Come può un inganno diventare destino?
se d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio.
Una storia in cui niente è vero, tranne la finzione.
vito di battista
Vito di Battista è nato nel 1986 in un pae-
“Di Battista è consapevole di come la memoria sia invenzione e la vita sia come il teatro, che muore mentre lo si fa”. Simonetta Sciandivasci
buon uso il ilbuon uso della distanza della distanza ROMANZO
il buon uso della distanza
Immagine di copertina: © Shutterstock Foto dell’autore: © Flavia Bianco
vito di battista battista vito
16,50
ROMANZO
Parigi, 1976. Pierre Renard ha appena incassato un netto rifiuto per il suo secondo romanzo. Quella stessa sera riceve una lettera da una misteriosa “Madame”, che gli propone un accordo. Tentato dalla curiosità, accetta di scrivere dietro compenso seguendo i suggerimenti della donna, a patto di firmare ogni nuovo libro con uno pseudonimo diverso. I due non dovranno incontrarsi mai, comunicheranno soltanto per corrispondenza e attraverso la mediazione di Colette, l’arguta e saggia tenutaria di una casa di piacere. Pierre riuscirà a guadagnarsi un posto d’onore nella scena editoriale parigina, tra ricatti, favori e manovre di potere, ma la sua vita, nell’ombra, sarà come svuotata: nulla di quanto sta costruendo gli appartiene davvero, neanche l’amore. Finché non deciderà di rompere il gioco della finzione, per ritrovare la verità della sua esistenza: un conturbante intrigo familiare che da Firenze, la sua città natale, si dirama fino alla capitale francese.
Come può un inganno diventare destino?
se d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio.
Una storia in cui niente è vero, tranne la finzione.
vito di battista
Vito di Battista è nato nel 1986 in un pae-
“Di Battista è consapevole di come la memoria sia invenzione e la vita sia come il teatro, che muore mentre lo si fa”. Simonetta Sciandivasci
buon uso il ilbuon uso della distanza della distanza ROMANZO
il buon uso della distanza
Immagine di copertina: © Shutterstock Foto dell’autore: © Flavia Bianco
vito di battista battista vito
16,50
ROMANZO
Parigi, 1976. Pierre Renard ha appena incassato un netto rifiuto per il suo secondo romanzo. Quella stessa sera riceve una lettera da una misteriosa “Madame”, che gli propone un accordo. Tentato dalla curiosità, accetta di scrivere dietro compenso seguendo i suggerimenti della donna, a patto di firmare ogni nuovo libro con uno pseudonimo diverso. I due non dovranno incontrarsi mai, comunicheranno soltanto per corrispondenza e attraverso la mediazione di Colette, l’arguta e saggia tenutaria di una casa di piacere. Pierre riuscirà a guadagnarsi un posto d’onore nella scena editoriale parigina, tra ricatti, favori e manovre di potere, ma la sua vita, nell’ombra, sarà come svuotata: nulla di quanto sta costruendo gli appartiene davvero, neanche l’amore. Finché non deciderà di rompere il gioco della finzione, per ritrovare la verità della sua esistenza: un conturbante intrigo familiare che da Firenze, la sua città natale, si dirama fino alla capitale francese.
uG universale Gallucci
Vito di Battista Il buon uso della distanza ISBN 979-12-221-0306-8 Prima edizione novembre 2023 ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0 anno 2027 2026 2025 2024 2023 © 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma Pubblicato in accordo con Otago Literary Agency Gallucci e il logo
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Vito di Battista
Il buon uso della distanza ROMANZO
«Oh! Pazienza. Posso permettermi questa piccola soddisfazione: essere veritiera di tanto in tanto» Colette «Bisogna mentire per essere veritieri» Jean Genet
NOTA «I personaggi di questo romanzo sono tutti fittizi, narratore compreso, e non rassomigliano a nessuna persona vivente. Solo la città è vera» Lawrence Durrell, Justine
PACE ALLE FOTOGRAFIE 1976
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Monsieur Chèvre si arrampicava sull’ennesima giustificazione e quel guercio del suo assistente agitava i gomiti in perfetto silenzio, come una ballerina sulle punte che si impegna a ricordare un cigno che muore. Io, in piedi di fronte a loro, alla fine ho implorato al mio viso un ultimo sforzo di buona educazione e, sorridendo, sono andato via. Tutto questo succedeva il 15 di giugno, in un palazzaccio dell’anteguerra inerpicato dietro Place de la Bastille. «Un giorno capirai che altri non ti avrebbero degnato nemmeno di una spiegazione, figuriamoci della verità!» mi ha blaterato dietro monsieur Chèvre, pensando che potesse fare una qualche differenza. Avevo ventisette anni, dopotutto, mi sembrava l’età perfetta per smettere di credere ai buoni propositi. E da qui in avanti, se sei d’accordo, lascerei i monsieur solo a chi li merita. Ho attraversato quindi la porta dell’ufficio con il sor-
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riso agli angoli della bocca e un complimento sommesso dedicato alla buonanima di sua madre, perché di qualcuno deve pur essere la colpa e, in certi casi, i morti servono davvero a qualcosa. Ed è così che ha avuto fine il mio primo inizio. La questione, in sintesi, era la seguente: accantonando «ben altre priorità, per affetto e stima nei tuoi confronti», Loup Chèvre, l’allora direttore editoriale della Jour Éditions, aveva finalmente trovato il tempo per sfogliare il nuovo romanzo che gli avevo consegnato cinque mesi prima, senza spingersi con molta probabilità oltre la ventesima pagina. E si era rifiutato di pubblicarlo. Tutto sommato, quella sconfitta faceva parte del gioco e ne avevo già assaporate di simili anni addietro, nella lenta ma necessaria attesa di incappare in qualcuno disposto a dirmi di sì. La situazione attuale, però, era un discorso a sé. Mi trascinavo lontano dal suo ufficio tenendo lo sguardo basso, e non riuscivo a pensare che a questo: la mattina dopo sarei comunque tornato in quei corridoi ingombri di libri e scartoffie, visto che era lì che lavoravo ed era lì che, in assenza di alternative, avrei dovuto continuare a lavorare. Mi dibattevo sul nulla che restava da fare mentre andavo via, quando ho sentito una voce chiamarmi per la
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tromba delle scale. Il testone di Philippe mi scrutava da tre rampe di distanza, con quella selva di capelli ambrati che sembrava studiata a tavolino in quanto a sciatteria. Menando una mano per l’aria, gli ho lasciato intendere tutto senza bisogno di aprire bocca. «Ci vediamo dopo da Marianne, sì?» «Sì, sì, penso di sì» ho risposto senza crederci affatto. Tu non lo avevi ancora conosciuto Philippe, come d’altronde non avevi conosciuto me, ma a quel tempo avevamo l’abitudine di passare almeno un paio d’ore da Chez Marianne, dopo il lavoro. Se la giornata era andata bene, tutto facevamo fuorché discutere di quanto successo in ufficio o di questioni relative all’ambiente in cui ci eravamo invischiati. Intuivo però, per forza di cose, che non mi aspettava una delle nostre sere più fortunate. L’idea mi infastidiva, nonostante ci tenessi a confidarmi con lui e avere un parere sull’accaduto, ma è anche vero che, lì per lì, mi infastidiva ogni singola cosa; persino l’angelo della Bastille, con quella sua zampa al vento. Mi sono seduto a un café e ho tirato fuori il pacchetto di sigarette dal taschino della camicia. “Il mondo è pieno di sogni falliti” pensavo con lo sguardo imbambolato su un punto della piazza che non aveva niente di interessante “e le strade si intasano di questi scarti invisibili”. Una cameriera con uno straccio umido sul polso
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ha messo fine alle mie riflessioni penose chiedendomi se avessi intenzione di ordinare qualcosa. Le ho risposto di no, scusandomi per l’appropriazione indebita, e mi sono alzato spegnendo la sigaretta nel posacenere sul tavolino. Non trovando valide alternative, ho iniziato a ripercorrere a mente l’incontro con Chèvre, sperando che fosse lì il punto di vista migliore attraverso cui contemplare le mie sventure. A detta sua, il mio romanzo d’esordio, intitolato Pace alle fotografie e pubblicato poco meno di un anno prima, non si poteva definire esattamente un successo. Il fatto che, al tempo, era stato proprio grazie a quel romanzo che si era sentito «in dovere di offrirti pure un lavoro, perché hai del talento» non sembrava a sua volta una valida motivazione per concedermi una seconda opportunità. «Non è solo che non hai venduto abbastanza con il vecchio, Pierre, ma che il nuovo è, come dire, elegante, intelligente, davvero ben scritto, originale, intimo, con una voce che si fa rispettare e che è poi il motivo per cui ho insistito tanto per averti qui con noi. Ma sai, forse è troppo intelligente, fin troppo elegante. E tu sei così, è questo il modo in cui scrivi, e io l’ho sempre trovato un piccolo miracolo, però ecco, sì, insomma, è sempre un po’ la stessa solfa».
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Alla parola solfa qualcosa in me ha sussultato: fra tutte le riduzioni ai minimi termini, aveva pescato quella che meno si accordava col suo intento di demolizione. Non poteva farmi che piacere essere la stessa solfa. Se quel romanzo si fosse rivelato qualcosa di troppo diverso da me, mi sarei sentito preso in giro dalla sorte, visto che non avevo avuto affatto il tempo di cambiare. Quello che in realtà Chèvre non stava dicendo, per decenza o perché sapeva che lo avrei intuito da solo, era che qualche copia l’avevo venduta, vero, ma non abbastanza da consentire un altro tentativo; ero bravo, certo, ma non abbastanza da preferirmi ad altri. Lavoravo in quel settore, sì, ma la mia posizione non era abbastanza influente da garantire dei benefici. Nell’ecosistema in cui io e lui ci siamo incontrati, tutti dicono di cercare la novità, la voce, il piglio, la scioltezza, il tocco, l’anima, l’estro, il caso. Ma quello a cui mirano è soprattutto una giustificazione dell’investimento – il che continua a parermi più che legittimo. Se si tratta di una giustificazione capace di reggere anche davanti a un fallimento, allora si diventa un’eccezione; in tutti gli altri casi, la fine cui si va incontro è quella che è toccata a me. «Però non significa niente» aveva aggiunto poi il vecchio bracalone, mentre io me ne stavo sotto la forca. «Sono sicuro che non avrai difficoltà a trovare qualcun altro pronto a pubblicarti».
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È stato lì che, facendo leva sui polsi, mi sono alzato dalla sedia, e non per sputargli in un occhio ma per uscire dalla stanza. Rimuginavo su tutto questo quando, all’improvviso, mi sono accorto di vagare a vuoto. Ho abbassato gli occhi sull’orologio e tutta la mia attenzione si è concentrata senza motivo su un unico punto: l’unghia del pollice. L’ho fissata a lungo, come se non l’avessi mai vista prima; poi sono passato alle altre, rendendomi conto che non somigliavano affatto a quelle di mia madre. La sola alternativa possibile era che arrivassero dall’altra parte dell’equazione. Non pensavo spesso a mio padre, ma alzando lo sguardo mi è sembrato di vedere i suoi contorni sfocati in un qualche orizzonte che era in realtà un anfratto della memoria: sapevo che quella figura era lui, ma non potevo dire con certezza di che colore avesse gli occhi o dove gli fossero rimasti un po’ di capelli. Tutto quello che conoscevo erano le sue unghie, un qualcosa di cui mi ero appropriato senza chiedere il permesso. Non porto il suo cognome, anche se a detta di mia madre è successo più che altro per distrazione; al tempo, lui non sapeva di averla lasciata incinta dopo quei pochi giorni passati insieme sulle colline di Firenze. Viveva a Parigi, lei a Fiesole, e si erano incontrati per caso durante uno dei suoi viaggi.
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Mio padre ha scoperto lo stato delle cose solo quando la questione era ormai ben avviata: lei non ne poteva più di sopportare le malelingue e gli aveva scritto per tentare di riparare al danno. Ed è così che, pochi mesi dopo la mia venuta al mondo, Irene Renardi ha salutato le campagne con una valida giustificazione, per finire a vivere con un tale Antoine Lefebvre in tre stanze ammobiliate su Rue Dunois. L’idillio non è durato comunque molto. In quel giugno di cui ti sto parlando, mio padre era a marcire nella fossa da un bel po’. “Venti?” ho pensato, cercando di far quadrare i conti. “No, ventidue. Quasi ventidue”. C’erano voluti ventidue anni per far sì che di lui restassero solo le unghie, o forse nemmeno quelle. Per ovvie ragioni, non potevo ricordare molto altro. Avevo da sempre la sensazione che non avesse mai fatto davvero parte della nostra vita, e questo anche senza contare i limiti della memoria. Morì quando avevo cinque anni, senza un minimo di preavviso, e mia madre decise che non avrebbe avuto senso restare a Parigi. Parenti non ce n’erano. «Tutti morti anche loro» diceva. Insomma, era sola. Ce ne tornammo in Italia, alle porte di Firenze, e poco dopo si sposò con un uomo che conosceva da prima di quella parentesi svergognata. L’onta per il crimine di avermi messo al mondo non fu cancellata del tutto dal
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loro matrimonio, ma né a lei né al mio patrigno sembrava importare davvero. Con l’arrivo di mio fratello Gabriele, qualche anno dopo, diventammo una famiglia come le altre, e proprio come per le altre c’era sempre qualcosa da sussurrarci alle spalle. Non so se fu per via di quei sussurri, delle campagne assonnate o del senso di sospensione che mi dava il vivere lì, con lo sguardo su Firenze, sempre dall’alto e mai da dentro; non so nemmeno se fosse colpa di mio padre per un qualche motivo che non sapevo decifrare, o se la confusione delle partenze e dei ritorni mi avesse lasciato una percezione sconnessa delle appartenenze. Il punto è che, a diciannove anni, presi un treno che mi portò a scrostare omelette dai piatti della Brasserie Mollard e a consegnare capi di tintoria ai gentiluomini sulla Rive Gauche. Passai poi per una serie di lavori che non ha più senso stare a riesumare, prima di finire in uno spigolo degli uffici della Jour Éditions. “Éditions” ho pensato all’improvviso, dimenticandomi di avere delle unghie a raccontare un passato che non avrei saputo afferrare meglio. Éditions: nell’ignoranza di un qualche vicolo dietro Bastille, mi è sembrata quella la mossa, disperata e necessaria, che avesse più senso. E così sono andato.
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Come può un inganno diventare destino?
se d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio.
Una storia in cui niente è vero, tranne la finzione.
vito di battista
Vito di Battista è nato nel 1986 in un pae-
“Di Battista è consapevole di come la memoria sia invenzione e la vita sia come il teatro, che muore mentre lo si fa”. Simonetta Sciandivasci
buon uso il ilbuon uso della distanza della distanza ROMANZO
il buon uso della distanza
Immagine di copertina: © Shutterstock Foto dell’autore: © Flavia Bianco
vito di battista battista vito
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ROMANZO
Parigi, 1976. Pierre Renard ha appena incassato un netto rifiuto per il suo secondo romanzo. Quella stessa sera riceve una lettera da una misteriosa “Madame”, che gli propone un accordo. Tentato dalla curiosità, accetta di scrivere dietro compenso seguendo i suggerimenti della donna, a patto di firmare ogni nuovo libro con uno pseudonimo diverso. I due non dovranno incontrarsi mai, comunicheranno soltanto per corrispondenza e attraverso la mediazione di Colette, l’arguta e saggia tenutaria di una casa di piacere. Pierre riuscirà a guadagnarsi un posto d’onore nella scena editoriale parigina, tra ricatti, favori e manovre di potere, ma la sua vita, nell’ombra, sarà come svuotata: nulla di quanto sta costruendo gli appartiene davvero, neanche l’amore. Finché non deciderà di rompere il gioco della finzione, per ritrovare la verità della sua esistenza: un conturbante intrigo familiare che da Firenze, la sua città natale, si dirama fino alla capitale francese.
Come può un inganno diventare destino?
se d’Abruzzo a trecento gradini sul mare e vive a Bologna. Nel 2012 è stato selezionato per il Cantiere di Scritture Giovani del Festivaletteratura di Mantova. Agente letterario, editor e traduttore, ha scritto su “Futura”, la newsletter del “Corriere della Sera”, e su “Nuovi Argomenti”. Il suo primo romanzo, uscito nel 2018, è L’ultima diva dice addio.
Una storia in cui niente è vero, tranne la finzione.
vito di battista
Vito di Battista è nato nel 1986 in un pae-
“Di Battista è consapevole di come la memoria sia invenzione e la vita sia come il teatro, che muore mentre lo si fa”. Simonetta Sciandivasci
buon uso il ilbuon uso della distanza della distanza ROMANZO
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Immagine di copertina: © Shutterstock Foto dell’autore: © Flavia Bianco
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Parigi, 1976. Pierre Renard ha appena incassato un netto rifiuto per il suo secondo romanzo. Quella stessa sera riceve una lettera da una misteriosa “Madame”, che gli propone un accordo. Tentato dalla curiosità, accetta di scrivere dietro compenso seguendo i suggerimenti della donna, a patto di firmare ogni nuovo libro con uno pseudonimo diverso. I due non dovranno incontrarsi mai, comunicheranno soltanto per corrispondenza e attraverso la mediazione di Colette, l’arguta e saggia tenutaria di una casa di piacere. Pierre riuscirà a guadagnarsi un posto d’onore nella scena editoriale parigina, tra ricatti, favori e manovre di potere, ma la sua vita, nell’ombra, sarà come svuotata: nulla di quanto sta costruendo gli appartiene davvero, neanche l’amore. Finché non deciderà di rompere il gioco della finzione, per ritrovare la verità della sua esistenza: un conturbante intrigo familiare che da Firenze, la sua città natale, si dirama fino alla capitale francese.