the lottery draws in Rome with a combination of thirty-five baiocchi, with a bold expression that if San Lorenzo wanted the church finished he would make them win the lottery». And, although it seems incredible, the parishioners’ wish was granted and, ultimately, they truly won the prize: After having spent an entire year playing, always in vain, the last time and with the last coins, they won the lottery with a prize of nine thousand Bolognese Lire». With this large sum, immediately deposited at the Monte di Pietà, they began work on the main chapel. To decorate the church interior, Gaetano Gandolfi was asked to complete two altarpieces, a Communion of the Apostles for the latar of the SS. Sacramento and a Martyrdom of San Lorenzo for the choir, both still in situ.3 Ten Apostles are seen on the work, all twelve can be counted on the canvas. Ten ‘in line’, waiting their turn to receive the host blessed by the hands of Christ. One figure, the youngest with his back to us, his gaze turned towards the sky, and the last — the προδότης, namely the ‘traitor’ — Judas ‘Iscariot’, ‘man of Qeriyyoth’ (in Southern Judea), hidden behind the altar, tormented by the demon («Satan enters him», writes Giovanni in his Gospel),4 beneath the form of a horrifying bird of prey with hooked wings and a thin dog’s nose. Even though we don’t know if he participated or not in the first Eucharist, there are those who record his presence — like John and Matthew 5 — and who, instead, deny it, like Saint Augustin.6 Attentive to the narration of the biblical texts, in the preparatory work, Gaetano focuses on the left half of the altarpiece that, as was his method, exactly retraces 107
the creation on paper which follows almost exactly the first layer of the canvas, in the sketch still held at the sacristy of the Budrio parish church. 7 Marco Riccòmini 1. Biagi Maino 1995, p. 407, n. 240, fig. 266–267. 2. An ancient Italian currency, predominantly used in central Italy. It was phased out and replaced with the lira upon Italian reunification. 3. Bagni 1992, p. 415, n. 391. 4. Gospel according to John, XIII, 27. 5. Gospel according to John, XIII, 2–32; Gospel according to Matthew, XXVI, 20. 6. Saint Augustin, In Evangelium Ioannis tractatus centum viginti quatuor, LXII, 3. 7. Bagni 1992, p. 413, n. 389. Oil on canvas, 68.5 × 45.3 cm.
fig. 1: Gaetano Gandolfi, Communion of the Apostles. Budrio (Bologna), church of San Lorenzo. The photograph is taken from the Fototeca of the Fondazione Federico Zeri (nn. 70338). The writer’s ownership rights appear as expired.
15. JACOPO ALESSANDRO CALVI called IL SORDINO bologna 1740 — 1815
Study of a male face Sanguine, 234 × 205 mm. provenance: Paris, private collection. The head is reclined towards the left, the eyes are turned toward the sky in dialogue with the beyond, mouth ajar between surprise and rapture. That attitude and the sitter’s glace, inspired by the work of Guido Reni, are for Jacopo Alessandro Calvi almost a signature that the painter employs in the faces of many figures of his paintings, actors or simple spectators of Martyrs, Crucifixions, Sacred Conversations. The beautiful face on paper bares comparison with works that cover the entire arc of his career. Not to mention those meaningful examples of the same gaze, the same long and elegant bridge of the nose and luscious lips are of the apostle to the left of the Virgin in Cingoli’s Pentecost (1771),1 from the angel on the left of Christ in the altar of the Sacro Cuore in San Giuliano in Bologna, (circa 1780) (fig. 1) and, still in the city of Bologna, of the young San Lorenzo of the altar of Santi Erasmo and Lorenzo2 in San Petronio (1795) (fig. 2). The counterpart paintings compared to the drawing have, therefore, more flowing hair, itself part of the emotive engine of the figure who stands out. The paintings don’t present the graceful and light small neck beard of the sanguine from the drawing. Indeed, the sanguine explores the detail of the face with a fine trace that tapers out to define shade and light, arriving at the description of the most affected of details: the curl of this fresh beard and its irregular growth growing under the left ear. This adherence to the real suggests that it refers to a real life model, a young boy from Calvi’s time who posed for the artist in his studio. The previously unseen work will enrich the corpus of the artist’s work that still lacks a monographic study that investigates the artist’s entire output.3 Too soon forgotten only a few years after his death, Jacopo Alessandro Calvi was, in reality, a leading figure in english texts
painting in Bologna from the eighteenth-century, together with the better-known and the talented, Gaetano Gandolfi. Calvi, nicknamed Sordino for the hearing impairment caused from a childhood illness, started at the studio of the painter, Giuseppe Varotti and was then entrusted to the writer and painter, Giampietro Zanotti, becoming his favourite student. Reflecting on the greats amongst those painters in Bologna from the seventeenth-century and informing himself with numerous studio visits in Tuscany, Veneto and Emilia, Calvi developed his own original painterly language concentrated on the rules of equilibrium and harmony, solidity of design and characterised by a palette capable of bringing together imperceptible colours, as well as fleshy and luminous shades. Having become an exponent of the sort of Classicism centred on the Academies, Calvi interpreted painting with a felt devotion that the entire artistic community, particularly that in Bologna, could replicate. Calvi developed an interest in literature, releasing a number of interesting writings amongst which, Notizie della vita, e delle opere del Cav. Gio. Francesco Barbieri detto il Guercino da Cento,4 a painter whom Calvi felt stylistically aligned with and perhaps aligned with given he too was given a nickname that even in the local dialect pointed out a physical defect. Calvi was a passionate collector of antique books, drawings and paintings, developing great skills as a connoisseur, often being requested — even from abroad — to assist with matters of attribution. His commissions reflect the network of relationships that he knew how to weave during the arc of his life, entering into contact with the most visible people of his generation. Calvi’s works have been requested not only in Bologna, but also Spoleto, Bergamo, Siena, Maggiano, Cingoli, York, Wesel in Westphalia, Barcelona and Krakow. 5 1. Bergomi 2016. 2. The preparatory drawing in charcoal for the figure of San Lorenzo, without his hat, belongs to the Collezioni della Cassa di Risparmio in Bologna, (Varignana 1973, text 338, pl 124). 3. For the Calvi work see: Roli 1977, pp. 125–126, ill. XI, 295a-299a; Zamboni 1979, p. 222, ill. 316–317; Busmanti 1979; Busmanti, Pierallini 1989; See also the most recent contributions: Conti 2006; Iseppi 2015; Bergomi 2011; Conti 2010. 4. Calvi 1842. 5. Busmanti 1989; Biagi Maino 2004, ad vocem; Conti 2006.
fig. 1: Jacopo Alessandro Calvi, Sacro Cuore, Bologna, San Giuliano, Courtesy Fototeca della Fondazione Federico Zeri (n. 71271). fig. 2: Jacopo Alessandro Calvi, Santi Erasmo e Lorenzo, detail, Bologna, San Petronio.
16. FELICE GIANI san sebastiano curone 1758 — rome 1823
Self-portrait at the easel, c. 1790 Brown ink on paper, 235 × 183 mm. literature: Leone 2009, p. 31, fig. II.5, a p. 85. This work, only recently re-discovered, would have certainly found a prime position in the illuminating section dedicated to the artist’s works exhibited at the english texts
monumental Giani retrospective organised by Anna Ottani Cavina.1 More precisely, it would have enriched the series of work in which Giani depicts himself ‘as an artist’ that includes, in particular, another self-portrait (New York, Cooper-Hewitt Museum) where the painter depicts himself bent over the easel during a period of work «to the light of night» (fig. 1). Our work can be considered the daytime version of this work: the suns’ rays, coming from a small window, shine towards Giani with frenetic traces of ink towards the canvas in front of which the painter sits in his slippers and nightshirt whilst he flourishes his paintbrush on the canvas within an empty room that reflects his stoic sensibility. Even Francesco Leone places the two self-portraits in close relation, «in terms of form and inspiration», and approaches our example that he regards as «beautiful», also «some of the sheets from the Fondo Dubini from Turin’s Museo Civico with single figures rendered in an excited fashion, clearly stemming from the same sketch pad used for the preparation for the well known Selfportrait with the image of Diana of Ephesus dated to 1789, and also for the enigmatic effigies of Hooded figure and Butcher». These stylistic affinities bring Leone to date the work here described to around 1790, to correspond with the arrival of the painter in Rome and then his first experiences at the Accademia de’ Pensieri,2 founded by Giani himself, where artists from many backgrounds, all of whom tired of the traditional teaching methods imparted by the academies, would often meet. In these evening meetings at Palazzo Corea in Via Ripetta, a spontaneous assembly of trained artists intended to assess their skills, and the cultural weight they had accumulated, as well as their own knowledge of history, myth, literature, no longer a reproduction of previous knowledge but about creativity that thus needed recourse to creative qualities and imaginative virtuosity. 3 Having acquired from these artists who circulated the so-called Fuessli circle — stationed in Rome just a few years before — the use of line as a «representative tool of abstract essentialism with a cognitive aim»,4 Giani and others had chosen drawing as their ideal instrument of expression of their anti-classical experiments. Indeed it was with Northern Europeans such as John Flaxman, James Barry and Jakob Carstens, «in their self-analysis and their propensity for depth» that differentiates their self-portraits, Ottani Cavina rediscovers the characterising elements of the image of himself that Ginani wanted to perpetuate. «To draw, to that point» — writes the academic — «was no longer a direct operation (even less, innocent), even if within the self-portrait the artist worked on depicting reality. Drawing was instead the more profound exploration that a subject could attempt of themselves: as now the more profound exploration of oneself that the artist could attempt. It was a complex operation that passed through the phases of a diary, an autobiography, a distortion, a performance, never absolute naturalistic certainty». 5 Given these considerations, we cannot not be left initially surprised by Giani’s choice of methodology when representing himself in this Self-portrait at the easel, that is, with his pallette in hand. It could be the cheeky and irreverent spirit of the artist to suggest to his viewers a clear means to understand this apparent anomaly: Giani displays himself dressed in a tattered fashion, with 108
his skullcap and slippers, inside a dressing room totally absent of any representative attributes. This, in stark contrast to the usual excessive self-portraits completed by other more formally dressed academic painters, often using their self-portrait as an affirmation of social status. To give further vivacity to the mockery of the image, the presence of drawing instruments, tucked away but still clearly visible above the drawer, are displayed in order to be put away again at the end of the arrangement for the scene. 1. Ottani Cavina 1999. 2. Leone 2009, pp. 19–34 78, 85 (fig. II.5) 3. Rudolph 1977, p. 176 passim. 4. Leone 2009, pp. 19–34, 78, 85 (fig. II.5). 5. Ottani Cavina 1999, I, pp. 51–60; II, pp. 927–929.
fig. 1: Felice Giani, An Artist Drawing by Lamplight, New York, Cooper-Hewitt Museum, inv. 1901-39-2040.
17. GASPARE LANDI piacenza 1765 — 1830
Portrait of a lady, c. 1800 Oil on canvas, 65 × 50 cm. literature: Sgarbi 2004, ill. p. 126; Sgarbi 2005, ill. P. 138; Busmanti 2009. Together with Camuccini and Appiani, Gaspare Landi competes for the role of the greatest Italian painter of the first thirty years of the nineteenth-century. Many of his contemporaries were aware of this contest, indeed, it was his dear and esteemed friend, Antonio Canova, who promoted Landi’s work in Paris to Napoleon. We can in fact say that, even more than his supporters, Gasperi Landi embodied for painting the extraordinary role that his friend Canova had for sculpture. Firstly, from the sublime example of the style of Pompeo Batoni and then of Domenico Corvi — masters with whom the artist completed his training — Gaspare Landi contributed to the formal definition of neoclassical beauty: sublime grace and delicate expression, finding echoes and inspiration in the smoothness of the splendour of marbles sculpted by his friend, Canova. Above all devoted to grand historia paintings of elevated subjects and refined character, Landi, in spite of himself, was particularly appreciated and requested for his talents as a portrait painter. This was not without reason, as shown with the work here. He didn’t love to paint portraits and nor did he greatly appreciate having recognition within a genre of painting that he considered not his greatest. He nonetheless accepted it graciously, as he himself specified,1 for its stability and earning potential, guaranteeing himself thus the occasion to be able to dedicate himself with more serenity to his subjects and preferred genre. The portrait of a woman presented here well explains, therefore, the reason for the great esteem the painter enjoyed amongst aristocrats and the upper classes of the period. Perhaps for that denser sense of reality, the more human rendering of the attitude of the figure which echoes the use of a palette of more subdued and natural tones, should be dated a little later, more on the cusp of 1800, not that proposed by Eugenio 109
Busmanti as at the start of the 1790s. The words used by this latter are by contrast of an extraordinary critical precision when focussing on the great heights riched by Gaspare Landi as portraitist in this canvas. «It will be agreed that … [Busmanti writes] … one would not encounter such a pure and frank gaze, such an enjoyable smile, such is the quintessence of the femininity captured. Tied to such an English touch, such a French immediacy, the grace of Correggio and the colour of the Venetians: one will wonder if one is indeed contemplating a small masterpiece».2 It is useless to attempt to seek another expression to remark upon the excellence of the painterly and psychological rendering of this «speaking portrait», formula that well delineate not only the intention — expertly done — of rendering a frank and natural image of this young woman, of instantaneous vitality, suggesting it also in the look of languid, yet discreet, gaze. But, also, the excellence of the synthesis that Landi was capable of and that one can well appreciate in the vaporous delicacy of the light on the hair, in the porcelain pink of the flesh, in the transparent shine of her eyes and also in the rapid brush strokes of colour in the hem of the silk shawl that envelopes the figure. Davide Trevisani 1. Busmanti 2009, text n. 16. 2. Busmanti ibid.
18. LUIGI SABATELLI florence 1772 — milan 1850
Self-portrait ‘without mirror’, 1792 Black chalk and red chalk on paper, 225 × 180 mm. inscription: Luigi Sabatelli disegnò se stesso in 20 minuti / il dì 5 giugno 1792 / Senza Specchio [Luigi Sabatelli drew himself in 20 minutes/ the 5th June 1792/ Without mirror] literature: Valli 2006, n. II, 11, fig. p. 78; L’officina neoclassica, 2009, pp. 69, 73, fig. I.3. Of the various self-portraits on paper that have gradually reemerged from various studies,1 this unpublished work appears as the first in a chronological timeline for the artist’s oeuvre. In pencil and pen, with some then transferred via engraving or watercolour, these works reference the «philosophical youth» of the artist — as defined by Carlo del Bravo, until his move to Milan in 1808, as Professor of painting at the Accademia di Brera. «Luigi Sabatelli» — writes Mazzini 2 — «was born of the people. Son of a chef for the Capponi family in Florence, who paid for Sabatelli to travel to Rome and study there, as well as funded his career as an artist; his worth developed slowly, but ultimately his talent shone with such brightness that he was able to well-compensate his benefactors. For a long time, the artist felt his way in the dark, uncertain of the types that surrounded him and of his noble instincts [...], although not, however, without spurts of revolt, signs of life that appear here and there, like a promise of freedom and better things». From the Enlightenment stereotype of the fable of the artist, who achieves social acceptability through the notion of being an artist as a profession,3 after around fifty years, a new english texts
romantic image inserts itself, close to the myth cultivated by German literature 4 that privileges the idea of the artist’s restless search for the «goal of pursuing», knowledge of the divine and one’s own «mission».5 Sabatelli arrived in Rome in 1788.6 A frequent attendee first of the Accademia of Domenico Corvi, friend of Vincenzo Camuccini, Pietro Benvenuti and Giuseppe Bossi,7 and, together with these, from 1790, of the Accademia dei Pensieri,8 founded by Felice Giani and Miichele Kock, in friendly cooperation with Bénigne Gagneraux, Giambattista Dell’Era, Humbert de Supreville, Jean Fabre and indeed Wicar, Girodet, Gaspare Landi etc. This meant from one angle, the systematic study of the body with respect to the «scientific» regard for the rules of proportion and perspective — the hated, even though enduring notion of the «correctness» of the neoclassical school, according to Mazzini, «feeling outlines, measuring forms» 9 —, but from another point of view, a renewed focus on the subject: a regard that was conscientious and respectful of the reading of texts — one that will guarantee Sabatelli «his middle-ground position between the old and young school».10 A marked with curiosity developed in the meantime, one that thrived on the challenge, aware of the continuing insistence of the written word. Sabatelli’s affinity with Tommaso Puccini is clear. Puccini, an intellectual and informed art collector from Pistoia, shared an affinity with Sabatelli’s work in Rome, in relation also with Monti, Baretti, Alessandro Verri and Quirino Visconti.11 In the daily workings of ‘Pensieri’, other than reading, was technical experimentation, testing his speed, with an almost gymnastic agility — «he drew himself in 20 minutes — an unforgettable feat, recorded «the 5th day of June, 1792», as written on the recto of this small self-portrait of Sabatelli. And «without mirror» as a memory exercise. The artist shows himself three-quarter length, shirtless, dishevelled hair tied back, an appearance that will soon cause him a shock, during the anti-French revolt of 1793, «seeing myself with that look at the window and with that long and curly hair, they took me for a Jacobin and began screaming ‘kill him, kill the French! And came up the stairs furiously».12 A hurried line, but sharp, completed on a bare background, excavating contours rather than describing them, exacerbating the traces of the face, filling them with the red of the chalk — as, in 1795, in the self-portrait of the Collezione Pernati 13 —, with the trace perhaps of studies of J. Caspar Lavater. The line of Guercino, transferred from Bartolozzi’s engravings,14 becomes the widespread technique, almost always in pen, common with Dell’Era — the small self-portrait in profile 15 — or with Gagneraux — 1793–1795 (private collection) —, functioning to capture in the moment an authentic expression, the most profound element of one’s character. In the same way as a David or a philosopher, Talete, as Sabatelli drew for the Pensieri diversi published by Damiano Pernati after his escape from Rome. This spontaneous way of depicting himself is always more common amongst those artists that, with the example of Füssli and Flaxman, and thanks to a normalising of surreal subjects, had allowed artists to represent themselves — and also their peers — close-up and making reference to a precise circumstance or a shared event, english texts
as seen with the dedications and annotations on the works. A sort of emotional diary kept in the same way by Wicar 16 and, even in 1808, by Sabatelli who, at the moment of leaving his Tuscan friends for Milan, made each one a small portrait in pen 17 to keep as a memory in his absence. Francesca Valli * text taken from Valli 2006. 1. Pietro Benvenuti 1969, n. 101; Disegni italiani 1971, n. 11; Bairati 1975, n. 172; Paolozzi Strozzi 1978, n. 53; Cifani, Monetti 2001. 2. Mazzini 1841, p. 47. 3. Barroero, Susinno, 2000. 4. Marcuse 1985. 5. Mazzini 1841, p. 7. 6. Cenni biografici 1900, p. 9. 7. Visconti 1845, p. 7; Luigi Sabatelli, 1978, p. 24. 8. Rudolph 1977. 9. Mazzini 1841, p. 41. 10. ivi., p. 53. 11. Cultura dell’Ottocento a Pistoia 1977; Spalletti 1983; Mazzi 1986. 12. Cenni biografici 1900, p. 10. 13. Cifani, Monetti 2001. 14. Del Bravo 1978, p. 10. 15. Calbi 2000, p. 44, n. 4. 16. Caracciolo 2004. 17. Ojetti 1934.
19. LUIGI SABATELLI florence 1772 — milan 1850
Portrait of Antonio Canova, 1805 Pen and black ink on ochre paper, 355 × 243 mm. Inscribed in pen and brown ink: Canova (verso). In November 1805, returning from Vienna where he had completed the Funeral monument to Maria Cristina of Austria for the interior of the Chiesa degli Agostiniani, Antonio Canova passed through Florence to beem Queen Maria Luisa of Bourbon, who would have definitively entrusted him with the commission of the Venus Italica destined for the Uffizi’s Tribune. When in Florence, Canova would stay with his friend, Giovanni degli Alessandri, a central figure in art world politics in Tuscany as the President of the Florence Accademia di Belle Arti and future Director of the Uffizi. It was right after a meal shared at the Alessandri family home that Luigi Sabatelli sketched on paper — with the usual swiftness of line — the image of the sculptor. This information, as well as other more precise details, are noted on the inscription found on the reverse of another version of this portrait, included within the rich archive of Sabatelli drawings held at the Galleria d’Arte Moderna in Rome: «drawn in pen by Florentine painter, Luigi Sabatelli, after lunch at the Alessandri household where Canova was staying during a visit to Florence, the year of our Lord 1805 month of November day eighteen». The practice of creating a second version of a portrait wasn’t unusual for Sabatelli. Indeed, for most of the works described in the catalogue of the 1978 Florence exhibition — with examples hailing from another rich archive of Sabatelli’s work at the Gabinetto Disegni e Stampe of the Uffizi — a «twin» work is often indicated with very few differences found between them.1 From the comparison with our example there emerges a substantial similarity in the composition with 110
minimal difference in the line used that, in the drawing There are numerous portraits of Canova,2 to from the GAM in Rome, appears more robust: this latter which we can add the canvas in discussion, a work by example is indeed suffering from a more fragile state of Giovanni Battista Lampi Junior, who used a work by conservation — uniform foxing on the surface of the paper his father — also a painter, and with the same name 3 —, whilst the condition of the portrait is decidedly better, — as a model. This paternal example is perhaps one of showing only light damage to the paper along its edges. the most famous portraits of Canova, created between In the panorama of the most well-known images of 1805 and 1806 during Canova’s stay in Vienna for the inCanova presented by Hugh Honour in Studi in onore di stallation of the funerary monument of the archduchElena Bassi [Studies in honour of Elena Bassi],2 Sabatelli’s ess Maria Cristina d’Asburgo-Lorena. It is this imposing example is certainly the most simple, and the most inti- sculpture in the background of the painting of a proud mate and familiar in its tone. Sabatelli, with the expres- Canova, depicted three-quarter length whilst holding sive immediacy that his style allows him, is able to cap- the tools of his craft, wrapped in a large purple tunic ture on paper the moment in which the sculptor turns with embroidered golden hem (fig. 1).4 towards him with a surprised air , with his mouth still Giovanni Battista Lampi junior chose to depict open, as if interrupted during a conversation. only the bust of the sculptor, presented in the same pose, To capture other fundamental details and for a concentrating the composition on the intensity of the number of unique verses on Sabatelli’s portraiture, gaze and the evocative potency of his figure, removing there are still today available the pages that Ugo Ojetti from the background any reference and simplifying the dedicated to this particular aspect discussing the art- loose gilded cloth. ist’s drawing in a 1934 article in the magazine, Pan: «he The work gained such approval that multiple vertakes these great notes, day by day: memories, as I said, sions were created as with the oval-shaped copy at the of his parents and friends, pages covered in pen marks, Nationalgalerie in Berlin, only slightly larger than our in Florence or Milan, conversing with the sitter. Often work. 5 in the contrasting chiaroscuro you rediscover the dark The close collaboration between the two Lampis saw a shared practice, as with the creation of replicas ombres and white lights of the lamp on the table next to by his son, creating numerous problems for critics rethe model. Reading what the artist himself wrote on the reverse of each paper gives one proof of the intimacy quested to distinguish between the two artists. This is and rapidity of these drawings [...] all celebrated for their seen above all when working on portraits of Canova.6 sharpness in the definition of the nature of the sitter, the Lampi «The Elder», originally from Trento, had vigour of its contouring, and fineness of its chiaroscuro made his fortune in Vienna where he depicted Canova and colour. Some, like that of Canova, is more rapid and and where he was able to obtain favour from the clear, but with an alacrity absent of pentimenti, a gift for Hapsburg family, thanks to his graceful «fusion of anyone who wishes to freehand with pen. Sabatelli’s Venetian colour and psychological study — an English ability to engrave was already good enough that he was practice — as well as the solidity of the drawing».7 In his able to wield the pen on a sheet (paper?) with assured- brushwork, Joseph II saw a useful tool to utilise for his ness, demonstrating the same skill he possessed with cultural reforms, that foresaw a political use of history the engraving needle [...] Drawing is thus, for Sabatelli, paintings, above all, portraiture. the most sure way of understanding, of choosing that is, There were many supporters of the House of what is important, in order to define a person or object Austria and figures of the period would have their porunequivocally. This desire to understand, to be capable traits painted by Lampi The Elder. Lampi junior, favouof, as is the origin of language, to take and almost grasp rite son of his father and already a mature painter who the secret soul of man or woman who the painter has in shared his father’s studio and confidence, would work front of him, is in fact the greatest quality of the portrait alongside his father from 1804. Also following in his father’s footsteps, his younger brother, Johann Baptist painter [...] Sketches from life, like these, aren’t just the first grasp of the possession of the real». 3 Ferdinand III Lampi, born in Vienna in 1807 and greatly influenced by the Biedermeier culture. With his death, 1. Luigi Sabatelli 1978, pp. 57–62. in 1855, so too did a lineage of portraitists end, one who 2. Honour 1998, p. 170, fig. p. 171. knew how to fulfill the wishes of a royal court and es3. Ojetti 1934, pp. 240–242. tablish a privileged and extraordinarily long relationship with the Hapsburgs.8 Laura Marchesini
20. GIOVANNI BATTISTA LAMPI JUNIOR
trento 1775 — vienna 1837
Portrait of Antonio Canova, post 1806 Oil on canvas, 60 × 50 cm. literature: Intorno alla scultura 2007, p. 40; Busmanti 2009, pp. 32–33. Canova was one of the most depicted sculptors of his time.1 His esteemed reputation stimulated artists of every discipline to immortalise his image and private collectors to buy such images of a figure who was already an icon and symbol for art itself. 111
1. Mazzocca 2019, p. 149. 2. Honour 1998, p. 155. 3. Giovanni Battista Lampi (Romeno 1751 – Vienna 1830). 4. Oil on canvas, 113 × 92 cm inv. 356 Vaduz, Kunstsammlungen des Fürsten von Liechtenstein; the work was commissioned by Russian diplomat, Andrej Kyrillovič Razumovskij (1752–1836), a great supporter of Canova (Pancheri 2001, n. 58, cfr Pancheri 1996–1998, pp. 236–237). 5. Oil on canvas, 62× 75,5 cm inv. A. II. 980; see Pancheri 1996–1998, p. 246. 6. Honour 1998, p. 160, n. 10. 7. Busmanti 2009, p. 32. 8. Pancheri 2001, pp. 95, 100, 110–112.
fig. 1: Giovanni Battista Lampi The Elder, Portrait of Antonio Canova, Vaduz – Vienna, Liechtenstein Pricely Collection, inv. 356. english texts
21. AUGUSTE JEAN-BAPTISTE VINCHON
22. GIUSEPPE MOLTENI
paris 1789 — ems, duchy of nassau 1855
affori 1800 — milan 1867
Collection of Five Paintings with Studies of Horses’ Heads after Raphael’s Frescoes in the Vatican Rooms (Stanze) Rome, 1815–17 Oil on paper transferred onto canvas, 60× 74 cm. each.
Profile portrait of a sculptor, c. 1840 Oil on paper, 330 × 255 mm. Signed and dated in lower right: Molteni f. 1840.
The first painting is a study of the head of the Emperor Constantine’s horse in the centre of the large fresco depicting the Battle of the Milvian Bridge, in which Constantine was pitted against Maxentius, in the so-called Sala di Costantino, the last of Raphael’s four Vatican Stanze, which was decorated by his pupils immediately after their master’s death using his original cartoons. The large fresco depicting the Battle of the Milvian Bridge was painted by Giulio Romano. The second, third and fourth pictures also show three horses from the same fresco: the grey losing his rider in the foreground on the left of the painting, Emperor Maxentius’ bay immersed in water on the lower right-hand side of the composition, and the white-dappled bay in the background on the far left of the fresco. The fifth painting, on the other hand, is a study of the frantic dappled horse that appears in the right-hand corner of the fresco depicting The Meeting of Pope Leo the Great and Attila on the Road to Rome which Raphael painted in the Stanza of Heliodorus between 1513 and 1514. The glaring similarity between these five paintings and another depicting the same subject which went under the hammer in Paris in 2011 during the sale of the collection belonging to the descendants of the painter Auguste Vinchon (fig. 1) allow us to attribute these five pictures to Vinchon without any doubt whatsoever. Vinchon painted them between 1815 and 1817, while pursuing his career in Rome after winning the prestigious Prix de Rome awarded to him by the Académie Royale de Paris in 1814. One of the leading historical painters and portrait artists in Restoration France, Vinchon returned to Paris after his three-year scholarship in Rome to paint the frescoes in the Chapel of St. Maurice (now the Chapel of St. Joan of Arc) in the church of Saint Sulpice. His decorative schemes in Paris include the grisaille paintings in the vault of the Palais Brongniart, and he also produced numerous important historical paintings celebrating the glory of France. His vast canvas depicting The Enrolment of Volunteers on 22 July 1792 now hangs in the Musée de la Revolution Française in Vizille. Francesco Leone fig. 1: Auguste Jean-Baptiste Vinchon, Study of Raphael’s Fresco Depicting the Battle of the Milvian Bridge in the Vatican, 1815–17, oil on canvas, 72 × 162.5 cm, Paris, Galerie Mendes.
This previously unseen oil on card work was recently suggested to be the hand of artist, Giuseppe Molteni, whose unmistakable style is characterised by a dense and fleshy distribution of oil on the card, with rapid but precise brushstrokes that define the figure through the juxtaposition of shades that sheen with skillful strikes of light. A master of scenic portraits,1 Molteni here returns to an essential composition that collects those portrayed at shoulder height and in profile on a neutral background from the left side with a gradual fading out of the brown tones that become smoky pinks, whilst to the right, in line with the face, the darker tones are briskly interrupted by a direct eruption from the founts of light. The proverbial ‘painter’s inspiration’, guided by an unmatched technical virtuosity, unfolds freely, with the whole work liberated of the obligations imposed by commissioned portraits. An intimate work, not destined to circulate via official channels, thus unknown amongst lists of the exhibitions where Molteni exhibited. The work is a probable homage to a depicted figure, still without a name: an artist, probably, given his attire, perhaps a sculptor — the shape of his hat indicates as such — an interpreter, we can imagine, of a cross section of life from the inside of the painter’s studio. A place that, from the 1820s, became a highly frequented meeting place for art circles in Milan.2 A place of work and of intense collaborations, as shown by the famous watercolour that depicts Molteni and Massimo d’Azeglio busy painting together (Florence, private collection), but also a space given to worldly events: there the famous Brindisi took place by Tommaso Grossi to celebrated the recovery of Hayez in front of all of the most famous artists in the city. It was there also that a homage to the singer, Giuditta Pasta, was celebrated, the figure depicted in one of Molteni’s most loved portraits (Milan, private collection).3 Each of the most frequent visitors to the studio would receive a work as a gift (Francesco Hayez, Giovanni Migliara, Vitale Sala, Giuseppe Longhi, and Francesco Durelli). The painter used his studio, exalted by many wellknown international publications, as a place to promote and represent himself and others, hosting collectors and Italian as well as international travellers, who came for their portrait or to make the most of Molteni’s skills as a restorer or, indeed, to admire his collection of antique paintings and archeological items. It was certainly this which would have attracted the interest of the figure depicted in this portrait, whilst Molteni was intent on capturing his likeness. 1. Mazzocca 2000, pp. 24–27, 30–31. 2. Mazzocca 2000 a, p. 99; cfr. Mazzocca 2000 b, n. 5, pp. 198–199, fig. a p. 104. 3. Mazzocca 2000 c, n. 38, pp. 208–209, fig. a p. 149.
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23. ENRICO SCURI bergamo 1806 — 1884
Alceste brought by Hercules to Admeto, c. 1828 Charcoal, sfumino, white chalk, paper applied to canvas, 1260 × 1630 mm. «Thus it is complete, that is, Admeto, your vow: she has released you! Behold her, such a marvel! This Alceste is alive! » 1 in such words concludes the final act of Vittorio Alfieri’s ‘Alceste Seconda’. A Count from Piedmont, it would be the last of his tragedies, inspired by Euripedes’ eponymous work.2 The pathos of the moment is powerfully rendered by the composition of a large preparatory drawing on card by Enrico Scuria of a painting exhibited at the Brera Annual Exhibition in 1828 and, unfortunately, lost today. The depiction of the bodies of the figures shows an attentive study of anatomy and ancient sculpture (notably the majestic and rippling musculature of the demigod that recalls that of the Farnese Hercules) 3 goes alongside the force of the gestures that instead transcends the rationality of the classical models and evokes a greater emotive focus. The composition of the work evokes a notable sense of theatricality that doesn’t conceal the painter’s passion for performance, a passion he possessed from a young age having spent time with the Mariton family from Switzerland.4 This drawing can, therefore, be inserted within that transition line between Neoclassicism — that always found ample breathing-space in the Roman tradition — and Romanticism, with its avant-garde centre found in Milan, culminating in the battle for the commemorative statue for Andrea Appiani.5 Enrico Scuri appeared as a prominent personality in these artists’ quarrels given that given that on one side he had been trained by Giuseppe Diotti who «had authoritatively identified the direction to the Romantic both in the early Classicism and in the heroic language of his work during his training in Rome (1805–1809)»6 but, at the same time, he developed an independent style, not unoriginal, inserting himself amongst those «great interpreters of this crisis of historical Romanticism [...]. These rebel painters, [who are] often attacked by the press or misunderstood by the public, look for new emotional suggestions, previously unknown formal or narrative openings [...]». 7 Enrico Scuri was born in Bergamo in 1806 and from a young age showed such potential for painting that in 1819, as soon as he reached the required age, he was enrolled at the prestigious Accademia Carrara.8 He came into contact with Giuseppe Diotti and became both his best pupil and collaborator: Diotti would take him under his protective wing 9 both as an advisor and allowing him to work on a number of important commissions, including that of the Dome of the Incoronata di Lodi.10 Scuri, from a young age, dedicated a great deal of time to a large personal workload, specialising in portraits and sacred works, whilst remaining strongly connected to the academic world:11 he didn’t just have the possibility to follow another four years of study in addition to the ten already required,12 but he achieved acclaim from outside of Lombardy circles. He also reached the same academic position as his teacher, keeping it for forty-three years, maintaining a prominent position in the world of culture of the period,13 despite his predilection 113
for an aesthetic more influenced by an academic style and, in appearance only, not receptive of new codes of expression.14 Chiara Fiorini 1. Alfieri 1842, p. 472. 2. The tragedy focuses on the sacrifice of Alceste, the young wife of Admeto — King of Fere in Tessaglia — who offers her life in exchange for that of her husband. The final scene, however, is absent of the high-drama such tragedies usually require, being a happy ending: Ercole, passing through Tessaglia as part of his twelve trials, frees Alceste from death and brings her back to her husband. 3. Cfr. Mangili 2002, p. 179. 4. The interests that Scuri showed for drama was so strong that he would often argue with his professor and mentor, Giuseppe Diotti, who maintained that «painting had not rivals», as well as with the administrative council of the Accademia Carrara. Cfr. Ivi, pp. 77–81. 5. Cfr. Leone 2018, pp. 41–43. 6. Cfr. Ivi, p. 44. 7. Cfr. Mazzocca 2018, p. 31. 8. Cfr. Mangili 2002, p. 80. 9. To understand the depth of their relationship, there is a painterly anecdote from 1825: the Maestro will bring Scuri with him to Soresina to help him end a romantic relationship not well perceived by his family. It was there, whilst he was the guest of the Landriani family, that he met his future wife, Caterina. Cfr. Ivi, pp. 80–81. 10. Cfr. Ivi, p. 23. 11. Cfr. Ivi, pp. 81–82. 12. Cfr. Ivi, p. 82. This was reserved only for «students of singular attitude and good conduct». 13. Cfr. Ivi, pp. 21–33. 14. Mangili 2018, p. 35
24. HENRYK HEKTOR SIEMIRADZKI bielgorod, ukraine 1843 — strzałkówo, poland 1902
Banquet of Dionysus I of Syracuse, c. 1882 – 1885 Oil on linen canvas, 100 × 175.5 cm. The painting is documented above the door of a room on the first floor of Siemiradzki’s small home at Via Gaeta 1 in Rome — the city where the painter lived and worked from 1872 until his death — from a photograph from the 1890s (fig. 1).1 This large canvas is a notable discovery for the catalogue of this important Polish painter, together with Lawrence Alma-Tadema and Jean-Léon Gérôme, amongst the greatest exponents of this “archeological” painting, better known as “neo-Pompeian”, that would be enormously popular across Europe in the second half of the nineteenth-century, in particular, between the 1880s and 1890s. A first idea of the painting, precisely drawn, is amongst the drawings found in one of Siemiradzki’s sketch pads held at the Warsaw National Museum (fig. 2).2 Whilst in another sketch pad of Siemiradzki held at the Krakow National Museum, the painter noted from Moscow in August 1882 this intention: “To read the story of Dionysus of Syracuse and find there a theme for a painting”.3 This notation is a sure terminus post quem for the first idea of the work. The painting, left unfinished by the painter, has been the object of an in-depth diagnostic study by Dominika Sarkowicz of the Laboratory for Painting and Sculpture Restoration at the Krakow National Museum (Muzeum Narodowe w Krakowie), where a large number of Siemiradzki words are held, donated by his son, Leon. The study has confirmed, unequivocally, the hand of Siemiradzki — between compatibility of colour and stylistic comparisons with other works — and has noted english texts
some elements of decisive relevance for the history of the painting. Above all, the photographs of the painting under infrared and scans have revealed that Siemiradzki reused a painting already painted on for this work; portrait-orientation, a large-scale sketch of the left side of the enormous painting, Nero’s torches, carried out in 1876 (the painting, in the Krakow National Museum, measures 305 × 704 cm without frame). Some undoubtedly architectural elements can be noticed, such as the parapet in an archeological style, on which onlookers are crowded, along with staircases and a part of the terrace. From a stylistic perspective, this painting, along with The banquet of Dionysus I of Syracuse, shows numerous comparisons with other works created by Siemiradzki during the latter half of the 1880s. We must thus imagine that Siemiradzki, fascinated by the famous and bloodthirsty tyranny of Syracuse (432 – 367 a.C.), as he had been shortly before with another controversial figure from antiquity, Nero, thought of creating a painting that had him as a main figure, and that then, not having found a buyer for the work, the painting remained unfinished in his studio. Dionysus I’s features as handed down by tradition — long beard, long hair tied with a band on his forehead — are traceable to the bare-chested figure with a gold accessory on his right arm, covered by a rich drape bordered in gold and wrapped about his legs, seated whilst he grasps a courtesan, laying elegantly in the dining room in the central part, towards the left of the painting. Other maids are busy with music, whilst on the right side of the painting, a male figure forcibly brings a flailing woman to the tyrant. Even only at this sketch stage, the painting already reveals — also thanks to the vivid rendering and matter of the colour strokes, as well as the compositional genius of the painter — Siemiradzki’s almost maniacal attention to archeological detail of the objects and other architectural details that he studied scrupulously from life, observing ancient ruins between Rome and Pompei. In this work, filled with palpable, realistic and everyday references to antiquity — typical of neo-Pompeian painting — Siemiradzki had reached an unsurmounted height with The torches of Nero, inspired by a text from Tacitus’s Annals (XV, 44), where the agony imposed by the Emperor on Christian martyrs, in the front gardens of the Domus Aurea. When this enormous painting was exhibited in Rome in 1876, before in Siemiradzki’s studio, it was then found in Via Margutta and then at the Accademia di San Luca, it would elicit in periodicals in Rome from the time, a chorus of critical praise. Then, before being given to the city of Krakow, the painting departed for a triumphant tour that reached an incredible number of European capitals.4 Departing from the banality of the ancient subject in general, from the telling of everyday facts of ancient Rome, that differentiated archeological painting, Siemiradzki was amongst the first to cement himself within depiction of the sadism and ferocity of Nero, inaugurating a boundless popularity between the end of the nineteenth- and the beginning of the twentieth-century amongst theatre, literature, music and art. It was indeed from his intense friendship with Siemiradzki, developed during his many stays in Rome, that Henryk Sienkiewicz developed the idea of writing the bestseller Quo Vadis? Romanzo dei tempi di Nerone [Quo english texts
Vadis? Novel on the times of Nero]. From this book, published in 1895 and translated into Italian in 1899, Enrico Guazzoni would have borrowed for his famous film adaptation in 1913. Francesco Leone 1. From 1872 Siemiradzki lived in Rome. He did, however, own a house in Strzałków, Poland, where he spent the summer. Here, during his 1902 summer vacation, he died on 23 August. Designed by the architect, Francesco Azzurri, the small Siemiradzki home was even included in the Rome city guides published by the Baedecker publishing house. It was often visited by foreign tourists. In 1888 he was visited by Queen Margherita. On the ground floor, in a lounge with luxury furnishings, the painter exhibited his works. On the second floor, where he rarely admitted visitors, there was his studio. The Siemiradzkis would organise Christmas and Easter receptions for Polish residents in Rome. Upon the death of the painter, the small house was transformed into a museum by his wife, Maria Pruszyńska (died in 1937). The building was destroyed in the 1930s and the Siemiradzki works were largely donated to the National Museum of Krakow by their son, Leon. 2. Warsaw National Museum, inv. Rys.Pol.8949/3. 3. Krakow National Museum, inv. III-r.a. 18392, p. 19. 4. Gozzoli 1883, pp. 190–191; Miziołek 2010, p. 86: Vienna, Munich, Berlin, Stockholm, Copenhagen, Amsterdam, Lviv, Warsaw, Krakow, Moscow, Saint Petersburg, Prague, Turin.
fig. 1: Photograph of the archive room on the first floor of the Siemiradzki house in Rome, c. 1890. On the door, above a small model of the Torches of Nero, notable also the Banquet of Dionysus I of Syracuse. fig. 2: Henryk Hektor Siemiradzki, Drawing for the Banquet of Dionysus, from a sketch pad of drawings by Siemiradzki, Warsaw National Museum, inv. Rys.Pol.8949/3. fig. 3: Henryk Hektor Siemiradzki, The torches of Nero, 1876, 385 × 704 cm, Krakow, National Museum, Inv. no. MNK II-a-1 ; courtesy «Laboratory Stock National Museum in Krakow».
25. FRANCESCO PAOLO MICHETTI tocco di casauria 1851 — francavilla al mare 1929
Rocks by the sea, 1903 Charcoal and coloured pastels on grey-blue paper 300 × 410 mm. Signed Michetti in pen and black ink at the lower left, and again in charcoal on the verso at the upper right. Dated 2 VIII 3 (2 August 1903) in charcoal at the lower right. This pastel, executed ‘en plein air’ and signed and dated by the artist on 2 August 1903, depicts a small marine bay. Its dimensions and the quality of handling connect it with a group of pastels rediscovered by scholars during the Michetti exhibition in Rome in 1999.1 These drawings are especially interesting, since they were executed immediately after Michetti’s profound disappointment at the agonisingly poor reception to his work at the Paris Exposition Universelle of 1900.2 As a result, Michetti decided to virtually abandon painting and devote his energy instead to photography, and to producing small drawings and pastels rich in lighting and atmospheric effects for his own satisfaction. Free of the burden to please an apparently thankless clientele, Michetti achieved in these drawings an autonomy of pictorial expression. Moreover, he captured subjects with an immediacy that paralleled what he was able to achieve in photography. The small cove depicted in the present sheet was probably a place the artist knew well. It may be located 114
along the coastline of Francavilla Mare, perhaps close to the Conventino in the former monastery of Santa Maria di Gesù, which in the late 19th century became a meeting place for eminent artistic and literary figures. In reality, the entire landscape interested Michetti 3, who fell in love with the countryside and immortalised the beauty of the Orfento river in a pastel titled Acqua e Rupi, dated 6 July 1903 4, which captures the same poetic atmosphere as our sheet (fig. 1). 1. Barilli 1999, pp. 15–18 2. Francesco Paolo Michetti 1999, pp. 172–180; figs. 48–62. 3. Sillani 1932, pl. CXXXV. 4. Francesco Paolo Michetti 2018, n 727
fig. 1: Francesco Paolo Michetti, Acque e Rupi, collezione A. Michetti.
One is tempted to suggest that the sitter in this drawing is simply a different member of the Bertolini family, but it is also possible that Gemito may have based his Portrait of the boy with a gun in 1914 on an older photograph and that our Portrait was also produced in 1914 but showing the young man at the age he really was in that year. 1. inv. 1999-4-1. 2. inv. 1999-4-2. 3. reproduced in Pagano 2009, p. 21.
fig. 1: Vincenzo Gemito, Portraits of a son of Bertolini’s family, Philadelphia, Philadelphia Museum of Art: 125th Anniversary Acquisition. Purchased with the Lola Downin Peck Fund, the Alice Newton Osborn Fund, and with funds contributed by Marilyn L. Steinbright and the J. J. Medveckis Foundation, 19994-2
26. VINCENZO GEMITO naples 1852 — 1929
Portrait of Bertolini, 1914 Graphite and black crayon on paper, 360 × 250 mm. Signed and dated lower right (recto): V. Gemito / 1914 / Napoli. literature: Pagano 2009, p. 21. Vincenzo Gemito never tired of drawing, considering it a perfectly parallel and natural activity for a sculptor. It became for him the vehicle for a kind of hyper-realistic form of visual meditation with a charge of abstract, almost hallucinatory sensitivity, as we can see in his outstanding Self-Portraits. There exist two large Portraits in pencil and white lead depicting two young adolescents, members of the Bertolini family of Naples, dated 1914. The Bertolini family owned and ran the Palace Hotel Bertolini at the Parco Grifeo in Naples, and the two drawings were probably commissioned from Gemito for display in the hotel’s reception room. The two Portraits, now in the Philadelphia Museum of Art, depict Laura Bertolini 1 and her brother 2 (fig. 1), surrounded by children’s attributes. We have dwelled on these two Portraits of the Bertolini children because the drawing under discussion here is known by the title of Portrait of Bertolini.3 It portrays in detail, with its meticulous and sensitive handling of chiaroscuro, only the head of a young man aged about twenty, his bust with its jacket, shirt and tie being barely sketched in. The sitter gazes straight out at the observer, lost in thought, his expression one of suspended melancholy. His hat is tipped back, its broad rim raised over a noble forehead, and he evinces an attitude which one might be tempted to call arrogant but which, in reality, given the soft melancholy of his gaze and the sweetness of the chiaroscuro defining the modelling of his features, simply expresses only the contemporary mood. The shape of his face, the slant of his eyes and his fleshy mouth appear perfectly to mirror the features of the Portrait of the boy with a gun in the Philadelphia Museum of Art. However, if we set any store by the dating on the sheets, however, we find that both drawings were produced in the same year, 1914, while the two sitters do not look the same age at all. 115
27. LUDOVICO MARCHETTI rome 1853 — paris 1909
Prometheus chained to the peaks of the Caucasus, 1897 Oil on canvas, 116 × 147 cm. Signed and dated in lower left: «L. Marchetti ‘97». The painting places itself with originality in the context of esoteric symbolism that occupied European artists and intellectuals — above all in France and Belgium — between the end of the nineteenth- and beginning of the twentieth-century. The composition is inspired by the first scene in Prometheus unchained by Aeschelus, that together with Prometheus carrier of fire and Prometheus liberated, forms a trilogy of Prometheus that is known to us only via fragments. In Aeschylus’s tragedy, like in the painting by Marchetti, the titan appears imprisoned to a cliff, in the desolate territories of Scythia, at the ends of the world, in the presence of Hephaestus, the god of fire, depicted with his usual hammer (the Vulcan of the Roman pantheon), and the female manifestations of Power and Strength, seated on a rock with a key in her left hand. In the circle of European occultism, the figure of Prometheus enjoyed enormous fortune. Differently from Romantic culture, that had celebrated him as the hero of a lone rebellion against the Titans, occultism at the end of the century saw in the titan a sort of saviour, creator of a revelation that gave knowledge to man. Giving to humankind the future that he had stolen from Zeus, Prometheus had symbolically opened the pathway to knowledge for man, indeed, he saved it by elevating it from instinct to reason. This gesture of love towards humanity had provoked Zeus’s rage that then condemned Prometheus to be chained to a rock. A key figure for European culture at the end of the nineteenth-century, like for the occultist and Russian philosopher, Helena Blavatsky, cofounder in 1875 of the Theosophic Society and a follower of esotericism, being the first to have interpreted in such a redeeming way the figure of Prometheus in her very famous The Secret Doctrine published n London in 1888. She defined him as «the personified symbol of the collective Logos, «the HEAVENLY MAN, who incarnated in Humanity», «the fire and light-giver».1 Prometheus had become an alenglish texts
legory of a superior spirit who opens a lineage of hermetic knowledge to pioneers, indeed, a secret doctrine. Years later, actually just before Luigi Marchetti’s painting, the esotericist, Joséphin Péladan, one of the most significant theoreticians of European Symbolism, promoter of the celebrated Parisian Salons of the order of the Rose + Croix, published in Paris in 1895 the theatrical trilogy Prométhéide.2 Referencing Aeschylus, Péladon had placed at the centre of his triptych the unchained Prometheus, followed by Prometheus bringer of fire, and followed by Prometheus liberated. In the religious syncretism at the end of the nineteenth-century — and in Péladon’s particular Christian vision — Prometheus became a sort of refiguration of Christ: both had given a revelation to humanity, both had sacrificed themselves for the good of humanity and were ultimately brought back to life (in Prometheus freed by Aeschelyus, the titan is freed by Heracles). For Péladon, Prometheus, whose actions are linked to early humanity, is the daïmon forefather of an ancestry of elected people that live on earth. In this syncretist vision that renders him closer to Christ, indeed, Prometheus was defined «Crucified Titan» in Blavatsky’s The Secret Doctrine,3 something Marchetti clearly knew. That same year in Paris, the subject was taken for the competition of Prix de Rome by Laurent JacquotDefrance in a painting very similar to this example by Marchetti both in its inspiration and its formal language of academic mastery, to which both painters entrust themselves (fig. 1). But if Jacquot-Defrance’s work still appeared as tied to the poetry of the real and above all to the seventeenth-century heritage (a precise precedent for his work is Prometheus unchained by Hephystus by Dirck van Baburen at the Rijksmuseum), Marchetti instead appeared more in line with the recent results of a certain profound and enigmatic realism promoted by some artists in the Rose + Croix circles of Péladon or from other figures like Fernand Khnopff. In a figurative environment, however, even in the context of a precocious symbolism still not permeated by occultist theories, Prometheus had already made his appearance at the Paris Salon of 1868 in a rather famous painting by Gustave Moreau (fig. 2). This work marks a profound change in the figurative poetic of Marchetti. It marks a turn towards a painting of ideas and symbols worlds apart from the easy and fashionable genre art promoted in the Paris Salons, which Marchetti interpreted with great success from the very first years of his definitive move to Paris in 1878.4 1. Blavatsky, 1888, II, pp. 413–414. Composed of two volumes: the first entitled Cosmogenesi, the second Antropogenesi. 2 Péladan 1895. 3. Blavatsky 1888, II, p. 413. 4. Biographical points on the painter can be found in Comanducci ed. 1970–1974, III (1972), pp. 1866–1867.
fig. 1: Jacquot-Defrance, Prometheus chained by Hyphestus on the peaks of the Caucasus, 1897, Private collection. fig. 2: G. Moreau, Prometheus chained, 1868, Paris, Musée Gustave Moreau.
english texts
SIXTEENTH-CENTURY SCULPTURES, SIENA: TWO IMPORTANT TERRACOTTA WORKS BY LORENZO DI MARIANO, CALLED IL MARRINA LORENZO DI MARIANO, called IL MARRINA siena, 1476 — 1534
Born in Siena in 1476, Lorenzo di Mariano is now recognised as the most important sculptor from Siena in the first decades of the sixteenth-century, not only for the virtuosity of his ability to carve in marble extraordinary grottesche and subjects from antiquity (fig. 1), but also because from his hand, one can recognise different figures in polychrome terracotta, attesting to an excellent ease even with sculpture «by way of posing». From 1490, whilst his father, Mariano di Domenico, was helping Francesco di Giorgio to restore a couple of bronze Angels today on the altar of the Duomo in Siena, Lorenzo began his stonecutter training in the workshops of the Opera, directed by Giovanni di Stefano. Here he knew early on how to provide proof of his talents, collaborating first on the decoration of the front of the Cappella di San Giovanni Battista (destined to welcome to its altar the bronze statue of Donatello’s San Giovanni Battista) and then creating the façade of the Libreria Piccolomini (1495–1498), whose interior would be painted the following decade by Pinturicchio with the well-known cycle of Stories of Pius II. In both cases, Mariano demonstrates his great talent for working with marble, carving imaginative ornamentation from antiquity of a rare quality. The involvement of the Libreria in these works allowed Lorenzo to enter into contact with the most influential members of the Piccolomini family — nephews of Pope Pio II and brothers of Pope Pio III — who from 1504 commissioned Mariano for the decoration of the Sant’Andrea chapel in the church of San Francesco (destroyed by fire in 1655; the Cardinal virtues of the floor remaining in place, given restoration) and in 1509, Mariano was charged with the work for a number of column capitals and corbels for the large palazzo at the Pope’s Logge. Dating to 1514, the beautiful tabernacle at the church of San Lorenzo in Sarteano, that can be attributed to Marrina and, it is believed, was commissioned by Francesco di Nanni from Sarteano, a man from Piccolomini circles. Once he had sculpted around 1507, for the church of the Santa Maria della Scala hospital, the small funeral monument for the rector, Giovanni Battista Tondi, at the end of 1509 Lorenzo received another commission for the main altar for the church of Santa Maria della Scala in Portico, Fontegiusta that bears the date of 1517 and is considered one of his greatest masterpieces. The work is a kind of monumental marble frame, inspired by the façade of an ancient temple and mounted around one of the most venerated marine images in Siena (fig. 2). With this work, Il Marrina didn’t miss the opportunity to make use of collaborators: documents 116
show, in particular, Michele Cioli from Settignano, whilst the style of the arc of the Pietà allows us to identify the hand of his brother, Angelo, whose later output in Rome would go on to be included in Giorgio Vasari’s Lives in a brief biography, under the epithet of «Siena’s Michelangelo». Around this time, Mariano — Il Marrina — would have been in charge of an efficient family workshop that would have been able to expand from Siena to Rome, not only through Angelo but also, thanks to his other brother, Ludovico, and probably in virtue of the patronage of Baldassarre Peruzzi, with whom Lorenzo shared a great passion for antiquity. One can also speak in this sense of the ‘Marrini’ family, restoring a family name that artistic literature covering Siena in the modern age used to associate with the decoration inspired by antiquity. By now in his forties, Lorenzo avoided adventures in Rome, preferring to stay in Siena: with Giacomo Cozzarelli’s death in 1515, he now had free range to definitively position himself as the major sculptor of the city. He would die in Siena in 1534, and for the last decades there would be no lack of news on his work: for the Nuns del Paradiso he completed a bust of Saint Catherine of Siena (1517) (fig. 3) in polychrome terracotta, and a figure of the Virgin of the Annunciation (1521–1524) that is today held in the oratory of the Contrada del Drago; towards the beginning of 1523 he sculpted this notable marble frame in the style of antiquity for the altar of Anastasia Marsili in San Martino that soon after would hold the Nativity by Domenico Beccafumi; in 1529–1531 he completed an Annunciation group in clay for San Girolamo in Campansi - lost or to be rediscovered - painted by Beccafumi and praised by Peruzzi (as said during his important visits) and in 1531 he had a final commission on a bench for the Loggia della Mercanzia, finished after his death and destroyed in the eighteenth-century. Moving from the two sculptures for the Nuns del Paradiso, the most recent studies have attributed to Marrina a large group of clay polychrome genre figures that continued to hail great success in artistic circles in Siena, when the major sculptors in Italy — Michelangelo, Andrea and Jacopo Sansovino, Giancristoforo Romano, Tullio Lombardo - had by then extinguished the use of colour for marble sculpture, in favour of a devotion for the perfect purity of the material, intended to once again propose the effect of ancient marble works, absent of the original and unmistakable polychrome. Il Marrina the sculptor, rather, proudly waived his artistic dialogue with Michelangelo and the Sansovinos: marked with the late fifteenth-century lesson of Francesco di Giorgio and Cozzarelli. He was inspired by these latter artists and their «modern method» offered in Siena; in painting, he was influenced by Sodoma and, above all, from Beccafumi, as some of his most significant polychrome sculptures reveal: from the Saint Catherine of Siena in Santo Spirito to the Saint Joseph Oratory of the same name in Siena, to the Saint Catherine of Alexandria of Santa Maria Assunta in Rapolano and the Saints Peter and Paul of Montefollonico now in the Museo Diocesano in Pienza, up until the two sculptures presented here. They appear from one side as exemplars of his notable ability to work terracotta, and from another side they allow us to understand the ability of a small family work117
shop, in which Lorenzo wisely knew how to involve his younger brother, Angelo. Gabriele Fattorini Bibliographical note: for Di Marriano’s career, consult Ranfagni’s 2017 study that does, however, lack in photographs and shows a general difficulty in understanding the artist’s true «character» as a sculptor. Amongst the most recent works on these themes: Fattorini and Angelini 2017; Fattorini 2015; Fattorini 2014; Martini 2014; Angelini 2005, pp. 341–383; Fattorini 2005, pp. 560–571 and pp. 581–582. Angelini’s 1998 opening remains invaluable for information on Angelo di Mariano.
fig. 1: Lorenzo di Mariano, called Il Marrina, detail of altar decoration, Siena, Santa Maria in Portico in Fontegiusta. fig. 2: Lorenzo di Mariano, called Il Marrina, and collaborators, altar, Siena, Santa Maria in Portico in Fontegiusta. fig. 3: Lorenzo di Mariano, called Il Marrina, Saint Catherine of Siena, Siena, Oratory of the Contrada del Drago.
28. LORENZO DI MARIANO, called IL MARRINA siena, 1476 — 1534
ANGELO DI MARIANO, called MICHELANGELO SENESE siena, 1491 — siena ?, 1540 circa
The Virgin of the Annunciation Terracotta; c. 171 × 65 × 55 cm – 160 cm without the base, in part repaired. This life-size painted terracotta statue depicts The Virgin of the Annunciation (figg. 1–4), indicated by her mantle decorated with eight-point stars — a recognisable symbol of the Virgin Mary’s perfection and splendour — as well as her gesture alluding to the Virgin’s inquiry, known as the third psychological stage of Mary during her “angelic discourse” with the Archangel Gabriel. Her pose also suggests that the statue would have originally been linked with a similar work displaying this celestial messenger. The work was recorded in 1921 as part of a private collection in Amsterdam, published by Wilhelm R. Valentiner 1: where it is stated that the statue was linked with an Announcing Angel work held at the Metropolitan Museum of Art in New York, also in painted terracotta (156.2 cm including the base; sold to the museum in 1911 from Marx Frères in Paris), and attributed as the angel (that’s thought to come originally from the oratory of the Annunciation in Lucca, expanded in 1493) to the sculptor from Lucca, Matteo Civitali (1436 – 1501). This suggestion, already at odds with the different sizes of the two figures, and absent of stylistic continuity, has also not been confirmed in recent critical literature on the artist. Indeed, the same has befallen the Arcangelo of the Metropolitan, doubtfully assigned to Matteo’s nephew, Masseo Civitali, as suggested by Martina Harms.2 From Valentiner’s article we also learn that the Dutch collector had acquired the Virgin in Italy «several years ago» and, thus, around 1900 if not the end of the 1800s, attributing it to Agostino di Duccio. Harms clarifies that this refers to the Swiss doctor, Otto Lanz (1865– 1935), a noted collector of Renaissance art, and tells us english texts
that the work was put up for sale at Sotheby’s London in 1986. The work does appear in the sale catalogue from 11th December, 19863 where it is attributed to Masseo Civitali. In preparation for the auction, a thermoluminescence test was carried out by the Research Laboratory for Archaeology and the History of Art department at the University of Oxford which attests that the clay samples examined were baked «more than 300 years ago». It was presumably following this Sotheby’s auction that the statue returned to Italy, exhibited the following year at the 15th International Biennale Exhibition of Antiques (Florence, Palazzo Strozzi, 19th September – 11th October 1987) 4 by Lamberto Galeazzi di Terni’s Galleria Barberini, with the work attributed to Masseo Civitali. 5 A successive transfer of ownership is then attested by a sales certificate from a collector from Aquila, Antonio Di Brisco, to a Bolognese collector, Gennaro Filippini, dated 10th January 1993, which returns the attribution to Matteo Civitali. Upon the death of the architect, Filippini (5th February 2008), the work was inherited by his daughter, Petra Chiara, and, after interest from the collector, Luca Squarcina (2008), temporarily exhibited at the Galleria Arcadi Antichità in Bologna (2010), still with the previous reference to Matteo Civitali and a link to the Angelo at the Metropolitan. The Virgin in question is, rather, definitively to be linked to a Sienese environment, locating precise stylistic comparisons with the output assigned to Lorenzo di Mariano. Called Marina (1476–1534) this output includes, alongside the celebrated virtuosity of his marble “antique style” carving, a nucleus of terracotta works with notably peculiar characteristics.6 Originally, the sculpture was linked with the terracotta statue of the Archangel Gabriel kept at the Szépművészeti Múzeum in Budapest (164cm; fig. 5), bought in Florence from the antiquarian, Emilio Costantini in 1895.7 The Archangel in Budapest actually appears closely married to the Madonna (fig. 6) in its dimensions (the difference of a few centimetres is likely the cause of the remodelling of the base), in its formal peculiarities such as the solemn posture, frozen in time with the voluminous fabric and the drapery carved to create dense folds of fabric falling in an ovoid swathe. Also reflected in each other are the works’ technical aspects, like their construction in various over-laying pieces, in their sumptuous re-painting (documented in photos prior to the restoration of 1949: that, as here conceals already scarce traces of the original polychrome, and also in the reduced diameter of the circular format of their bases. Already attributed to Neroccio,8 this Archangel (fig. 7) was traced back to Lorenzo Marrina, or to his tight circle of peers, by Maria Grazia Ciardi Duprè dal Poggetto,9 for its evident stylistic and formal affinities with the Angels in the lunette marble of the main altar at the Fontegiusta church (Christ in Pietà amongst the angels; fig. 8), the principle task in marble documented by the master (dated to 1517), conducted in collaboration with his younger brothers, Ludovico and Angelo, and with Michele Cioli from Settignano, Florence. In the same contribution, Ciardi Duprè dal Poggetto linked the sculpture from Budapest to another statue in terracotta depicting Sant’Agata (Corsano, the parish church of San Giovanni Battista), then assigned by the critic,10 with all works overlapping with our Madonna of the Annunciation. english texts
Not without reason is also the recent proposal to link the sculpture in Budapest (fig. 7) to Marrina’s brother, Angelo di Mariano (c. 1491 – 1540), an idea developed by Alessandro Angelini.11 Angelini in fact notes marked parallels with the Angel on the left of the Pietà of Fontegiusta (fig. 8) where one recognises a more exuberant, monumental and refined classicism, alluding to the methods of Sansovino that better suit the training of a sculptor of the following generation, one soon hired by workshops in Rome alongside Baldassarre Peruzzi (Monumento di Alessandro VI in Santa Maria dell’Anima e Monumento Armellini in Santa Maria in Trastevere, 1524– 27).12 These characteristics have led Angelini to make reference to Michelangelo senese and other terracotta works by Marrina from the 1520s, like the San Giovanni Battista in San Giovanni della Staffa in Siena,13 calling in question the problem, still to develop, of the training of Lorenzo Marrina’s brothers and of the relative duties within their workshop. Given the dating and the original destination of the Annunciation here reconsidered, we can recall that a possible link for the Angel found in Budapest, had been proposed with the Virgin of the Annunciation in the Santa Caterina del Paradiso church in Siena, part of an Annunciation created by Lorenzo Marrina between 1521 and 1524, a suggestion already refuted by Marco Ciampolini.14 If from one point of view, the comparison with the Annunciation of Santa Caterina can confirm the same authorship for the work presented here: the other point of view indicates for this latter work — where echoes of the fifteenth century are diluted by a more robust classicism — a chronology that is slightly more developed. It is thus plausible to suggest for the Angel from Budapest and the Virgin of the Annunciation in question a link with the two terracotta figures representing the Annunciation and executed between 1529 and 1531 by Lorenzo di Mariano and painted by Domenico Beccafumi for the San Girolami in Campansi monastery in Siena.15 Giancarlo Gentilini 1. Valentiner 1921, pp. 202–205. 2. Harms 1995, pp. 175, 182, 246, 254. 3. Important Medieval works of art 1986, lot. 43. 4. Florence, Palazzo Strozzi, September 19th – October 11th. 5. 15a Biennale Mostra 1987, p. 517. 6. Ranfagni 2017, pp. 77–132. 7. Balogh 1975, pp. 84–85, n. 87, fig. 115. 8. Ivi. 9. Ciardi Duprè dal Poggetto 1977, p. 66. 10. Ranfagni 2017, p. 113. 11. Angelini 1998, pp. 130–133; Angelini 2005, pp. 369–382. 12. Fattorini 2005, pp. 554–583. 13. Angelini 2005, pp. 370, 379. 14. Ciampolini 1988, pp. 109–116, p.115 nota 18 cfr. also Carli 1996, pp. 141–145. 15. Ranfagni 2017, pp. 116, 125, 181–182.
fig. 1–4: Lorenzo di Mariano, called il Marrina, Angelo di Mariano, called Michelangelo senese, The Virgin of the Annunciation. fig. 5: Lorenzo and Angelo di Mariano, Archangel, Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 1190. fig. 6: Lorenzo di Mariano, called il Marrina, Angelo di Mariano, called Michelangelo senese, The Virgin of the Annunciation. fig. 7: Lorenzo and Angelo di Mariano, Archangel, Budapest, Szépművészeti Múzeum, inv. 1190. fig. 8: Angelo di Mariano, Christ with angels, detail, Siena, Santa Maria in Portico a Fontegiusta.
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29. LORENZO DI MARIANO, called IL MARRINA siena, 1476 — 1534
Saint Paul, c. 1530 Terracotta, h. 125 cm provenance: Siena, Collezione Chigi or Collezione Chigi Saracini (?) literarure: Petrucci 2002; Bagnoli 2008; Sotheby’s 2011, lot 432; Fattorini 2014, pp. 52 and 53 note 14, p. 49 fig. 2–3; Ranfagni 2017, p. 125 note 194. This energetic figure in terracotta, created together with its square-shaped pedestal, depicts a powerful and richly-dressed image of Saint Paul, easily recognisable for his most typical iconographic attributes: thin hair, a long beard, a book in his left hand, and his spade — a fragment of its hilt — held elegantly in his right hand. Despite this missing object, and a missing piece of the drapery’s fold at the upper chest, the sculpture is in an excellent state of conservation, defined by the warm tone of the terracotta that at first sight risks it being mistaken for the masterworks of Antonio Begarelli from Emilia-Romagna. Originally, however, the sculpture would have certainly been painted: perhaps in white in order to make it resemble an ancient statue, or more likely coloured with a vivid polychrome in the same way as other terracotta works by the artist from Siena, Lorenzo di Mariano, better better called ‘Il Marrina’. Only recently, however, has research developed a knowledge of the output of this master, explaining repeated past misunderstanding of the authorship of this Saint Paul. It is indeed possible that our statue is that «terracotta Saint Paul by Mecarino» (alias of Domenico Beccafumi) that the well-known collector from Siena, Galgano Saracini, together with «2 small marble busts», bought for his gallery on 6 August, 1808, for the sum of 29 lire 1. We will consider later the work’s relationship with Domenico Beccafumi’s - the best painter in Siena in the sixteenth-century, who also had great skill as a sculptor - own artistic expression, whilst, regarding the work’s provenance, it must immediately be remembered that Francesca Petrucci, acknowledged the sculpture no less than twenty years ago. She affirmed that, given the information provided by a previous — and anonymous — owner, the Saint Paul belonged for a time, together with a Saint Peter that we will discuss elsewhere, to the Chigi collection in Siena.2 Comparing the information, we can thus try to imagine that the sculpture enriched the Gallery that Galgano Saracini opened in 1806 in Siena and that today, after two centuries, is well-better known as the Collezione Chigi Saracini. Its name was taken from its most recent owner: the Count and lover of music, Guido Chigi Saracini. It must be said that the Siena collection is largely that put together by Galgano, but not entirely: his successors, according to taste and needs, have actually provided a number of acquisitions and transfers; the Saint Paul could have belonged to this collection or, alternately, to the heirs of the Chigi family (the Zondadari branch) who owned a number of monumental buildings in Siena, like the Chigi Zondadori Palazzo in the Piazza del Campo and the Vico Bello Villa.3 119
In highlighting this Saint Paul, Petrucci rightly recognised that it was of the same artist as the Saints Peter and Paul in polychrome terracotta that were once found in the parish church of Montefollonico (on the borders of the province of Siena, towards Val di Chiana) and are today held at the Museo Diocesano in Pienza (fig. 4) 4. After having attracted the attention of Adolfo Venturi (who associated this work to Beccafumi) 5, the two sculptures in Montefollonico had to wait a number of decades to be restored and presented at the great Beccafumi exhibition in 1990: attributed to a sculptor from Siena, assumed to be Giovanni Andrea Galletti (Siena, 1499–1539) and dated to around 1535. Castor and clay-carver, son of the sculptor Carlo Galletti, Giovanni Andrea then emerged as a name to cautiously link with a cohesive group of sculptures made up of Saint Agatha at the parish church in Corsano, the Sorrowful of the Santo Spirito in Siena, and the so-called Angel at the Museée du Louvre in Paris 6. As a result of this, Petrucci attributed the Saint Paul to Giovanni Andrea Galletti 7 and the work would appear under this name at a Sotheby’s New York sale in 2011 8. In the meantime, the corpus of works attributed to Galletti has been reconsidered, with it being attributed to Lorenzo di Mariano, better better called Il Marrina, independently by Alessandro Angelini, the undersigned and Alessandro Bagnoli 9. In 2008, Bagnoli presented the restoration of the Madonna with Child in stucco at the Conservatori Riuniti del Refugio in Siena. He also attempted to briefly order chronologically the terracotta sculptures by Il Marrina, placing our Saint Paul in the late phase of his career, finding a companion piece in the Saint Peter of the Casa d’Arte Bruschi di Anita Almehagen in Florence (a sculpture that also maintains evident traces of a previous whitening that we know would have also been done for the work of this discussion; fig. 5) 10. Writing after the Montefollonico group, today held in Pienza, I was confirming the profound stylistic relationship with our Saint Paul and the other Saint Peter, presenting them for the first time side by side 11. This despite Tommaso Ranfagni, in his monograph on Marrina, having ultimately affirmed that, regarding the Saint Peter and Paul at Montefollonico, the couple of the same name was «qualitatively inferior» and is to be considered «eventually as a product of a Siena workshop with Lorenzo in charge and that assisted his creations» 12. A truly surprising affirmation, which provokes the question of how well the writer of this study of Marrina actually understood the artist’s artistic language. I wait with hope for the most recent studies that can perhaps better clarify the chronology of the many terracotta works attributed to Lorenzo di Mariano and the question of the involvement of his workshop in their execution. One can assume that this Saint Paul is a memorable swansong from Marrina and his work in terracotta sculpture. The absence of the polychrome, compared to the Montefollonico sculptures, makes the talents of the sculptor stand out; in the execution of the flowing fabrics and the cut of the clothes, in the detailed rendering of the ancient clothing and the book, the efficient naturalism of the hands, feet and face. This, all completed by the seething calligraphy of the beard and the surly, severe expression of the Apostle. Indeed, one would say this expression seems to be the result of a desire to emulate the «motions of the soul» english texts
akin to Leonardo Da Vinci (one thinks of Pharisee that Giovanni Francesco Rustici, with Da Vinci’s example, made for the group of the North Door of the Florence Baptistry between 1506–1511), and the interpretation other than the more lugubrious aspects of the artistic expression of Michelangelo - that Beccafumi was able to offer between the 1520s and 1530s. With this in mind, I propose a number of comparisons, with a detail of the Story of Moses, which paved the ground of Siena’s Duomo in 1529 and based on a Beccafumi design, that bears a striking resemblance (fig. 6) 13 ; with a mecarinesco (should read: perhaps by Beccafumi) sketch at the Fogg Art Museum at Harvard (n. 1965.359; fig. 7), a preparatory study for the head of the old man that assists with the Murder of Spurio Melio in the cycle of the Assembly at the Palazzo Pubblico in Siena, begun in 1529 and completed around 1536, and with the surly Saint Paul at Montefollonico (fig. 8). If this last were not enough dispel any doubt on the attribution of the Saint Paul to Marrina, the close correspondence with other sculptures can be singled out, well placed in the catalogue raisonée for Lorenzo: from the documented Annunciated Virgin at the oratory of the Contrada del Drago in Siena, 1521–1524 (which can watched for the Marrina-specific elements of the posture prepared for the curve of a lower limb, and for the ample and embracing drapery, sealed by slicing folds; (fig. 2), from the Saint Joseph at the church of Saint Giuseppe della Contrada Capitana dell’Onda in Siena (from very similar traces, but from more relaxed drapery, probably the result of a previous chronology; fig. 1), until the so-called Allegorical figure (long confused for an Angel, from the Musée du Louvre in Paris, very different in its subject but also very similar in its sinuous precarity of balance and the clothing in the style of antiquity; fig. 3). There is still some uncertainty over the original function of the two Saints: for those at Montefollonico, I’ve asked myself if there couldn’t have been, from one perspective, some sort of relationship with the tradition of polyptychs populated with statues by Jacopo della Quercia 14. From another perspective, they could have been part of the never-completed project to create a cycle of Apostles in bronze for the pilasters of the nave of the Cathedral of Siena that would have replaced the Apostolate in marble from the fourteenth-century now at the Museo dell’Opera. The idea came to Francesco di Giorgio before his death (1501) and the completion of the work was entrusted to Giacomo Cozzarelli in 1505, seeing a brief involvement from Sodoma (1515), and finally an interest from the elderly Beccafumi, who «gave the go-ahead to create twelve Apostles to be placed on the lower columns [those under the nave of the Duomo in Siena], where there are now those in marble, old and badly-done; but he didn’t continue as he died soon after» 15. Is it thus possible that Il Marrina, given his familiarity with Cozzarelli and with the Duomo’s workshop (that he headed in 1506), would take inspiration for his Saints Peter and Paul from the ideas elaborated by Giacomo, with the support of what remained from his mentor, Francesco di Giorgio, for this project? Is it also possible that Beccafumi knew these figures by Lorenzo, when he too began to study statues of Apostles to create in bronze? These are questions impossible to answer but that imply that the place of absoenglish texts
lute importance is to be given to our Saint Paul, its linking Peter work, and the Montefollonico Apostles when considering sculpture in Siena from the first half of the sixteenth-century. Gabriele Fattorini 1. Fattorini 2014, pp. 52–53 note 14, with reference to Moscadelli 1989, p. 527, for the quotation. 2. Petrucci 2002. 3. Amongst the works of art still owned by the Chigi heirs, I can recall a very-well known bust of Alessandro VII by Gian Lorenzo Bernini, a headboard painted by Guidoccio Cozzarelli with three Ancient Heroines and the Risen Christ carved in wood by Domenico di Niccolò “of the choirs”. 4. Petrucci 2002. 5. Venturi 1937, p. 965 and fig. 844–845. 6. Bagnoli 1990, in particular pp. 572–575 n. 195. 7. Petrucci, 2002. 8. Sotheby’s 2011, lot 432. 9. Angelini 2005, pp. 381–382; Fattorini 2005, pp. 562–563, 581–582 notes 28–30; Bagnoli 2008. 10. Bagnoli 2008. 11. Fattorini 2014, pp. 52, 49 fig. 2–3. 12. Ranfagni 2017, p. 125 note 194. 13. This concerns a detail that I’ve already compared with the Montefollonico Saints: Fattorini 2014, p. 53. 14. Fattorini 2014, pp. 54–57. 15. Vasari 1550 and 1568, V, p. 176 (for the only Giuntina), already referenced for the Montefollonico Saints in Fattorini 2014, p. 57, which I reference for the case of the Apostles at the Duomo in Siena and the respective bibliography (ivi, note 23).
fig. 1: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, San Giuseppe, Siena, church of San Giuseppe della Contrada Capitana dell’Onda. fig. 2: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, Annunciation of the Virgin, Siena, oratory of Santa Caterina del Paradiso of the Contrada del Drago. fig. 3: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, Allegorical figure, Paris, Musée du Louvre, Département des Sculptures, R.F. 899. fig. 4: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, Saints Peter and Paul, Pienza, Museo Diocesano (da Montefollonico). fig. 5: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, Saints Peter and Paul, Firenze, Casa d’Arte Bruschi di Anita Almehagen and Bologna Galleria Nobile respectively. fig. 6: Domenico Beccafumi, Story of Moses (detail), Siena, Duomo, floor. fig. 7: Domenico Beccafumi, Study of a head (for the Murder of Spurio Cassio as part of the cycle for the Assembly), Cambridge, Fogg Art Museum, n 1965.359. fig. 8: Lorenzo di Mariano, better known as Il Marrina, Saint Paul (detail), Pienza, Museo Diocesano (from Montefollonico).
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Maurizio Nobile N. 23 Coordinamento scientifico / scientific coordination Laura Marchesini Autori / Texts by Francesca Baldassari, Gabriele Fattorini, Chiara Fiorini, Giancarlo Gentilini, Francesco Leone, Laura Marchesini, Massimo Pulini, Marco Riccòmini, Davide Trevisani, Francesca Valli Traduzione dall’italiano / Translation from italian by Alessandro Granato, Londra Ringraziamenti / Thanks to Attilio Luigi Ametta, Gian Domenico e Monica Auricchio, Stefano Bevilacqua, Ada Bielikowska, Alberto Biondi, Atos Botti, Didier L. Brun e Signora, Enrico e Maria Grazia Ceci, Angelo Chiodo, Marcella Culatti, Samantha De Vitis, Giuliana Forti, Julie Guilmette, Sandrine Kukuruzovic, Christopher Marshall, Philippe Mendes, Rosanna Naclerio, Anna Ottani Cavina, Marco Pradelli, Agata Ralska, Davide Ravaioli, Claudio Redolfi, Elena Rossoni, Santuario di San Gaspare del Bufalo, Renata Sawińska, Marco Toscano, Loredana Ungaro, Daniel Vanel Referenze fotografiche / Photography Stefano Martelli, Studio Blow Up, Crevalcore (BO), Torquato Perissi, Ivan Selva Editing Laura Marchesini, Davide Trevisani Progetto grafico / Graphic Design Filippo Nostri Impaginazione / Layout Giovanni Piazza Stampato da / Printed by Filograf, Forlì, IT In copertina / Cover Auguste Jean-Baptiste Vinchon (Paris, 1789 — Ems, Duchy of Nassau, 1855), Testa di cavallo dalle Stanze di Raffaello in Vaticano, Roma, 1815–1817, Olio su carta riportata su tela, 60 x 74 cm
© 2020 Maurizio Nobile ISBN 978-88-98456-12-3
Maurizio Nobile Bologna – Paris Via Santo Stefano, 19/a, 40125, Bologna, IT + 39 051238363 / bologna@maurizionobile.com 34, rue de Penthièvre, 75008, Paris, FR + 33 (0)145630775 / paris@maurizionobile.com www.maurizionobile.com Per le immagini l’editore rimane a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare.
Maurizio Nobile Gallery has established a solid reputation as a leading art dealer in Italian Old Master Paintings, Drawings and Sculpture from the end of 15th to the beginning of 20th century. Founded in Bologna in 1987, the interest shown in his pursuits by international private collectors and major public institutions led Maurizio Nobile to expand in 2010, choosing Paris as the place to locate his second branch. Over time, the gallery has become a point of reference for refined private collectors as well as prestigious international museums such as the National Gallery in Washington, the Morgan Library, the MET Museum. Maurizio Nobile Gallery also participates in many international art fairs, including BIAF — the Florence International Biennial Antiques Fair; London Art Week; Salon du Dessin (Paris); TEFAF — Maastricht (Works on Paper).