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Roma, 1827

Prologo

La luce tremula dei ceri votivi illuminava a stento la piccola cripta, baluginando fra i teschi che ne ricoprivano le pareti.

In ginocchio, davanti alla croce, il porporato attendeva immobile.

Aveva pregato a lungo per la salvezza della Chiesa, ma il tempo della preghiera era ormai concluso. Ora tutto dipendeva da lui e dal disegno che aveva ordito.

Un fruscio lo scosse dai propri pensieri. Un uomo era in piedi alle sue spalle e attendeva in silenzio le sue istruzioni.

Il porporato non si volse.

«In una casa ebrea» mormorò «vive un bambino, la cui anima appartiene a Nostro Signore».

La voce era bassa, cavernosa, dal forte accento tedesco.

«Riportate quel fanciullo in seno alla Chiesa, a costo della vostra vita, se necessario… Strappatelo alle braccia della madre, o a quelle del padre, o a quelle del demonio stesso. Non potete fallire…»

Si alzò, faticosamente e si voltò verso l’uomo che lo ascoltava in silenzio.

«…Perché se fallirete, ci consegnerete nelle mani del nemico».

L’uomo lo fissava confuso.

Il porporato gli diede il decreto del tribunale. «I vostri ordini» disse.

L’uomo aprì il plico e scorse velocemente il dispositivo della sentenza.

Aggrottò la fronte, perplesso, ma non disse nulla.

Il porporato lo scrutava severo.

«Il Signore ha posto nelle vostre mani il compimento dei Suoi imperscrutabili disegni. Non c’è alcun bisogno che voi li comprendiate… Nessun bisogno che li condividiate. Vi atterrete solo agli ordini, in ossequio al volere di Dio».

L’uomo piegò il capo con deferenza.

L’anziano religioso lasciò scorrere lo sguardo sui teschi che sormontavano gli architravi, poi si volse verso la croce, senza un cenno di congedo.

Tornò a inginocchiarsi e piegò il capo sulle mani congiunte.

«Possa lo Spirito Santo illuminarvi» implorò con un filo di voce.

L’uomo non lo udì.

Turbato, aveva già guadagnato l’uscita.

Gabriele Misano sedeva in strada, su una vecchia sedia piazzata all’ingresso dell’edificio fatiscente in cui viveva da sempre. Era lì che trascorreva le sue giornate, d’estate e d’inverno, scrutando la vita che gli scorreva davanti agli occhi.

Aveva settantaquattro anni ma, sebbene l’età lo avesse incurvito e costretto al bastone, conservava ancora una sorprendente energia. Da un pezzo aveva chiuso la sua bottega di falegname e il ghetto gli aveva conferito il titolo elettivo di fattore. Ciò faceva di lui uno dei tre delegati cui erano demandati i rapporti con l’autorità pontificia. Di questo, ad ogni modo, lui si curava poco. Quel che gli stava a cuore era solo essere vicino alla sua gente. Elargiva consigli e metteva pace nelle dispute, mentre il buonsenso che tutti gli riconoscevano lo faceva arbitro di ogni decisione controversa.

Quella sera di venerdì, Gabriele Misano sedeva al suo solito posto, godendo l’atmosfera che pervadeva le strade, in vista dell’inizio dello shabbat.

Le botteghe avevano chiuso per tempo e i banchetti delle rammendatrici erano stati ritirati ben prima del tramonto.

Le donne si affrettavano negli ultimi preparativi mentre i bambini, richiamati in casa dalle grida delle madri, ridiscendevano in strada alla spicciolata, vestiti dei loro panni migliori.

Gabriele Misano si era acceso un mezzo sigaro in attesa dell’ora di recarsi in sinagoga, quando si vide venire incontro un nugolo di ragazzi trafelati.

Un commissario, gli riferirono in modo concitato, era alla porta del ghetto con quattro gendarmi e chiedeva di incontrare uno dei fattori.

Misano afferrò il bastone e si diresse verso la porta del vicolo del Pianto.

Il commissario Zeppieri lo attendeva lì, al centro della via, camminando avanti e indietro con le mani intrecciate dietro la schiena. Era un uomo tarchiato, che strizzava penosamente gli occhi sofferenti. Di tanto in tanto tirava fuori dalla tasca un fazzoletto sciatto e si asciugava le palpebre lacrimose.

Misano, che altre volte lo aveva incontrato, ne ricordava il carattere spigoloso.

Il funzionario non si perse in preamboli. «Ho ricevuto un incarico, Misano. Lo trovo odioso, ma non ho scelta. Come fattore, vi chiedo di collaborare. Vorrei evitare strepiti e clamori».

Si tamponò ancora, con delicatezza, gli occhi infiammati.

«Sua eminenza, il cardinale vicario, mi ha ordinato di dare effetto a una pronuncia del tribunale». Il tono era autoritario, ma non riusciva a nascondere il disagio. «Si tratta di un ragazzo. Un ragazzo cui è stato impartito il sacramento battesimale. Devo prelevarlo e condurlo alla Casa dei Catecumeni, perché possa ricevere un’educazione cristiana, conforme al suo stato».

Misano arretrò di un passo, consapevole della tragedia. Un ragazzino sarebbe stato rapito dalla Chiesa, che lo avrebbe sottratto alla sua famiglia.

La storia del ghetto era piena di episodi simili e il pretesto era sempre lo stesso. Un bambino ebreo veniva segretamente battez- zato da una balia, da una serva o da un qualsiasi estraneo e da quel momento, per il diritto canonico, diveniva cattolico a tutti gli effetti. Nulla contava che il battesimo fosse stato impartito senza alcun concorso di volontà da parte dei familiari, né che a impartirlo fossero state persone ignoranti, estranee a ogni pratica religiosa. Ciò che il codice prendeva in considerazione era solo il gesto liturgico dell’acqua sul capo del bimbo, accompagnato dalla corretta enunciazione della formula. Ne conseguiva, per chi guardasse le cose secondo la logica del codice ecclesiastico, che un bambino cattolico viveva nel seno di una famiglia ebrea, per sua natura incapace di fornire al piccolo un’educazione cristiana. Che quella fosse la sua famiglia naturale, alla quale era ovviamente legato da indissolubili legami di sangue e di affetto, aveva poca importanza, giacché la sua permanenza nella dimora paterna avrebbe messo in pericolo la sua anima immortale. Il bambino veniva dunque prelevato dal braccio secolare e condotto nella Casa dei Catecumeni, per essere educato alla religione cattolica.

Da quel momento, per i suoi cari, era perduto. Le autorità impedivano qualunque contatto fra il neoconvertito e i suoi familiari, mentre con ogni mezzo veniva instillata nel giovane neofita la repulsione nei confronti del popolo deicida e l’avversione nei confronti di una famiglia condannata dal destino a vivere nel peccato e nella perdizione.

Misano ricordava decine di casi tragici che avevano segnato la vita del ghetto. Il dolore, l’umiliazione e la rabbia si infrangevano ogni volta contro l’inappellabile decisione curiale.

Si chiese se ci fosse ancora margine per la speranza.

C’erano stati episodi analoghi in passato nei quali gli ufficiali pontifici avevano tergiversato il tempo sufficiente per consentire la fuga della vittima e dei suoi più stretti familiari.

Non erano molte le carte da giocarsi, pensò, ma forse poteva offrire a Zeppieri l’opportunità di rendere inefficace la missione che gli era stata affidata.

«Chi è il ragazzino?» chiese con decisione. Zeppieri colse il senso della domanda. «Mi dispiace, non posso dirvelo… Il mandato che ho ricevuto è perentorio. L’ordine mi è stato impartito direttamente dal cardinale vicario. Devo eseguirlo immancabilmente».

Misano non si dette per vinto. «Ditemi il nome, Zeppieri! Datemi un margine di pochi minuti!»

Il commissario scosse di nuovo il capo. «Non posso» disse asciutto. Si rivolse ai gendarmi che attendevano istruzioni e fece loro cenno di precederlo. «Seguitemi anche voi, Misano… Sarete di conforto a quella povera gente…»

MARIO PACIFICI si è avvicinato alla scrittura nel 2008, vincendo il concorso indetto dal Festival della Letteratura Ebraica con un racconto sulle leggi razziali. Nel 2012 ha pubblicato Una cosa da niente e altri racconti e nel 2015 Daniel il Matto. La pedina è il suo primo romanzo.

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