Decameron - Novelle scelte

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Decameron - Novelle scelte

riduzione e adattamento a cura di Alessandro Mazzaferro

ISBN 979-12-221-0045-6

Prima edizione rinnovata: marzo 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2023 Gallucci - La Spiga

Prima edizione © 2013 ELI – La Spiga Edizioni

Illustrazioni di Michela Ameli (Glifo Design)

Foto: Shutterstock, Archivio ELI-La Spiga Edizioni

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Giovanni Boccaccio

DECAMERON Novelle scelte

Riduzione e adattamento a cura di Alessandro Mazzaferro

Nota introduttiva

Firenze, 1348.

La città è devastata da un’epidemia di peste: tutte le regole sociali spariscono travolte dall’ondata di morte nera che miete moltissime vittime. Gli uomini cercano in ogni modo di sfuggire a quella che credono una punizione divina.

In questo contesto di morte, dieci giovani di elevata condizione sociale cercano di trovare scampo ritirandosi in campagna, nel tentativo di ricreare un mondo perfetto, separato dalla terribile realtà cittadina.

Le sette donne e i tre uomini per passare il tempo, visto che di tutte le questioni pratiche si occupano i loro servitori, oltre a danzare, cantare e giocare, per dieci giorni si raccontano delle storie (o novelle): ogni giorno, ogni giovane ne narra una (quindi le novelle in tutto sono cento).

Proprio la durata temporale dei racconti dà il titolo all’opera: Decameron infatti in greco significa ‘dieci giorni’.

È questa senza dubbio l’opera più famosa di Boccaccio e in assoluto tra le più importanti della letteratura italiana. Il successo di questo libro fu talmente clamoroso, che per secoli chi voleva scrivere in prosa doveva usare lo stile della prosa del Decameron come modello.

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Giornata prima

Introduzione

Comincia la prima giornata del Decameron, nella quale, dopo la dimostrazione fatta dall’autore, per che cagione avvenisse di doversi quelle persone, che appresso si mostrano, ragunare a ragionare insieme, sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno.

Era il 1348, quando nella città di Firenze, città fra le più belle d’Italia, giunse la mortifera pestilenza: essa, o a causa della posizione degli astri o come punizione mandata da Dio per correggere le nostre opere inique, dopo che era iniziata in Oriente e avendo lì causato infiniti morti, si era diretta verso Occidente.

Arrivò in città ad inizio primavera e nulla sembrava poterla arrestare: a nulla servivano i provvedimenti degli uomini assennati, a nulla le leggi degli ufficiali per ripulire la città, a nulla tenere lontano i malati e impedire loro di entrare in città, a nulla le lunghe processioni e preghiere infinite fatte dai devoti.

Si presentò in una forma diversa da quella della peste orientale: lì bastava uscisse sangue dal naso per essere cer-

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ti del contagio e della prossima morte; qui invece si mostrava con certi bubboni grandi come una mela o un uovo, chiamati gavoccioli, che apparivano nell’inguine o sotto le ascelle. E in poco tempo poi, il bubbone si diffondeva in ogni altra parte: le persone erano piene di macchie nere o livide, di dimensioni diverse, poche o molte, rade o spesse, ma in ogni caso presagio di sicura morte.

Nessuna cura o medicina pareva avere effetto, sebbene molti in quel momento si fossero trasformati in medici: di certo pochissimi guarivano, quasi tutti entro il terzo giorno dall’apparizione di quei mortiferi segni, chi prima e chi dopo, e quasi sempre senza febbre o altri malanni, morivano.

Inoltre questa pestilenza ebbe anche una maggior forza perché dai malati passava rapidamente ai sani, come il fuoco che passa alle cose secche che gli sono vicine. Ma non solo: bastava toccare i vestiti o qualunque altra cosa fosse stata usata dai malati per contagiarsi.

Vi fu un altro fatto straordinario che accadde, che se non l’avessi visto con i miei occhi, non lo crederei anche se me l’avessero raccontato persone degne: questa malattia non solo da uomo a uomo si passava, ma anche da uomo ad animale. Vidi ad esempio gli stracci di un pover uomo appena morto buttati per strada presi come d’abitudine da due grandi maiali con i loro denti: poco dopo le due bestie caddero morte a terra sopra quei panni che stavano tirando.

A causa di tutto ciò, nelle persone non contagiate, nascevano molte paure e immaginazioni e tutti cercavano di

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evitare contatti con i malati e le loro cose, pensando così di salvarsi.

Per scampare alla peste, alcuni credevano si dovesse vivere con moderazione, senza cose superflue: vivevano perciò separati da tutti gli altri in quelle case dove nessuno si era mai ammalato, mangiando cibi delicati e senza aver comportamenti che potessero essere nocivi, senza nemmeno voler sentire parlare dei morti che intanto vi erano nella città.

Altri invece credevano si dovesse bere e mangiare e soddisfare ogni desiderio, che solo questa potesse essere la medicina contro la malattia: passavano quindi da una taverna all’altra, giorno e notte bevendo oltre ogni limite, e prendevano ciò che volevano nelle case che ormai erano abbandonate o diventate luoghi di pubblico accesso. L’unica loro attenzione era quella di evitare i malati.

Nel frattempo le leggi della città e anche quelle di Dio erano cadute in miseria, anche perché chi doveva farle rispettare, come gli altri uomini, o era morto o malato o comunque colpito dalla disgrazia, così che il proprio compito non lo poteva più esercitare. Ad ogni uomo era ormai lecita qualsiasi azione.

La maggior parte comunque viveva seguendo la via mediana tra i due estremi: non eliminava ogni cosa superflua nel cibo come i primi, né si lasciava andare nelle dissoluzioni come i secondi. Cercava di usare tutto nella giusta misura, uscendo anche per strada, con nelle mani dei fiori

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o delle erbe odorifere, credendo che fosse un utile rimedio confortare il corpo con quegli odori, mentre tutta la città respirava il puzzo tremendo dei corpi morti e malati e delle medicine che prendevano.

Qualcuno ricorreva a un rimedio estremo: fuggire, lasciare la città. Così abbandonava la propria casa, i parenti e le proprie cose, come se l’ira di Dio si fosse abbattuta non per punire il comportamento di tutti gli uomini, ma solo di chi vivesse dentro le mura della città.

Ormai ogni cittadino aveva schifo del vicino e nessuno andava a far visita ai parenti: era così grande lo spavento, che un fratello abbandonava l’altro e lo zio il nipote e la sorella il fratello e molte volte la donna il marito; e (sebbene la cosa sia quasi incredibile), i padri e le madri abbandonavano i figlioli, quasi non fossero loro.

Quindi per i malati, nessun altro aiuto rimase che o la carità degli amici (e ce ne furono pochi) o l’avarizia dei servitori, che continuavano a lavorare ma solo per grandi salari. Perciò molte persone morirono che, se fossero state aiutate, sarebbero guarite.

In ogni caso la moltitudine di gente che moriva di giorno in giorno, di notte in notte, fu straordinaria.

Anche i funerali cambiarono: non si radunava più nessuno davanti alla casa del defunto, con le donne in pianto nella casa; raramente si trovava un funerale con più di dieci persone, né alcuno veniva portato in spalla dagli amici, ma era nato un nuovo mestiere, quello dei becchini, che

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per molti soldi trasportavano il feretro alla chiesa più vicina dove in fretta qualche chierico lo faceva seppellire.

Tra i poveri moltissimi si ammalavano e quasi tutti morivano senza aiuto né conforto religioso: venivano scoperti, per la puzza, morti in casa oppure venivano trasportati in strada, di giorno e di notte, dai vicini più per paura del contagio che per carità cristiana. Anche le bare non bastavano più, e spesso una sola tavola di legno trasportava più persone, padri e madri, fratelli e sorelle.

Questo flagello, che colpì la nostra città, non risparmiò nemmeno il contado: lì le famiglie dei lavoratori, senza alcun aiuto da parte di medico o servitore, di giorno e di notte, in casa o nei campi, non come uomini ma come bestie, morivano. E per questa ragione smettevano di occuparsi dei loro campi ed animali e pensavano solo a consumare quello che avevano già prodotto in attesa che la morte li prendesse. Così tutte le bestie, i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e anche i cani solitamente fedelissimi agli uomini, se ne andavano liberi.

Solo a Firenze in questi mesi, da marzo a luglio, si stima ci siano stati più di centomila morti: quanti palazzi di nobili signori, pieni di donne uomini e bambini, rimasero vuoti! Quanti giovani, quante belle donne, che sembravano il ritratto della salute, alla mattina mangiarono con i propri cari e la sera seguente cenarono con i propri antenati!

In questa situazione un martedì mattina, nella chiesa di Santa Maria Novella praticamente deserta, dopo aver as-

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sistito alla messa, si ritrovarono sette giovani donne, tutte tra loro amiche o parenti, tutte tra i 18 e i 28 anni, tutte sagge, belle e di costumi nobili. Di queste donne non dirò i nomi reali, per evitare che qualche invidioso possa usare quanto qui raccontato per infangare la loro onestà. Perciò

darò loro nomi inventati: Pampinea, Fiammetta, Filomena, Emilia, Lauretta, Neifile ed Elissa. Tra loro iniziarono a ragionare della terribile situazione in cui la città versava, con i morti ad ogni angolo e senza ormai più pietà né legge. Così discorrendo, Pampinea propose alle altre di fuggire, come già altri avevano fatto, in un luogo isolato e lontano, per vivere onestamente: del resto erano rimaste oramai sole, senza nessuno da accudire a casa. Non avrebbero avuto la certezza di scampare alla morte, ma certamente non sarebbero rimaste ogni istante a vedere cadaveri per strada e a sentire il putrefarsi dei corpi.

Perciò le donne prontamente accolsero l’idea di Pampinea di allontanarsi dalla città, seguite solo da qualche serva e portando solo ciò che era necessario. Ma Filomena le fermò, dicendo: «Amiche, ciò che dice Pampinea è giusto, ma sono certa che dobbiamo anche cercare l’aiuto di qualche uomo, perché delle donne da sole non riuscirebbero a sopportare questa impresa, prese da mille paure e sospetti».

Aggiunse allora Elissa: «Gli uomini sono la guida delle donne e raramente le donne senza la loro presenza riescono a portare a termine un’impresa. Ma come potremo

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avere con noi degli uomini? I nostri parenti o sono morti o sono fuggiti con chissà quale compagnia e cercare degli estranei non starebbe bene per donne oneste come noi».

Proprio in quel momento, nella chiesa entrarono tre giovani, della loro stessa età, tutti e tre di buoni costumi: erano Panfilo, Filostrato e Dioneo. Stavano proprio cercando tre delle sette donne lì presenti, per cui provavano molto amore.

Pampinea avrebbe voluto subito chiamarli per renderli partecipi dei loro piani, ma Neifile, che era una delle tre donne amate, diventata tutta rossa, si oppose, facendo notare come qualcuno avrebbe potuto male interpretare il loro invito.

Filomena allora disse: «Se io vivo onestamente e la mia coscienza è sempre a posto, può parlare chi vuole: Dio e la Verità mi difenderanno sempre. Se quindi questi ragazzi fossero disposti a venire con noi, vorrà dire che la Fortuna ci accompagna in questa impresa».

A queste parole tutte si convinsero; così Pampinea, che era parente di uno dei giovani, si mosse verso loro e raccontò la loro idea. I tre ragazzi, che inizialmente pensarono che le donne volessero prenderli in giro, accettarono l’invito e diedero ordine ai loro servi di preparare ogni cosa e di inviarla in anticipo alla villa.

Così il giorno seguente, che era un mercoledì, all’alba, le donne e i tre giovani partirono e arrivarono al luogo stabilito, che si trovava solo due miglia fuori dalla città. Era

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un luogo isolato, sopra una piccola montagna con molti boschetti, alla sommità della quale stava un palazzo con un grande e bel cortile nel mezzo, con molte logge, sale e camere tutte bellissime e decorate con pitture; intorno vi erano giardini meravigliosi, pozzi d’acque freschissime e con botti piene di preziosi vini, adatti più a raffinati bevitori che a sobrie e oneste donne.

Giunti quindi nella sala iniziarono a pensare a come avrebbero trascorso le giornate, decisi a lasciarsi alle spalle le sofferenze della città e pronti a divertirsi. Così Pampinea propose, per rendere gioioso ogni istante, di eleggere tra loro un sovrano ogni giorno, che avrebbe comandato e preso le decisioni su come passare il tempo. Per evitare che a qualcuno venisse invidia, a turno tutti sarebbero stati il re o la regina del giorno. A tutti piacque l’idea e all’unanimità elessero come prima regina proprio lei: Filomena corse ad una pianta di alloro e intrecciò una corona che le mise sul capo.

Pampinea assegnò per prima cosa ad ogni servo o ancella che li aveva accompagnati un compito, in modo che il loro soggiorno non dovesse avere nessuna incombenza pratica da sbrigare. Poi diede ai suoi nove compagni appuntamento per l’ora terza per mangiare insieme. Dopo aver mangiato, suonarono e ballarono carole, quindi ognuno andò a riposare nelle proprie stanze.

All’ora nona la regina fece alzare tutti, poiché fa male alla salute dormire troppo di giorno, e si sistemarono in un

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giardino che stava all’ombra. Disse Pampinea: «Qui è fresco ed è un luogo meraviglioso. Potremmo, se volessimo, passare il tempo a giocare a qualche gioco, ma credo che il nostro animo si turberebbe perché qualcuno vincerebbe e altri perderebbero, rovinandosi l’umore. Potremmo invece, mentre il sole è alto, raccontarci a turno delle storie». Tutti accettarono l’idea. Concluse quindi Pampinea: «Per questa prima giornata, il tema delle vostre novelle sarà libero, ognuno potrà raccontare ciò che vuole».

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