In famiglia 2. La verità su Perrine

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HECTO R MALOT

VOLUME 2

La verità su Perrine

traduzione di Marina Karam

Quando furono usciti dal paese, Guillaume si girò verso Perrine senza rallentare l’andatura.

«È vero che sa l’inglese?» disse.

«Sì»

«Ha la fortuna di poter fare un favore al padrone».

Lei azzardò una domanda:

«E come?»

«Perché sono appena arrivati dei meccanici inglesi a montare un macchinario, e lui non riesce a farsi capire. Ha portato con sé il signor Mombleux che sostiene di parlare inglese, ma l’inglese di Mombleux non è quello dei meccanici, quindi stanno discutendo senza capirsi, e il padrone è furioso. C’è da morir dal ridere. Alla ne il signor Mombleux ha perso la pazienza e, nel tentativo di calmare il padrone, ha detto che all’incannatoio c’era una ragazza di nome Aurélie che parlava inglese, e il padrone mi ha mandato a prenderla».

Ci fu un attimo di silenzio; poi, di nuovo, Guillaume si rivolse a Perrine:

«Se parla inglese come il signor Mombleux, forse farebbe meglio a scendere subito».

E con tono beffardo aggiunse:

«Devo fermarmi?»

«Continui pure»

UAO Universale d’Avventure e d’Osservazioni

Hector Malot

In famiglia. La verità su Perrine

traduzione dal francese di Marina Karam

Libro 1: In famiglia. Il lungo viaggio di Perrine

Dello stesso autore:

Remì. Senza famiglia

Remì a Londra

ISBN 979-12-221-0084-5

Prima edizione italiana agosto 2023

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2027 2026 2025 2024 2023

© 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma

Titolo originale: En famille

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Hector Malot In famiglia

La verità su Perrine

LIBRO 2

traduzione dal francese di Marina Karam

A Perrine capitava spesso che gli avvenimenti del giorno appena trascorso fossero oggetto di sogni notturni e, dato che gli ultimi mesi della sua vita erano stati segnati dalla tristezza, lo stesso era accaduto per i sogni. Quante volte, da quando la sfortuna aveva cominciato a perseguitarla, si era svegliata in un bagno di sudore, soffocata da incubi che prolungavano nel sonno le miserie della realtà. A dire il vero, dopo il suo arrivo a Maraucourt, i pensieri di speranza che stavano rinascendo in lei e il suo nuovo lavoro avevano reso quegli incubi meno frequenti e meno dolorosi: il loro peso era meno opprimente, la stretta alla gola delle loro dita di ferro si era allentata. Adesso, quando si addormentava, il suo pensiero era rivolto al domani, un domani sicuro, oppure alla fabbrica o alla sua isola. O ancora, a ciò che aveva intrapreso o voleva intraprendere per migliorare la sua condizione: le espadrillas, la camicia, la canotta, la gonna. E allora il sogno, come se obbedisse a un suggerimento misterioso, metteva in scena il soggetto che lei aveva cercato di imporre alla sua mente: a volte una fabbrica in cui una bacchetta magica, che rimpiazzava la gamba di legno di Birillo, dava il ritmo ai macchinari senza che i bambini facessero fatica a manovrarli; a volte un domani radioso, pieno di gioie per tutti; altre volte faceva affiorare una nuova isola di bellezza soprannaturale, con paesaggi e animali che

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esistono solo nella fantasia; oppure, più banalmente, Perrine si immaginava di poter cucire meravigliosi stivaletti da indossare al posto delle espadrillas, o vestiti straordinari tessuti da folletti in caverne di diamanti e rubini, che a un certo punto avrebbero rimpiazzato la canotta e la gonna all’indiana che si era ripromessa di confezionarsi.

Quel mezzo di suggestione forse non era infallibile, e il suo inconscio non le obbediva né troppo fedelmente né troppo regolarmente da darle la certezza, una volta chiusi gli occhi, che i pensieri della notte avrebbero prolungato quelli del giorno stesso o quelli che lei stava facendo al sopraggiungere del sonno; ma certe volte capitava che tutto quanto si incastrasse, e allora quelle notti serene riuscivano a darle un sollievo morale e fisico che la ristorava.

Quella sera, quando si addormentò al riparo della sua capanna, l’ultima immagine che le passò davanti agli occhi semichiusi per il sonno e l’ultimo pensiero che le attraversò la mente intorpidita le fecero proseguire il viaggio di esplorazione nei dintorni della sua isola. In realtà, non sognò proprio quel viaggio bensì dei banchetti: in una grande cucina, dal soffitto alto come quello di una cattedrale, un esercito di piccoli sguatteri, vestiti di bianco e dall’aspetto diabolico, si muoveva rapido attorno a tavolate immense e a un focolare infernale. Alcuni rompevano uova, altri le sbattevano e le montavano senza sosta in una candida spuma. Con tutte quelle uova – alcune grosse come meloni, altre piccole come piselli – preparavano piatti così straordinari che pareva che il loro scopo fosse di cucinarle in tutti i modi possibili: alla coque, al formaggio, al burro nero, al pomodoro, strapazzate, in camicia, alla panna, al gratin, in omelette varie, al prosciutto, al lardo, alle patate, al rognone, alla marmellata, flambé con il rum che sprizzava lampi. E accanto a quegli sguatteri, altri personaggi più importanti, senza dubbio dei cuochi, aggiungevano altre uova agli impasti per farne dolci, soufflé, torte a più

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piani. A ogni risveglio improvviso, Perrine si scrollava per cacciare quello stupido sogno, che però ripartiva, e gli sguatteri, che non la lasciavano proprio, continuavano il loro lavoro fantastico: tanto che, quando fu svegliata dalla sirena della fabbrica, era ancora impegnata a seguire la preparazione di una crema al cioccolato di cui ritrovò il gusto e il profumo sulle labbra.

Così, non appena la mente iniziò a riacquistare lucidità, capì che a colpirla durante il suo viaggio non erano stati né il fascino, né la bellezza, né la tranquillità della sua isola, ma semplicemente le uova di alzavola, capaci di ricordare al suo stomaco che da quindici giorni ormai lei non gli dava altro che pane secco e acqua. Ed erano quelle uova ad averla guidata nel sogno, facendole vedere quegli sguatteri e quelle cucine fantastiche: il suo stomaco aveva fame di cose buone e glielo diceva a modo suo, provocando visioni che in realtà erano soltanto una protesta.

Perché non aveva preso quelle uova, anche solo qualcuna? Non appartenevano a nessuno, poiché l’alzavola che le aveva deposte era un animale selvatico. Di certo, non avendo a disposizione né pentole, né padelle, né utensili di alcun tipo, Perrine non poteva prepararsi nessuno dei piatti che le erano appena passati davanti agli occhi, l’uno più appetitoso e più ricercato dell’altro. Ma il pregio delle uova sta proprio nel fatto che non hanno bisogno di preparazioni ricercate: un fiammifero per accendere un mucchietto di legno secco raccolto nel bosco, e sotto la cenere poteva facilmente farle cuocere come voleva, alla coque o sode, in attesa di potersi permettere una pentola o un piatto. Pur non assomigliando al banchetto inventato dal suo sogno, sarebbe comunque stata una vera leccornia.

Più volte durante il lavoro quell’idea le balenò per la testa, non ossessiva come in sogno ma abbastanza assillante, tanto che dopo essere uscita dalla fabbrica si decise a comprare una scatola di fiam-

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Capitolo 1

miferi e un soldo di sale: poi, ad acquisti fatti, tornò di corsa allo stagno.

Da quanto le era rimasta impressa la posizione del nido lo ritrovò all’istante, ma quella sera mamma alzavola era assente. Vi era comunque passata durante il giorno, poiché adesso invece di dieci uova ce n’erano undici, a riprova del fatto che, non avendo finito di deporle, non le stava ancora covando.

Era una buona occasione per Perrine, intanto perché le uova erano fresche, e poi perché se ne avesse prese solo cinque o sei, l’alzavola, che non sapeva contare, non si sarebbe accorta di niente.

Un tempo Perrine non si sarebbe fatta scrupoli e avrebbe svuotato completamente il nido senza alcun problema, ma i dispiaceri passati avevano fatto nascere in lei una tenera compassione per le sofferenze altrui, così come il suo affetto per Palikare le aveva ispirato verso tutti gli animali una simpatia che, nella sua infanzia, non aveva mai conosciuto. Quell’alzavola non era forse una compagna, per lei? O piuttosto, continuando nel gioco, un suo suddito? Se i re hanno il diritto di sfruttare i loro sudditi e vivere del lavoro altrui, devono comunque trattarli con un certo riguardo. Quando aveva deciso di prendere quelle uova, Perrine aveva già stabilito anche come cucinarle: ovviamente non l’avrebbe fatto nella capanna, perché anche il più piccolo pennacchio di fumo rischiava di attirare l’attenzione dei vicini. Si sarebbe pertanto recata nel bosco, in una radura dove si accampavano i nomadi che attraversavano il villaggio e dove né il fuoco né il fumo avrebbero dato nell’occhio. Raccolse in fretta una bracciata di legna secca e ben presto riuscì ad accendere un fuoco nella cui cenere fece cuocere una delle sue uova, mentre tra due selci ben pulite e levigate pestava un pizzico di sale per farlo sciogliere meglio. A dire il vero le mancava un portauovo, ma si tratta di un oggetto indispensabile solo per chi

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dispone del superfluo, quindi lo ricavò scavando un piccolo foro nella pagnotta. E ben presto ebbe la soddisfazione di poter intingere un pezzetto di pane nell’uovo cotto a puntino. Al primo boccone le parve di non aver mai mangiato niente di così buono, e si disse che se anche gli sguatteri del suo sogno fossero esistiti davvero, non avrebbero certo saputo cucinare qualcosa di paragonabile a quelle uova di alzavola alla coque cotte sotto la cenere.

Considerando che il giorno precedente si era dovuta accontentare del pane secco, convinta che prima di parecchie settimane, forse mesi, non sarebbe riuscita ad aggiungervi altro, quella cena avrebbe dovuto soddisfare il suo appetito e le tentazioni del suo stomaco, ma non fu così: non aveva ancora finito l’uovo, che già si chiedeva come preparare in altri modi quelle che le rimanevano o che si riprometteva di procurarsi. Era buono, l’uovo alla coque, proprio buono, ma sarebbe stata ottima anche una zuppa calda con dentro un tuorlo. L’idea della zuppa le era passata per la testa assieme al forte dispiacere di essere costretta a rinunciarci. Cucirsi le espadrillas e la camicia le aveva forse ispirato una certa fiducia, facendole vedere ciò che è possibile ottenere con la perseveranza. Ma quella fiducia non arrivava al punto di illuderla di potersi fabbricare una pentola in terracotta o in latta per prepararsi una zuppa, né un cucchiaio di qualsivoglia metallo, o semplicemente in legno, per mangiarla. Certe cose le erano e le sarebbero rimaste impossibili. Riguardo alla zuppa, nell’attesa di guadagnare i soldi necessari all’acquisto dei due utensili, doveva accontentarsi di respirarne il profumo passando davanti alle case, e di udire il rumore dei cucchiai.

Era proprio a questo che stava pensando un mattino nel recarsi al lavoro, quando poco prima di entrare nel villaggio, davanti alla porta di una casa da cui i proprietari avevano traslocato il giorno prima, sopra un mucchio di vecchia paglia gettata sulla strada vide

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In famiglia. La verità su Perrine

una serie di cianfrusaglie, tra cui vecchi barattoli di latta che avevano contenuto conserve di carne, di pesce e di legumi. Ce n’erano di varie dimensioni: grandi, piccoli, alti, piatti.

Colpita dal bagliore della loro superficie lucida, Perrine si fermò d’istinto, senza la minima esitazione: le erano appena balenate davanti agli occhi le pentole, i piatti, i cucchiai, le forchette che le mancavano. Per completare la sua batteria da cucina non le restava che prendere quei vecchi contenitori. Con un salto attraversò la strada, scelse in fretta quattro barattoli e li portò via correndo per poi nasconderli ai piedi di una siepe, sotto un mucchio di foglie secche: la sera, al ritorno, sarebbe passata a recuperarli e allora, con un po’ d’ingegno, avrebbe potuto cucinare tutti i piatti che le venivano in mente.

Ma li avrebbe davvero ritrovati? Questo dubbio la tormentò tutto il giorno. Se qualcuno glieli avesse presi, tutti i suoi progetti sarebbero andati in fumo, proprio adesso che pensava di poterli realizzare.

Per fortuna a nessuno dei passanti venne in mente di portare via i barattoli; e quando, al termine della giornata, Perrine tornò alla siepe, dopo aver lasciato passare la fiumana di operai che percorrevano quella strada, li ritrovò esattamente dove li aveva nascosti.

Siccome sull’isola non poteva fare rumore o tantomeno fumo, si recò nella radura sperando di trovarvi gli attrezzi necessari: qualche pietra da usare come martello per battere la latta, sassi piatti da utilizzare come incudine e altri tondeggianti con la funzione di punteruoli. Per tagliare la latta avrebbe utilizzato, a mo’ di forbici, delle pietre affilate.

Fu quel lavoro che la fece penare di più: le ci vollero non meno di tre giorni per sagomare un cucchiaio. Oltretutto non era scontato che, vedendolo, si sarebbe capito che si trattava di un cucchiaio; ma,

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poiché gliene serviva soltanto uno, andava bene così. D’altronde, siccome mangiava da sola, non doveva certo preoccuparsi del giudizio altrui su quegli utensili da tavola.

Adesso, per cucinare la zuppa di cui aveva una gran voglia, le mancavano soltanto il burro e l’acetosella.

Il burro doveva comprarlo proprio come il pane e il sale: le mancava il latte, quindi non poteva farselo da sola.

Poteva invece risparmiarsi la spesa dell’acetosella, in quanto sarebbe bastato cercarla nei prati dove, oltre a quella selvatica, avrebbe trovato anche carote e scorzonera che, pur non essendo né belli né grandi come gli ortaggi coltivati, le sarebbero andati altrettanto bene.

E poi, per comporre il menù della sua cena, non c’erano soltanto le uova e le verdure: adesso che si era costruita i recipienti per cucinarli, e un cucchiaio di latta e una forchetta di legno per mangiarli, c’erano anche i pesci dello stagno, a patto di essere abbastanza abile da catturarli. Che cosa le serviva? Qualche lenza, cui agganciare come esca dei vermi da cercare nel fango. Le rimaneva un bel po’ del filo che aveva comprato per le espadrillas, per cui dovette spendere solo un soldo per gli ami. E, con il crine di cavallo che raccolse all’ingresso della fucina, le sue lenze furono sufficienti per catturare diverse varietà di pesce. Anche se non erano i più belli dello stagno – li vedeva passare sprezzanti nell’acqua limpida davanti alle sue esche troppo semplici – riusciva comunque a pescarne di piccoli, meno difficili ma, a suo avviso, pur sempre grandi abbastanza.

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Stampato e fabbricato per conto di Carlo Gallucci editore srl presso Grafica Veneta spa (Trebaseleghe, PD) nel mese di agosto 2023 con un processo di stampa e rilegatura certificato 100% carbon neutral in accordo con PAS 2060 BSI

Hector Malot (La Bouille, 1830 - Fontenay-sous-Bois, 1907) è uno dei più grandi scrittori francesi di letteratura per ragazzi di tutti i tempi. Dei suoi oltre sessanta libri, il più celebre è Senza famiglia (1878), con protagonista l’indimenticabile Remì, pubblicato da Gallucci in una nuova traduzione in due volumi.

In famiglia, del 1893, è il romanzo di formazione che Hector Malot aveva promesso alla glia di scrivere. Al centro della storia c’è la coraggiosa e combattiva Perrine, un’autentica eroina moderna, capace di affrontare mille dif coltà, di adattarsi a nuove situazioni e di farsi amare per il suo temperamento e le sue qualità. Nel 1978

il libro ispirò il cartone animato Peline Story, trasmesso in Italia a partire dal 1980.

Volume 1:

Immagine di copertina: © Shelley Richmond / Trevillion Images Progetto grafico: Luca Dentale / studio pym

Nella sua capanna sullo stagno, circondata dalla natura e dagli utensili che si è fabbricata, Perrine ha trovato la tranquillità. Ma potrà durare a lungo? L’imminente apertura della caccia costituisce una minaccia per il suo nascondiglio. E ben altri propositi avevano condotto Perrine no a Maraucourt.

Così accetta di mettersi nuovamente in gioco: scoprirà che, a volte, l’animo umano è più intricato del bosco, più ricco d’insidie.

E che le parole e i silenzi, come i sentieri più aspri, richiedono coraggio e astuzia.

dCercò di calmarsi dicendosi che doveva seguire il corso degli eventi senza cercare di presagire se sarebbero stati felici o infelici; che quella era l’unica cosa sensata da fare; che non poteva tormentarsi proprio quando le cose sembravano prendere una piega tanto favorevole; inne, che bisognava aspettare. Ma anche i discorsi più belli, quando sono rivolti a se stessi, non hanno mai fatto dormire nessuno. Anzi, più sono belli, più è probabile che ci tengano svegli.

Consigliato dai12

ai 99 anni

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