Peter Orner
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traduzione di Riccardo Duranti
impavido padre, ti ha riportato sulla terraferma in sella al suo destriero Chrysler Imperial. L’ultima auto sul Sagamore Bridge prima che l’uragano del ’38 facesse franare metà del Cape
nell’Atlantico. Walt Kaplan, l’eroe del Sagamore Bridge. Dedicategli almeno una nota a piè di pagina negli annali, o generosi cronisti!
L’ultima auto sul Sagamore Bridge
traduzione dall’inglese di Riccardo Duranti
ISBN 979-12-221-0128-6
Prima edizione italiana agosto 2023
ristampa 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0
anno 2027 2026 2025 2024 2023
© 2023 Carlo Gallucci editore srl - Roma
Titolo originale: Last Car Over the Sagamore Bridge
© 2013 Peter Orner
La citazione a p. 5 è tratta dal racconto di Gina Berriault Intorno alla cara moribonda in Donne nei loro letti, p. 135, trad. di Francesca Cosi e Alessandra Repossi, Mattioli 1885, 2019.
La citazione a p. 308 è tratta dalla canzone di Townes Van Zandt, None but the Rain, dall’album Townes Van Zandt, Poppy Records, 1969.
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galluccieditore.com
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Racconti
traduzione dall’inglese di Riccardo Duranti
A mia madre, Rhoda Kaplan Pierce e a Pat Strachan
Le cose che non so mi pesano addosso come una tonnellata d’acqua
Gina Berriault, Intorno alla cara moribonda
Quella settimana Nate Zamost non venne a scuola. Ci chiedevamo che cosa facesse in quelle lunghe giornate, a parte andare al funerale, che comunque doveva essere durato appena qualche ora. La famiglia viveva in una di quelle case oltre la rete che circondava lo stagno di Foley. La sorella di Nate, Barbara – in famiglia la chiamavano Babs – si era infilata sotto la recinzione e, traballando, si era diretta verso l’acqua. Era il 1979. Aveva solo due anni e mezzo.
Il giorno che Nate Zamost tornò a scuola, rinunciammo a giocare a Palla Assassina. A ricreazione formammo un capannello frastagliato al margine del campo da pallacanestro e parlottammo educatamente tra noi sottovoce. Eravamo un gruppo
di ragazzi delle medie che si frequentavano anche da amici. Non è che fossimo incapaci di capire la situazione. Alcuni di noi avevano delle sorelle. D’istinto sembravamo afferrare che il nostro compito non era quello di capire e neanche di consolare, ma per rispettare lo spirito dei funerali, quello di agire. Che essere sinceramente dispiaciuti, qualsiasi forma avesse assunto, sarebbe stato fuori luogo e addirittura inopportuno. Perciò ce ne stavamo lì a guardarci le punte delle scarpe e a dare qualche calcio ai frammenti di asfalto. A Nate la cosa andava bene. Interpretava il ruolo di protagonista del funerale annuendo lentamente. Ricordo che a un certo punto Stu Barkus tentò di dire qualcosa.
«Senti, non è mica colpa tua» disse. «Voglio dire, come potevi immaginare che lei fosse capace di intrufolarsi sotto la rete?»
Nate sollevò lo sguardo dalla punta delle scarpe.
«Glielo avevo insegnato io».
Che gli potevamo rispondere? Barkus ci provò. Era sempre stato un tipo così, sensibile.
«Be’, ma mica le avevi detto di farlo quando non la guardavi»
Dopodiché Barkus rimase senza parole. Lo stesso noialtri. Lasciammo che la domanda restasse sospesa in aria. Al pari di Stu Barkus, anche Nate Zamost era un tipo sensibile. Era pure il più robusto tra noi e aveva la testa molto dura, ma quando giocavamo a Palla Assassina, Nate prendeva sempre di mira le caviglie e abbatteva facilmente gli avversari. Noialtri eravamo più interessati ad artigliarci un po’ a casaccio, alla mischia e alla rissa, che alla palla vera e propria. Era la parte assassina del gioco. Eppure chi poteva dire cosa succedeva tra fratelli a porte chiuse? Nate, come noi tutti, a quel tempo aveva tredici anni. I genitori erano dovuti uscire un paio d’ore e gli avevano affidato la sorellina. Nel ricordare tutta la vicenda ora, la cosa che mi colpisce con più forza è la rabbia che provavo nei confronti di Nate, rabbia che ancora posso evocare. Lo stagno di Foley era sempre stato il nostro posto segreto e invece ora in città lo conoscevano tutti.
S’incuneava dentro una piccola zona boscosa, tra il punto in cui Kimball Avenue terminava in una macchia di alberi e cespugli e la rete lungo la Edens
Expressway. A est c’era il campo da golf municipale. C’era chi sosteneva che lo stagno non fosse affatto naturale, ma che si fosse formato dal drenaggio del campo da golf e che fosse una latrina piena di liquami chimici. La prova di questa teoria era un enorme tubo di scarico corrugato che sovrastava il bordo dello stagno. Qualsiasi cosa uscisse da quel tubo non era certo acqua. Una volta Ross Berger s’era tuffato nello stagno di Foley ed era riemerso con i capelli verdi e le cosce piene di mignatte.
Qualcuno aveva gridato: «Ci sono forme di vita!»
Allora ci eravamo spogliati tutti in mutande ed eravamo saltati in acqua. Era come nuotare nel petrolio grezzo. Il Foley era un posto fantastico: dirupato, infestato, soffocato dalle piante e cupo molto prima che la sorella di Nate Zamost lo rovinasse.
Quante vittime della mafia, con i mattoni legati ai piedi, oscillavano sul fondo di quella fetida palude?
Tutti i ragazzini spariti di Chicago erano stati gettati nello stagno di Foley.
Dopo scuola andavamo allo stagno e passavamo il pomeriggio umido a chiacchierare. Non c’era niente di bello in quel posto, neanche ad aprile, a parte
che era tutto nostro. C’è qualcosa di sfatto nelle primavere del Midwest, il mondo è zuppo e verde, perfino il terreno è putrido, fradicio, trasuda. Foley era protetto da un baldacchino di alberi. Il sole riusciva a filtrare solo a piccole chiazze. Quando pioveva, la pioggia picchiettava sulle foglie e noi eravamo completamente nascosti e chiacchieravamo senza sosta di solo Dio sa che cosa. Fossimo stati più grandi di qualche anno, magari avremmo bevuto birra, fumato spinelli o ci avremmo portato qualche ragazza, in modo che si mettessero a strillare che non ci si sarebbero neanche avvicinate a quella melma schifosa. Ma era il 1979 e avevamo solo tredici anni e la vocazione a complottare, e quello che ci dicevamo sono cose ormai fuori portata, com’è giusto che sia.
Gli ci erano volute undici ore. Lo stagno era molto più profondo di quanto chiunque pensasse. Le mappe in possesso dei vigili del fuoco si erano rivelate inaccurate. I sommozzatori della polizia erano dovuti arrivare da Chicago. Ripenso alle loro mute di gomma, alle maschere, alle pinne, al loro modo buffo di camminare dondolando lungo il bordo dello stagno simili a grossi pinguini prima di inoltrarsi
lentamente nell’acqua. E a qualcos’altro che ormai la gran parte della gente magari non ricorda e che i nuovi arrivati non possono sapere. Quando finalmente recuperarono Babs, dopo tutte quelle ore, nel cuore della notte, e la deposero sull’erba, la madre di Nate si rifiutò di riconoscere che quell’ammasso di carne gonfia illuminato dalle potenti torce elettriche fosse sua figlia o quella di chiunque altro. La signora Zamost non conosceva lo stagno di Foley. Ross Berger vi era stato immerso dodici secondi e ne era riemerso che pareva un marziano. La signora Zamost non gridò. Non la toccò nemmeno.
Io ero lì, appena fuori dal cerchio illuminato. Non si inginocchiò nemmeno a toccarla, ma si limitò a scuotere la testa e ad arretrare nell’oscurità.
Ora il Foley è diventato un vero parco. L’Ente Parco gli ha fatto la manicure. Gli alberi sono stati potati. C’è un ampio sentiero ricoperto di schegge di legno che viene da Kimball Avenue. E vi hanno installato anche mangiatoie per uccelli, lunghe pertiche con in cima casette gialle.
P (Chicago, 1968) è autore di romanzi e racconti. , la sua raccolta d’esordio, è stata segnalata dal “New York Times” come uno dei “libri da ricordare” del 2001. I suoi racconti sono stati anche pubblicati da “The New Yorker”, “The Atlantic Monthly” e “The Paris Review”. Insegna inglese e scrittura creativa al Dartmouth College, nel New Hampshire, e vive con la famiglia a Norwich, nel Vermont. I suoi scritti brevi ci giungono in italiano per la prima volta, grazie al lavoro del suo amico e grande traduttore Riccardo Duranti.
Illustrazione di copertina di Angel Kuo
Art Director: Stefano Rossetti
Graphic Designer: Eleonora Tallarico / PEPE nymi
Un ragazzo salta una settimana di scuola dopo che la sorellina annega nello stagno, passando sotto il recinto come lui le aveva insegnato; una goffa vicenda sul tesoro di Al Capone al Lexington Hotel; un assassino in libertà vigilata che dedica gran parte del tempo a rispondere a lettere d’odio o di sostegno; un padre e una figlia che tentano di sfuggire a un uragano. Vite e destini descritti con saggezza, leggerezza, dolore, bellezza, sorpresa. Orner racconta l’animo umano come pochi, rendendo veri i suoi personaggi con una scrittura veloce e incisiva.
THE NEW YORK TIMES
“Intenso ed evocativo”
KIRKUS REVIEWS
“Un mosaico magnifico e commovente di storie indimenticabili”