Il richiamo della foresta di Jack London

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Jack London

Il richiamo della foresta adattamento a cura di Fabiana Sarcuno

ISBN 979-12-221-0048-7

Prima edizione rinnovata: marzo 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2023 Gallucci - La Spiga

Prima edizione © 2014 ELI – La Spiga Edizioni

Illustrazioni di Giorgio Baroni

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Jack London

IL RICHIAMO DELLA FORESTA

Adattamento a cura di Fabiana Sarcuno

Nota introduttiva

Buck, un incrocio tra un sanbernardo e una cagna scozzese, conduce una vita tranquilla nella tenuta del giudice Miller, in California. Un giorno però viene rapito da Manuel, l’aiuto-giardiniere, e venduto a dei malviventi. Così, dopo un lungo viaggio, si ritrova catapultato in un mondo gelido e ostile: l’Alaska, dove gli uomini cercano l’oro e i cani robusti come lui sono molto richiesti per trainare le slitte.

Inizia una nuova vita per il protagonista: la metamorfosi di Buck passa attraverso prove di iniziazione durissime, che lo portano ad apprendere la “legge del bastone e delle zanne” e a recuperare gli antichi istinti dei suoi progenitori.

Il richiamo della foresta, tuttavia, non è soltanto un libro d’avventura: esso presenta alcuni aspetti in comune con i romanzi di formazione, poiché Buck affronta un viaggio non solo fisico ma anche interiore verso la scoperta della propria identità. Alla fine della storia il protagonista, completamente cambiato, potrà seguire il richiamo del mondo selvaggio, verso un’esistenza libera e svincolata da ogni legame con gli uomini.

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L’odissea di Buck verso questa condizione di naturalezza primitiva ha davvero qualcosa di epico. Basti pensare alla struttura della narrazione, che ricalca quella dei miti antichi: dalla chiamata all’avventura ai combattimenti all’ultimo sangue, sino alla realizzazione di imprese eroiche.

Tutto ciò è raccontato dall’autore in modo semplice e immediato, come se si trattasse di una favola, talvolta spietata, ma che trasmette valori universali, con chiari riferimenti autobiografici, dato che Buck non è nient’altro che una proiezione di London, il quale non ha mai smesso di credere nel sogno di un’esistenza felice e autentica.

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1. Ritorno alle origini

Buck non leggeva i giornali, altrimenti avrebbe saputo quale guaio stava per capitare non solo a lui, ma a tutti i cani da slitta dalla muscolatura forte e con la pelliccia spessa e calda, da Puget Sound a San Diego. Questo perché gli uomini, scavando nelle buie profondità dell’Artico, avevano trovato un metallo giallo, e le compagnie di navigazione e di trasporti ne avevano diffuso la notizia, facendo accorrere migliaia di cercatori nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani, e i cani che cercavano dovevano essere forti, con muscoli robusti per sopportare le fatiche, e con folte pellicce per essere protetti dal freddo.

Buck viveva in una grande casa nella soleggiata valle di Santa Clara. Era nella tenuta del giudice Miller, che si trovava lontana dalla strada, mezza nascosta dagli alberi, attraverso i quali si poteva scorgere la fresca e ampia veranda che si stendeva lungo i quattro lati dell’edificio. Vi si arrivava percorrendo viali cosparsi di fine ghiaia che si insinuavano in vasti prati e sotto i rami intrecciati degli alti pioppi. Il retro della tenuta era ancora più ampio e spazioso. C’erano grandi scuderie, dove lavoravano una dozzina

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di stallieri e di ragazzi, file di casette coperte da viti selvatiche, per la servitù, e un’interminabile distesa ordinata di costruzioni minori, di lunghi pergolati, di verdi pascoli, di frutteti e cespugli di more. Poi c’erano l’impianto per il pozzo artesiano e la grande vasca di cemento dove i figli del giudice facevano il bagno tutte le mattine e si rinfrescavano nei pomeriggi afosi.

Su questa grande tenuta regnava Buck. Qui era nato e qui aveva vissuto i primi quattro anni della sua vita. In effetti c’erano anche altri cani, e non potevano non essercene in un possedimento così vasto, ma non contavano niente. Andavano e venivano, vivevano ammassati nei canili o negli angoli nascosti della casa, come Toots, il cagnolino giapponese, o Ysabel, la messicana senza pelo, strane creature che raramente mettevano il naso fuori dalla porta o le zampe a terra. C’erano anche i fox-terrier, almeno una ventina, sempre pronti ad abbaiare minacciosi contro Toots e Ysabel, che li guardavano dalle finestre, protetti da una legione di cameriere armate di scope.

Buck non era né un cane casalingo né un cane da canile. Era come un re nel suo regno. Si tuffava nella vasca e andava a caccia con i figli del giudice; scortava Mollie e Alice, le figlie del padrone, durante le lunghe passeggiate al tramonto o al mattino presto; nelle serate invernali si sdraiava ai piedi del giudice davanti al camino scoppiettante della biblioteca. Portava in groppa i nipotini del giudice o li faceva rotolare sull’erba, e li seguiva vigile nelle loro sel-

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vagge avventure fino alla fontana nel cortile della scuderia e anche più in là, verso i recinti dei cavalli e i cespugli di more. Avanzava maestosamente fra i terrier e ignorava Toots e Ysabel nel modo più assoluto, perché era il re, re di tutti gli esseri che strisciavano, camminavano e volavano nella tenuta del giudice Miller, compresi gli uomini.

Suo padre Elmo, un grande sanbernardo, era stato compagno inseparabile del giudice, e Buck prometteva di seguire le orme paterne. Non era così grosso – pesava solo centoquaranta libbre – perché sua madre Shep apparteneva alla razza dei pastori scozzesi. Con tutto ciò, le sue centoquaranta libbre, insieme alla dignità dovuta a una vita agiata e al rispetto generale, gli permettevano di assumere un comportamento regale.

Durante i primi quattro anni aveva vissuto una vita da aristocratico benestante; era orgoglioso di sé, anche un po’ egoista, come qualche volta diventano i gentiluomini di campagna a causa del loro isolamento. Ma si era salvato dal pericolo di divenire un cane di casa grasso e viziato. La caccia e gli altri divertimenti all’aria aperta gli avevano evitato di accumulare il grasso e reso i muscoli più forti. Per lui, come per tutte le razze abituate al bagno freddo, l’amore per l’acqua era un toccasana che gli permetteva di conservare una buona salute.

Buck era questo tipo di cane alla fine del 1897, quando la scoperta di un giacimento minerario a Klondike attirò uomini da ogni parte del mondo nel gelido Nord.

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Ma Buck non leggeva i giornali e non sapeva che Manuel, un aiuto-giardiniere, era una persona infida. Manuel aveva una passione fatale: gli piaceva giocare alla lotteria cinese. Inoltre, nel gioco, aveva un punto debole: la fede in un sistema, e questo fu la sua rovina. Infatti per giocare secondo un sistema ci vogliono molti soldi, mentre il salario di un aiuto-giardiniere è appena sufficiente a soddisfare i bisogni di una moglie e dei numerosi figli.

Nell’indimenticabile notte del tradimento di Manuel, il giudice era a una riunione dell’associazione dei Raisin Growers e i ragazzi erano occupati a organizzare un circolo sportivo. Nessuno lo vide quando andò attraverso il frutteto con Buck, che credeva di fare una semplice passeggiata. Tranne un uomo, nessuno li vide arrivare alla piccola stazione di College Park. Quell’uomo parlò con Manuel e si scambiarono del denaro.

«Dovete impacchettare la merce prima di consegnarla» disse lo sconosciuto in modo brusco. Manuel passò una grossa corda doppia intorno al collo di Buck, sotto il collare.

«Torcetela e lo terrete fermo come vorrete» disse Manuel, e lo sconosciuto brontolò in segno di approvazione.

Buck aveva accettato la corda con tranquilla dignità. In effetti non era molto piacevole, ma aveva imparato a fidarsi degli uomini che conosceva, considerandoli più saggi di lui. Quando però le estremità della corda passarono nelle mani dello sconosciuto, Buck ringhiò in modo minac-

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1. RITORNO ALLE ORIGINI

cioso. Aveva semplicemente manifestato il suo dispiacere, pensando che questo equivalesse a un comando. Ma, con sua grande sorpresa, la corda gli si strinse attorno al collo, togliendogli il respiro. In un impeto di rabbia si scagliò addosso all’uomo, che lo fermò a mezza strada, lo afferrò per la gola e con una mossa abile lo gettò a terra sulla schiena. Poi la corda si strinse ancora di più senza pietà, mentre Buck lottava come una furia, ansimando e con la lingua penzoloni dalla bocca. Mai in vita sua era stato umiliato in quel modo, mai in vita sua si era arrabbiato così.

Nonostante ciò, le forze lo abbandonarono, gli occhi si offuscarono e non si accorse di nulla quando i due uomini lo caricarono sul bagagliaio di un treno.

Quando riprese i sensi sentì un dolore alla lingua e si rese conto di essere sballottato su una specie di mezzo di trasporto. Il fischio acuto di una locomotiva a un passaggio a livello gli fece capire dove si trovava. Aveva viaggiato troppo spesso col giudice per non accorgersi di essere in un bagagliaio.

Aprì gli occhi, che lasciavano intravedere la sua collera indomabile, quella di un re rapito.

L’uomo si lanciò per acciuffarlo alla gola, ma Buck era troppo agile per lui. Le sue mascelle si chiusero sulla mano dello sconosciuto e non lasciarono la presa finché non perse i sensi un’altra volta.

«Sì, soffre di convulsioni» disse l’uomo nascondendo la mano ferita all’addetto ai bagagli, che si era precipitato lì

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sentendo il rumore della lotta. «Per ordine del mio padrone lo porto a San Francisco, dove forse un buon veterinario riuscirà a curarlo».

Quel che era avvenuto in quella notte di viaggio, l’uomo lo raccontò con una gran parlantina nel piccolo retrobottega di una taverna del porto di San Francisco.

«Chiedo solo cinquanta dollari per questo cane – borbottò; – non rifarei il viaggio con lui neppure per mille in contanti».

Aveva la mano fasciata con un fazzoletto insanguinato e il pantalone della gamba destra era stracciato dal ginocchio alla caviglia.

«E il farabutto che te l’ha venduto quanto ha preso?» domandò il padrone della taverna.

«Un centone – fu la risposta, – neppure un soldo di meno».

«In tutto fanno centocinquanta – calcolò il taverniere, – e secondo me li vale davvero».

Il rapitore si tolse la fasciatura insanguinata e si guardò la mano ferita. «Se non mi prendo l’idrofobia…»

«Vorrà dire che sei nato per essere impiccato – rise il taverniere, – forza, dammi una mano prima di prendere i soldi» aggiunse.

Stordito, con un male insopportabile alla gola e alla lingua, mezzo morto, Buck cercò di lottare contro i suoi

persecutori, ma fu messo a terra e strangolato più volte, finché riuscirono a sfilargli il pesante collare di ottone dal

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1. RITORNO ALLE ORIGINI

collo. Poi sciolsero la corda e lo gettarono in una specie di gabbia.

Là rimase per il resto di quella notte terribile, covando rabbia per il suo orgoglio ferito. Non riusciva a capire che cosa significasse tutto ciò. Che cosa volevano da lui quegli strani uomini? Perché lo avevano chiuso in quella gabbia scomoda? Non sapeva farsene una ragione, ma si sentiva soffocato dall’idea che qualcosa di veramente brutto stesse per capitargli. Molte volte durante la notte balzò in piedi sentendo il rumore della porta del ripostiglio che si apriva, nella speranza di vedere il giudice o almeno i ragazzi. Ogni volta, però, era la faccia gonfia del taverniere che lo guardava alla debole luce di una candela: allora l’abbaiare gioioso che tremava nella gola di Buck si trasformava in un ringhio feroce.

Il taverniere lo lasciò solo. Al mattino entrarono quattro uomini e sollevarono la gabbia. Buck pensò che fossero altri aguzzini, perché erano individui dall’aspetto orribile, tutti stracciati e sporchi. Iniziò ad agitarsi e a ringhiare contro di loro da dietro le sbarre. Gli uomini si misero a ridere e a tormentarlo con un bastone che Buck subito addentò, finché capì che era proprio quello che loro volevano. Allora si accucciò, tutto triste, e lasciò che la gabbia fosse issata su un vagone. Poi lui e la gabbia in cui era rinchiuso cominciarono a passare da una mano all’altra. Fu prelevato dagli impiegati delle ferrovie, che lo portarono in un altro vagone; fu trasportato insieme a un mucchio di

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scatole e pacchi sopra una nave traghetto; da lì fu messo in un grande deposito ferroviario e alla fine nel bagagliaio di un treno espresso.

Per due giorni e due notti la carrozza fu trascinata in coda al convoglio e per due giorni e due notti Buck non mangiò né bevve. Pieno di rabbia, aveva iniziato a ringhiare contro gli addetti del treno, che per tutta risposta gli facevano continui dispetti. Quando si gettava contro le sbarre, tremando e con la bava alla bocca, ridevano di lui e lo prendevano in giro. Abbaiavano e grugnivano in modo odioso, miagolavano, agitavano le braccia e facevano il verso del gallo. Tutto questo era molto stupido, Buck lo capiva, e offendeva sempre di più la sua dignità, mentre la rabbia continuava ad aumentare. Sopportava la fame, ma la mancanza di acqua gli procurava una sofferenza intensa, rendendolo ancora più furioso. Infatti le cattive condizioni gli avevano fatto venire una gran febbre, alimentata dall’infiammazione alla gola e alla lingua.

Era contento di una sola cosa: non aveva più la corda al collo, che aveva procurato agli uomini un vantaggio indiscutibile. Ora che non c’era più, gli avrebbe fatto vedere chi era. Non sarebbero riusciti a mettergliene un’altra: questo era poco ma sicuro.

Per due giorni e per due notti non mangiò né bevve, accumulando una tale quantità di rabbia che chiunque gli si fosse avvicinato per primo sarebbe capitato male. I suoi occhi erano tanto iniettati di sangue da farlo sembrare un dia-

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1. RITORNO ALLE ORIGINI

volo infuriato. Era così cambiato nell’aspetto che neppure il giudice l’avrebbe riconosciuto. Gli impiegati del treno tirarono un sospiro di sollievo quando fu scaricato dal vagone a Seattle.

Quattro uomini trasportarono con delicatezza la gabbia dal vagone in un piccolo cortile circondato da alte mura. Un uomo robusto con un maglione rosso a collo alto uscì fuori e firmò il registro di consegna per il guidatore. Buck pensò che si trattasse di un altro aguzzino e gli abbaiò violentemente gettandosi contro le sbarre. L’uomo sorrise con un’espressione malvagia, afferrando un’accetta e un bastone.

«Ha intenzione di tirarlo fuori adesso?» chiese il conducente.

«Certo» rispose l’uomo, dando un colpo d’accetta alla gabbia per aprirla.

Immediatamente i quattro uomini che l’avevano trasportata scapparono via e si rifugiarono sulla cima di un muro, dal quale erano pronti a osservare lo spettacolo.

Buck si precipitò contro il legno che si scheggiava sotto i colpi, affondandovi i denti, agitandosi e lottando con tutte le sue forze; ovunque l’accetta colpisse dall’esterno, lui si scagliava all’interno, ringhiando e digrignando i denti, ansioso di uscire così come l’uomo dal maglione rosso era intenzionato a tirarlo fuori.

«Ora è il tuo turno, diavolo dagli occhi rossi» disse, quando ebbe creato un’apertura sufficiente a far passare il

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corpo di Buck. Nello stesso tempo lasciò cadere l’accetta e passò il bastone nella mano destra.

Buck sembrava veramente un diavolo dagli occhi rossi mentre si preparava con tutto il corpo a lanciarsi, con il pelo irto, la bava alla bocca e uno scintillio feroce negli occhi iniettati di sangue. Si scagliò contro l’uomo con le sue centoquaranta libbre di furia, aumentate dalla rabbia accumulata in quei due giorni e in quelle due notti. Ma a mezz’aria, proprio quando le sue mascelle stavano per chiudersi sull’uomo, ricevette un colpo che arrestò lo slancio del suo corpo e gli fece stringere i denti in uno spasimo di dolore insopportabile. Si girò in aria e ricadde a terra sulla schiena e su un fianco. Non era mai stato picchiato da un bastone in vita sua, e proprio non capiva. Con un ringhio che sembrava più che altro un latrato, fu di nuovo in piedi e si lanciò ancora una volta in aria. E di nuovo un colpo lo gettò a terra. Questa volta si rese conto del bastone, ma la sua rabbia non gli permetteva di essere prudente. Attaccò una dozzina di volte, e ogni volta il bastone lo fermò, scaraventandolo a terra.

Dopo un colpo molto violento, si trascinò malfermo e zoppicante, troppo stordito per lanciarsi ancora, con il sangue che gli colava dal naso, dalla bocca e dalle orecchie, e con il magnifico pelo macchiato di bava insanguinata.

Allora l’uomo avanzò e gli diede volutamente un terribile colpo sul naso. Tutto il dolore che aveva patito fino a

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quel momento era niente in confronto allo strazio che provò. Con un ringhio furibondo, che sembrava un ruggito, si avventò ancora sull’uomo, ma questo, passando il bastone dalla mano destra alla sinistra, lo afferrò con freddezza per la mascella inferiore, torcendola all’indietro e verso il basso. Il cane fece un giro completo in aria, per poi precipitare a terra sulla testa e sul petto.

Per l’ultima volta Buck si lanciò. Allora l’uomo gli diede il colpo di grazia che aveva riservato apposta per la fine, e il cane crollò privo di sensi.

«È davvero in gamba a domare i cani, accidenti!» esclamò con entusiasmo uno degli uomini sul muro.

«Druther ne sistema uno al giorno e due la domenica» aggiunse il conducente mentre si arrampicava sul carro e avviava i cavalli.

Buck riprese i sensi, ma non le forze. Rimase sdraiato là dove era caduto e da quella posizione osservava l’uomo dal maglione rosso.

«Si chiama Buck» disse l’uomo tra sé, leggendo la lettera del taverniere che gli annunciava la spedizione della gabbia e del suo contenuto.

«Ebbene, Buck, ragazzo mio – continuò con tono allegro, – abbiamo avuto una piccola discussione, e la cosa migliore che possiamo fare adesso è considerarla conclusa. Tu hai imparato qual è il tuo posto e io so qual è il mio. Se sarai un buon cane, tutto andrà a gonfie vele, ma se farai il cattivo, ti ammazzo di botte. Capito?»

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Mentre parlava, gli accarezzava senza paura la testa, che aveva appena smesso di colpire senza pietà. Buck sopportò senza protestare, anche se il suo pelo si drizzava involontariamente al contatto con la mano dell’aguzzino. Quando l’uomo gli portò dell’acqua, bevve avidamente e poi accettò dalla sua mano, un boccone dopo l’altro, un’abbondante porzione di carne cruda.

Era stato vinto, lo sapeva, ma non spezzato. Capì una volta per tutte che contro un uomo armato di un bastone non aveva nessuna possibilità di vincere. Aveva imparato la lezione e non l’avrebbe più dimenticata per il resto della sua vita. Quel bastone era stato una rivelazione, che lo aveva introdotto nel regno della legge primitiva, ed egli la imparò molto bene da subito. I fatti della vita prendevano ora un aspetto nuovo, più feroce, ma nell’affrontarlo avrebbe usato tutta l’astuzia innata, che si era risvegliata, del suo carattere.

Nei giorni successivi arrivarono altri cani, in gabbia o al guinzaglio, alcuni docili, altri ribelli, che ringhiavano come aveva fatto lui. Li vide tutti, a uno a uno, dominati dall’uomo con il maglione rosso. Ogni volta assisteva a quello spettacolo brutale e intanto ripensava alla sua lezione: un uomo con un bastone è uno che detta legge, un padrone al quale obbedire, anche se non era necessario essergli amico. E su questo Buck fu sempre rigoroso, nonostante vedesse cani bastonati diventare servili, scodinzolare e leccare le mani dell’uomo. Vide anche un cane che

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finì ucciso nella lotta per la supremazia, perché non si era piegato all’obbedienza.

Ogni tanto arrivavano degli sconosciuti, che parlavano in vario modo con l’uomo dal maglione rosso, a volte tranquillamente, altre invece sembravano infervorati. E quando si scambiavano del denaro, gli sconosciuti portavano via uno o più cani. Buck si chiedeva dove andassero, dal momento che non tornavano più indietro. Aveva una grande paura del futuro, perciò ogni volta ero contento di non essere stato scelto.

Ma alla fine arrivò anche il suo turno: venne un ometto tutto rugoso che parlava male l’inglese, e lo mescolava a strane esclamazioni incomprensibili.

«Sacrédam! – gridò appena vide Buck. – Quel gran bel cane là! Eh? Quanto?»

«Trecento, ed è regalato - rispose pronto l’uomo in maglia rossa. – E, dato che il denaro è del governo, non vorrai metterti a contrattare, vero Perrault?»

Perrault ridacchiò. Considerando che il prezzo dei cani era salito alle stelle per la straordinaria richiesta, non si trattava di una somma esagerata per un animale così bello. Il governo canadese non ci avrebbe perso, e le sue spedizioni non sarebbero state meno veloci. Perrault era un esperto in fatto di cani e guardando Buck si era accorto che era una bestia eccezionale. «Ce n’è uno su diecimila di cani così» commentò tra sé.

Buck vide gli uomini scambiarsi dei soldi e non fu sor-

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preso quando lui e Curly, una terranova dal carattere buono, furono portati via dall’omino rugoso. Quella fu l’ultima volta che vide l’uomo dal maglione rosso e fu anche l’ultima volta che vide la calda terra del Sud dal ponte del Narwhal, mentre con Curly osservava Seattle che si allontanava.

Lui e Curly furono condotti da Perrault sottocoperta e consegnati a un gigante dalla faccia nera chiamato François. Perrault era un franco-canadese di carnagione bruna; mentre François era un franco-canadese di sangue misto, ancora più scuro. Essi costituivano per Buck un nuovo tipo di uomini, ma il cane era destinato a vederne molti altri ancora. Pur non provando alcun affetto per loro, arrivò a rispettarli. In breve si rese conto che Perrault e François erano uomini onesti, calmi e imparziali nell’amministrare la giustizia; inoltre conoscevano abbastanza bene il comportamento dei cani da non farsi ingannare dai loro gesti.

Sul Narwhal, sottocoperta, Buck e Curly incontrarono altri due cani. Uno era un grosso cane bianco delle Spitzbergen, che era stato acquistato dal capitano di una baleniera e poi aveva partecipato con lui a una spedizione geologica alle isole Barrens. Sembrava amichevole, ma era subdolo e traditore: mentre sorrideva, pensava sempre a giocare qualche brutto tiro, come quando rubò dalla porzione di Buck al primo pasto.

Proprio mentre Buck si stava lanciando contro di lui per punirlo, sentì nell’aria il sibilo della frusta di François,

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che raggiunse il colpevole; e Buck non dovette fare altro che recuperare il suo osso. Era stata un’azione giusta da parte di François, pensò Buck, e in lui crebbe la stima per il mezzosangue.

L’altro cane non dava né riceveva confidenza; neppure cercava di rubare cibo ai nuovi venuti. Era un tipo triste, imbronciato, e fece capire subito a Curly che voleva rimanere solo, altrimenti sarebbero stati guai per tutti. Si chiamava Dave: mangiava, dormiva, sbadigliava e non si interessava di niente, nemmeno quando il Narwhal attraversò lo stretto della Queen Charlotte, oscillando e ondeggiando come un vascello indiavolato. Mentre Buck e Curly si agitarono per l’eccitazione e la paura, Dave alzò la testa con un’espressione annoiata, li guardò con indifferenza, sbadigliò e tornò a dormire.

Giorno e notte la nave vibrava sotto la continua spinta dell’elica e, sebbene ogni giorno fosse uguale all’altro, Buck si rese conto che l’aria stava diventando sempre più fredda. Infine, una mattina, l’elica si fermò e il Narwhal fu invaso da un’atmosfera di agitazione.

Buck se ne accorse, come gli altri cani, e capì che stava per verificarsi un cambiamento. François mise loro il guinzaglio e li portò sul ponte. Nel fare il primo passo sulla superficie fredda, i piedi di Buck affondarono in qualcosa di bianco e morbido, molto simile al fango. Balzò indietro sbuffando. Altra di quella roba bianca stava cadendo dal cielo. Si scrollò, ma continuava a venirgli addosso. La

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annusò con curiosità e poi la leccò: bruciava come il fuoco, e un attimo dopo non c’era più. Buck non capiva. Fece un altro tentativo, ma il risultato fu lo stesso. Gli spettatori scoppiarono a ridere e lui si vergognò. Non sapeva perché: era la prima volta che vedeva la neve.

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