SOLO QUATTRO LETTERE, E DENTRO IL MONDO
Una storia del jazz
Ci siamo divertiti a scrivere un’anomala storia del jazz: cinquanta ritratti di altrettanti protagonisti dei cento anni di vita di questa musica. Sono affreschi leggeri, quasi in chiaroscuro. Come il black & white del secolo scorso, come il cinema che ha accompagnato il jazz lungo la sua storia affascinante. È la storia di uno stile, musicale e di vita, che ha cambiato il corso del Novecento e che, giorno dopo giorno, si evolve ancora nel presente. Perché, nonostante alcuni pensino che il jazz sia morto con Parker e Coltrane, questa musica dimostra di essere materia viva e dinamica, pronta a proiettarsi nel futuro.
Il libro non vuole essere una sterile lista di personaggi e stili, ma piuttosto un racconto, che, seppure consciamente incompleto, offra uno sguardo sul lungo cammino della musica afroamericana che oggi è musica del mondo.
Pertanto, ci scusiamo per tutti coloro che non abbiamo incluso, e con quanti non ritroveranno il proprio nome. Come in una vera orchestra, ciò che importa non è il singolo suono, ma la seducente addizione delle differenti personalità che compongono l’insieme.
Ho scoperto il jazz alla fine degli anni Settanta. Fino ad allora avevo suonato nella banda del paese e nei gruppi da ballo. Oltre alle marcette, alle marce funebri e ai brani d’opera di Verdi, Donizetti e Puccini, nel mio repertorio c’erano le polke e le mazurche di Casadei e i cha cha cha di Pérez Prado.
Figlio di un pastore contadino, non ho avuto nulla che mi permettesse di ascoltare la musica fino a quando, alla metà degli anni Settanta, non potei contare sul mangianastri Nippon Crown di mio fratello, e poi su un mangiadischi verde pisello che
ancora possiedo e che custodisco gelosamente. Ricordo che andammo a comprarlo a Sassari, nel negozio di Griscenko, aperto nell’unico palazzo a più piani che svettava in città – e che tutti, giustamente, chiamavano «il grattacielo».
Partimmo dal paese con tutta la famiglia stipata dentro la Cinquecento familiare di mio padre, carica di balle di fieno e bidoni del latte, e tornammo a casa con l’acquisto che mi avrebbe cambiato la vita.
Però non c’eravamo posti il problema dei dischi. E così, per una settimana potemmo solo guardarlo intensamente, quell’oggetto dal design avveniristico (per quei tempi), che infatti oggi si trova esposto in diversi musei contemporanei. Era ovviamente portatile e funzionava anche a batteria. Avremmo potuto trasportarlo in qualsiasi luogo: soprattutto in campagna, per allietare le feste e i picnic. Ma avevamo bisogno dei dischi da far girare.
In paese c’erano due bar coi jukebox che suonavano la musica del momento, e mi balenò l’idea di chiedere di acquistare i quarantacinque giri usati per poterli inserire nel mangiadischi.
Li comprai a un prezzo stracciato. Ma quando il marchingegno li ingoiava, come d’incanto e con la meraviglia dei miei parenti, si sentiva quasi solo il fruscio della puntina e il gracchiare di un disco totalmente consumato dopo mesi e mesi di ascolti. Eppure, riuscivo a immaginarne i suoni e a seguire le melodie, interpretate da Rocky Roberts, Ornella Vanoni e Mario Tessuto. Ancora oggi quel suono mi accompagna.
E poi ci furono la radio e la televisione. Amavo passare le serate incollato allo schermo, ascoltando le orchestre ritmico-sinfoniche della Rai che animavano le trasmissioni, e memorizzavo con una certa facilità le melodie, che poi provavo a suonare con la tromba in campagna, lontano da orecchie indiscrete. Mi ero costruito una casetta su una quercia piegata dal maestrale, e per salirvi avevo inchiodato maldestramente al tronco una serie di gradini di legno. Fu da lì che, un giorno, inondai la campagna con la struggente melodia di Summertime. Ma questo accadde qualche anno dopo…
La prima volta che ascoltai il jazz fu alla radio. Ricordo che rimasi sconvolto dal suono e dalla rapidità del trombettista. Fino a quel momento non avevo mai sentito nessuno affrontare con tanta velocità e facilità uno strumento che, almeno per me, era difficilissimo e che dovevo domare ogni giorno con molta fatica. Avevo un buon orecchio musicale ed ero abituato a cantarmi le melodie nella testa, ma queste non dovevano essere complesse o concitate. Quella rapidità mi
sconvolse ancora più della natura stessa del suono, diversa dal sound al quale ero abituato e da tutta la musica che avevo ascoltato fino a quel momento. Così mi promisi di approfondirne l’ascolto.
Il trombettista, a giudicare dalla fluidità delle idee, era un bopper. Forse Clifford Brown, o Fats Navarro, ma poteva essere stato anche Lee Morgan. Ma allora non avevo alcuna cognizione di jazz, non sapevo nulla dei suoi protagonisti, né tantomeno ero in grado di coglierne le sfumature stilistiche. Ciò di cui ero cosciente fu il colpo al cuore che mi diede quell’ascolto casuale: un terremoto emotivo che mai avevo provato prima e che mi aveva fortemente destabilizzato.
Ritenevo il jazz una musica inarrivabile, per pochi eletti dalle capacità misteriose e straordinarie. Mai e poi mai avrei pensato di poter diventare io stesso, un giorno, un musicista in grado di respirarlo e farlo mio. Del resto, suonavo per diletto e, seppure girassi il Nord della mia isola con il gruppo da ballo, avevo altri progetti per la vita e non sapevo se la musica, indipendentemente dallo stile, potesse farne parte. Ciò che sentii quella mattina alla radio era troppo per me, e del tutto inaccessibile. Io suonavo polke e valzer, che, certo, richiedevano una tecnica notevole soprattutto a trombe, sassofoni e clarinetti, ma niente di paragonabile a quel virtuosismo, che mi era totalmente estraneo. Soprattutto se relazionato alle mie capacità e alle conoscenze strumentali acquisite in banda grazie a un maestro che insegnava tromba ma anche tutti gli strumenti ad ancia, e il flauto, il bombardino, il basso tuba e la batteria.
Fu allora che un amico pianista, figlio di un dentista appassionato di opera lirica e di jazz, iniziò a passarmi le musicassette con le registrazioni di Chet Baker e Miles Davis. Antonello, questo il suo nome, suonava nel nostro gruppo da ballo e, oltre a farmi scoprire i musicisti, da quel momento spinse affinché il repertorio del complesso non si basasse solo sul liscio e sulla musica sudamericana. Oltre a qualche brano dei Camel, di Stevie Wonder o di Lucio Dalla che già suonavamo, tentammo l’approccio a qualche composizione dei Nucleus di Ian Carr. Non era propriamente jazz, ma contemplava l’improvvisazione e soprattutto apriva la nostra musica a un nuovo mondo. Uno squarcio sonoro provocato da un fulmine a ciel sereno.
L’amico pianista s’incontrava con un gruppo di giovani jazzisti appassionati nella cantina della sua casa di Sassari e un giorno m’invitò a unirmi a loro.
Gli dissi che non ero capace di suonare il jazz. Mi piaceva, ne ero affascinato, ma non ne sapevo nulla. «Conosci il blues?» mi chiese. Gli risposi che non sapevo cosa fosse se non per qualcosa ascoltato nel Crown di mio fratello. Forse i Jethro Tull o i King Crimson…
«Se suoni In The Mood di Glenn Miller con il gruppo da ballo sai cos’è il blues. Ti ho sentito eseguirlo» mi disse.
Io annuii senza sapere che quel brano che faceva ballare la gente nelle discoteche o nei tè danzanti fosse un blues! E soprattutto non sapevo che il jazz standard Autumn Leaves fosse in realtà la melodia de Le foglie morte che già suonavo con il gruppo.
Antonello mi diede una cassetta con la versione di quel brano suonata dal vivo da Miles Davis nei primi anni Sessanta con il suo quintetto stellare: George Coleman, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams. Tornai a casa e per una settimana la ascoltai in continuazione, senza neanche riconoscerne il tema.
Il brano era parte del disco Miles Davis in Europe, registrato il 27 luglio del 1963 a Juan-les-Pins, il centro balneare più prestigioso di Antibes, in Costa Azzurra, durante uno dei festival jazz più importanti d’Europa. Il disco apparve prima in Francia con il titolo Miles à Antibes e successivamente in America con il nuovo titolo… Autumn Leaves era il brano di apertura del concerto. Miles suonava la tromba con la sordina e il pezzo partiva con una scala cromatica ascendente, dalla quale fiorivano poi gli interventi dei musicisti del quintetto, che ci davano dentro come dei dannati.
Il primo chorus, la sezione del brano composta da melodia e accordi, era totalmente stravolto e Davis dilatava le idee e sconvolgeva il tema al punto da rendermelo irriconoscibile. E l’interplay, l’intesa tra i musicisti, la loro interazione, era impressionante e incredibile per me.
Doveva essere uno scherzo! Quando tornai a Sassari da Antonello, per provare la composizione, ero decisamente arrabbiato.
«Il brano non è quello!» dissi, senza nascondere il mio fastidio. E fischiai la melodia di Le foglie morte che conoscevo a memoria per averla eseguita mille volte.
Gli amici del gruppo sorrisero. Quella fu la mia prima lezione di jazz.
Compresi che era la musica della libertà e che la grandezza di un musicista stava nella sua capacità di espandere e distorcere una semplice successione di note tanto da farla diventare altro: un’opera d’arte originale e unica. Capii che quella musica poteva essere la mia musica: poteva darmi gli strumenti per esprimermi al meglio e raccontare ciò che avrei voluto essere.
Oltre alle cassette, Antonello mi passava i numeri della rivista «Musica Jazz» (fondata da Gian Carlo Testoni e poi diretta da Arrigo Polillo), e io trascorrevo le ore a sfogliarla, scoprendo i nomi, impronunciabili dal mio scarso inglese, dei tanti musicisti americani che avevano fatto la storia del jazz. Erano quelli di John Coltrane, Duke Ellington, Charles Mingus, Bill Evans, Lee Morgan, Charlie Parker, Dizzy
Gillespie, Billie Holiday e poi Keith Jarrett, Chick Corea, Ornette Coleman… Ma c’erano anche gli europei: Jan Garbarek, Tomasz Stan´ko, Kenny Wheeler (canadese di nascita ma inglese d’elezione), Enrico Rava…
Osservavo le foto in bianco e nero e leggevo le storie di razzismo e di diritti non riconosciuti, che impedivano ai musicisti di pelle nera di entrare per la porta principale nello stesso club in cui la gente andava ad acclamarli. Sempre di più sentivo che quella poteva essere la mia strada. Sempre di più mi convincevo che doveva essere quella la mia idea di musica. Ma in realtà fu lei a scegliere me.
Da allora il binomio libertà e lotta è sempre stato il mio faro. E tuttora, dopo quarant’anni di carriera, è il mio credo, seppure non l’unico.
Per me, in principio fu la banda. Quasi una marching band della Louisiana, ma con molto meno swing. Nel profondo Sud degli Stati Uniti, a New Orleans , si suonava per le strade, e dentro il suono degli ottoni c’erano le voci degli schiavi africani, tra canti di lavoro, spiritual, gospel, ragtime, opera europea e canzone popolare. Sono entrato in banda a soli undici anni e ricordo come fosse ieri quella luminosa mattina in cui indossai per la prima volta la divisa con i lustrini. I miei genitori quasi si misero a piangere dall’emozione e io tremavo come una foglia. La taglia della giacca color amaranto era decisamente eccessiva, ma col tempo, crescendo, ci stetti bene. Suonai in banda per molti anni. La banda mi accoglie tutt’oggi, quando sono in paese: e allora magari mi capita di soffiare nella tromba con al fianco un bimbo di undici anni…
Tenevo la partitura di Topolino sulla lira avvitata alla vecchia tromba Orsi di mio fratello, ma conoscevo il brano a memoria. Fin da piccolo avevo sognato di far parte della banda e di poter suonare quel brano con altri cinquanta musicanti. La difficoltà non era il brano in sé, ma marciare a tempo, marcando il battere con il piede sinistro. Che brutta figura avrei fatto incespicando nei passi: i miei compaesani mi avrebbero giudicato per la goffaggine del movimento più che per il risultato sonoro!
Quando il maestro attaccò la marcetta il suono collettivo mi avvolse totalmente, ma stranamente non mi sentii a disagio. Il trombettista che era dietro di me suonava la mia stessa partitura, ma in maniera diversa. Volava sulle note e aggiungeva il suo. I vecchi musicanti della banda dicevano che svisava : pur senza rendersene conto, stava entrando nell’anticamera del jazz.
Bastò lo sguardo fiero dei miei genitori a tranquillizzarmi. Mi riportò con il ricordo alla prima immagine legata alla musica.
Avrò avuto cinque anni ed era Carnevale. I miei avevano organizzato una festa a casa, avevano invitato i loro amici, pastori e contadini come mio padre. Noi vivevamo tutto l’anno nella cantina di casa (usavamo la sala buona, con il servizio buono, solo per le occasioni importanti). Ecco che presto il pavimento della stanza si ricoprì di coriandoli e stelle filanti, mentre tutti ballavano e io strimpellavo una piccola armonica a bocca. Il mio primo spiritual, o piuttosto un blues. Bianco, ma pur sempre rurale.
Nel Sud degli Stati Uniti, gli schiavi neri portavano nei campi di lavoro il loro retaggio africano, e questo si meticciava con la cultura europea, specie quella inglese, francese e italiana, per dare vita attraverso i field hollers e le work songs a un suono nuovo che avrebbe contribuito all’invenzione di una musica, il jazz, che cambiò e arricchì enormemente la cultura del Novecento.
All’inizio furono le voci che cantavano la sofferenza e la divinità. Poi furono accompagnate dagli strumenti, quando il blues rurale divenne urbano, spostandosi nel Tennessee, nel Missouri, nel Texas e a Chicago. Oltre alle voci di Ida Cox, Ma Rainey e Bessie Smith, ci furono le chitarre e i pianoforti di Charley Patton, Blind Lemon Jefferson, Memphis Minnie, Peetie Wheatstraw, Lonnie Johnson, Jelly Roll Morton e Georgia Tom Dorsey. Il blues era la «musica del diavolo», intrisa di disagio e tristezza. Si narrava che il chitarrista Robert Johnson avesse venduto l’anima al diavolo per poter dominare il proprio strumento. Era partito improvvisamente per una destinazione sconosciuta, e al suo ritorno possedeva una tecnica straordinaria. Morì di lì a poco, all’età di soli 27 anni, in circostanze misteriose. Se l’era portato il diavolo del blues: Johnson aveva pagato il prezzo pattuito.
Quando alla fine degli anni Settanta raccontavo ai miei paesani della mia nuova passione musicale, molti non ne comprendevano il senso. Legati ancora ai valzer e alle annacquate clavi cubane per allietare i matrimoni, si chiedevano cosa c’entrasse tutto quel mio jazz con la ruralità di un centro che viveva di pastorizia. Negli anni Ottanta sembrava ormai una musica metropolitana, che aveva apparentemente perso la radice campesina delle origini. Nel mio paese il jazz diventava su Gezz, con quell’articolo che ne tradiva l’assorbimento in una lingua ancora sotterranea e malvista. Sa limba, la nostra lingua, la si parlava a casa, nei bar e nelle strade. Io stesso avevo appreso l’italiano soltanto a scuola, e parlavo correntemente il sardo logudorese con tutti, ma, quando i vicini mi videro incamminarmi verso la piazza per prendere il bus che mi avrebbe porta -
to in città, per frequentare i corsi del Tecnico industriale, iniziarono a parlarmi in italiano. La lingua degli acculturati e di quelli che ce l’avevano fatta. Nel pensiero comune la lingua sarda era il marchio dei perdenti e dei sopraffatti, mentre l’italiano era dei continentali: dei vincitori e dei sopraffattori.
Figuriamoci cosa poteva essere l’inglese. E così, nella scrivania della mia cameretta, sfogliavo i vecchi numeri di «Musica Jazz» chiedendomi quale fosse l’origine dello strano nome di quella musica. Ma stentavo a trovare risposte convincenti.
Ogni tanto mi rivolgevo a Louis «Satchmo» Armstrong, del quale avevo una fotografia in bianco e nero appesa al muro, con il suo sorriso stampato a quarantadue denti d’avorio. Ma lui non faceva altro che osservarmi divertito.
Negli anni comprai molti libri sul jazz e sul blues, scritti da Arrigo Polillo, Franco Fayenz, Leroy Jones, Carles e Comolli, Joachim Berendt, Gian Carlo Roncaglia, Luciano Federighi, Gunther Schuller, Walter Mauro… E il Dizionario del jazz curato, tra gli altri, dall’etnomusicologo Diego Carpitella, che dopo molti anni avrei incontrato assieme a Pietro Sassu e a Roberto Leydi (fu grazie a quest’ultimo che mi iscrissi nel 1987 al Dams di Bologna). E poi le biografie di Duke Ellington, Billie Holiday, Charles Mingus… Non sapevo ancora che molti anni dopo avrei avuto l’onore di scrivere la prefazione a un’altra biografia, quella su Chet Baker dal titolo Come se avessi le ali, pubblicata per i tipi di Minimum Fax.
Leggevo qualsiasi cosa, con avidità, trovando in libri, articoli e riviste informazioni preziosissime. Eppure, nessuno mi svelava il mistero del nome jazz. Sono solo quattro lettere, ma contengono il mondo.
Scoprii poi che in origine veniva scritto jass, e che a New Orleans stava a indicare qualcosa di fracassone e rumoroso. Di probabile derivazione francese, sembra che avesse a che fare anche con l’atto del copulare e, considerando la quantità di bordelli presenti in città, forse non è una teoria errata. Nei fatti, coloro che facevano questa musica non erano di certo stinchi di santo e le case d’appuntamento avevano avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del jazz. Perlomeno fino a quando, nel 1917, venne chiuso dal ministero della Guerra lo storico quartiere a luci rosse di Storyville lasciando a spasso molti musicisti.
Nell’osservare le foto di «Musica Jazz» (aveva ancora la copertina con il titolo rosso su sfondo bianco) ciò che mi colpiva erano proprio le immagini di quei luoghi e di quel periodo. I visi divertiti di strumentisti e cantanti, nonostante la povertà e il disagio, e le riverboat, i battelli fluviali con le grandi ruote che risalivano il fiume Mississippi e su cui suonavano le piccole orchestre che migravano verso Chicago e il Midwest, dove il jazz si sarebbe sviluppato enormemente, fino a diventare un vero stile musicale.
Finito di stampare nel mese di aprile 2022 presso Reggiani Print Srl – Brezzo di Bedero (VA)